Solidarietà incondizionata a Luciano Canfora

La biblioteca classicistranieri.com esprime solidarietà incondizionata all’insigne filologo e finissimo intellettuale Luciano Canfora per la pretestuosa e temeraria querela ricevuta da un’Alta Carica Istituzionale.

Luciano Canfora

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Maurice Ravel – Bolero – MP3

Il “Bolero” di Ravel

Ravel – Bolero – LL

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Plinio Perilli – Introduzione a “Storia di un’anima” di Giacomo Leopardi

Solo la feroce, shakespeariana e dolente invettiva di Macbeth, gli sta alla pari: “…La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più?”…

Ma Leopardi è ancora più implacabilmente, posatamente pessimista: “Che cos’è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso, per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi e notte un spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso e quivi inevitabilmente cadere” (Bologna, 17 gennaio 1826)…

Queste Memorie della mia vita, ricavate principalmente dallo Zibaldone, dai manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli e dall’Epistolario – risaltano e inquietano come un’ideale autobiografia poetica, aggregata secondo sue precise disposizioni. Ma è anche, e soprattutto, la Storia di un’anima, titolo con cui lo stesso Leopardi concepì e progettò un serrato, psicologico romanzo interiore, nella persona di tal Giulio Rivalta: recitato, letterario e goffo alter ego dell’autore de “L’infinito”. Nasce così un nuovo, estroso volume, che però rispetta una precisa disposizione leopardiana, e “consente il modo di raccogliere” – come rileva Francesco Flora, suo primo, affettuoso curatore nel 1949 – “alcune tra le più calamitanti pagine del poeta”.

Un volume, lo ripetiamo, extravagante – eppure rigorosamente, serratamente leopardiano, proprio nella più nobile accezione e nella finalistica risonanza di quella lirica della memoria, di quella sofferta ma illimpidita meditazione andata che egli disse “essenziale e principale nel sentimento poetico”: “la sensazione presente”, asseriva, “non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immaginazione fanciullesca: una ricordanza”.

Lo sappiamo: talento geniale e precocissimo, Giacomo, già appena a dieci-undici anni, compone e progetta i suoi primi testi poetici, acute ed eclettiche prose, erudite traduzioni. “Credo non sia da sottovalutare” – scrive Maria Corti, affascinata raccoglitrice, con Entro dipinta gabbia, degli sminuzzati o profusi versi dell’infanzia e della adolescenza (cfr. ora in Tutti gli scritti 1809-1810, Bompiani, Milano,1993) – “l’acutissimo spirito di osservazione, l’incipiente presenza della forza della razionalità nella prima giovinezza del Leopardi, un inizio anche doloroso (l’altra faccia del gioco) di riflessione sulle cose degli uomini; e del resto è il Leopardi stesso a denunciarlo quando in ‘Ricordi d’infanzia e di adolescenza’ (…) parla della sua infantile struggente delusione allorché, in casa di qualcuno, i genitori a un certo momento interrompevano il gioco dei bambini, perché la visita era finita, e troncavano senza ragione la loro letizia. Era questo già un modo di riflettere, lui bimbo, sulla sorte umana, alla stessa maniera come mi sembra una germinale disposizione, un parlare futuro, entro la prosa (…) dedicata alla prediletta nonna, la frase: ‘ La verità mi sarà sempre cara egualmente che a voi, né sarà mai che l’impugni…’; il volto della verità muterà radicalmente nel Leopardi di dopo, ma non il senso del personale proclama”…

Maria Corti parla di gioco – non meno intellettuale che esistenziale (addentrato, immerso, nell’abrasiva, acuminata verità). …Quei suoi primi componimenti tra il serio e il faceto, l’accademismo tralatizio e l’innovazione sperimentale – dalle Canzonette sopra la campagna al Catone in Affrica, al Diluvio Universale, dalle Notti puniche ai Carmina varia, alle favole A favore del Gatto, e del Cane, o Il Sole, e la Luna:

La Luna allor credendosi Regina

Cominciò miserabile a sprezzare

Del Sol la luce vivida, e Divina.

