Il ponte del paradiso This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at http://www.gutenberg.org/license. Title: Il ponte del paradiso Author: Anton Giulio Barrili Release Date: December 21, 2011 [EBook #38360] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL PONTE DEL PARADISO *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni, and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net. This file was produced from images generously made available by The Internet Archive. ANTON GIULIO BARRILI Il Ponte del Paradiso RACCONTO MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1904. ———— PROPRIETÀ LETTERARIA _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia_. Tip. Fratelli Treves. ———— IL PONTE DEL PARADISO I. Spiacevole invito. — Che idea! — esclamò la signora Livia, lasciandosi ricadere sulle ginocchia il suo ricamo turco, mentre con le pupille stravolte da un moto repentino di stizza andava cercando il soffitto a cassettoni dorati del suo salottino. — Invitare le Cantelli! Ed hanno accettato? da te? — Raimondo sgranò tanto d’occhi, per guardar bene sua moglie. — Non ti capisco; — diss’egli. — Accettare un invito da me, non è forse come accettarlo da te? Non siamo noi la stessa cosa? — Per gl’inviti, no; — rispose asciuttamente la signora. — Oh Dio! — riprese egli, sforzandosi di volgere il discorso alla celia. — Ci sono dunque delle eccezioni alla vostra santissima legge? — C’è questa, mio caro; — sentenziò la signora. — Gl’inviti solenni, in una casa bene ordinata, li fanno marito e moglie coi loro nomi uniti in una formula unica. Nei casi ordinarii, e d’una certa confidenza, invita la signora, intendendosi annuente il marito. Alla fin fine, non è lei che governa la casa? — Raimondo chinò la fronte con aria contrita. — Vizio di forma, adunque; — conchiuse egli. — Puoi sanarlo tu, andando a far visita, e confermando l’invito. — No, caro; guasterei. C’è poi la sostanza, che non mi va. — E perchè, se è lecito saperlo? Quelle buone signore si ritrovano qui, lontane da casa loro, al Danieli. Un albergo, sia pur di prim’ordine, è sempre un’albergo; e in giorni come questi.... — Male! — interruppe la signora, che non voleva passarne una. — Perchè si ritrovano a Venezia per l’ultimo giorno dell’anno? Se ci penso, non è neanche stagione per addormentarsi qui, sulla “tacita Laguna„. — Ne sai la ragione; — si provò a rispondere Raimondo colla usata dolcezza. — Il figliuolo che è qui al dipartimento navale.... — Per Natale e Capo d’anno potevano ottenergli una licenza, e portarselo a Milano; — ribattè la signora. — Si lascia così solo laggiù il capo di casa? E in giorni come questi (son tue parole), in giorni come questi, sacri al raccoglimento delle famiglie? — Eh, ci avrà pure pensato, la signora Eleonora; — osservò pacatamente Raimondo; — avrà domandato e non avrà ottenuto. Del resto, che t’ho a dire? Comunque sia andata la cosa, poichè le signore Cantelli sono rimaste qui, a noi non rimaneva altro che fare il dover nostro; non ti pare? — Una spallucciata fu tutta la risposta della imbizzita signora, che per non avere a dir altro si rimise attorno al suo ricamo turco. Se quello che andava facendo, mettendo punti su punti, era un versetto del Corano, diciamo pure che Maometto mandava a quel paese le povere signore Cantelli. Raimondo, frattanto, anche a volersi contentare d’un gesto, non poteva fermarsi lì, col suo ragionamento avviato, che bisognava condurre alla fine. — Pensaci, mia buona Livia; — soggiunse. — Si tratta della famiglia del mio corrispondente di maggior conto, e più che corrispondente, patrono. Ho grandi obblighi, e di antica data oramai, col banchiere Cantelli. Se le mie faccende hanno così prosperato, credi che ci ha avuto gran parte la fiducia e l’appoggio del signor Anselmo, di quel re dei galantuomini. Così, venendo al caso di stamane, mi è parso necessario, incontrando la signora Eleonora all’angolo della Piazzetta, di dirle che andavo appunto da lei, per invitarla, con la sua bella, figliuola e con quel caro ufficialetto di suo figlio, a fare il gran salto dall’anno vecchio al nuovo con noi. Ed ho anche insistito; confesso il mio peccato, che non mi pareva poi tale. Ora, mia buona Livia, quel che è fatto è fatto, e ci vorrà pazienza; soltanto mi duole che ti possa spiacere. — Spiacermi! spiacermi! chi ha detto mai ciò? — Ah, volevo ben dire! — gridò Raimondo, più che sollevato oramai, e disposto a ridere. — Possiamo dar da cena a ventiquattro. — Sì, caro, invitando a caso, e male. Ma siamo alla vigilia, quest’oggi, ed io mi son tenuta scarsa nei biglietti d’invito, per non andare oltre i dieci. Ora vedi tu, signore e padrone, dove ci portano le tue novità. Tre Cantelli, e noi due, si fa cinque; il cavalier Lunardi sei; il signor Gregoretti sette. — Poi la tua cara Galier.... — Eh! non me la rinfacciare, povera e cara anticaglia, che è piena di garbo, e più interessante, col suo brio, di tante e tante puppattole. — Non nego, non nego; — si affrettò a dire Raimondo. — Con lei, dunque, si fa otto. — E nove col suo nipote; — soggiunse la signora Livia; — e dieci col signor Ruggeri; e undici col maestro di musica, necessario per accompagnare al piano, se qualcheduno volesse cantare; e dodici.... — Ferma lì, per carità! — gridò Raimondo, con accento sbigottito. — Metti al dodici il mio amico Filippo. Non vorrei che toccasse il tredici a lui, poveraccio. — Mettiamolo al dodici; — concesse la signora, con aria di somma indifferenza. — Al tredici andrà il povero signor Telemaco. Per fortuna, non ha da sapere a che numero ci casca. Verrà poi tua madre? Finora non c’è lettera, nè telegramma. — Se non verrà, — disse Raimondo, trattenendo un sospiro, — avremo sempre sotto la mano il mio ottimo Brizzi. — Invitalo dunque senz’altro. — No, questo, no: non gli anticipiamo la noia. Tu sai bene che il mio eccellente segretario, il mio braccio destro, si ritrova piuttosto male colle cerimonie, e più volentieri passerà la gran notte con una mezza dozzina di amici al _Cappello Nero_. Avremo tempo a propinargli l’amaro calice domani, se sapremo che la mamma non viene. — E represse, così dicendo, un altro sospiro. Ma non voleva esser triste; sopratutto non voleva parer tale. — Che stravaganza, dopo tutto, questa superstizione del numero tredici! — ripigliò, facendo bocca da ridere. — L’hanno tanti! — disse Livia. — E credo che facciano un po’ tutti per chiasso; — proseguì Raimondo; — come quel tale che mi diceva coll’aria e coll’accento più grave del mondo: quando si è in tredici a tavola, accade sempre questo, che uno dei tredici muor sempre, o presto o tardi, prima degli altri dodici. — Bella novità! — esclamò la signora, non potendo trattenersi dal ridere. — Ma è l’unica cosa che se ne possa inferire con certezza, non ti pare? — conchiuse Raimondo, felice di vedere rasserenata la sua parte di cielo. — Dunque tornando a noi, tutti i tuoi inviti son fatti? — Sì. — E non vorrai sanare il mio vizio di forma colle signore Cantelli? — No, ti ho detto, guasterei. Oggi, poi, non me la sento di uscire. Quante cose ho da disporre, quante da ricordare, come padrona di casa! Sai che c’è da chiamare tutti i pensieri a capitolo, come altrettanti monaci in una abbazia? E in queste cose tu non potresti aiutarmi. Siete così disadatti voi altri uomini, a preparare un ricevimento! — Vero; — disse Raimondo; — e aggiungi pure molte donne. Io anzi non ne conosco più d’una, per far tutto a quel dio. E te ne sono così grato! La mia casa è una reggia, e tu ne sei la regina. — Ah! sì, bravo, due cerimonie! — esclamò la signora. — Sempre, lo sai, come il primo giorno; — riprese Raimondo. — La mia felicità è così piena! Signore, dico a Dio più spesso che tu non ti possa immaginare, fate che non cessi, che non si diminuisca d’un punto. E tu, dolce Livia, ricordi un giorno, se mai c’è stato, nel quale io ti apparissi diverso dal primo in cui ci siamo conosciuti? — Il pensiero di Raimondo era tenero nella sua sincerità; l’accento era impresso di passione profonda. La signora Livia si alzò lasciando cadere sul tavolincino il ricamo col quale da un pezzo si era venuta baloccando, e avvicinatasi a Raimondo, con un bel gesto di graziosa degnazione, si chinò a baciarlo sulla fronte. — Fanciullone! — gli disse poi, rialzandosi tosto sulla vita. — Va al tuo banco, ch’è ora, e lasciami alle mie occupazioni.... regali. — Raimondo aveva afferrate le mani di lei, e le baciava divotamente, l’una dopo l’altra, cercando di trattenerla, ad ogni tanto guardandola negli occhi con aria supplichevole, che pareva domandare un supplemento di grazie sovrane. Ma la regina aveva la sua dignità da conservare. Bene si lasciò tenere a bada parecchi minuti secondi; bene si accostò un tratto colla persona per esaudire la muta preghiera; ma subito si ritrasse, facendogli boccuccia, e si svincolò da lui per andare nella sala da pranzo, dove erano stati dianzi per far colazione, e dove i servi finivano appunto di sparecchiare. Quella era l’ora che madonna soleva scegliere per ragionare col Giovanni, il più antico servitore, come il più decorativo, dei signori Zuliani, decorato egli stesso del titolo di maestro di casa; e quel giorno, vigilia della gran cena di San Silvestro, doveva essere un colloquio importante al sommo, una specie di consiglio domestico, uno di quei consigli solenni, in cui si dimostra la sapienza delle padrone di casa, e i signori uomini di solito non capiscono un’acca. La signora Livia era sparita; ma Raimondo Zuliani, anche restando come si suol dire a bocca asciutta, era contento di sè e di sua moglie. Aveva vinta una giornata campale, invitando alla gran cena le signore Cantelli, che a sua moglie piacevano poco, e quella cara non era più in collera. Benedetta donna! che stranezza era la sua, di non poterle soffrire? Sì, certo, la signora Eleonora, con quella sua persona intirizzita, con quel suo fare sostenuto, con quella sua parsimonia di parole, non era la compagnia più allegra del mondo. Per questo, viva la faccia della contessa Galier, fosse pure con tutte le sue grinze, donde tra la cerusa e il belletto brillava e scoppiettava sempre l’arguzia, mentre era lei la prima a ridere degli sforzi inani che faceva allo specchio, per levarsi vent’anni di dosso! Ma quella Margherita Cantelli era tanto carina! E niente puppattola, come pareva che volesse gabellarla in un momento di stizza la sua Livia adorata; semplice, intelligente, buona e cortese, un vero angelo in terra. E poi, e poi, bisognava pensare che la signora Eleonora e la signorina Margherita erano la moglie e la figlia (rispettivamente, come si dice negli atti di partecipazione) del banchiere Anselmo Cantelli, col quale Raimondo Zuliani aveva obbligazioni infinite. Non erano state tutte rose, nei cominciamenti di Raimondo; ed anche più tardi, quando già poteva avventurarsi più in alto nel mare magno degli affari, non gli erano mancati i frangenti, nè i passi difficili; Milano allora, sempre confidente e magnanima, aveva sostenuto Venezia. Gratitudine, se ce n’è! Egli era dunque contento del dovere compiuto, felice di vedere la sua Livia così presto rabbonita. Sempre a quel modo l’aveva egli amata, temendone un poco gli scatti improvvisi, servendola molto timidamente, come avrebbe servita la sua dama un buon cavaliere antico, memore di essere stato paggio, e sempre disposto a reggerle lo strascico della sua veste di castellana. Che veglia d’armi aveva fatta Raimondo Zuliani, cavaliere moderno, per conquistare la sua felicità! quante difficoltà aveva dovuto superare! Le più gravi gli erano anche riuscite più acerbe, poichè erano venute a lui dalla mamma adorata, che non vedeva di buon occhio la gente d’onde Livia nasceva. Come aveva lavorato di fine, il giovinotto, e con quanta pazienza, per levare certi dubbi, certi vaghi timori dall’animo di sua madre. La buona signora Adriana si era finalmente adattata all’idea di quelle nozze, che le spiacevano tanto. A che non si adattano le madri, povere madri, per far contenti i loro figliuoli? Solo in un punto non aveva saputo piegarsi, la signora Adriana, ricusando perciò di lasciare il suo ritiro di Belluno. Lassù non era nata, per verità; ma quello era omai diventato il suo nido, poichè ci aveva accasata una figliuola, e la consuetudine di parecchi anni le faceva amare quel nuovo soggiorno. Un po’ freddo il paese; ma dove mai non fa freddo, d’inverno? Per contro, c’era abbastanza fresco in estate, ed ella si trovava benissimo in quell’antico palazzo dei Cappellari della Colomba, dove con qualche ritocco opportunamente fatto dall’amatissimo genero si poteva star come papi. Così diceva ella ridendo. E un papa c’era nato diffatti, sebbene da papa non ci fosse vissuto. A Venezia la signora Adriana compariva assai raramente, appena quel tanto che bastasse a dimostrare che non dimenticava affatto la patria. Qualche volta era discesa per la vigilia dell’Ascensione, antica festa veneziana; qualche altra pel Capo d’anno, ma governandosi in modo che il fatto non passasse in consuetudine, e volentieri trovando la scusa nel rigore della stagione. Aveva promesso di scendere per quell’anno? Sì e no, dipendendo il fatto dalle circostanze, che sogliono sempre avere un gran peso sulle umane risoluzioni. Ma si dica pur tutto; la figliuola maritata a Belluno aveva già due amori di bambini; e quando si è nonne non si sa mai distaccarsi da quelle piccole anime, nella età in cui sono veramente belle, monde d’ogni colpa, se non d’ogni moccio. Ma questo è un guaio pei nasini rosei, ed anche un po’ pei ditini grassocci; belle cosine che si lavano senza fatica, e gli angioletti tornano puliti a quel dio, da divorarli coi baci. La signora Livia, dal canto suo, non incalzava molto con preghiere per far calare la mamma a Venezia. E non già per avversione che le ispirasse la vecchia, che sarebbe un dir troppo, ma perchè forse non si sentiva amata svisceratamente da lei, o forse perchè al tempo delle sue nozze con Raimondo l’aveva indovinata contraria. Del resto, se nel suo cuore c’era un risentimento, od altro di simile, lo dissimulava bene, come sanno le donne assai meglio di noi, perchè più di noi ci sono spesso costrette. — Sai? — diceva ella al marito. — Non posso reprimere un senso d’invidia, pensando che tu l’hai, la tua mamma, e che io non ho più la mia. — Così ragionata, la cosa poteva anche passare agli occhi di Raimondo. Un po’ strana, a dir vero, la sua dolce metà, e alle volte neppur tanto dolce; ma egli l’amava così. Raimondo si era dato senza risparmio, alla cieca, come tutti gli uomini di profondo sentire, che il raziocinio e l’altre doti dell’intelletto debbono mettere intieramente a servizio di gravi occupazioni, di assiduo lavoro mentale. Gli affari comandano; sono una ferrea disciplina, gli affari; gelosi, imperiosi, prepotenti, se ne avessero modo, in quella guisa che distruggono ogni germe di pensiero nell’anima, asciugherebbero ogni vena di affetto nel cuore dell’uomo. E con molti, non c’è che dire, ne vengono a capo; comprimono, schiacciano, disseccano, trasformano, come accade nella trasmutazione di tanti tessuti organici, vegetali ed animali, in pietra o in metallo. Così il bel fiore dell’ideale, educato da una provvida bontà nel cuore più ruvido, si metallizza ancor esso, prendendo magari, per una certa affinità elettiva, la forma di una moneta da cento lire, nuova di zecca e fiammante. Fior di conio, dicono i numismatici; che bisogno c’è egli d’un fior d’ideale? Ma non tutti la pensano così, non tutti sentono a quel modo. E quando in certi cuori il bel fiore è ben vivo e tenace, le cure dell’assiduo lavoro, le prepotenti ragioni del tornaconto, possono comprimere fin che vogliono; sarà vana fatica, non varranno mai a schiacciarlo, non a disseccarlo, non a trasformarlo, non a farvelo diventare di metallo o di pietra; che anzi, imprigionato più strettamente, si fortificherà contro le dure invasioni, e per qualche spiraglio vi tramanderà gli effluvii più intensi. Raimondo Zuliani nel profondo dell’animo era fatto così; banchiere poeta; poeta senza far versi; poeta nella delicatezza e nella vivacità di un’indole tanto più forte ne’ suoi scatti improvvisi, quanto più era ordinariamente compressa dalla necessità e dalla consuetudine; poeta nel culto dell’amicizia, poeta nella adorazione per la sua Livia, di cui era innamorato come il giorno che l’aveva conquistata, fra tante difficoltà, fra tanti contrasti, e non senza strappi dolorosi al suo cuore di figlio. Delle sue nozze niun frutto era anche venuto; cagione d’intima pena per lui, specie se pensava alla mamma, che un amor di bambino avrebbe attirata più spesso e trattenuta più lungamente a Venezia, come quegli altri due la trattenevano, e troppo volentieri, a Belluno. Ma bisognava striderci. La sua Livia, del resto, non si dava pensiero di queste malinconie. — Infine, — gli diceva, — che te ne fai, se mi ami? Se tu avessi quell’amor di bambino, come ti piace di chiamarlo, non dovresti spartire i tuoi sentimenti fra due? Un altro essere, ultimo venuto, comanderebbe in casa, tua. In quella vece, che cosa avviene? Tu non hai altro che me; mi amerai meglio. — Questo era un argomento perentorio, davanti al