…”

Cantiere intellettuale, gioco, diario minimo ed essenziale d’un’annunciata, progressiva fioritura letteraria – ahi lui, in parallelo a un’infausta, sciagurata fisicità, a uno sviluppo estetico mortificato, frustrato. Cerebralmente lo esaltavano, pur senza nella carne ripagarlo, saggi, commenti ed epigrammi, autocritici, mordaci, sarcastici: un’ode Contro la Minestra in versi martelliani; o magari il dotto e progettato opuscolo sui vantaggi della solitudine, con annesse esemplificazioni storiche, confutazioni, autorità pro e contra… Lo avrebbe molto divertito, forse, qualche gioco verbale d’Umberto Eco – lieta e complice contemporaneità a posteriori! -: “Lodo la limpida luna, levandole lamento. Litorale lontano, lirica lusinga…”, tutto costruito con l’iniziale L; e più ancora, la fervida dedicatoria d’una poesia anagrammatica:

GIACOMO LEOPARDI: Dio, ciel, pago amor / e amari colpi godo. / Porgo lai… Comedia… / Io agapi d’ermo col / al “pio!” di gramo eco / (l’odi, magico opera) / miro pago ad cielo. / Già parco limo ode: / mira docil apogeo, / magico odi parole. / Parole! Giaci domo, / c’è piaga. Mio dolor / io pago dolce rima.

(U. Eco, Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano, ‘92)-.

Quasi un bizzarro, apocrifo e adolescenziale scherzetto leopardiano. Non meno sintonizzato e godibile, in fondo, di tanti vacui, sciroppati studi universitari… “L’allegrezza”, fermerà e codificherà Giacomo nello Zibaldone, “bene spesso è madre di benignità e d’indulgenza, al contrario delle cure e dei mali umori… e l’armonia della natura ha voluto che l’allegria fosse utile non solo all’individuo, ma anche agli altri, e servisse alla società, e rendesse l’uomo verso altrui, tale quale dev’essere”… E se è vero che la Natura non fu – convenzionalmente – magnanima con lui, la sua anima almeno si ripagava, si consolava interiorizzando un trasparente, ideale Dizionario dei Sentimenti: in cui la Fanciullezza e la Giovinezza erano di certo i più beneamati compagni di scuola (e di gioco):

… I diletti più veri che abbia la nostra vita, sono quelli che nascono dalle immaginazioni false… i fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto” (Operette morali, Detti memorabili di F.Ottonieri);

… Ma l’entusiasmo de’ giovani oggidì, coll’uso del mondo e dell’esperienza delle cose che quelli da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro modo né per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento, anche durando la gioventù e la potenza naturale dell’entusiasmo” (Zibaldone)”…

C’è un altro passo molto significativo dello Zibaldone (165-172) dedicato all’immaginazione quale “primo fonte della felicità umana”: “Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli”. Intuizione che però, subito dopo, svela e tradisce lo scotto d’un doloroso esistenzialismo, gnoseologico e cognitivo: “Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione”… Di qui, due corollari ineludibili e immutabili: “1 – che la speranza sia sempre maggior del bene; 2 – che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni”…

Una sorta di giostra immaginativa, valzer delle illusioni e laica, seppur escatologica, Cognizione del Dolore (Gadda) – accompagnò passeggiando a braccetto tutta la sua Giovinezza.

Leopardi vagheggiava e soffriva (“Vagheggiare, bellissimo verbo” – annotò; Zib.4287). Soffriva di finitezza: “Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l’analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che illusione naturale della fantasia” (Zib.4292). Ma insieme tremava, e godeva, d’egualmente dolente, illusoria e rispecchiata Infinità: “Il fanciullo e il selvaggio giurerebbero, i primitivi avriano giurato, che la terra, che il mare non hanno confini; e si sarebbono ingannati: essi credevano ancora, e credono, che le stelle che noi veggiamo non si potessero contare, cioè fossero infinite di numero” (20 settembre 1827).