quale bisognava deporre le armi ed arrendersi a discrezione. — Sì, sì, hai ragione tu; — gridava egli tutto racconsolato. — Ma vedi? bisognerà dirmene spesso, di queste dolci parole. — Nel fatto, la signora Livia non sentiva nessuna tenerezza pei bambini, e l’esserne senza poteva anzi parerle una benedizione del cielo. Pensava ella pure che con simili impicci al fianco, gioventù e bellezza ad un tempo si sciupano? Certe cose si sentono, anche confusamente, nell’anima, senza bisogno di pensarci su; e voi le potreste leggere espresse a chiare note di serenità e di contentezza sulla fronte di parecchie donne, se non a dirittura di molte. Strano, non è vero! Si è tanto detto e creduto che Dio abbia spirato in ogni donna il senso della maternità, quel senso arcano e ineffabile che in tutte si rivela, fin dagli anni più teneri, nell’amor della bambola! E questo pensava alle volte anche Raimondo Zuliani; ma oramai senza fermarcisi troppo. — Oh, finalmente! — diceva egli tra sè, — che cos’è questa maternità? Un istinto. E che cos’è un istinto? Un moto interno, naturale, involontario, irresistibile; impulso oscuro, adunque, una forza cieca, che ci accomuna, nell’adempimento di certe funzioni, ad ogni specie di animali. È della natura umana, o dovrebb’essere, il ribellarsi a questa forza cieca, per seguir la ragione. È chiaro poi, che se avessi figliuoli, io dimezzerei l’amor mio. Livia dice benissimo; lasciamo dunque l’istinto alle bestie. — II. Pentiti, don Giovanni! San Silvestro era venuto, ma solo soletto, portando sul Canal Grande, nell’antico palazzo abitato dai signori Zuliani, una lettera di Belluno. La signora Livia ci aveva azzeccato; lettera o telegramma che fosse, la mamma, come si soleva chiamare in famiglia la vecchia signora Adriana, avrebbe scritto di non potersi muovere. Ragione, o pretesto? Pareva una ragione, poichè la lettera parlava di un nipotino che era a letto colla rosolia; pareva un pretesto, poichè la lettera soggiungeva non trattarsi di cosa grave, bensì di una forma benigna, assai benigna, di quella inevitabile malattia da bambini. Ma infine, pretesto o ragione che fosse, il piccino voleva sempre la nonna al suo capezzale, e non c’era modo di spiccarsene. Raimondo lesse, e sospirò, com’era il suo fare; ma non aggiunse parola. Così, anche su d’un altro punto, aveva ragione sua moglie; avevano corso il rischio di essere in tredici per la cena del capo d’anno. Bisognava ad ogni costo mettere il sequestro, sulla persona del signor Brizzi; e il sequestro fu messo quella mattina, appena Raimondo ebbe fatto ritorno al suo banco. Il signor Brizzi era il segretario del banco Zuliani, il braccio destro di Raimondo, quello che faceva andare la macchina, e diciamo pure la zecca, poichè era una macchina da far quattrini. L’onestà certamente è la base d’ogni commercio; e quantunque molti ne facciano senza, non bisognerà credere che sia utile imitarli, perchè allora si fabbrica sulla rena, e le case generalmente non durano. All’onestà, per cui la casa Zuliani era omai proverbiale, il signor Antonio Brizzi, grande scritturale nel cospetto del Signore, aggiungeva una diligenza scrupolosa, una prontezza mirabile, una esattezza esemplare, per cui la macchina bancaria andava come un orologio: s’intende, come un orologio che va, e che va bene; due cose che non sono di tutti gli orologi. Compiamo il ritratto morale del signor Antonio Brizzi, soggiungendo ch’egli era un vecchio scapolo. Ad ammogliarsi prima gli era mancato il tempo; e di ammogliarsi poi non era più tempo. E non se ne doleva; che anzi! Era uomo di gusti semplici, che la compagnia d’una donna avrebbe sempre un po’ contrariati; si contentava di poco, non ispendendo la metà di quel che guadagnava, tanto che gli amici lo accusavano di essere omai diventato milionario, o giù di lì. “Soprattutto giù di lì„, rispondeva egli ridendo; “tanto giù, che più sotto c’è il Canale„. Unico suo spasso e suo unico sfoggio era il fare un po’ lunga la fermata serale al _Cappello Nero_, dove faceva i suoi pasti, in compagnia di quattro o cinque amici, stagionati e senza famiglia come lui, coi quali si cambiavano due chiacchiere sul più e sul meno, framezzandole con qualche sorso di Murano, o di Valpolicella. Non si stava già sulle cerimonie, con loro. Le cerimonie lo seccavano a morte, e per questo non si ritrovava bene in casa del suo principale, in quei ricevimenti sempre un pochettino solenni, o che a lui parevano tali; dove bisognava star sulla vita, fare il bocchino, gesticolar poco o nulla, e parlare in punta di forchetta, fra giovinotti inamidati, vecchi incerettati e signore infarinate. I giovinotti inamidati lo mettevano in soggezione, i vecchi incerettati gli facevano rabbia, le signore infarinate gl’incutevano un religioso terrore. Si trattava poi di una soltanto; chè la signora Livia, salvo in circostanze singolari, e veramente costretta dal suo ufficio di padrona di casa, non ne sopportava di più. Ma quella c’era sempre, buon Dio, come obbligata in chiave, e gli pareva una stonatura. Povera contessa Galier di San Polo, così amena, così facilona, e la prima a ridere delle sue infarinature ostinate! Ma il signor Brizzi era fatto così; si ritrovava male con le dame. C’era quella sola? Pagava per tutte. Conoscendo l’umore del suo segretario, Raimondo Zuliani aveva dovuto attaccarlo col solito preambolo. — So che vi dò noia, mio caro Brizzi; ma voi mi scuserete, perchè non posso fare altrimenti. Mia moglie conta su voi, questa sera; ed io, poi, anche conoscendo le vostre inclinazioni, debbo contarci come lei. Alla cena del buon augurio non potete, non dovete mancar voi, che siete il mio amico migliore. E poi, che volete? Si resterebbe in tredici, senza di voi; è dunque necessaria la vostra presenza. — Allora al fuoco, e senza risparmio, come a Malghera; — disse ridendo il signor Brizzi. Ridendo, sì, ma a denti stretti, e perciò non di gusto, come faceva al _Cappello Nero_. Li aperse bene, quella sera sul tardi, per maledire la falda e tutto il resto dell’abbigliamento cerimoniale, che aveva dovuto cavar dall’armadio. E nondimeno, quando ebbe finito di vestirsi, non era più tanto feroce. Uscito dal suo quartierino in vicinanza dei Frari, venuto alla riva e sceso in gondola, dopo aver gittata al gondoliere la frase “al palazzo Orseolo„, le sue invettive cominciarono a condirsi di qualche amenità; segno che quell’ottimo signor Brizzi si veniva bel bello rassegnando al suo fato. — Ebbene, vecchia mia, — diceva egli, abbottonando su quella povera falda i due petti del suo palandrano, — sei contenta d’essere uscita dall’armadio, ove meritavi di restare fino alla mattina del giudizio universale? Con tante grinze, farai la tua bella figura! E tu, piastrone di tela batista, lustro e sodo come un piatto di porcellana, le vorrai bere, le tue goccioline di caffè e di liquori, non è vero? Strano! — soggiunse il signor Brizzi, accomodandosi meglio che poteva sui neri cuscini del _felze_. — Ci sono quei cari giovinotti, che non si macchiano mai. Forse per questo portano i baffi tirati all’insù, che paiono tanti gatti arrabbiati. E noi.... e noi, poveri vecchi, li portiamo voltati all’ingiù, come tanti Cinesi. Ecco il guaio! — Il signor Brizzi, come abbiamo sentito da lui, era stato tra i difensori di Malghera. Fedele ai ricordi del patrio risorgimento, portava baffi e pizzo all’italiana. A piè della gradinata del palazzo Orseolo approdava un’altra gondola, donde smontarono dopo il signor Brizzi altri due invitati di casa Zuliani. Tutti e tre, scambiata una stretta di mano, salirono, giungendo proprio gli ultimi all’appello. Nel gran salotto della signora Livia era già adunata, disposta in crocchi, secondo il caso o le affinità elettive, una fiorita compagnia; “le donne, i cavalier, l’armi....„; sì, anche l’armi, rappresentate da Federico Cantelli, nella sua severa uniforme di sottotenente di marina. Quanto agli “amori„ potevano essi mancare? Dove son donne e cavalieri, è più facile azzeccar gli amori che l’armi. — Così tardi? — chiese amabilmente la signora Livia, stendendo la sua bella mano al signor Brizzi. — Padrona, — rispose l’ameno segretario, inchinandosi, — abbia la bontà di scusare un povero villano, che non ha voluto venire con le mani vuote. Come vede, ho portato questi due forestieri. — E contento della sua barzelletta, si trasse da un lato, per lasciar passare alla cerimonia dello _shake-hand_ il cavalier Lunardi e il maestro di musica. Raimondo respirò per sua moglie. Coi tre ultimi arrivati si era quattordici in punto. Ma non respirò il signor Brizzi, trovandosi là in mezzo a tante persone elegantissime, specie davanti a signore, con le quali non poteva già bastargli una frase in burletta, come quella che aveva finito di dire alla padrona di casa, e sua. Conosceva le signore Cantelli; era anzi stato una volta all’albergo per ossequiarle e mettersi ai loro ordini, quando erano arrivate a Venezia: ma si sentiva impacciato con esse, particolarmente colla signora Eleonora, sempre così contegnosa e così avara di parole. Benedetta la contessa Galier di San Polo, che poteva essere infarinata più del convenevole, se non del necessario, ma infine, viva la faccia sua tinta e ritinta, parlava sempre lei, e non c’era altra noia che di starla a sentire. Noia, poi! Si dice così per dire. La contessa era amenissima; colla sua parlantina avrebbe messo di buon umore un convento di trappisti. Più impacciato del nostro ottimo Brizzi appariva il signor conte Filippo Aldini. Che la presenza delle signore Cantelli mettesse in soggezione anche lui? Non era da credere. Filippo Aldini era un elegante inappuntabile, un giovinotto alla moda, rotto alla vita dei salotti; sebbene non frequentasse più molte case, come prima faceva assai volentieri, restava sempre quello di prima, nella bella padronanza di sè, dei suoi atti e delle sue parole, disinvolto e misurato ad un tempo, sobrio nel gesto, parco nella celia, ma pronto a scoccarla con aria tranquilla, che non pareva affar suo, come se avesse detta la cosa più semplice e più naturale del mondo. Non si confondeva mai; confondeva gli altri, piuttosto. Perchè dunque appariva allora tanto diverso? Che fosse ammalato? Raimondo Zuliani, senza far tante indagini, notando solamente la novità della cosa, ebbe compassione di lui; e venutogli accanto, lo aveva tratto bel bello verso le signore Cantelli, a cui l’amico non si era ancora fatto vivo altrimenti, che con un rispettosissimo inchino. — Posso io presentare il mio amico Aldini? — aveva detto Raimondo, facendo bocca da ridere. — Ella sa bene, signor Zuliani, di averci già fatto questo regalo; — rispose la signora Eleonora con gran degnazione, e, cosa più insolita, abbozzando perfino un sorriso. — È vero nondimeno che incontriamo il signor Aldini piuttosto raramente. — Lo incontrano! — esclamò Raimondo. — Non è egli dunque tornato a riverirle? Davvero davvero, non riconosco più il mio Filippo, il re dei cavalieri. — Filippo Aldini sorrideva a stento, sudando freddo, e balbettando qualche frase scucita. La nessuna importanza sua.... il timore di essere importuno.... E frattanto si guardava attorno, come se cercasse soccorso. Da chi, povero Aldini, da chi? Ah, bene aveva pensato quel giorno di darsi ammalato! Sentiva allora che l’idea era buona. Peccato che gli fosse parsa ridicola, tanto che non ci si era fermato su, e non aveva scritto quel bigliettino di scusa a Raimondo, magari mettendosi a letto, per non esser colto in flagranti di bugia, dal più caldo, dal più prepotente degli amici! Si pentiva allora, si pentiva amaramente di non aver colta a volo l’idea, balenata nella mattina al suo spirito, come unica e vera àncora di salvezza che gli porgeva un buon genio. Bisognava dunque discorrere; e Filippo Aldini si adattò a mettere qualche frase meno scucita di costa a quelle del suo amico Zuliani. Ma appena Raimondo non fu più là in sostegno, lasciò languire la conversazione, e ringraziò nel profondo dell’animo il cavaliere Lunardi, che si avanzava a riverire la signora Eleonora. Nè solamente lo ringraziò, ma subito ne prese occasione a ritirarsi in buon ordine, per andare a discorrere colla signora Galier. Là solamente si sentiva al sicuro. La conversazione si era venuta animando. Ma qualche timido accordo al pianoforte ottenne il suo effetto. “Cascano i filinguelli al paretaio„, ha detto il poeta; tutti s’accostano al cembalo. C’è chi domanda una romanza dello Schubert, chi uno scherzo del Grieg, chi un minuetto del Boccherini. Il maestro di musica ha tutta questa roba sulla punta delle dita. Ma soprattutto c’è chi vuol sentire il re degli istrumenti musicali, la voce umana, specie se è voce di soprano, o di mezzo soprano. Del resto, in un salotto, son tutte voci di soprano sfogato. La padrona di casa non canta più, almeno così ella dice; e si capisce che dica così, per far figurare qualche graziosa invitata. Si pregherà dunque la signorina Cantelli. E la cara Margherita non si fece pregar molto. Pensava giustamente, la bellissima fanciulla, che tanto e tanto avrebbe dovuto dire di sì; il meglio era dunque di dirlo subito. Aveva una voce stupenda; cantò con metodo eccellente e con raro sentimento l’_Ideale_ del Tosti, domandato dal cavalier Lunardi, il grande romantico della compagnia. La signora Livia si era appressata al cembalo per sentir meglio. Fu amabilissima; applaudì con ardore, e fece perfino un miracolo, simulando l’atto di abbracciare la gentil cantatrice. — Tutto bene! — disse mentalmente Raimondo, stropicciandosi le mani in un angolo del salotto. — Così la mamma fosse venuta, che non avrei più nulla a desiderare! — Ma non si può aver tutto, in questo povero mondo. E non potè aver tutto il cavaliere Lunardi, che dopo l’_Ideale_ del Tosti, chiedeva già per grazia l’_Amore, Amor_ del Tirindelli. Un uscio si era aperto, una portiera di broccato si era sollevata, ed appariva nel vano il colossale Giovanni in vistosa livrea, coi guanti bianchi come la neve; piacevole apparizione di granatiere rubizzo, che proferì poche parole, ma buone: “La signora è servita„. La signora, la padrona di casa, doveva far l’obbligo suo. Fatto un cenno al marito, che offriva subito il braccio alla signora Cantelli, prendeva il braccio del signor Telemaco; un pezzo grosso della finanza, che siamo dolenti di non aver meglio specificato, ed ora, per far le cose a dovere, sarebbe un po’ tardi. Poi volgendosi verso Filippo Aldini, gli disse a mezza voce: — Signor Aldini, offra il braccio alla contessa Galier. — L’Aldini s’inchinò col suo fare misurato, ed obbedì prontamente. — Ah, che bel cavaliere! Ringiovanisco; — gridò quella graziosa matta della contessa, che non voleva esprimere a mezza voce il suo gradimento. La signora Livia sorrise; poi si rivolse al Lunardi. — Cavaliere, — gli disse, — offra il braccio alla signorina Cantelli. — E con un leggero ammiccar degli occhi ebbe l’aria di soggiungere: — È contento di me? — A questo modo, — esclamò il cavaliere Lunardi, per fare il paio colla vecchia contessa, — ringiovanisco ancor io. — La signora Livia fece un bel gesto d’invito a tutti gli altri, perchè volessero seguire la marcia come credessero meglio. Si era tutti amici vecchi di casa, perciò in gran confidenza; ed alcuni fecero l’atto, non ammesso dai manuali dell’etichetta, di offrirsi il braccio tra uomini. Il signor Brizzi, ad esempio, ci passò per signora, un po’ stagionata a dir vero, accettando il braccio che gli offriva il Gregoretti, bel tipo di mattacchione, e alle sue ore anche poeta. Si traversò un secondo salotto che già conosciamo, e si mosse di là verso la sala da pranzo, il cui uscio spalancato lasciava vedere tutto uno sfolgorìo di lampade di bronzo dorato e di candelabri antichi, tra i cui viticci venivano ad innestarsi, come frutti luminosi, le pere cristalline della luce elettrica. Al soffitto di legno, partito a cassettoni e rosoni, anch’essi dorati, si armonizzavano le credenze e le cristalliere di legno nero, intagliato a fogliami, a fiorami, a rabeschi, a mascheroni, a putti, a draghi, ad uccelli fantastici. Falso Cinquecento, sicuramente; ma anche falso sta bene, dà un nobile carattere alle case, parendo invecchiare con esse le famiglie troppo moderne, che si sono felicemente arrampicate a metterci il nido. La tavola era uno splendore di cristallame, d’argenteria, di porcellana e di fiori. In vece del solito _chemin de table_, che è graziosissimo e può essere sommamente caro come lavoro di mani gentili, ma che è pure economico la parte sua, potendo andare in bucato, attraversava la tovaglia in linea diagonale un nastro enorme, artisticamente pieghettato e rigirato a onde, a staffe, a nodi, allacciando qua e là mazzi di rose fresche, di orchidee, di miosotidi, ed altre fioriture contro stagione. Quella era la novità ultimissima del buon gusto; così andava fatto, fosse pur condannato ad essere disfatto la mattina seguente. Buon lusso costoso delle cose destinate a perire! Ma la nave degli Zuliani aveva il vento in poppa, e dispiegava liberamente tutta la sua velatura. Contegnosi da principio e parchi di parole, i nostri commensali si animarono gradatamente, al saltar dei turaccioli, all’acciottolìo dei