Gli occhi di ragazzo, la speranza oltre ogni scettica, esperta “cognizione del vero” -: ecco la fonte intimamente, più che otticamente decisiva, per la creazione dei suoi meravigliosi Idilli, e in ispecie per La nascita dell’ ‘Infinito’ (cfr. il saggio omonimo di Alessandro Parronchi, Amadeus, Treviso, 1989), per affermare, pretendere e instaurare “i confini di una poetica più ampia” – recita Parronchi – “di quella che il tempo gli offriva”. Irrilevanti o quasi, in realtà, le ragioni scientifiche, le teorie dei colori, la vecchia geometria distrutta da Berkeley (nel suo Saggio sopra una nuova teoria della visione, nella sezione 145, leggiamo infatti che “Le idee della vista entrano nello spirito, parecchie in una volta, più distinte ed inconfuse, di quello che si fa per ordinario negli altri sensi, oltre il Tatto. Li suoni, per esempio, percepiti nel medesimo istante, possono riunirsi, per così dire, in un solo. (…) Noi non potiamo aprire gli occhi, che le idee di distanza, di corpi, di figure tangibili non ci siano da loro suggerite. Così rapido, e pronto, e impercettibile è il passaggio dalle visibili alle tangibili idee, che noi potiamo appena impedirci dal crederle tutte egualmente l’oggetto immediato della visione”)…

Poco o nulla, dunque, contano le percezioni o le definizioni ottiche, tanto predominano le coordinate e le istanze della fantasia, la legge irrazionale e dolcissima della Poesia: “Poco importa” – ipotizza Parronchi – “che oltre la siepe dell’Infinito non si veda la luna, ma si stenda ‘interminato spazio’ immaginario in una vaga luce senza tempo. La sera che segue – o precede? – il giorno dell’Infinito, è una sera di luna, la luna de La ricordanza… Nella sua eclettica, comparatistica analisi su La parola pittorica, Ferruccio Ulivi avanza inoltre una suggestiva assimilazione iconografica tra Füssli, Leopardi e un qual certo “manierismo romantico”, che lo spinge a sovrapporre le Operette morali al “classicismo iperbolico, stralunato, tra manierista e protoromantico di un grande pittore da poco scomparso (1825): Füssli”… Qualcosa che, imagisticamente, ben si accorda col sentimento unificante, il comun denominatore emotivo, “la chiave stessa del cuore di Leopardi”, a parere di Sainte-Beve: “questo sentimento stoico della calma fondata sull’eccesso stesso della disperazione”.

Ma tal suo breve, simulato Infinito, già urge d’essere evaso, superato nella prova triste e cruda col Reale. Proprio dal trauma controllato dell’immersione nell’agone consueto del quotidiano, si distilla e prorompe l’approdo bello della poesia – che è anche, insieme, naufragio dei sensi delusi, disequilibrio sublimato del cuore. “Nessuno diventa uomo” – annoterà – “innanzi di aver fatta una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita”… Questa grande esperienza di sé, è innanzitutto il malinconico, disamorante viaggio e soggiorno a Roma (23 novembre 1822 – fine aprile 1823), incipit e insieme culmine d’un’autoeducazione sentimentale che non poteva servirgli né a digerire né a padroneggiare le vicissitudini che pure, liricamente, lo decisero e lo guidavano. “Memorie della mia vita”, stila il 1° dicembre 1828, assiso nell’estraniante intervallo d’un ricordo: “Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna”…

A questo punto, l’unica, omeopatica cura, non poteva essere che la professione, oseremmo dire etica, di piena, volitiva umanità: “La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo”, confesserà al suo diario nello stesso 1828, “appoco appoco fu causa di spegnere in me ogni quasi desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio”… E in un più sereno passo dello Zibaldone (4244), Giacomo si vota e si affida al voltairiano Tempo consolatore: “Quando l’animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile”… Virile, consumato stoicismo. E ne aveva, il giovane conte Leopardi, di amarezze da vincere, di ugge e stizze da riscattare… De Sanctis, insieme con devoto e offeso compatimento intellettuale, prova a mettersi nei panni di questo genio universale che “sospirò invano un piccolo posto a Roma per intercessione del Niebhur, desiderò un tenue sussidio dallo Stella in ristoro delle sue fatiche, e dové annoiarsi fieramente con discepoli dappoco, non capaci d’intenderlo”…

Paradossalmente, proprio questa frattura, questa delusione assoluta (perfino dogmatica), gli facilita e gli detta un ispirato, struggente riscatto poetico. “Nel Sogno di Leopardi” – argomenta sempre Francesco De Sanctis, il quale negli ultimi anni napoletani del poeta, ebbe l’onore d’accompagnare sovente, per le strade di Portici, le sue passeggiate e le sue conversazioni – “la base è capovolta. La vita è tutta e sola in terra; la morte è separazione eterna da’ nostri cari; tutto l’altro è l’ignoto, è mistero. L’altro mondo è sottratto a ogni contemplazione poetica. Fonte della poesia è la vita terrena, anzi quella sola e breve parte della vita, che è detta la giovinezza”…

Nostra vita a che val? solo a spregiarla… – canta in “A un vincitore nel pallone”, pur festeggiando “la sudata virtude” del “garzon bennato”, del “magnanimo campion”. E forse il merito più grande di Leopardi pensatore, sulla soglia dell’età moderna, è proprio quest’assennato, caparbio tentativo di riconciliare e in fondo superare le sterili diatribe della metafisica; nel suo “Dialogo tra A e D” su Schopenhauer e Leopardi, De Sanctis ne divulga un’accalorata sintesi: “… Leopardi, sotto nome di un filosofo greco, dice: – La materia è ab aeterno -; e dal seno

della materia vede germinare l’appetito irrazionale, e quindi l’ignoranza, l’errore, le passioni, in una parola il male. Schopenhauer ha detto: – La materia non esiste, è un concetto, un’astrazione; ciò solo che esiste è l’appetito, il Wille. – Tutti e due dunque ammettono lo stesso principio, ma l’uno lo profonda nella materia, e l’altro gli fa della materia un semplice velo”…

Venuto anzi a meditare sull’anima, il Leopardi dello Zibaldone quasi reagisce insieme contro i dogmi della fede, o le colte, radicali teorizzazioni dei filosofi: “Ci assicuriamo noi di dire che l’anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l’ha detto? Noi vogliamo l’anima immateriale, perché la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima. Sia. Ma qui finisce

ogni nostro raziocinio”… Dalla dolorosa, alterna e magmatica materia spirituale del suo diario, del suo brogliaccio geniale d’intuizioni, fervido di progetti estetici esistenziali letterari, corrotto nei continui ripen-samenti, pause dialettiche, immensi malumori, raddolcito dai piccoli idilli sognati o rubati alla vita – nasce il miglior autoritratto, la più aderente soffusa e incisiva Storia dell’Anima di Giacomo. Vi troviamo – ha ragione De Sanctis – “quello che lo scrittore dettò aver l’uomo pensato, sentito e fatto”… Questa “qualità rara”, di “severa conformità del pensiero e della vita”, avrebbe del resto portato il grande storico della letteratura ad ammirare e privilegiare perfino nella poesia dei Canti la “transizione laboriosa” del secolo XIX, mediata, testimoniata da una “vita interiore sviluppatissima”: “Ciò che ha importanza” – sottolinea il De Sanctis – “non è la brillante esteriorità di quel secolo del progresso, e non senza ironia vi si parla delle sorti progressive dell’umanità. Ciò che ha importanza è l’esplorazione del proprio petto, il mondo interno, virtù, libertà, amore, tutti gl’ideali della religione, della scienza e della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore, e non vogliono morire”…

Dirò del mio spirito il male e il bene indifferentemente – è il precipuo intento estetico, più che autobiografico, di Storia di un’anima. Giustamente il Flora identifica “la magia di quegli appunti”, di quei “frammenti di compiuta bellezza”, proprio in una sorta di nobile e fluente e sincera (perfino spudorata, aggiungiamo noi) “virtualità poetica leopardiana, che sembra aspettare soltanto l’occasione di fissarsi nel canto come in un suo naturale rito: una virtualità ch’è uno stato di preghiera verso una meta poetica”. Questo ce lo rende eternamente moderno e finanche provocatorio. Lo stesso Flora teme una lettura errata di questi appunti: “possiamo correre il pericolo di leggerli come il capitolo finale dell’Ulysses di Joyce, o come parole in libertà di un uomo di genio”… È invece la poesia della memoria, la chiave di volta di tutto l’edificio lirico leopardiano. Ancora e sempre ricordanza, avviata e istigata dalla primigenia, sorgiva immaginosità infantile, e poi adolescente di timori o entusiasmi.