piatti, al cozzar dei bicchieri. Il chiacchiericcio si diffuse da un capo all’altro della tavola: si stava bene, si andava anzi di bene in meglio; si aprivano i cuori, si snodavano le lingue. Il cavaliere Lunardi fu garbatissimo colla signorina Margherita, che con un interlocutore sessagenario poteva essere più loquace, mostrando tesori di senno, di cultura e di grazia. Amenissima poi la contessa Galier, tra l’Aldini, che non si mostrava più tanto impacciato, e il signor Brizzi, collocato suo cavalier di sinistra. Così aveva disposto la padrona di casa, per compensarlo di quel sacrifizio, di quel tradimento dovuto fare al suo _Cappello Nero_. Intanto questo appariva in casa Zuliani, questo era evidente, tra tanti fumi del vin del Reno, di Borgogna, di Xères, di Caluso e d’altri siti; che i vecchi erano più animati, più allegri, perfino più arguti dei giovani. Nessuna maraviglia; forse è perchè i vecchi hanno meno tempo davanti a sè, in paragone dei giovani, e fanno profitto di quel poco che avanza. Quanto a dedurne che sia per maggiore esperienza della vita, non ne credete niente; e vecchi e giovani son tutti ragazzi ad un modo. In mezzo al chiacchiericcio generale, che già pareva un principio della confusione delle lingue, che è che non è, salta un turacciolo con formidabile scoppio; ne salta un altro, ne saltan parecchi; il vino di Sciampagna gorgoglia, ribolle, sfavilla, spumeggia nei calici di mussolina fusa in cristallo, o di cristallo fuso in mussolina, come vi piacerà. Era quello il momento solenne dei brindisi. E si capì allora perchè il Gregoretti, quel grazioso mattacchione, non avesse dato alla conversazione tutto ciò che avrebbe potuto e dovuto. Il disgraziato aveva un brindisi in corpo, e in versi, per giunta, in versi veneziani, scoppiettanti, sfavillanti come il vin di Sciampagna, che gli stava dinanzi, e di cui aveva sorseggiata la prima spuma quasi per prenderne ispirazione. Si era fatto silenzio, vedendo nell’atteggiamento e nel gesto del personaggio la promessa del brindisi. E il Gregoretti incominciò, celebrando in graziose strofe i meriti straordinarii dell’anno allora allora finito. Il che era contro l’usanza, per verità; ma si sapeva bene che il Gregoretti non faceva mai niente a modo degli altri. A suo giudizio, l’anno andato meritava ogni lode, non avendo recato nessun dispiacere a lui, nè agli amici suoi; e questo era molto, anzi poco mancava che non fosse tutto. Sì, buon Dio, si poteva anche ammettere che non fosse stato nè carne nè pesce. Ma il suo successore, il neonato, non si sapeva ancora che diavolo sarebbe riuscito. E il vecchio, poi, era anche finito bene: ci pensassero un pochino, i signori commensali; era finito stupendamente per tutta una gentile brigata, sotto l’incanto della bellezza accompagnata alla grazia. Occhi soavi, amabil sorriso.... E più avrebbe detto il poeta, perchè c’erano da enumerare i pregi a centinaia. Ma siccome il ritratto sarebbe stato poi sempre inferiore all’originale, egli prendeva consiglio da quei pittori da dozzina, che dopo aver disegnata e colorita con tutta l’arte che possiedono la figura del committente, gli pongono in mano una lettera, colla soprascritta bene in vista, per istruzione del pubblico. Il nome, di quella bellezza, di quella grazia incantevole, doveva egli proferirlo? Non era già pronto a scoccare, sulle labbra di tutti? Animo, via, lo dicessero pur tutti con lui, senza timore di guastargli la chiusa, lo dicessero tutti a gara, quel nome grazioso, “quel nome caro ai Veneziani„ della signora.... E qui una sospensione, che permetteva a tutti di prorompere in coro: “Livia Zuliani„. La signora Livia Zuliani, udendo quella enumerazione di pregi femminili, e indovinando che col suo nome sarebbe andata a finire, si era fatta via via d’un bel colore vermiglio; a suo vantaggio, senza dubbio, perchè prima d’allora, diciamolo pure, con tutta la sua risoluzione di fare a mala sorte buon viso, era stata un po’ verde. Tra gli applausi e gli evviva dei suoi convitati, la bella nervosa, atteggiate le labbra al sorriso, levò il suo calice, accostandolo cortesemente a quello del suo poeta. Ed anche, sorridendo sempre e ringraziando, dovette ripetere la cerimonia con tutti. Raimondo era in estasi: vedeva tutto vermiglio, come il volto della sua Livia. Ma non poteva star sempre lì, in contemplazione della propria felicità; da buon padrone di casa, doveva darsi moto, tener desto il fuoco della allegrezza ne’ suoi convitati. — L’anno vecchio ha ottenuto il suo elogio; — disse egli; — chi farà l’elogio del nuovo? — Tu; — gli rispose il Gregoretti. — Io? Non son poeta; e dovrei tesserlo in prosa. — In prosa, da bravo; purchè sia prosa robusta. — Se non sarà, non vorrete mica accopparmi; — conchiuse Raimondo, che già sentiva venir l’estro ad una seconda versata che i servi facevano in giro. Levò allora il suo calice, e così prese a parlare, con intenzione d’esser solenne: — Signore e signori, onde questa casa è onorata, auguro a tutti voi che il nuovo anno sia lieto, come furono a me i sette che lo hanno preceduto. Esaudisca egli il voto che gli esprimo.... — soggiunse l’oratore, ispirandosi d’un subitaneo pensiero, e versando sulla tovaglia un mezzo dito del suo vino, — .... il voto che gli esprimo libando a lui, come un sacerdote antico, con questo roseo dorato liquore. — Bene osservato; il roseo dorato è una particolarità della vedova Clicquot; — disse il Gregoretti, guardando contro la luce il suo calice. — La vedova, — rispose Raimondo Zuliani, cogliendo quella volta l’ispirazione dalle parole dell’amico, — la vedova è stata moglie; parliamo dunque del matrimonio. Non senza ragione vi accennavo i miei sette anni felici. A voi, scapoli impenitenti! aiutate con buone risoluzioni l’adempimento del voto che io ho formato poc’anzi, e il nuovo anno vi colmerà delle sue benedizioni. Chi vorrà dare l’esempio? Voi, amico Brizzi, non è vero? — Me ne guardi il cielo! — gridò il signor Brizzi, facendo un gesto d’orrore. — E perchè? — domandò Raimondo. — Vi conosco e vi stimo da gran tempo, mio caro, e so che non fate e non dite mai cosa su cui non abbiate pensato due volte. — Il signor Brizzi si avvide di non aver pensato neanche una a ciò che gli era uscito allora di bocca. Era stato un grido dell’anima; e bisognava attenuarlo con qualche spiegazione. — Perchè? — rispose. — È presto detto, il perchè. Renderei infelice la donna che avesse la cattiva ispirazione di accettar la mia mano. Son vecchio, sapete? son vecchio. — Ma che? — entrò a dire la contessa Galier, che non voleva sentir parlare di malinconie. — Vecchio è chi muore. — Signora contessa, la prego di credere che ho passati i cinquanta. Il matrimonio non è più fatto per me, salvo il caso di voler saldare insieme due cocci scompagnati. Con che gusto, poi? con che utile per la società? Pensiamo alla società, miei signori; è anche di moda. E concludiamo; il matrimonio è fatto pei giovani. — Raimondo avrebbe volentieri abbracciato il suo segretario. Senza volerlo, senza pensarci neanche, quell’ottimo signor Brizzi gli dava la mano, tirandolo dov’egli intendeva per l’appunto avviarsi. — E allora rivolgiamoci ai giovani; — ripigliò. — Auguriamo per esempio al conte Aldini la felicità ch’egli merita. Sei al momento buono, mio caro Filippo. È perchè i voti del capo d’anno sono privilegiati su tutti, io ti auguro con maggior fede una sposa degna di amore e di stima.... perchè non lo direi? come la mia. — Raimondo! — esclamò la signora Livia. — Mi farete arrossire. — E più avrebbe detto, tanto era seccata. Ma le bisognava rattenersi, star lei in riga, se non sapeva starci il suo signore e padrone. Ah, quella benedetta varietà di vini dei pranzi e delle cene solenni! Manda i fumi alla testa, snoda le lingue, fa dir sciocchezze agli uomini serii, troppe sciocchezze; e con una insistenza, poi, con una insistenza degna di miglior causa. A farlo a posta, il suo signore e padrone insisteva. — Ebbene, sì, che c’è egli di male? Viva la sincerità. Son tutti amici, qui, d’antica data, e strettissimi; gradiranno ch’io parli come penso. Sarebbe ipocrisia in me il tacer loro che sono felice. Credi a me, dolce amico; — soggiunse, volgendosi all’Aldini; — segui l’esempio di chi ti vuol bene. Io bevo intanto alla tua fidanzata. — Filippo era sulle spine; e doveva mostrarsi tranquillo, accogliendo lietamente gli augurii dell’amico Raimondo. — Senza conoscerla! — esclamò egli, tanto per dire qualche cosa. — Eh, pensiamo se tu, almeno tu, non te ne sarai formato un’idea! — incalzò Raimondo. — Nella mente d’un giovinotto, o nel cuore, la futura compagna della vita c’è sempre, immagine vaga, da principio, ma che a poco a poco va prendendo i precisi contorni di una giovine e conosciuta bellezza. Dico bene? — Ottimamente! — gridò il Gregoretti. — Dopo la prosa robusta, ci dai la prosa elegante, la prosa poetica. — L’argomento ne franca la spesa; — rispose Raimondo, i cui occhi andavano come per incanto verso la signorina Margherita. La fanciulla teneva i suoi molto bassi, avendo l’aria di voler aggiustare una piega della sua sopravveste. Ma intanto si era fatta un po’ rossa, dal sommo della fronte fino alla radice del collo. E stava bene così, era più bella che mai, mettendo in mostra il volume dei capelli neri, ondati e lucenti, che sull’incarnato del viso luccicavano due volte tanto, con mobili riflessi turchini. Bella e divina creatura! Un poema, l’aveva dichiarata il Gregoretti, quella medesima sera, vedendola per la prima volta nel salotto della signora Zuliani. Perchè poi un poema? Ci sono tanti poemi brutti! e tanti altri mediocri! Ma il paragone, antico oramai, doveva essere stato fabbricato nel tempo che di poemi, in Italia, si conoscevano soltanto i divini, quei tre che tutti sappiamo; dopo i quali, chiudi e sigilla, che il conto è fatto. — Dunque, — ripigliò il Gregoretti, tenendo bordone a Raimondo, — vogliamo bere alla futura sposa del nostro Aldini? Egli è qui l’unico scapolo in età da pentirsi. Péntiti, don Giovanni! — Eh, don Giovanni nel profondo del suo cuore non avrebbe chiesto niente di meglio. Ma lì per lì sentiva corrersi un brivido per l’ossa. — Anche tu? — diss’egli volgendosi al Gregoretti, con aria tra confusa e seccata. — Anch’io, sicuro, e tutti quanti siam qui, a volerti bene. Péntiti, don Giovanni! — Filippo Aldini guardò intorno a sè, con occhi smarriti, come d’uomo in punto d’affogare. Tutti, col calice in mano, gli ripetevano la medesima frase. “Péntiti!„ diceva il Ruggeri; “péntiti!„ il signor Telemaco, che in verità non diceva nulla, ma consentiva col gesto, e nel gaio concerto delle voci pareva aggiungere la sua. Ma era dunque una congiura? un colpo premeditato? — Lo senti? Te lo dicono tutti in coro; — gridò Raimondo Zuliani, ridendo a più non posso. — Péntiti, don Giovanni! — E si rivolgeva, ciò detto, alla sua Livia, come per invocarne l’aiuto. — Ma sì, — aggiunse allora la signora Zuliani, con la sua vocina sottile, e accompagnandone il suono con un moto grazioso della sua testina bionda, — perchè non si pentirebbe, don Giovanni? — Filippo Aldini era fuori di sè dalla stizza. Ma egli sentì che a durarla ancora un tratto, sarebbe diventato ridicolo, con quella cera da funerale, in mezzo a tanta allegria che pareva volersi rovesciar tutta su lui. A farlo a posta, anche la padrona di casa si metteva dalla parte dei canzonatori. Accettò dunque l’invito, come se fosse stato un comando; levò il suo calice, lo vuotò fino all’ultimo sorso, e rispose con accento risoluto: — Sia, poichè tutti lo vogliono; mi pentirò. — Ebbe naturalmente un applauso da tutti; e dopo l’applauso un premio speciale dal Gregoretti. — Così va bene; — disse il poeta mattacchione. — Fin da domani metto la Musa in molle, e ti preparo l’epitaffio. — Voleva dire l’epitalamio. Ma già la lingua incominciava a tradirlo. III. Per l’amico del cuore. Quella notte, anzi meglio, quella mattina, la signora Cantelli avrebbe voluto ritirarsi intorno alle due. Veramente, le rincresceva di dare il mal esempio; ma il suo Federigo doveva essere di buon mattino al suo posto, e bisognava concedergli almeno quattr’ore di sonno. Il signor Zuliani aggiustò le cose per bene, proponendo che Federigo andasse via solo, mentre per le signore, con tanti cavalieri presenti, non sarebbe mancato chi le accompagnasse al Danieli. In questo modo si guadagnò un’altr’ora allegra, illuminata dalla grazia, dal sorriso incantevole della signorina Margherita. Raimondo Zuliani era tutto raggiante di contentezza, ameno, festevole, attento ad ogni cosa che potesse occorrere per la felicità dei suoi ospiti; e ciò senza bisogno di scomodare sua moglie, che doveva lasciarlo fare, standosene regalmente seduta in trono, ossia, per chiamar le cose col loro nome, nell’angolo sinistro di un soffice canapè foderato di raso, accanto alla signora Eleonora. Ma c’è un fine anche alle veglie notturne; e quando le signore Cantelli accennarono a prender commiato, Raimondo fu pronto a dar loro per cavaliere il conte Aldini. Mentre tutti incominciavano a mettersi in moto, la signora Livia ebbe agio di tirare il marito in disparte. — Che idea è la tua? — gli bisbigliò. — Non doveva il signor Aldini accompagnare la Galier? tanto più che sono così vicini di casa? — Capisco; — rispose Raimondo. — Ma la contessa ci ha il nipote, e quello può bastare. Credi tu che possa venire in mente a qualcheduno di rapirtela? Quanto alle signore Cantelli, potrebbe servire il cavaliere Lunardi? O il signor Telemaco? Mi paiono tutti e due morti dal sonno. Il Ruggeri è un po’ sventato; e poi, ha veduto le signore per la prima volta stanotte. Il Gregoretti è un po’ più allegro del solito. Ci ho pensato bene, mia cara; non c’è altri che Filippo. — Del resto, era detta, e non si poteva tornare più indietro. “Voce dal sen fuggita. — Più rattener non vale„. Lo aveva sentenziato il Metastasio, in una di quelle sue ammirabili strofette per musica. Voleva la sua Livia sentir gli altri due versi? No, non ce n’era bisogno: li sapeva a mente, come l’avemmaria. Per quella volta ancora comandava Raimondo, e l’Aldini accompagnò le signore Cantelli. Ci andò come la biscia all’incanto; ma ci andò, muovendosi in compagnia di Raimondo, che da qualche minuto non lasciava il suo braccio, quasi temendo che dovesse sfuggirgli. In questa guisa Oreste accompagnò il suo Pilade, fino al piè della gradinata, davanti alla gondola, dove ossequiò le signore Cantelli, ringraziandole del grande onore che gli avevano fatto. La signora Eleonora mostrò di gradir molto la compagnia del conte Aldini. Margherita non mostrò nulla de’ suoi sentimenti; ma certo era contenta. Come la gondola approdò alla Riva degli Schiavoni; la bellissima fanciulla accettò la mano che le tendeva Filippo per aiutarla a scendere; e Filippo sentì quella mano tremare un pochino nella sua. Una bella mano che trema, quante cose non dice? Da quando si conoscevano? Da un mese, cioè dai primi giorni che le signore Cantelli erano capitate a Venezia. Viaggio e fermata lunga, tutto era stato per Federigo, che non poteva sperare una licenza per quella fin d’anno, dopo averne già ottenuto parecchie a brevi intervalli. Le mamme, per verità, ne vorrebbero una al mese, e si dolgono delle irragionevoli durezze della disciplina militare, che a sentirle loro non perderebbe nulla a essere più compiacente; ma è colpa loro, se han voluto i figliuoli ufficiali di terra o di mare. Ed anche a Venezia, così presso a Federigo, non potevano mica averlo sempre in compagnia: quel benedetto servizio aveva le sue esigenze quotidiane. Perciò altri doveva supplire alle assenze di Federigo, mettendosi a servizio delle signore Cantelli. Naturalmente, c’era in prima riga Raimondo Zuliani, l’amico del banchiere Anselmo, e in continua relazione d’affari con lui. Ma anche Raimondo aveva le sue ore impegnate: poteva fare una visitina, ed anche a brevi intervalli, non già mettersi a loro disposizione per visitar chiese, palazzi e musei. Si sa, quando per una ragione o per l’altra si capita in una città ragguardevole, in una città storica, ricca di memorie, di capolavori, di meraviglie d’ogni genere, è obbligo di veder tutto, per mostrar poi alla gente di non aver viaggiato come bauli. L’arsenale lo avevano visto con Federigo, che era là come in casa sua, e ne faceva gli onori. San Marco, i Frari, la Salute e le altre chiese maggiori si potevano vedere via via nei giorni festivi, in occasione della messa. Ma il Palazzo dei Dogi, ma l’Accademia, il Museo Correr, i palazzi del Canal Grande, almeno i più singolari, i più celebrati, non si potevano visitare senza la compagnia di qualche amabile cicerone, che per l’appunto non fosse un cicerone di piazza. Per questo ufficio il signor Brizzi, messo anche lui a disposizione delle signore, non parve a breve andare l’uomo più adatto; molto amabile, sicuramente, quantunque a modo suo, ma niente cicerone; ed egli, dopo tutto, era più utile al banco. O allora? Allora, quale occasione più favorevole dell’amico Aldini? Quello era proprio l’uomo, amabile che nulla più, cicerone perfetto, e padrone di tutto il suo tempo, non avendo niente da fare; condizione invidiabile, checchè si voglia argomentare