Davvero questa totale aderenza sensibile, emotiva, alla sfera umana, questo idealismo concretato, umiliato e sublime in terrestrità – costituisce l’eterno fascino della poesia e dell’uomo Leopardi: oggi e ieri, da un secolo all’altro, di generazione in generazione. Da Nietzsche, ai cui occhi giganteggiava come filologo-poeta, e come “più grande prosatore del secolo” – alla restaurazione classicista della “Ronda”, che resta il più appassionato e lucido apostolato per un leopardismo del ‘900. “Capire Leopardi” – scrisse Cardarelli, che di quel vero manifesto che fu l’edizione rondista del Testamento letterario (1921), fu il principale animatore, oltreché rivalutatore della prosa delle Operette e dello Zibaldone – significa capire la tradizione e la modernità ad un tempo” . Annessa e connessa, la risentita, aspra critica della nostra malintesa tradizione letteraria: “Ma noi siamo egualmente lontani dall’una e dall’altra. Il nostro europeismo è di second’ordine. La nostra classicità è così generica”… E tre anni prima, nel 1918, commentando “Il Leopardi moralista” per una riedizione Zanichelli, a cura di Giovanni Gentile, delle Operette, anche Tozzi intonava un felice panegirico, tanto etico che stilistico: “A rileggere questa prosa, nella quale l’asciuttezza trecentesca è agevolata da una grazia che resterà sempre eguale, anche se la nostra sciatteria finisca con il corromperci ad uno ad uno, sembra d’aver trovato finalmente un compenso per tutte le nostre ipocrisie letterarie”…

Oziose, risibili, per la sua grandezza, tutte le etichette con cui la Storia della Letteratura si prova a catalogare il Cuore della Scrittura, la Mente dello Spirito: alla domanda “È il Leopardi un Romantico, od è un Classico?”, Giuseppe Ungaretti si rifiuta di rispondere in termini semplicistici: “Era un filologo, un poeta che sperimentalmente, sul vivo della carne delle Parole, delle parole che portavano nella loro carne i segni d’una storia, d’una lunga età (…) cercherà gli effetti desiderati”… Questa Storia di un’anima è la cartella clinica e insieme il diario di bordo di un’oceanica traversata sensibile. Si salpa dalle “Memorie del primo amore” (“Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che”…) – e dalla carne mitizzata e inaccessibile della cugina maritata Gertrude Cassi, fiorisce al conte diciannovenne e frustrato la fiera, trasparente stimmata del verso; sangue raggrumato in albare reliquia del Primo Amore:

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro

Che voglia non m’entrò bassa nel petto,

Ch’arsi di foco intaminato e puro.

…”

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Giacomo Leopardi – Storia di un’anima

Storia di un’anima” di Giacomo Leopardi è disponibile per il download libero e gratuito:

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LeopardiCanti – Silvia – Infinito

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Giacomo Leopardi – A Silvia

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,

D’in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai festivi
Ragionavan d’amore.

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero,
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

 

LeopardiinfinitoCanti

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Giacomo Leopardi – Al Conte Carlo Pepoli

Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
O gioconde o moleste opre dispensi
L’ozio che ti lasciar gli avi remoti,
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l’alba tranquilla e vede il vespro,

Se oziosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per se sola
La vita all’uom non ha pregio nessuno,
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

Sudar nelle officine, ozio le vegghie
Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a se, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna e cerca
La natura mortal, veruno acquista
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all’aspro desire onde i mortali
Giù sempre infin dal che il mondo nacque
D’esser beati sospiraro indarno,
Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura
Necessità diverse, a cui non senza
Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
All’umana famiglia; onde agitato
E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de’ bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Nè men vano che a noi, vive nel petto
Desio d’esser beati; a quello intenta
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
la lentezza accagionar dell’ore.
Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano

Provveder commettiamo, una più grave

Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta

Necessità, cui non tesoro accolto,
Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l’umana prole. Or s’altri, a sdegno
I voti anni prendendo, e la superna
Luce odiando, l’omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto,
In se stesso non torce; al duro morso
Della brama insanabile che invano
Felicità richiede, esso da tutti
Lati cercando, mille inefficaci
Medicine procaccia, onde quell’una
Cui natura apprestò, mal si compensa.

Lui delle vesti e delle chiome il culto
E degli atti e dei passi, e i vani studi
Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,

Nell’imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede

Noia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,

E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
L’età spendendo, e mari e poggi errando,
Tutto l’orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all’uom negl’infiniti
Campi del tutto la natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside
Sull’alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno
Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
Chi d’altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far se men tristo,
che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti

Perseguitando; e chi la propria gente
Conculcando e l’estrane, o di remoti

Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l’armi, e con le frodi,
La destinata sua vita consuma.

Te più mite desio, cura più dolce
Regge nel fior di gioventù, nel bello
April degli anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
A chi patria non ha. Te punge e muove
Studio de’ carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce
E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d’anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell’età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo

La favilla che il petto oggi ti scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni

Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto

Amai, che sempre infino all’ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, nè degli aprichi
Campì il sereno e solitario riso,
Nè degli augelli mattutini il canto
Di primavera, nè per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d’arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch’io riponga
L’ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell’eterne cose; a che prodotta,
A che d’affanni e di miserie carca
L’umana stirpe; a quale ultimo intento

Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d’ammirar son pago.

In questo specolar gli ozi traendo
Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi,
Non mi dorrò, che già del tutto il vago
Desio di gloria antico in me fia spento:
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d’amor, Diva più cieca.

 

LLCantiInfinitoLeopardi

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Maurice Ravel – MP3

Maurice Ravel

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LL – Ravel – Bolero

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Giacomo Leopardi

Dicevami taluno com’egli avea molto conosciuto e trattato sin dalla prima fanciullezza una persona già matura, delle più brutte che si possano vedere, ma di maniere, di tratto, d’indole, verso lui che verso tutti gli altri, amabilissime, politissime, franche, disinvolte, d’ottimo garbo. E che sentendo una volta (mentr’egli era ancora fanciullo, ma grandicello) notare da un forestiero l’estrema bruttezza di quella persona, s’era grandemente maravigliato, non vedendo com’ella potesse esser brutta, ed avendo sempre stimato tutto l’opposto. Questa medesima persona era già vecchia quando io nacqui, la conobbi da fanciullo, mi parve bella quanto può essere un vecchio (giacché il fanciullo distingue pur facilmente la beltà giovenile dalla senile), e non seppi ch’ella fosse bruttissima, se non dopo cresciuto, cioè dopo ch’ella fu morta. E l’idea ch’io ne conservo è ancora di persona piuttosto bella benché vecchia.1 Così m’è accaduto intorno ad altre persone parimente bruttissime (V. Ferri). Della bruttezza di altre non mi sono accorto, se non crescendo in età ed osservandole coll’occhio più esercitato ad attendere, e quindi a distinguere, e più assuefatto alle proporzioni ordinarie ec. (G. Masi). Vedi il pensiero antecedente. Tale è l’idea del bello e del brutto ne’ fanciulli. Spiegate questi effetti, e deducetene le conseguenze opportune. Probabilmente mi saranno anche parse bruttissime delle persone che poi crescendo avrò saputo o conosciuto essere o essere state belle. E anche bellissime.

1 Questi cognomi tra parentesi appartengono a persone frequentate da Leopardi nella sua giovinezza a Recanati.

Leopardi, Canti, CantiMP3, infinito

 

Appressamento alla morte

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Canti

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Discorso sopra la Batracomiomachia

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Discorso sopra lo Stato

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Guerra dei topi e delle rane

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Operette morali

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Paralipomeni della Batracomiomachia

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Pensieri di varia filosofia

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Storia di un’anima

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Giuseppe Verdi – Lo vedeste – Nabucco – MP3

Lo vedeste

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Giuseppe Verdi – Io t’amava – Nabucco – MP3

Io t’amava

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Giuseppe Verdi – Fenena, o mia figlia – Nabucco – MP3

Fenena, o mia figlia

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