in contrario. E qui diciamo di lui tutto quello che occorre, per non averci a ritornare con cenni e notizie a spizzico, che paian venire di contrattempo, e intralcino ad ogni modo il racconto. Filippo Aldini era stato ufficiale di cavalleria, e in quella divisa era capitato quattro anni addietro alla guarnigione di Padova. Da Padova si è in un salto a Venezia, e di quei salti il tenente Aldini ne aveva già fatti parecchi. A Venezia, un bel giorno, che è che non è, prese la risoluzione di lasciare il servizio. Lo avevano forse attratto i cavalli di San Marco? Sia lecito immaginarlo, in mancanza di notizie più esatte. Quanto al servizio, lo poteva piantar lì senza scrupolo, non avendo egli presa la via delle armi coll’intenzione di percorrerla intiera. Era ricco, direte. No, non era ricco. Ricchissima era stata la sua famiglia, d’antico ceppo parmense; ricchissima sotto i cessati governi; ma in due o tre generazioni di oziosi aveva trovato il modo di andarsene a rotoli. Il mutuo e l’ipoteca, due invenzioni pestifere! Al conte Filippo Aldini, morto il padre e pagati i debiti della successione, restava appena una tenuta dell’alto Parmigiano, senza ipoteche, grazie al cielo, e che poteva rendere ancora un anno per l’altro le sue ottomila lire. Mettiamo tra restauri e miglioramenti un migliaio di lire: un altro migliaio all’agente, incaricato di riscuotere e di trasmettere; ne avanzavano ancora seimila. Solo com’era, modesto nelle abitudini, temperato nei desiderii, con seimila lire d’entrata poteva campare. Il vivere non era caro a Venezia; ed egli, poi, rinunziava necessariamente al cavallo. La sua esistenza trascorreva placida in apparenza, uniforme e cheta nei suoi andamenti, come una gondola sull’acque morte della Laguna. Giovine di bell’aspetto, intelligente, garbato, serio e discreto, piaceva alle donne, e non dava sui nervi agli uomini come tanti farfalloni vanagloriosi. Aveva le sue rimesse da Parma, pagabili presso il banco Zuliani, e da questa circostanza era nata la sua relazione con Raimondo, che aveva preso a volergli bene assai presto. L’amicizia è come l’amore; nasce come e quando le pare. Del resto, così serio e garbato com’era, l’Aldini non poteva non piacere a Raimondo, che se ne fece tosto un amico, e a breve andare un compagno inseparabile. Raimondo Zuliani aveva l’animo aperto e schietto; quando si dava, si dava intiero. Per contro, aveva l’amicizia invaditrice; l’amico era la cosa sua; se avesse potuto, ne avrebbe fatto il suo schiavo; per intanto lo considerava come il suo alunno, il suo pupillo, il suo fratello minore, a cui egli dovesse dar consiglio, indirizzo, protezione efficace. Con questo suo modo d’intendere l’amicizia, non poteva certamente piacergli molto che l’amico suo, così ricco di belle doti, e così intelligente, non facesse nulla, non si occupasse utilmente di nulla. Filippo Aldini passava, sì, alle volte, qualche ora a dipingere, cieli e marine, casupole e barche di pescatori, su tavolette alte una spanna e larghe in proporzione; un grazioso talento, quello, per farsi merito con qualche famiglia di amici e di conoscenti, che gradisse il presente del bozzettino; ma ci voleva ben altro che quattro fregacci, tirati giù a punti di luna, per diventare un pittore, e metter l’arte a profitto. Leggeva, più spesso, leggeva anzi ogni giorno, riviste, trattati scientifici, romanzi e viaggi; ma a che gli serviva tutto ciò? Leggere le pubblicazioni più recenti, tenersi al fatto delle novità intellettuali, è una bellissima cosa, ma non può dirsi un lavoro; ci si nutre lo spirito, non ci si guadagna un soldo, e troppi se ne buttano via dal libraio. Raimondo Zuliani, che sapeva spendere, aveva anche imparato a guadagnare, e non ne perdeva mai l’uso. Ma infine, egli faceva il banchiere, e i suoi cominciamenti erano stati modestissimi. Poteva forse applicare la sua regola al caso di Filippo Aldini? Anch’egli, finalmente, senza avvedersene, o senza scandalizzarsene troppo, cedeva all’autorità della massima volgare, che un nobile, barone o conte, marchese o duca che sia, non è tagliato pel lavoro fruttifero. Va bene che il lavoro nobilita; ma ciò significa che il lavoro è fatto per chi non è nobile ancora, potendo per contro levare la nobiltà, o per lo meno offuscarla, a chi già la possiede; ragionamento che va, o par che vada, a filo di logica, e non fa neanche una grinza. Un’altra considerazione più seria aveva persuaso Raimondo, chetati i suoi dubbi, i suoi timori di fratello maggiore. Solo al mondo, e modesto nelle sue abitudini, con quelle seimila lire nette all’anno, l’amico suo poteva vivere e fare in società una discreta figura. Non giocasse; era il punto essenziale. Ma l’amico suo aveva in orrore le carte. Così il fratello maggiore uscì d’apprensione, e non pensò più alla utilità d’un proficuo lavoro; egli intanto mulinava altri disegni. Con quella gioventù, con quella bella presenza, con quel titolo, poi, con quel titolo, destinato ad avere il suo valore, specie se titolo autentico, non derivato dal _motu proprio_ di chi ne fa pompa, non c’era caso che Filippo Aldini facesse un bel matrimonio, un matrimonio brillante? Il matrimonio brillante è quello in cui da una delle due parti entrano molti quattrini, a fortificare l’alleanza dei cuori. Raimondo Zuliani, che per sè non aveva preso un soldo di dote, ragionava così per una volta tanto, seguendo l’opinione dei più. Finalmente, si trattava della felicità di Filippo, del suo inseparabile amico, del suo fratello minore; senza contare poi questo, che, felice egli stesso nel matrimonio, avrebbe ammogliato l’universo mondo. Ma dov’era la ricca erede da gittar nelle braccia del suo carissimo Aldini? Non la trovava lì per lì da nessuna parte, e molto meno a Venezia. Qualche grosso patrimonio esisteva ancora sulle Lagune, specie nel ceto patrizio, e le ragazze con una dote vistosa, o con vistose speranze, non ci mancavano davvero. Ma c’era un guaio, che alla perspicacia di Raimondo non doveva sfuggire. Si poteva egli credere che le famiglie patrizie, dai nomi illustri, risalenti alla “Serrata del Gran Consiglio„, sentissero il gusto di rinunziare alle alleanze tra loro, e il bisogno di accettare un “conte di terraferma„ con seimila lire d’entrata? Non di là, dunque, non di là, bisognava orientarsi, e molto saviamente Raimondo ne aveva smessa l’idea. La sposa, per quel conte, doveva venir di lontano alla sua immaginazione sempre sveglia; e doveva venire dopo due anni d’attesa, due anni che infine gli erano serviti per conoscer meglio l’Aldini e per stimarlo di più; tanto in quei due anni l’amico suo aveva guadagnato ancora in serietà, rompendola asciuttamente con certe galanterie da vagheggino, e a grado a grado liberandosi da tanti perditempi del suo primo anno di vita veneziana. Ah, quella figliuola del suo collega di Milano; altro che dote patrizia! E dote e spillatico, e grandi speranze in vista; ci aveva da esser tutto senza risparmio. Il banchiere Anselmo era uomo da milioni; poteva guadagnarne ancora, sebbene avesse ristretta di molto la sua cerchia d’affari; ma appunto perchè l’aveva ristretta, non c’era da temere che ne perdesse. E infine, soltanto tra due figliuoli, Federigo e Margherita, andava spartito il suo patrimonio. Ed era bella, Margherita, il che non doveva guastare; e dotata di un carattere d’oro, senza ombra di vanità, nè d’orgoglio per la bellezza sua, o per le ricchezze della sua casa. Se si fosse potuto combinare! E perchè no? Il banchiere Anselmo era venuto su quasi dal nulla; sua moglie del pari; e formavano una coppia virtuosa, a cui la ricchezza era stata una giusta ricompensa, ma non aveva offuscato il sentimento delle sue modeste origini. Se nutrivano ambizioni, queste potevano risguardare soltanto i loro figliuoli; e già se ne scorgeva un indizio nella carriera scelta da essi per Federigo. E per Margherita? Un titolo, senza dubbio, sarebbe andato benissimo, accompagnato a quel fiore di bellezza e di grazia. E il giovane che portava quel titolo, apparteneva ad una nobiltà di vecchia data; non era neanche un pezzente; non era un vizioso, ma un gentiluomo e un galantuomo a tutta prova. Come avrebbe detto di no il signor Anselmo, trovando un partito sotto ogni aspetto così conveniente? e soprattutto quando la signorina Margherita vedesse di buon occhio il conte Aldini? Ora, di questo il signor Raimondo non dubitava neanche. Gli dava noia piuttosto di non aver pensato prima a quella stupenda occasione, col rischio di lasciarsela sfuggire di mano. Ma a farlo a posta, non che sfuggirgli, l’occasione era venuta incontro al suo desiderio. Bisognava agguantarla pel ciuffo; e Raimondo era stato pronto ad allungare la mano. Così, senza dir nulla ad alcuno, lasciando che ogni cosa andasse da sè, come l’acqua per la sua china, Raimondo aveva condotto all’albergo Danieli il conte Filippo Aldini, presentandolo come il suo migliore, anzi l’unico amico, quasi un altro sè stesso, alle signore Cantelli. Il giovinotto era stato ricevuto benissimo, con un fare alquanto impacciato, ma con evidente bontà, dalla signora Eleonora; con grazia semplice e schietta dalla signorina Margherita. Il discorso, naturalmente, era caduto sul gran numero di belle cose che c’erano da vedere a Venezia. E perchè la signora Eleonora aveva accennato ad una fermata piuttosto lunga, più che giustificata dal desiderio di trattenersi quanto più potesse col suo Federigo, il quale tra non molto doveva imbarcarsi per un viaggio assai lungo, il conte Aldini si prese amabilmente la briga di stendere a voce una specie di elenco, distribuito per settimane, delle gite che la signorina Margherita avrebbe potuto fare, osservando, senza troppo stancare la mamma, tutto ciò che offriva Venezia allo studio di una viaggiatrice tanto intelligente, e capace di gustare ogni cosa notevole nella storia, nell’arte, ed altresì nell’industria paesana. Questa, infatti, non andava trascurata, poichè l’industria era in Venezia una cosa tutta particolare, ed artistica al sommo. E l’aveva tenuta a lungo sospesa alle sue enumerazioni, inframmezzate di giuste considerazioni, di sentenze argute o profonde, passando dall’industria antica alla moderna, che rinnovellava le bellezze dell’antica, ai musaici del Salviati, ai vetri filati di Murano, ai merletti policromi dello Jesurum. Raimondo, nell’atto di discorrere colla signora Eleonora, gongolava in cuor suo di sentire i due giovani chiacchierare con tanta animazione, come se già si conoscessero da un anno. — Ed ora, — pensò egli, — il giovinotto farà la sua corte. Già, la paglia, messa accanto al fuoco, non può far che non bruci. — In quella prima visita si era subito combinata una doppia gita insulare, a Murano ed al Lido; onde la necessità per Filippo Aldini di ritornare la mattina seguente al Danieli, per accompagnar le signore. Aveva fatto da cicerone artista a Murano, da cicerone paesista al Lido, trovando anche il tempo da far da cicerone erudito nell’isolotto di San Lazzaro, in quel celebre convento dei padri Mechitaristi e nella loro famosa biblioteca orientale. Due giorni dopo, faceva la sua terza visita, per condur le signore a vedere qualche palazzo sul Canal Grande; ma a questo giro storico ed artistico bisognava rinunziare, essendo la signora Eleonora leggermente infreddata e costretta perciò a star riguardata nella sua camera. Filippo non ebbe dunque altro da fare che quattro ciarle di passata colla signorina Margherita. Voleva infatti congedarsi presto; ma non ne fece nulla, tanto la conversazione si era animata tra loro. Il discorso era caduto su Parma, dove Filippo era nato, e dove la signorina Margherita aveva passato alcuni giorni in quell’anno medesimo. Che bella città! Quante cose anche laggiù da ammirare! Margherita ricordava quel campanile alto alto, di fianco alla facciata del Duomo, quel campanile che si muoveva, oscillando visibilmente sulla sua base ad ogni rintocco della campana maggiore: poi quel battistero lì presso, così strano coi suoi fregi di marmo, tutti a rilievi di animali simbolici; e il ricco museo, coi bronzi di Velleia, e la biblioteca ricchissima, col Virgilio manoscritto, tutto di pugno del Petrarca, e la pinacoteca maravigliosa, coi capolavori del Correggio. Margherita possedeva un senso squisitissimo d’arte, tale da piacer sommamente a Filippo, che era mezzo pittore; e gli aveva notato, per esempio, nella Madonna detta di San Gerolamo, quella guancia della Maddalena, veduta in iscorcio, resa con tanta delicatezza di tocco, che nessuno, copiando, aveva potuto esprimere fedelmente, nè col pennello, nè col bulino, mai più. Finalmente, passando ad altro, gli aveva toccato della storia di Parma, della famiglia di lui, che vi era stata in grande onore nei secoli andati. Ma come sapeva ella mai tante cose? La signorina Margherita appagò facilmente la curiosità di Filippo. Al babbo avevano proposta la compera di una tenuta sul territorio parmense, verso Montechiarugolo; ed egli, per andarla a vedere e risolversi, aveva condotta con sè la figliuola. Così ella aveva veduto, osservato, studiato tante cose; così del resto ella faceva, dovunque il babbo o la mamma la conducessero. Perciò aveva notato anche il palazzo Aldini, il quale del resto attirava facilmente gli sguardi, con quei due Telamoni di pietra che fiancheggiavano l’ingresso, sostenendo il terrazzino del primo piano. — Ahimè! — sospirò Filippo, — il palazzo da gran tempo ha mutato padrone. Quel che possiedo ancora a Parma è in campagna. — Lo riscatti; — disse Margherita. — È tanto caratteristico! e in una bella strada, presso Santa Lucia. — Filippo non rispondeva altrimenti che con un mezzo sorriso. — Ma sì, — incalzò la fanciulla. — Deve riscattarlo. La casa degli antichi è sacra; se per qualche cagione si è perduta, bisogna riaverla! E per riaverla non c’è che una cosa, volere. — Crede Ella che basti? — Per cominciare, sì; — rispose Margherita; — e “chi ben comincia è alla metà dell’opra„. Le cito un verso, che non so di chi sia; ma è tanto vero! Lo ripete spesso il mio babbo. — Vedrò di volere; — conchiuse Filippo. — Ella mi fa riprendere amore al mio nido. — E pensava frattanto con grata meraviglia alle rare doti di quella ragazza, alla sua serietà di carattere, alle sue cognizioni, alla grazia, alla nobiltà del suo spirito, veramente notevoli. Se alla prima visita egli aveva incantata coi suoi ragionamenti la signorina Margherita, alla terza ella incantava lui. Ma più incantato di tutt’e due sarebbe rimasto Raimondo Zuliani, se fosse stato là, dietro un uscio, a sentirli. — Si va a gonfie vele — avrebbe egli detto tra sè, non senza stropicciarsi le mani. Ma non c’era; e quel giorno, sul tardi, quando Filippo Aldini si recò al palazzo Orseolo per fare la sua visita settimanale ai coniugi Zuliani dopo l’ora del pranzo, Raimondo non ebbe a saper nulla di quel colloquio, che a lui sarebbe riuscito così importante e piacevole. Egli dovette contentarsi di chiedere all’amico dove avesse quella mattina accompagnate le signore Cantelli. — In nessun luogo; — rispose Filippo. — La signora Eleonora era infreddata, ed io mi sono ritirato in buon ordine. — Era poco, era niente; ma Raimondo non aveva ragioni per desiderare di più. — Ebbene, — entrò a chiedere la signora Zuliani, — che impressione le ha fatto la signorina Cantelli? — Impressione! — ripetè Filippo, sconcertato. — Sì, voglio dire come Le è parsa? — Eh, non c’è male. — Ma qui Raimondo aveva dato un balzo sulla scranna. — Non c’è male! Non c’è male! Così te ne sbrighi, assassino? La signorina Margherita è un angelo. — Filippo si strinse nelle spalle, non avendo da dire nè di sì, nè di no. La signora Livia, dal canto suo, si era creduta in obbligo di mettere un sordino alle volate del consorte. — Per sua norma, signor conte, — diss’ella, — mio marito trova angeli dappertutto. — Non dappertutto, — replicò Raimondo, — ma dove sono. E che io me ne intenda è già dimostrato, non ti pare? — Questo vorrebb’essere un complimento. — No, ma una verità sacrosanta. — Così dicendo, il felice Zuliani batteva delicatamente della palma sulla candida mano di sua moglie. N’ebbe un sorriso, il meno che gli si potesse dare in premio della sua galanteria. L’idilio coniugale non giungeva certamente nuovo a Filippo Aldini, che garbatamente levò gli occhi in alto, pensando. Aveva ancor egli il suo piccolo idilio nell’anima; poteva dentro di sè vagheggiarlo. È questo il segreto di molti silenzi, e di molte distrazioni, nell’uomo. Margherita era un angelo davvero, un angelo di bellezza e di bontà. Serena senza sforzo, modesta senza ostentazione come senza scioccheria, sapeva molto e non ne faceva pompa, neanche quando l’occasione potesse giustificare una certa solennità di discorso. Con tanta grazia penetrante, unita ad una così sfolgorante bellezza, colpiva al primo incontro, e colpiva in pieno; bisognava amarla senz’altro. Filippo aveva preso fuoco, necessariamente; ma si era anche saputo dominare, lì per lì, proprio in quel punto, e per le istesse ragioni che lo avevano fatto ardere, alle evocazioni gentili della sua città natale, della sua gente, del suo palazzo, che bisognava riscattare, fortemente volendo. Quel fuoco, a mala pena divampato, si era chiuso nel cuore di lui, per isforzo violento della sua volontà; doveva restar lì, vivo ma cheto, come quello che cova sotto la cenere. E cenere; ahimè, non ne mancava in quel cuore. Fu ancora uno sforzo di volontà la sua risoluzione di non ritornare una quarta volta dalle signore Cantelli? Una simile risoluzione parrà strana, o non parrà, secondo che si consideri il caso di Filippo Aldini. Certo, quando s’incontrano donne come quella, che pareva un angelo a lui non meno che all’amico Zuliani, bisogna amarle senza misura, senza ritegno, da pazzi; e la cosa è chiarissima, perchè di quelle donne non se ne incontrano due nella vita. Ma ancora bisogna fuggirle; e questo non è meno evidente, chi si trovi nelle condizioni di Filippo Aldini. Buon sire Iddio! Se quella angelica creatura è ricca, troppo ricca per noi, non si potrebbe egli credere, nel mondo sciocco e cattivo, che si volesse fare un matrimonio d’interesse, il matrimonio brillante, che sorrideva, per utilità di Filippo, alla ferace fantasia di Raimondo Zuliani? Il conte Aldini non ritornò dunque per la quarta volta al Danieli. O, per dire più esattamente, ci ritornò, colla ferma intenzione di non salire le scale, ma di chieder notizie della signora Eleonora, e lasciare un biglietto da visita, a prova della sua sollecitudine per la salute di lei. La signora, per fortuna, era ristabilita del tutto, e fuori, per l’appunto, in compagnia della figliuola; ottima occasione per lasciare quel biglietto di visita, a testimonianza di un dovere compiuto, e non soltanto del desiderio di chieder notizie. Dopo quel giorno, se s’imbatteva per via nelle signore Cantelli, faceva un gran saluto, e magari una fermatina di convenienza, per barattar quattro parole, non osando accompagnarle, nè offrirsi in nulla al loro servizio. Naturalmente, la signora Eleonora non gli chiedeva: “perchè non vediamo più il nostro cicerone, così garbato e così utile nei primi giorni che l’abbiamo conosciuto?„ Nè questo, nè altro di simile, si poteva dir mai; che sarebbe stato sconveniente, come se davvero le signore avessero creduto di prendere ipoteca su lui; e d’altra parte, come sappiamo, la signora Eleonora stava sempre un pochino in sussiego, facendo meno parole che le fosse possibile. Pareva orgogliosa, con quella sua aria e con quella sua andatura intirizzita. Nel fatto era una creatura di mediocre istruzione, ma di grande buon senso; e taceva molto, temendo sempre di dir qualche cosa che non fosse a punto e virgola. Donna rara! Occupatissimo al suo banco in quella fin d’anno, Raimondo Zuliani non aveva chiesto, nelle sue rare e brevi apparizioni al Danieli, se l’amico Aldini fosse assiduo al suo ufficio di cicerone. Si meravigliò forte quando sentì finalmente che non si lasciava veder troppo. Oh, ma ci avrebbe messo buon ordine lui. Perciò quell’alzata d’ingegno del brindisi; e l’aveva rinfrancata con altri argomenti, scendendo le scale del palazzo Orseolo, per accompagnar le signore Cantelli fino all’imbarco. Là, alla svolta d’un pianerottolo, prendendo pel braccio il suo Pilade, gli aveva bisbigliato all’orecchio: — Senti, o la sposi, o non ti conosco più per amico. — IV. Batti il ferro mentre è caldo. Alla signora Zuliani accadde di respirare più liberamente, quando l’ultimo de’ suoi convitati ebbe preso congedo. Anche quella noia era dunque passata, e bisognava renderne grazie al cielo. Le restava, nel ritirarsi ai dolci riposi, una piccola curiosità, tutta femminile; sapere che cosa mulinasse Raimondo, con quelle sue tenerezze per le signore Cantelli. Aveva egli bisogno di entrar maggiormente in grazia al collega di Milano, per agevolarsi qualche grossa operazione bancaria con lui? Non era da crederlo. Raimondo si sentiva forte abbastanza da spiccare ogni volo più ardito; non era più nella condizione di cinque o sei anni addietro, quando aveva passato quel brutto quarto d’ora a cui per l’appunto egli si riferiva due giorni prima discorrendo con lei. Si trattava dunque d’un sentimento di gratitudine? Forse sì, quantunque paresse un po’ spinto; fors’anche era da vederci il proposito di compensare la freddezza di sua moglie verso quelle care viaggiatrici, che volevano metter le barbe a Venezia. Altro, del resto, non c’era, non ci poteva essere; e se fosse stato, bisognava riderne, come d’un sogno ad occhi aperti. Quel brindisi, veramente, avrebbe potuto dar da pensare. Ma infine, la curiosa manìa di ammogliare l’universo mondo era antica nel suo signore e padrone: quante volte, infatti, non gli era accaduto di prodigar consigli ed esortazioni di quel genere a chi mostrava di non volerne approfittare? Quella notte la esortazione era stata più calda; ma che cosa non fa un bicchiere di più, tracannato in allegra compagnia? e in particolar modo di Sciampagna, che è vino tenero, se altro fu mai, e singolarmente propizio alle effusioni dell’anima? Quanto a Raimondo, egli sapeva bene una cosa; che la sua Livia non poteva soffrir le Cantelli. Ma perchè? Non riusciva ad intenderlo. Margherita era una così buona e cara fanciulla! Che ci fosse per avventura da vedere un pochino di quella gelosia naturale, irriflessiva, involontaria, che nasce così spesso tra donne? Ma la sua Livia avrebbe avuto un gran torto a provarne la più lieve puntura; lei così bella, e d’un altro genere di bellezza, fine, delicata, aristocratica al sommo. Quando ella appariva nel suo palchetto alla Fenice, o nella sala dei concerti al Liceo Marcello, l’accoglieva sempre quel fremito d’ammirazione che dice ad una bella assai più di cento sonetti e di mille madrigali. Ma che gelosia d’Egitto! Non era da pensarci neanche. Piuttosto l’antipatia per la vecchia? Ma quella era una povera donna, contegnosa senza saperlo, intirizzita senza volerlo. E poi, che noia le davano, alla sua Livia, due visitine a tempo e luogo, con qualche invito a pranzo, o a teatro? Non dovevano poi far vita insieme. Così l’aveva sopportata il marito, e per un quarto di secolo oramai, quella contegnosa e taciturna signora: non poteva sopportarla lei per uno o due mesi? Comunque fosse, dopo averci pensato più lungamente che non portasse il bisogno, Raimondo scosse il capo e le spalle; segno che voleva gittare un carico importuno ed inutile. E tacque delle signore Cantelli a colazione, e ne tacque a pranzo; tacque soprattutto, poichè l’argomento non sarebbe piaciuto, tacque di essere stato poco prima al Danieli per ringraziar le signore una volta ancora, e di aver fatto, contro l’uso suo, una visita lunga. Venne la sera, e Raimondo offerse alla sua Livia di accompagnarla a teatro. Ma ella si sentiva ancora un po’ stanca della notte perduta; cinque ore di sonno in giornata non erano state riparatrici abbastanza; lo specchio, poi debitamente interrogato, le aveva fatto scorgere un po’ di livido intorno ai begli occhi glauchi, e tra gli occhi e le guance due pieghettine, due cose da nulla, ma ad ogni modo, e comunque attenuate da cortesi eufemismi, due borse. Piccolo guaio delle bionde, che sogliono avere la pelle più tenera. Si vedrà? Non si vedrà? Nel dubbio, la bella bionda si astiene. Raimondo uscì, per far quattro passi: un’ora dopo era già di ritorno, con un fascio di giornali, che prese a leggere, facendone parte di tanto in tanto a sua moglie; per le notizie d’arte e di cronaca, s’intende, che la politica non era nelle grazie della bella signora. — Strano! — diss’ella in un momento di sosta del suo cortese lettore. — Il tuo signor Filippo non si lascia vedere da noi, nel primo giorno dell’anno nuovo. — O come? — esclamò Raimondo. — Non c’era stamane, avendo cominciato l’anno da noi? Del resto, ricordo di aver ricevuto un suo biglietto di scusa, e di scusa legittima. — Così dicendo, trasse di tasca una lettera e la pose sulla tavola, davanti a sua moglie. Livia la prese, dopo alcuni minuti secondi; l’aperse con atto lento e svogliato; finalmente la lesse. Erano pochi versi di scritto e dicevano così: “_Caro Raimondo_. “Vorrei venire oggi al tuo banco, per darti ancora un saluto; ma ho un gran sonno, un gran sonno. Chiederai perchè io non abbia dormito stamane appena arrivato a casa. La rea cagione è questa, che ho trovato a casa un telegramma da Verona, un telegramma di due vecchi amici, di due commilitoni, che mi annunziavano la loro venuta, e per l’appunto in giornata, volendo passare a Venezia tre o quattro giorni della loro licenza. Li ho sulle braccia, e mi è toccato dar ordini per preparar loro l’alloggio nel mio modesto quartierino. Stasera debbo andarli ad aspettare alla stazione; per intanto vo a letto, che l’ho ben guadagnato. Di tutto cuore, addio; ossequj ed augurj senza fine alla tua Signora. _Filippo_.„ Il biglietto dell’Aldini, così innocente nella sua semplicità, aveva già seccato non poco Raimondo Zuliani. Quei due amici, e vecchi commilitoni, proprio non ci volevano; guastavano infatti, o potevano guastare tutti i disegni ch’egli aveva formati in quei giorni. Con due vecchi commilitoni sulle braccia, ed ospiti per giunta, come sarebbe riuscito Filippo a far la sua corte? Ed era urgente di farla; bisognava battere il ferro mentre era caldo. A farlo a posta, quel caro Filippo era un così strano ragazzo! Aveva preso fuoco e levata come si suol dire la fiamma; poi giù tutto ad un tratto, come se fosse stato un fuoco di paglia. Strano ragazzo! Ma occorreva avere senno per lui. — E così, vedi, non ha potuto venire; — disse Raimondo, poi che sua moglie ebbe deposta la lettera. — Ci ha ospiti. — Peccato! — esclamò la signora. — Appunto per questa sera gli si sarebbe potuta dare la chiave del palco, per poterli condurre alla Fenice. — Un palco di seconda fila, per uomini, eh, via! — osservò Raimondo. — Non l’hai voluto mai cedere per le signore Cantelli!... — Oh, quelle son ricche, e possono provvedersi. — Pazzerella! Quando hai qualcheduno in uggia!... — Ma che! ora tu esageri, secondo l’uso; — notò la signora. — Di’ piuttosto che non sento il bisogno di buttarmi nelle loro braccia. La signora Eleonora, con quella sua mutria, per esempio, non è proprio fatta per attirarmici. — Raimondo sorrise a sua moglie, e un pochettino anche a sè. — Dicevo bene, — pensò egli, — che non era per la figliuola. Ma quella povera signora Eleonora, com’è mal giudicata da mia moglie! Con tutto il suo sussiego apparente, è la miglior pasta di donna che si possa immaginare. E se Livia sapesse ancora.... Ma acqua in bocca per ora, ed ogni cosa al suo tempo. — Quella sera la signora Livia si ritirò presto nelle sue stanze. Il ricamo turco, che aveva tentato di ripigliare, le dava noia; ed anche le occorreva pensare ai suoi poveri occhi, che volevano il giorno dopo essere in ordine, freschi come rose. Raimondo stette ancora un pezzo alzato, e passò il resto della lunga serata casalinga, in parte ripassando conti, in parte scrivendo minute di lettere d’affari, da trasmettere la mattina seguente al signor Brizzi. E tenne i suoi bravi segreti in corpo, diventando un miracolo di prudenza diplomatica ai suoi occhi medesimi. Così, grandemente soddisfatto di sè, dormì quella notte veramente di gusto, sognando di aver tutti dalla sua, la signora Eleonora e il banchiere Anselmo, e di unire in matrimonio quell’angelo della signorina Margherita col suo caro Filippo, col suo dolce pupillo, col suo fratello minore. Lo incontrò il giorno dopo, tra il tocco e le due, presso la Torre dell’orologio, mentre egli, ritornato da far colazione, rientrava al suo banco. Filippo Aldini era solo. — Oh, bravo! — gli disse. — Ho il piacere di combinarti. E i tuoi amici di Verona? — Li ho lasciati poc’anzi; — rispose Filippo. — Sono andati a fare il giro del Canale, che iersera arrivando non hanno potuto godere. Quanto a me, capirai, dopo tanti anni di barchettate.... — Hai l’acqua fino alla gola, t’intendo; e li hai lasciati andar soli, per rivederli più tardi? — Sì, abbiamo preso appuntamento per le quattro; — disse Filippo. — Se credi, — ripigliò Raimondo, — puoi condurli questa sera da noi. I tuoi amici sono i nostri. — Grazie, no, grazie; — rispose prontamente Filippo. — Per dirti il vero, sono un po’ orsi. — Ufficiali di cavalleria, — notò Raimondo stupito, — commilitoni tuoi, e tanto diversi da te? Basta, non insisterò; tu devi sapere ciò che è più conveniente. Parliamo di ciò che importa. Sei libero? — Sì, fino alle quattro, ti ho detto. — Bene; allora accompagnami al banco. Si discorre male, per via. — L’Aldini capì benissimo dove Raimondo volesse andare a parare, e si adattò a seguirlo. Del resto col suo prepotente amico non si poteva fare altrimenti. Come furono al banco Zuliani, e ben chiusi nello studio di Raimondo, questi incominciò allungando la mano sulla scrivania, e facendo scivolare verso l’Aldini una scatola di lacca giapponese, aperta, e piena di spagnolette. La seduta voleva esser lunga. — Siedi, mio caro; — disse Raimondo. — Qui sono Tokos, Giubbeck, Delizie del Serraglio, ecc., ecc. “Scegli qual più t’aggrada„. — No, grazie, non fumo; — rispose Filippo. — Ma tu hai da dirmi.... — Oh, tante cose. E prima di tutto ho da chiederne una a te. Come sei rimasto contento ieri mattina del tuo ufficio di accompagnatore? — Contento? di un dovere compiuto? — disse Filippo. — È così semplice, poi. In gondola, quattro chiacchiere senza costrutto, molti elogi alla tua cena sontuosa; e finalmente, alla Riva degli Schiavoni, ossequj e riverenze. — Nient’altro? — Nient’altro. — Male; — conchiuse Raimondo. — Avevi da promettere una visita, chiedendo se le signore avevano bisogno di te, per qualche gita qua e là, che tu saresti stato felicissimo di metterti a loro disposizione. Ma che razza di cavaliere mi sei tu diventato? — Hai ragione, dovevo pensarci. Ma che vuoi? Questo costume di buttarmi avanti, io non l’ho avuto e non l’avrò mai; colle signore Cantelli, poi, meno che mai. — E perchè, di grazia, perchè con esse meno che con altre? Avevi pur cominciato, se non a buttarti avanti, come tu dici, a fare almeno qualche atto di servitù! — Vero; — disse Filippo. — Eri tu che mi avevi messo dentro; ed io mi sono trovato al laccio senza volerlo; ma poi ho pensato.... ho pensato che non dovevo continuare, che non potevo restare in quell’ufficio di accompagnatore eterno, senza lasciar credere alla gente, e prima di tutto alle signore Cantelli, di averci le mie ragioni particolari.... M’intenderai, senza che io te ne dica di più. — È un buon sentimento; — concesse Raimondo. — Ma non bisogna esagerarlo. Sentimi, caro; perchè tu ami la signorina Margherita.... — Non ho confessato questo; — interruppe Filippo. — Ma va da sè. Come puoi non amarla? Come si può non amarla? — Sentimento generale, allora; — rispose Filippo. — È dunque molto generico, e impegna poco. — No, caro; — riprese Raimondo. — Tutti debbono amarla, vedendola; ma uno è destinato ad amarla per tutti, avendo occasioni di avvicinarla, e ragioni di piacerle. Sei tu, assassino, del “non c’è male„, sei tu che la fortuna ha privilegiato; sei tu che hai ricevuto il colpo mortale. Tu dunque l’ami, è valuta intesa. Ma se te lo leggo in faccia! Sei tanto turbato a sentirne parlare! — Filippo chinò la fronte, confuso. Troppo bene l’amico gli aveva letto negli occhi, meglio che non s’immaginasse egli stesso. — Ma ti ho già detto che non voglio essere sospettato; — rispose Filippo dopo un istante di pausa. — Quella donna, se fosse vero quello che tu pensi di me, sarebbe sempre troppo ricca. — Non c’è altro? — disse Raimondo. — Mi pare che basti. — E tu non potrai chiedere la sua mano, capisco. Ma se un altro la chiedesse per te? Io, per esempio. — A quella uscita improvvisa, l’Aldini balzò sulla scranna. — Spero bene che non lo farai; — diss’egli concitato. Ma quell’altro non si scompose punto; anzi, guardando placidamente in viso l’amico, ripigliò: — E se lo avessi già fatto? — Tu? — gridò Filippo, impallidendo. — Io, sì; che ci trovi di strano? Più strano fu il tuo “non c’è male„, mentre io avevo avuto il piacere di vederti così animato nella tua conversazione con quella cara fanciulla. — Infastidito da quel ricordo, e da altri ancora, Filippo Aldini crollava il capo e batteva le labbra. — Rinfacciami sempre una frase disgraziata! — diss’egli. — Dovevo rispondere che è un sole? che è un angelo? — Eh, perchè no? L’avevo ben detto io, che pure amo mia moglie, e non conosco altra donna da metterle in paragone; potevi dirlo tu, che sei libero. — Filippo rimase un tratto in silenzio, cercando argomenti che non volevano lasciarsi trovare. Infine, di guerra stracco, girò di fianco il punto difficile, ritornando alla sua prima linea di difesa. — Sei curioso, col tuo modo di ragionare! — riprese. — Orbene, se pure avessi pensate tutte quelle belle cose, dovevo io dirle, lasciando scoprire Dio sa che orgogliose intenzioni? Dovevo in quella vece pensare che sarebbe stato un errore avanzarmi nella regione dei sogni. E mi son castigato, se mai, di un sogno pazzo, come quello che tu vorresti fare per me. Ma ti pare? Io, non sospettato finora, non sospettabile di calcoli così vili?... Dunque ti prego, Raimondo, non mi parlar più del tuo sogno, e tralascia i buoni uffici che vorresti fare per me. — Ti ho detto che ho già aperto il fuoco. — Con lei? — Con lei, no, con sua madre. Ma, per quello ch’io ne so, dev’essere tutt’uno. — Tutt’uno! Che cosa ne sai? — Questo, che la signora Eleonora ti vede di buon occhio, e ti stima moltissimo; intendi? moltissimo; è stata la sua parola. E aggiungo che la signorina Margherita ti ha lodato come un cavaliere compito, il primo ch’ella abbia ancora conosciuto, per ingegno, per cultura, per serietà, per buon gusto; e ti fo grazia del resto. — Filippo si era lasciato andare, come sfinito, contro la spalliera della scranna; aveva arrovesciato il capo, e ad occhi chiusi meditava. Che cosa? Forse le parole di Margherita; forse la gravità del suo caso. Ah, quel prepotente Raimondo! faceva come voleva, senza chieder permesso, senza avvisare, e metteva lui negl’impicci. Intanto, il prepotente Raimondo proseguiva la sua narrazione. — Tornando alla signora Eleonora, le ho parlato a cuore aperto, esponendole la mia idea. S’intende che non potevo darla intieramente per mia, e che dovevo lasciarla credere un po’ tua, anzi molto tua. Se ho fatto male, se ti ho compromesso, accoppami, o perdonami; ti lascio la scelta. Ma tu lasciami aggiungere che la madre è tutta per te; l’hai conquistata, pare. La buona signora, che tutti credono così orgogliosa, così piena di sè, è nel fatto una donna di gran buon senso, semplice di gusti e dotata di un ottimo cuore; non mi ha fatto altra osservazione che questa: “bisognerà parlarne a mio marito; ogni cosa dipende da lui„. — Ah, vedi? — gridò Filippo scuotendosi. — Ecco qui, dove incomincia il difficile. — Raimondo gli rispose a tutta prima con una spallata. — Ma che difficile! — soggiunse poscia. — Che difficile mi vai tu sciorinando? Conosco l’uomo; è ragionevole, un vero filosofo, e pensa che la boria dei quattrini va lasciata agli sciocchi. Figùrati che al suo paragone io sia un mostro di superbia. Egli dunque non farà questione di denaro, te ne sto io garante. E poi, che si canzona? un partito come te non si trova ad ogni cantonata. Non ne convieni? Hai torto. Lascio stare la tua persona, per non offendere la tua modestia; le tue doti morali, non le vuoi mettere in conto? E il tuo titolo, che ha pure il suo prezzo? Non sei ricco; ma sei pieno d’onore. E poi, che cos’è questa ricchezza? Da dove si comincia a calcolarla? Tu hai finalmente dugentomila lire al sole. — Dugentomila! — ripetè Filippo, tentennando la testa. — Al quattro per cento, sicuro; — replicò Raimondo. — La tua piccola tenuta non ne rende forse ottomila? E ancora, se Dio vuole, sarà governata alla diavola, sfruttata in prima mano dal fattore, e in seconda mano dall’agente. Ci campano tutti, e non migliorano il fondo. Questo, frattanto, vigilato un po’ meglio, può rendere dieci, dodicimila lire; ed allora tu ne possiedi trecentomila, sempre al quattro per cento. Potrai dunque garantire la dote di tua moglie, se, puta caso, la batterà dalle dugento alle trecentomila. Meglio ancora; quella dote, da uomo serio, tu non la sciupi; puoi convertirla subito in terre, allargando, raddoppiando il tuo fondo. E se ciò non basta, se la dote è più vistosa ancora, non sono qua io per far fronte? — Tu? — disse Filippo, arrossendo fino alla radice dei capelli. — Io, sì, io che son ricco, e per una volta tanto me ne voglio vantare; io posso aggiungere che tu hai, depositate al mio banco, centomila lire in cartelle di rendita. — Una bugia! — esclamò Filippo, torcendo le labbra. — No, caro; dipende da me che sia una verità. Tu non conosci l’amico tuo, lasciatelo dire; non sai fin dove, al bisogno, egli porti l’amicizia, e come la intenda. Ti parlo solenne, vedi? Ma tu mi trascini pei capelli. Sono senza figli; Dio non mi ha concessa questa felicità.... se pure si ha da crederla tale; — soggiunse Raimondo, cercando consolazione dove poteva; — e poco sarebbe per me il perdere quella somma. — Non permetterò che tu ne corra neanche il pericolo. — Ma non la perderò; — riprese Raimondo, — poichè rimarrà nella mia cassa forte. Se tu m’annoi, bada, dirò che il tuo deposito è di dugentomila. Infine, senti, non mi far pena coi tuoi rifiuti, più orgogliosi che tu non pensi, più orgogliosi del sogno che non osavi fare, e di cui ti volevi castigare. Voglio il tuo bene; voglio vincere; Margherita è un angelo, e deve esser tua. Sono impegnato, dopo tutto; che figura farei, se dovessi rimangiarmi quello che ho detto? Sii ragionevole, amico; obbedisci a chi ti ama, e non lo far passare per un burattino. — Filippo Aldini era stato lungamente zitto, come oppresso da quella valanga di ragioni, di esortazioni, di prepotenze. Ma bisognava rispondere qualche cosa; Raimondo era in attesa, smanioso, incalzante, con la tensione dello sguardo e col fremito delle labbra. — E allora.... — chiese Filippo, esitando, — dirai alla tua signora.... — Che c’entra lei? — gridò Raimondo, inarcando le ciglia dallo stupore. — C’entra benissimo; — rispose Filippo, questa volta con accento più risoluto, staccando le frasi e battendo le sillabe. — La moglie è ricca di ciò che possiede il marito. E tu dovrai dirle che mi vuoi far ricco d’una parte, sia pur piccola, del tuo, e che io ho accettata l’offerta. Che cosa penserà ella? Che io sono un matricolato furfante, entrato destramente nelle tue grazie, in veste di amico sincero, coll’idea di accostarmi alla cassa. Infine tutto ciò che dovrei fare per compiacerti, mi diminuisce nella mia propria stima. Come oserò andare dalle signore Cantelli, dopo quello che hai detto alla signora Eleonora? Come oserò mettere ancora il piede in casa tua, dopo quello che dirai alla signora Zuliani? — Oh Dio! — esclamò Raimondo, che incominciava a sentirsi scappar la pazienza. — La signora Eleonora sa da me che saresti andato da lei, e mi ha mostrato di gradire assai la tua visita. Non puoi farne di meno, senza passare per uno screanzato. Quanto allo scrupolo che hai per la mia cassa, siccome è una probabilità molto lontana che io debba fare al banchiere Cantelli il discorso che ti avevo accennato, è chiaro che io non ne debba parlare a nessuno, e molto meno a mia moglie, colla quale, del resto, io non ho mai discorso d’affari. Per tua norma, la casa e la cassa le ho sempre tenute separate; è l’unico modo perchè non si diano noia a vicenda. Sei contento? Non ancora, mi sembra. Ebbene, ritiro, se vuoi, mi rimangio l’idea di esserti utile al bisogno col mio denaro, che finalmente non avrei dovuto neanche metter fuori. Ti va, benedetto ragazzo? Ecco adunque appianata la gran difficoltà. L’essenziale è che tu vada dalle signore Cantelli. Faccio, se tu non vai, una figura barbina; e non la merito, com’è vero Dio, non la merito. Ma vediamo di appianare anche questa; — soggiunse Raimondo, cavando l’orologio per guardar l’ora; — sono le due e mezzo in punto; non hai da vedere i tuoi commilitoni prima delle quattro. Di qui in un volo siamo a San Marco; in un altro al Danieli, e facciamo questa visita insieme. Filippo Aldini chinò la fronte rassegnato. Era preso, come in una morsa, dal suo prepotente amico. E lo seguì in istrada; ma non fu necessario di fare i due voli che Raimondo annunziava, perchè, riusciti dalla via del Telegrafo all’imbocco delle Procuratie, incontrarono le signore Cantelli davanti alle vetrine del Munster. La signorina Margherita andava per l’appunto dal libraio, in cerca di un’opera recente che desiderava di leggere. Qui, dunque, saluti e fermata; comperato il libro, e mandatolo all’albergo, le signore avrebbero fatto volentieri quattro passi per le viottole. Accompagnate, non temevano più di smarrirsi. — Vi lascio il mio amico; — disse Raimondo. — Io mi ricordo di avere ancora una lettera da scrivere, per impostarla prima di sera. — E se ne andò, felice, rifacendo la strada verso il suo banco. Il merlo finalmente era in gabbia. — Ce n’è voluto, — pensava Raimondo, — ce n’è voluto, con quel cercatore di gretole. Ma vedete un po’ come sono diversi gli uomini! C’è chi arraffa di qua e di là, e chi tiene costantemente le mani in tasca. Uno v’insidia giorno e notte la borsa; un altro, a cui la offrite, ve la sbatte signorilmente sul muso. Vogliamo credere che ci siano due razze umane, in natura? Ho letto non so più dove che ci furono uomini prima di Adamo sulla faccia della terra, e che ciò apparisce anche dal racconto della Bibbia. Dunque diciamo Adamitici gli uni, discesi dalla semenza di Adamo, e Preadamitici gli altri che non si sa donde siano mai capitati. Basta, andiamo a scrivere questa lettera, la quale mi par più che mai necessaria. Se, Dio guardi, la signora Eleonora non è forte di scrittura, mi lascia qualche cosa nella penna, non dicendo al signor Anselmo degnissimo tutto quello che occorre. Qui bisogna battere il ferro mentre è caldo. E tu passeggia, passeggia colle signore, mio preadamitico eroe. — Filippo Aldini passeggiò infatti, e più lungamente che non prevedesse Raimondo. La signorina Margherita voleva osservar tante cose, ed era così lieta di assistere a tante gustose scenette di vita popolana! In verità, non si era mai divertita tanto come in quelle due ore. Peccato che fossero calate le ombre della sera, nell’inverno così fastidiosamente sollecite, per interrompere quella passeggiata piacevole e per rimandar lei con la mamma all’albergo. Ad ogni modo, erano già le cinque suonate quando Filippo si congedò all’ingresso del Danieli, ringraziato con effusione della sua gentil compagnia. E i due commilitoni che lo aspettavano alle quattro? Filippo non ci pensò nè punto nè poco. Esistevano poi davvero, quei due? V. Natura ed arte. Filippo Aldini era rimasto finalmente libero, reso alla solitudine de’ suoi pensieri. Solitudine, non quiete; tanto la giornata era stata piena di commozioni per lui. Nè l’agitazione del suo spirito si chetò così presto, che non passasse ancora gran parte della notte insonne. Quante novità! e come, senza volerlo, senza prevederlo, si ritrovava egli lontano in poche ore dai forti propositi in cui gli era parso di non dover vacillare nè allora nè mai! Oh, infine che cosa poteva egli rimproverarsi? Raimondo aveva proposto e disposto, premeditato, combinato e conchiuso. Anche conchiuso? Almeno pareva; e dal modo come il suo prepotente amico aveva condotto fino a quel punto il negozio, era da credere che tutto oramai dovesse andargli a seconda. Che cosa valevano contro quell’audacia fortunata le ragioni di Filippo? Ed erano ragioni? Scrupoli, sì; e parecchi, e d’indole diversa. Ma non appariva in tutto ciò la mano del destino? I fati, fu detto dagli antichi, conducono i volenti, ma ancora e più trascinano i restii; che serve dunque il ribellarsi? Nel fatto, egli era innamorato di Margherita più che non avesse lasciato dire da Raimondo, più che non avesse fin allora voluto confessare a sè stesso. Aveva ricevuto il colpo fatale fin dalla prima volta che la divina fanciulla gli era passata davanti agli occhi, con la mamma e con Raimondo Zuliani, sotto le Procuratie Vecchie, mentre egli stava per uscire dal Florian. L’aveva veduta fermarsi in piazza San Marco, alla solita scena dei colombi, che è il trastullo di tutte le signorine e di tutte le spose novelle appena giunte a Venezia. Alta e snella, con quella massa di capelli nerissimi che facevano spiccar maggiormente il candore perlaceo del viso; nettamente disegnata la flessuosa persona in mezzo a quello sciame di volatori, che le roteavano sul capo, o intorno alle spalle, quali avventandosi alle sue candide mani colme di grano, quali fermando il volo sulle sue braccia, per aspettare la volta loro; pareva una bella ninfa antica per “nuovo miracolo e gentile„ rivivente ai dì nostri, forse indegni di tanta fortuna. E poi, due giorni appresso, quando meno se l’aspettava, le era stato presentato. L’aveva veduta da vicino; era stato costretto ad osservarla. Che grazia ingenua, su quel labbro! che nobiltà serena, in quell’occhio luminoso, sotto le ciglia lunghe più nero e più lampeggiante! in quella linea delicata del profilo purissimo, e in quella compostezza leggiadra della persona! Non più una ninfa antica, ma una dea veramente. Diana, o Minerva? C’era molto dell’una e dell’altra in quella stupenda figura, nel portamento, negli atti, nella espressione del volto. Quei benedetti artisti greci, che avevano foggiate tante divinità femminili, deliberatamente chiusi nella ricerca di un’immagine spiccata, conforme al tipo che dovevano raffigurare, non avevano mai pensato a fondere in uno i due tipi, della bellezza rigidamente casta, sempre un po’ acerba, quasi selvaggia, e della bellezza intelligente, più serena e più dolce. Sicuramente, quegli artefici insigni avevano cercate altre espressioni, plasmando altri simulacri di dee; ma tutte semplici, d’un carattere unico: Cerere, ad esempio, faccia contenta di buona massaia, colle pupille a fior di testa e colle palpebre abbassate, come a raccoglier lo sguardo sulle cose della terra; Giunone, maestà consapevole, cogli occhi bovini, che non andavano più là dalle bianche braccia, ond’ella era sempre stata orgogliosa. Quanto a Venere, celeste o terrestre che fosse, uscita appena dalla spuma del mare, o dai lavacri d’un bagno tiepido, era sempre la imagine di una donna, che doveva parlare ai sensi il linguaggio della bellezza; linguaggio possente, a cui non occorrono profondità di pensiero. Quante sottigliezze! Ma gli passavano per la mente; e bisognava dirle, e bisognerà perdonargliele. L’Italiano, finalmente, imbevuto di classico latte, ha queste cose nel sangue. Margherita, agli occhi di Filippo Aldini, era bellezza perfetta di forme, avvivata da un lume ideale che prometteva tesori d’intelligenza elettissima. E l’amava, l’amava, con tutte le potenze dell’anima. L’amore è così; viene quando vuole, e quasi sempre contro il nostro volere. Avete formate le vostre abitudini; il vostro genere di vita, vi paia buono o mediocre, vi si adatta al raziocinio, come alla persona un abito vecchio: stimate di esser calmo, tranquillo, immutabile nei gusti e nelle consuetudini, perchè da un pezzo non avete avvertita la necessità di nessun cambiamento. Ed ecco, passa l’ignota sul marciapiede, arresta con uno sguardo distratto e fuggevole il vostro occhio abbagliato, v’inonda della sua luce, vi penetra del suo fluido magnetico, vi rende di punto in bianco tutt’altro da quello di prima. Buon per voi, se sono in quella imagine vittoriosa uniti i due tipi celesti, Diana e Minerva, casta bellezza e intelletto sovrano. Quantunque, armate come sono ambedue, non c’è da star troppo allegri; fanno due ferite ad un tempo. Nondimeno, se era stato colpito, Filippo Aldini si era anche e presto riavuto del colpo. Gran forza d’animo, la sua; per quanto, a guardarci bene addentro, sentisse di non averne gran merito. Un vecchio proverbio veneziano gli significava per l’appunto il vero della sua condizione: “per forza, San Marco!„. E aveva creduto di dire ogni cosa, di difendersi bene, ripetendo a sè stesso: è troppo ricca. Ma anche questo non senza impeti di ribellione in fondo al cuore. O Dio, perchè una donna è troppo ricca, bisognerà dunque odiarla? Ma c’erano altre ragioni, purtroppo; tanti sono i fili che ci muovono, o che non ci lasciano muovere, ingarbugliandosi maledettamente tra loro, e togliendoci ogni libertà di operare. Dunque, nessun passo oramai, che non fosse per dare indietro. E per fortificarsi in quel duro proposito aveva fatto quest’altro ragionamento, che era una consolazione, in verità, ma una consolazione di dannato. Ebbene, diceva egli, l’ho veduta, l’ho ammirata, l’ho tutta raccolta in me, questa bellezza trionfante; le dedicherò un culto severo nel profondo dell’anima. E vecchio, gelato il sangue nelle vene, ma non offuscata nel cervello la memoria degli anni vissuti, potrò dire a me stesso con legittimo orgoglio: veramente son nato in un felice periodo della vita del mondo, che m’ha fatto contemporaneo d’una bellezza così nobile e cara. Niente più visite, adunque; ma dentro di sè gli pareva di essere diventato un altr’uomo. Avrebbe chiuso il suo cuore, lo avrebbe sigillato come una fiala di essenze odorose. Più nulla avrebbe concesso al mondo circostante, se non la parte più vana di sè; stoicamente chiuso ai profani avrebbe serbato il sacrario dell’anima sua dolorosa. La tristezza, infine, non nuoce; pari a certe acri sostanze, profuma e custodisce tutto ciò che involge e compenetra. Filippo ne aveva già conosciuto qualcheduno, di quegli uomini misteriosi, ai quali è custodia e nutrimento un celato dolore, e che, calmi nell’aspetto, cortesi senza condiscendenze alle altrui leggerezze, interamente padroni di sè medesimi, passano e lasciano sul loro cammino un tenue solco di luce, un bagliore incerto e discreto, che li rivela e li nasconde ad un tempo. Disegno triste e caro, per tanti giorni vagheggiato nell’anima, com’eri ad un tratto svanito? Raimondo voleva; Raimondo aveva mutato ogni cosa, disfatto il faticoso edifizio di Filippo in un soffio. Era il destino, e Filippo si lasciava trascinare dal destino. Aveva egli poi modo di operare diversamente? I due terzi della notte erano stati passati da lui a meditare, a combattere, a fremere di cento scrupoli, di cento rimorsi. Nessuno scampo, nessuna difesa; era il destino, che voleva così. Filippo se lo ripetè cento volte, dopo aver cento volte rivoltato per ogni verso il suo caso di coscienza. Non ci voleva oramai pensar più. E qui, o per istanchezza che sentisse, o per senno che avesse fatto, si addormentò finalmente. Si addormentò, dunque, ma il suo sonno non potè andare tant’oltre, che non fosse visitato da un sogno. Aveva meritato di farlo piacevole, dopo tanti contrasti; e veramente il suo sogno fu tale, ch’egli non avrebbe potuto desiderarlo migliore. Filippo era solo, tutto solo, in una barca senza vela e senza remo; e andava tuttavia, scivolava sull’onde verso il mare alto, a lume di sole mattutino, entro una massa leggera, trasparente, formata di rosei vapori, lasciandosi indietro un fitto velo di tenebre. Non si voltava a guardarle, quelle tenebre dense; le sentiva alle spalle, gravide di tempesta, sibilanti, piene di mostri, di gòrgoni e di chimere; e le cacciava col pensiero da sè, a grado a grado allontanandosi, sempre più immergendosi in quella nebbia rosata e luminosa, che attenuandosi via via gli faceva balenare allo sguardo i vaghi contorni d’una riva lontana. La barca scivolava, volava sulle spume, già era fuori d’ogni pericolo. Ma c’era egli stato, il pericolo? Egli non ne aveva, a dir vero, un’idea molto chiara. E la riva lontana si avvicinava, pareva correre incontro a lui, quanto più volava la barca prodigiosa sulle acque tranquille, senza aiuto di vela, senza impulso di remo. Già una forma gentile si disegnava tra quei tenui vapori rosati; si veniva condensando ad occhi veggenti in persona conosciuta; alzava il braccio, stendeva la mano per dargli il benvenuto, mentre una vocina soave, uscita dal suo labbro vermiglio, gli echeggiava per tutti i recessi dell’anima: “Ah, finalmente, ritorna il mio cavaliere?„ Sì, ritornava a lei, così volendo il destino. E la barca, frattanto, appena toccato il lido incantato, spariva; ed egli era là, sulla spiaggia, preso per mano dalla gentile apparizione. Allora, per miracolo nuovo, il lido spariva a sua volta; ed egli e lei, tenendosi sempre per mano, muovevano leggeri leggeri sul verde smalto d’un prato, di tanto in tanto levandosi a piccoli voli, posando il piede a terra un istante per rivolare ancora, come due uccellini che alternassero capricciosamente i passi coi salti, e i salti colle volate, spensierati ed allegri, contenti di sè e dell’ora propizia, senz’altro desiderio che di sentirsi vivere. E si addentravano, così muovendo i passi e i voli, in una valle ampia, per lenti giri sinuosa tra due ordini di colline verdeggianti, lungo le rive d’un fiume, ora ristretto e gorgogliante tra scogli muscosi e macchie di ontàni e di càrpini, ora placido e disteso sui greti come una lunga fascia d’argento. Dal colmo dei poggi, frattanto, occhieggiavano al sole ceppi di case e castella; dalle alte ripe sassose ruzzolavano branchi di capre a dissetarsi nei tònfani; sulle vette dei pioppi inneggiavano i rosignuoli ai non contesi amori, alle gioie imminenti del nido. Ma egli aveva già veduta quella valle; la conosceva bene da un pezzo. Laggiù, sulla sua destra, quel monte solitario, sparso di casolari a mezza costa, non era lo Sporno? Più in là, sulla sinistra, quell’altro monte, erto e lungo, non era il Caio, giustamente superbo del suo nome romano, vestito i fianchi di pini e di cerri, il dorso di faggi, o le alte insenature di corbezzoli e di peri selvatici? Più oltre ancora e più su, non erano quelle le creste dell’Appennino, dalla rupe dell’Orsaro all’alpe di Succiso? E lì, poco lontano da lui, quelle folte siepi di biancospino, ben ragguagliate dal falcetto, correnti in lunghe file accanto alla strada, non segnavano forse i confini del suo lembo di terra? E le indicava, tutto felice, alla sua dolce compagna. “E qui il mio Lesignano; il vostro Montechiarugolo è laggiù da sinistra. Volete che ci andiamo? Anch’io lo vedrò volentieri. Ma quanto cammino fin là, e in terra non nostra, pur troppo! Bisogna che l’intervallo si colmi, non vi pare? Bisogna che siano unite le nostre terre, come sono unite le nostre mani....„ — “Sì, sì,„ gli rispondeva la cara voce; e una cara mano tremava nella sua. Bel sogno! bel sogno! Quanto era durato? Certo, a contenere le molte cose vedute, tutto il tempo ch’egli aveva passato dormendo. Si era destato, infatti, avendo ancora quella dolce visione negli occhi, e la sua destra ancor tiepida dal tocco della mano di Margherita. La giornata che doveva seguire, non sarebbe stata meno lieta per lui. Quella mattina andò al Danieli verso le undici, ora combinata per l’appunto colle signore Cantelli. Le trovò, che avevano finito di far colazione, essendosi volentieri adattate ad anticiparla un poco, per conceder più tempo alla gita che avevano disegnato di fare. La signorina Margherita fu lesta a mettere il suo cappellino nero alla spagnuola, dal nastro cremisi, sul ricco volume della chioma corvina, e a gittarsi sulle spalle il corto mantello di velluto, nero anche quello e con la fodera dell’istesso colore del nastro. Nero e rosso le andavano d’incanto. La signora Eleonora fu più lenta ad aggiustare intorno alle staffe dei suoi capegli grigi il cappellino chiuso, guernito di viole mammole, e a tapparsi con molta cura nella sua pelliccia di martora. Uscite col signor Filippo dall’albergo, passarono il ponte dei Sospiri, svoltarono dal palazzo Ducale a San Marco, e di là, per l’arco dell’Orologio, entrarono in Mercerìa, non già per rimanervi, a goder lo spettacolo, sempre nuovo della turba affaccendata e chiacchierina. Quel giorno andavano assai più lontano, e senza avere da dondolarsi in Laguna. Che piacere! Margherita amava far diverso, se poteva, dalle altre viaggiatrici: quelle in gondoletta per ogni piccola corsa; lei volentieri a piedi per le corse più lunghe. Che peccato non aver sempre al fianco una guida come il conte Aldini gentilissimo! Per quella volta, a buon conto, non mancando la guida desiderata, non c’era da temere di smarrirsi in quel labirinto di calli, di campi e di campielli, di fondamenta, di ponticelli: senza darsi pensiero della via da tenere, Margherita avrebbe osservata e studiata frattanto, di quartiere in quartiere, quella calca di popolino così gaio, così originale nella sua vivacità, e sentita bene quella sua parlata tutta vezzi e moinerie, arguzie di pensiero e carezze di suoni. Riusciti al ponte di Rialto, ed ivi passato il Canal Grande, scesero a San Giacomo, donde piegarono a sinistra per Campo San Polo. Laggiù era un altro viluppo di strade, con gran delizia della signorina Margherita, che rideva spesso e volentieri, quel giorno, dovendo fare, al cenno della sua guida severa, tanti giri e rigiri impreveduti, andare a sghembi come le saette, ficcarsi per cento viottole, varcare cento ponticelli minuscoli, e pensare frattanto, pensare con un vago terrore quante volte si sarebbero smarrite, lei e la mamma, se avessero dovuto fare quel curioso tragitto da sole. — Ci siamo; — disse Filippo, come furono nella contrada di San Giovanni Decollato. — Ella sarà un po’ stanca, signora? — Ma no, ma no; — rispose la signora Eleonora. — Sento un po’ meno il bisogno della pelliccia, ecco tutto. — Voglia sopportarla due minuti ancora. L’aprirà quando saremo al Museo; — soggiunse Filippo. Andavano infatti a visitare il museo Correr; museo municipale, così chiamato dal nome del suo fondatore, che alla città lo aveva generosamente lasciato, ma via via cresciuto ed arricchito dalle liberalità di altri nobili veneziani. C’era un po’ di tutto, là dentro: tele, marmi, bronzi, maioliche e porcellane, vetri di Murano anteriori al Mille, musaici, smalti, nielli, gemme incise ed avorii intagliati, monili d’oro e d’argento; a farla breve, tanto da tesserci per via d’esempi la storia di tutte le arti e di tutte le industrie veneziane. Margherita era nel suo elemento: curiosa indagatrice, pronta a ritenere le cose nuove e a paragonarle con altre già viste, aveva là dentro di che saziare l’avidità molteplice del suo intelletto, passando così facilmente da un genere all’altro. I marmi, a dir vero, la lasciarono un po’ fredda, essendo piuttosto scarsi di numero e di pregio. Diede tuttavia un pensiero a Marco Vipsanio Agrippa, se proprio era lui quel colosso venuto al Correr dalle case dei Grimani, come ai Grimani dagli scavi a tergo del Panteon di Roma. Ammirò poi come saggio di precoce valentìa, due canestri di frutta, che Antonio Canova quattordicenne aveva scolpiti pel nobile Giovanni Falier. Tra i dipinti la colpì il ritratto di Cesare Borgia, opera di Leonardo da Vinci; una figura storica che farà sempre pensare, come e quanto farà sempre fremere. Ma più grande maraviglia le cagionò un gran disegno a matita nera, di Paolo Veronese, rappresentante il convito del Nazareno in casa di Simeone, con la Maddalena pentita ai piedi del Redentore, e Giuda che balza dalla seggiola in atto di rimproverare alla donna quell’eccesso di pietà, o quell’abuso di unguento. Era un bozzetto, e Margherita ricordò di aver contemplato il quadro a Parigi. — Certo; — disse Filippo. — Paolo Veronese lo aveva dipinto qui, pel refettorio dei frati Serviti. Ma poi il Senato lo mandò in presente a Luigi XIV; perciò Ella ha veduto quel quadro nel Louvre. — E qui, — ripigliò Margherita, — vediamo il capolavoro al suo nascere. In questo modo comprendiamo meglio il quadro. Tra l’idea e l’esecuzione c’è quasi sempre un grande intervallo, tutto seminato d’incertezze, di pentimenti, di aggiunte, di variazioni, per cui la composizione finale non corrisponde più all’idea primitiva. Qui invece è bello veder l’idea già matura, fin dal suo primo apparire; e ci guadagna il pittore, lasciandoci intendere la natura del suo genio. Non crede, signor conte, che fosse un genio, il Veronese? — Lo credo; — rispose Filippo, mettendosi volentieri all’unisono con la bella ragionatrice; — se non per la idealità, certo per la varietà de’ suoi tipi. È un pittore che ha composto mirabilmente le scene più vaste e più complesse, facendo correre molt’aria e molta luce intorno ad un gran numero di figure, tutte diversamente atteggiate, e senz’ombra di sforzo. Ricorda, signorina, le Nozze di Cana, che maraviglia? Quelle centinaia di personaggi d’ogni razza e d’ogni provenienza, si occupano ben poco del convitato principale e del miracolo ch’egli sarà costretto a fare per loro soddisfazione; ma che importa? La nota dominante è l’allegria della festa: l’allegria basterà dunque a collegare, a stringere in una tante espressioni svariate; e finalmente la vita umana non sarà stata mai rappresentata così vera, così evidente, nella pienezza delle sue forze, nella molteplicità delle sue espansioni. Il buon Paolo Caliari ha sentito il grande meglio d’ogni altro. Ma anche nel piccolo può rivelarsi l’ingegno. Veda i quadri del Longhi. — La signorina Margherita fu ben contenta di vederli, e di esaminarli attentamente, provandone alla bella prima un gusto matto. Pietro Longhi, un pittore del Settecento, conosciuto quasi esclusivamente a Venezia, perchè ivi soltanto si poteva studiarlo, figurava egregiamente nel museo Correr con quattordici tele. Veneziano nell’anima, originale nella scelta dei soggetti, bizzarro nella composizione, arguto nei raccostamene impensati dei tipi, gentile nel tocco, meritava davvero di trattener l’attenzione. Come il famoso Canaletto per le sue architetture e per le vedute dei punti più pittoreschi di Venezia, il Longhi suo contemporaneo, in graziose scene di mascherate, di conversazioni signorili e di adunate popolari, aveva espressa la vita della sua città in tutti gli aspetti. I nobili del tempo si contendevano quelle sue tele, poche delle quali erano più alte d’un metro e più larghe di due, mentre il maggior numero andavano poco oltre la metà delle accennate misure, e talune scendevano anche al disotto. Ma in così piccolo spazio quanta evidenza di rappresentazione, quanta potenza di vita! E non senza una leggera intenzione di satira; quale almeno si poteva intendere ai giorni suoi, ch’erano pur quelli del Goldoni e del Parini, e quanta se ne poteva tollerare nella società un po’ frolla del Settecento, ma fine, delicata, tutta garbo e misura. Tra i quadri del Longhi attirava subito lo sguardo una viva rappresentazione del Ridotto, con quella sala piena di gente in maschera, tutta intenta ai suoi sollazzi, ai suoi piccoli intrighi e ripeschi. La galanteria dominava; ma la passione del giuoco non poteva mancare. E appunto da un lato si vedeva la tavola del faraone, il gran giuoco del secolo, che accomunava intorno ad un tappeto verde stimati patrizii e avventurieri d’ogni risma, provati gentiluomini e furfanti di tre cotte, bellamente aiutando a questa miscela l’uso della bautta e della maschera. La bautta, si sa, era un mantello con rocchetto e cappuccio, abbastanza somigliante al domino delle mascherate moderne. La maschera, poi, era di due forme; maschera propriamente detta, intiera, o tale in apparenza per la giunta del pizzo nero che scendeva a coprire la bocca ed il mento; mezza maschera senz’altro, detta anche morettina, e ordinariamente portata dal sesso gentile, che non voleva nascondere tutte in una volta le grazie allettatrici del viso. Nella tela del Longhi, un nobile a faccia scoperta, seduto dietro la tavola, teneva il banco; davanti a lui un cavaliere mascherato puntava. Nel banchiere, ricorrendo col pensiero alle memorie del tempo, era lecito di raffigurare il conte Canani, famoso tenitore di giuochi, e nel puntatore un cavaliere d’industria non meno famoso di lui, e per troppe altre ragioni, mostro di mariolerìa, d’impudenza e d’ingegno. Ci pensò per l’appunto l’Aldini, mentre osservava con la signorina Cantelli il dipinto; ma tenne prudentemente il suo raffronto per sè, non parendogli che certi nomi dovessero suonare ai casti orecchi di lei. Le fece piuttosto notare nel fondo del quadro, a sinistra, e dietro alla tavola da giuoco, una di quelle aperture luminose donde sapeva ricavare tanti effetti il Teniers, e là in quella apertura d’uscio la veduta di una bottega da caffè, con molte maschere affollate al banco del caffettiere. Poi la condusse davanti ad un altro quadro, dove alla vita del ridotto succedeva la vita del monastero; allegrissima anche questa, nel parlatorio elegante, dove le monache e le educande, sporgendo coi visetti maliziosi dalla grata, ricevevano i complimenti d’una comitiva di cavalieri e di dame. Non era fitta, la grata; al bisogno poteva anche aprirsi, facendo di due stanze una sola. Intanto la conversazione appariva molto animata; e preludiava anche a un altro divertimento, poichè lì presso ei vedeva rizzato, e pronto a cominciar lo spettacolo, un casotto di burattini. Altro quadro più in là, raffigurante una piazza; e sulla piazza un palco da ciarlatano, donde un vecchio Dulcamara esaltava la magica virtù di certe boccettine, che vendeva alle belle ragazze; l’elisir d’amore, senza dubbio, del quale pareva invogliata anche una gran dama, venuta in piazza con la morettina sul viso, facendosi sostenere lo strascico dall’immancabile cavalier servente in bautta. La bautta era in voga; non disdiceva neanche nei più alti luoghi, nei più solenni ricevimenti. Ne faceva testimonianza un terzo quadro, dov’era rappresentato un doge, niente di meno, il doge Pietro Grimani, seduto in trono e circondato da quattro consiglieri, in atto di ricevere un senatore, che gli presentava una dama e due gentiluomini, come lei mascherati. Benedetto doge Grimani, a cui le cure dello Stato, nobilmente sostenute dal 1741 al 1752, concedevano qualche onesto sollievo! Il dipinto che lo raffigurava era certamente stato fatto per sua commissione. Dogi e senatori, come tutti i patrizii veneziani, gradivano di vedersi effigiati nei quadretti del Longhi. Era un modo di tramandare le proprie sembianze ai posteri, senza la solennità del gran quadro, e col vantaggio di essere ricordati in mezzo alle loro famiglie. Così in un’altra tela del gaio pittore si vedeva un parrucchiere tutto premuroso acconciare il capo ad una gran dama; la quale, seduta allo specchio, sorrideva ad un bambino, ancora in braccio della paffuta nutrice. Frivolezza e sentimento materno sapevano stare in buona armonia, sotto la protezione d’un ottimo capo di famiglia, il cui ritratto pendeva appunto dalla parete, portando la scritta col nome del doge Carlo Ruzzini, e l’indicazione del 2 giugno 1732, giorno in cui egli era stato elevato a quella serenissima altezza. Invaghita del gentilissimo pittore e del suo fare arguto, la signorina Margherita non trascurò nessuna di quelle quattordici tele. E si ripromise ancora di andare una seconda volta alla Accademia di Belle Arti, dove ce n’erano altre sei del Longhi, da lei neppure guardate nella prima sua visita, tra perchè si ritrovavano confuse in una minutaglia di quadretti della raccolta Contarini, e perchè non era andata là in compagnia d’un cicerone di tanto criterio e di tanto buon gusto. — Ci andremo insieme, non è vero? — diss’ella. — Anche il piccolo ha i suoi pregi; e riconosco volentieri che occorre un grande ingegno per cogliere con tanta fedeltà ed esprimere con tanta evidenza gli aspetti di una piccola vita. — Ricorda, signorina, — chiese Filippo, — ricorda un altro pittore, che ha espressi in piccolo, e con arte maravigliosa, gli aspetti della grande? un pittore di prospettive, che ha saputo popolare di figurine a migliaia, alte pochi centimetri, i fondi più vasti, e dare a quelle figurine la espressione più viva? — No, di chi parla? — Del cavalier Pannini; poichè ella è stata a Parma.... — Ah, sì, vero! — gridò la signorina Margherita. — Il cavalier Pannini, che ha riempita la pinacoteca della Pilotta con tanti episodj del viaggio di Carlo III, di quel simpatico re vagabondo, passato dal trono di Parma a quello di Napoli, e dal trono di Napoli a quello di Madrid. Ella ha ben ragione; anche il cavalier Pannini è stato un grande artista, ed io l’ho veduto con piacere, come una vecchia e cara conoscenza, anche a Parigi, nella galleria del Louvre. Ma torniamo a Parma; — soggiunse la fanciulla, con un risolino malizioso. — Ci ha più pensato, Lei? — A Parma? — Sì, a Parma, e al vecchio palazzo degli Aldini. — Filippo trasse un sospiro, e lì per lì non rispose. Troppe cose avrebbe avuto da dire. — Ma già, capisco; — ripigliò la fanciulla. — Si può pensare a Parma, vivendo da tanto tempo così volentieri a Venezia? — VI. Digne et in aeternum. Il colpo lo coglieva in pieno petto; colpo involontario, colpo innocente, ma fiero. Filippo Aldini balenò un istante, e rimase un tratto senza parola, tanto era sconcertato. — Non mi lagnerò, — diss’egli, dopo quella pausa forzata, — non mi lagnerò di questo lungo soggiorno, poichè il prolungarlo fin qui mi ha fruttato la loro conoscenza. — La frase galante meritava il suo premio in un sorriso di amabile compiacenza da parte della signora Eleonora. Ma questa non era là per sentirla: da un quarto d’ora almeno, stanca di passeggiare per le sale del museo e di star ferma in piedi davanti a quei quadri, dove la sua Margherita e il conte Aldini trovavano tante bellezze, la buona signora aveva preso posto sopra un seggiolone antico, presso il finestrone d’una camera attigua, lasciando ai due giovani il piacere di muoversi, di fermarsi, di ammirare a lor posta. Nè per lei diede il premio dell’amabil suo sorriso la signorina Margherita, che in quella vece si era fatta un po’ rossa. Ma un complimento non era una ragione; e Filippo continuò: — Del resto, sono i casi della vita che ci comandano un poco, e sempre assai più delle nostre preferenze. Ella poi non mi creda dimentico di Parma, nè di un consiglio così gentile come il suo. Se sapesse! Ho sognato ancora stanotte di esserci ritornato. — Davvero? — È là, non nel palazzo degli Aldini, di cui non conosco l’interno, poichè esso non apparteneva già più alla mia gente quando io son nato: ero invece fuori di città, verso i colli, dalle parti di Lesignano, con la veduta di Montechiarugolo. — Ah, bene, Montechiarugolo! — ripigliò Margherita. — È un paese tanto simpatico! Ci dev’essere anche la storia d’una fata, che non ho potuto raccogliere. La sa, Lei? — No, e me ne duole; — rispose Filippo. — Ma ci sarà una buona fata, quando ella ci andrà. Per intanto, — soggiunse egli, passando veloce su quell’altro complimento, che faceva arrossire un’altra volta la signorina Margherita, — io sono andato a Lesignano, come ho avuto l’onore di dirle; e non mi sono fermato nella mia bicocca di laggiù; sono corso in quella vece difilato verso i monti, padrone del mio tempo, senza una mèta prefissa, felice di correre, e senza maravigliarmi neppure della nuova facoltà che avevo acquistata, la facoltà di volare. — Tutto solo? — No, non solo. — Ah, dicevo bene! Sarebbe stato un piacere da egoista. — Vuole che le dica con chi ero? — Dica, dica. — Con una gentile signorina, a cui facevo indegnamente da cicerone. — Ci cresce l’indegnamente; — notò Margherita. — La signorina certamente sarà stata felicissima. Con le ali anche lei, voglio credere. E che cosa le ha fatto vedere da quelle parti là? — Una ròcca stupenda, fieramente piantata sopra un poggio, con quattro torrioni sugli angoli e un battifredo sul ponte d’ingresso. — Un battifredo? Le confesserò candidamente la mia ignoranza.... — Battifredo, — fu pronto a commentare Filippo, — torre della guardia; alta per dominare molto paese in giro; munita di campana, perchè gli uomini in vedetta suonino a stormo appena scorgano in lontananza il nemico. La ròcca, poi, si chiama Torrechiara; la fabbricò a mezzo il Quattrocento un gran gentiluomo, che era stato uno dei maggiori capitani di Francesco Sforza. Signore di molte castella sul territorio parmense, ed anche più oltre sul milanese, Pier Maria de’ Rossi, conte di San Secondo e marchese di Berceto, si ritirò un bel giorno dalla corte ducale di Milano e da tutte le pompe mondane: non bastandogli, o non parendogli abbastanza fuori del consorzio umano le altre sue ròcche, volle edificare anche quella, e ci si rinchiuse per la seconda metà della sua vita, che fu certamente la migliore. Amò concentrarsi, e fu savio; — soggiunse Filippo con accento di desiderio. — Appartato dal mondo, non ebbe più da sentirne la noia. — Ah, l’egoista! — esclamò Margherita, un po’ per l’antico gentiluomo, un po’ pel moderno. — Ma no, non era solo; — ribattè prontamente Filippo. — Consolava la sua solitudine una donna gentile, e a farlo apposta una milanese come lei. — Ma io son di Como, l’avverto. — Oh, veda! Ma io ho detto milanese come si suol dire, genericamente, per comprendere tutta la regione che ha obbedito in altri tempi a Milano. Del resto, ignorando ch’ella fosse nata a Como e sapendo ch’ella vive a Milano, potevo ben dir milanese, ne conviene? Ora veda un po’ che strana coincidenza! La dama di Torrechiara era quasi di Como. E non creda ch’io le voglia cambiar le carte in tavola; le dico subito nome e cognome; si chiamava Bianca Pellegrini, ed era marchesa d’Arluno. La storia sua non la so così bene come il suo nome; ma certo il De’ Rossi aveva conosciuta la bella a Milano, quando viveva alla corte dello Sforza, o della vedova di lui. Quanto alla leggenda, essa racconta che in abito di pellegrina, col sarrocchino di cuoio, sparso di nicchi, sulle spalle, e il bordone nel pugno, la bellissima Bianchina muovesse di Lombardia per andare dal suo Pier Maria, caduto in disgrazia e ritirato nel suo territorio. Ma credo che la leggenda sia stata inventata, prendendo le mosse da certe pitture della ròcca di Torrechiara, per le quali appunto nel mio sogno io mi ero disposto a farle da cicerone. — Ha avuto un bel pensiero, dormendo; — notò Margherita. — Non lo deponga ad occhi aperti, e mi descriva le pitture di Torrechiara; io mi sforzerò di vederle. — Ecco qua; — riprese Filippo. — Ma prima vediamo la ròcca. Quattro torrioni angolari, le ho detto, non tenendo conto di alcune torri più basse, e di altri lavori per difender gli approcci. I torrioni, naturalmente, son collegati da bastioni, che dànno anche posto a lunghi loggiati coperti, donde si gode la vista delle circostanti campagne. Tra questi corpi avanzati, che sono i torrioni ed i loggiati, si stendono quattro giardini, veri orti pensili, debitamente alberati e fioriti, affinchè gli abitatori della ròcca non sentano il bisogno di andar fuori a diporto. Lungo i giardini corrono gli appartamenti signorili, a due ordini. Dentro la ròcca, tra questi appartamenti, si stende una gran corte, con due porticati sovrapposti, sostenuti da robuste colonne. In mezzo alla corte è un gran pozzo, col suo puteale di marmo, e il coronamento, al solito, di ferro battuto. C’è? Vede tutto? — Ci sono, e mi par di vedere. — Bene; ora facciamo cammino nel porticato superiore; si entra di là, verso mezzogiorno, nella camera d’oro, che è tutta una maraviglia, anzi la maraviglia delle maraviglie. Non si lasci abbagliare dall’oro. Del resto, ce ne son più poche tracce sulle pareti. Verremo a queste tra poco; alzi gli occhi, per ora. — Li ho alzati. — Ed ecco la vôlta, che domanda subito tutta la sua attenzione. La vôlta è a crociera, voglio dire che la dividono in quattro spicchi due costoloni lavorati ad armi e scherzi, e condotti ad incrociarsi sotto una serraglia rotonda tutta dorata, che porta il monogramma di Cristo, contornato di raggi. Nei quattro scompartimenti un pittore non dozzinale ha dipinto quattro volte Pier Maria e Bianchina; lui colla berretta di velluto rosso in capo, vestito alla corta, di stoffa verde damascata; lei ora da pellegrina, col bordone e il sarrocchino, ora da gran signora, e con tanto di strascico. Infatti, nei quattro dipinti sono rappresentati diversi momenti della buona ventura toccata al gentiluomo innamorato; da prima il viaggio della dama travestita, poi l’incontro e il ricevimento in Torrechiara, finalmente la presentazione dei due felici al tempio di Cupido. Non dimentichi, signorina, che siamo nel periodo del Risorgimento, e il profano si mescola volentieri col sacro. — Soverchiandolo un poco, vedo bene; — osservò Margherita. — Ed ora alle pareti; — riprese Filippo. — Son tutte a mattoni quadrati, istoriati a rilievo, colorati e dorati, correnti in file diagonali, ogni fila col suo colore dominante, verde, rosso, azzurro e oro, e colle parti in rilievo tinte di un colore diverso. Queste parti in rilievo, ora sono pezzi di rabesco, che, congiungendosi con quelli dei mattoni contigui, vengono a formare un ornamento che abbraccia tutte le altre rappresentazioni, frapponendosi ad esse; ora son rôcche col ponte alzato, circondate da fosse con cigni, sormontati da un aquilotto, con un sole raggiante sul capo; ora cartelli col motto latino _nunc et semper_, cioè a dire ora e sempre; ora son coppie di cuori, rossi in campo azzurro, entro un cerchio formato da tre corone d’oro accostate; ora altri cartelli coll’altro motto latino _digne et in æternum_. Perchè due motti? Non ne bastava uno? Ma io penso che la ragione ci sia, per averne messi due. Non sono due i cuori accostati? Ora, dei due motti latini, uno, il _nunc et semper_, è di madonna Bianca, l’altro, il _digne et in æternum_, è di Pier Maria, senza fallo. — E significa? — Meritamente, in eterno; — rispose Filippo. — Su per giù è la stessa idea del _nunc et semper_; ma c’è di più il meritamente; e mi pare che sia il De’ Rossi quello che parla così, dando maggior lode alla dama. — Ed è stato di parola? — Sì, come vedrà. Volgiamo un ultimo sguardo a questa camera d’oro, che con tante rappresentazioni di felicità sulla terra, mi pare un vero castello d’amore, ed usciamo nel cortile. Per un angolo del porticato si entra nella cappella, posta sotto l’invocazione di San Nicomede. Un solo altare là dentro, e poteva bastare al centinaio di vassalli che vi si raccoglievano a sentire la messa, insieme col signor castellano. Ma questi non ci stava già alla vista di tutti. Sul lato sinistro della piccola chiesa era rizzata una bussola di legno riccamente scolpita, che ripeteva ne’ suoi rilievi colorati e dorati le coppie di cuori, i motti latini, i castelli coi cigni e gli stemmi, tutto insomma l’ornato della camera d’oro; e dentro la bussola si vedono ancora i due stalli; uno a destra, colla lastra dell’inginocchiatoio intarsiata, che reca gli emblemi della pellegrina e le iniziali del nome di lei; l’altro a sinistra colle iniziali di Pier Maria. Amava concentrarsi, il signore di Torrechiara; chiuso nel suo castello, chiuso nella sua camera d’oro, chiuso nella sua bussola, sempre chiuso, e non solo. Non riposa neanche solo sotto il pavimento della cappella di San Nicomede, dove la pellegrina d’amore è scesa a dormire il gran sonno, e dov’egli l’ha seguita, restandole indietro di poco. Le pare che sia stato di parola, quel potente della terra, quel gentiluomo, quel castellano poetico? Storia vera, quella che io le ho raccontata, abbreviando; storia vera, che sembra un romanzo. — Margherita aveva assentito alla domanda con un cenno del capo. — E dica ancora, — soggiunse ella con piglio curioso, — sono entrate delle Rossi, nel casato degli Aldini? — Sì; perchè me lo domanda? — Perchè parla di Pier Maria con tanto calore! — Vuol dire che sia la voce del sangue? — rispose Filippo, sorridendo. — E sia. Ma il motto del castellano di Torrechiara val bene qualche frase più animata del solito. _Digne et in æternum_; meritamente, e per l’eternità! Quantunque, — soggiunse egli, — mi pare, pensandoci su, che la mia traduzione non faccia intendere tutta la profondità del pensiero. — Ah sì, sentiamo; — gridò Margherita; — qualche bella sottigliezza! È del suo carattere, se l’ho ben capito. — Le dispiace? — No davvero; ho detto bella sottigliezza; non dimentichi l’aggettivo, e mi dica subito che cosa ha trovato di più profondo nel motto di Pier Maria. — Questo, signorina, che solo quando è degno, l’amore merita di vivere eterno. Le pare una sottigliezza? — È bella; — ribattè Margherita; — è bella, e vera; e mi fa prendere in molta stima il suo Pier Maria. La prima volta che tornerò a Parma, andrò a fargli una visita. Peccato che non ci sia anche lei, per farmi gli onori della Camera d’oro! — Filippo Aldini levò gli occhi al soffitto, quasi invocando dal cielo un miracolo. Si era andati molto lontani dai quadri di genere del Longhi; ed anche dalla signora Eleonora, a cui bisognava ritornare. — Mio Dio! — esclamò la buona signora, giungendo le palme. — Non siete stanchi? Benedetta gioventù! — Piacque sommamente a Filippo Aldini quella associazione di due persone in un “siete„, che certo era stata fatta a caso. Ma egli si tenne prudentemente la gioia in petto, senza farne la menoma dimostrazione sul volto. Margherita, per contro, non sapendo fingere, si fece secondo l’uso un po’ rossa. — No, mamma; — diss’ella, accostandosi, e baciando la signora Eleonora sulla fronte; — quanto a me, non sono stanca affatto. Il signor conte spiega così bene ogni cosa, che fa dimenticar la fatica. E mi ha fatto intendere anche un po’ di latino. — La signora Eleonora sorrise, senza intendere dal canto suo nulla di nulla nell’accenno di sua figlia. Ma una cosa intendeva, quella buona signora, che quei due giovani erano maravigliosamente assortiti. Li aveva da vedere il suo Anselmo, come li vedeva essa in quel punto; di certo egli non avrebbe portato opinione diversa. Lui di bella presenza, che non si poteva desiderare di meglio; alto e ben piantato, snello, elegante; risoluti i lineamenti del viso, ma insieme delicati; traenti al biondo i capelli, ed anche più i baffi, sotto cui si disegnavano le labbra stupende, nobilmente ferme nella gravità dell’atteggiamento pensoso, amabilmente morbide nella soavità del compiacente sorriso; lei quasi alta della persona come lui, tutta leggiadra, fatta a pennello; ricco il volume della capigliatura nerissima su quel candore abbagliante della carnagione, che spirava intorno a sè come un alito di cose fresche e profumate; e non meno stupenda bellezza in lei quelle ciglia lunghe, che toglievano forza, ma aggiungevano grazia al baleno degli occhi. Infine, era illusione o verità? Gli occhi morati di Margherita e gli azzurrognoli del conte Aldini si socchiudevano volentieri nell’istesso modo, come se ci fosse stata una parentela tra loro, e rendevano in vista la medesima espressione, di dolcezza diffusa e di profonda bontà. Queste le doti fisiche dei due giovani; bisognava veder poi le morali. Ella era un angelo, come bene l’aveva definita in una parola il signor Zuliani; seria, senza apparato, innocente l’anima, tra tanta cultura d’ingegno; sempre l’istesso umore, amabilmente giocondo, e il senso della misura in ogni cosa perfetto. Egli, poi, così nobile di sentire com’era di nascita, cortese negli atti, inappuntabile nei modi, affabile con tutti, riguardoso colle signore fino allo scrupolo, garbato ed attento colle attempate come colle giovani; e ciò senza contare tutto il bene che alla signora Eleonora ne aveva detto Raimondo Zuliani, un galantuomo di ventiquattro carati, alla cui parola si poteva fidare ogni altro galantuomo suo pari, e prima e più di tutti il signor Anselmo Cantelli. Infine, se quel soggiorno prolungato delle signore a Venezia doveva portare una conseguenza come quella, non c’era da ascriverlo a grande fortuna? Le mamme, si sa, vedono sempre e dappertutto un marito; si può dire che non hanno occhi per altra cosa nel mondo. Un uomo incontrato a caso, presentato loro in un salotto, ai bagni, o in altro ritrovo di società, vale o non vale, secondo che è un marito possibile, o meno. Povere mamme, vanno compatite: l’hanno trovato esse una volta, perbacco, e pensano volentieri che la vite ha bisogno dell’olmo, e alla peggio deve contentarsi d’un palo. Ubbìe, sciocchezze, follìe; spesso anche errori, che si pagano cari; ma non c’è rimedio, le mamme son fatte così; pigliarle come sono, o lasciarle. Considerando il caso particolare della signora Eleonora, non è da credere che ella pensasse così, per non aver trovato un partito conveniente alla sua cara figliuola; che anzi, già si erano dovuti dire parecchi no, e senza una ragione plausibile; tanto che il banchiere Anselmo e la sua signora si erano fatta una riputazione di schifiltosi, d’incontentabili, e perfino, diciamo la parola, di matti. Figurarsi, che i partiti offerti erano di quei tali che appunto potevano e dovevano capitare alla figliuola d’un ricco; rampolli di famiglie ben quotate a milioni, che prima di muovere all’assalto avevano cura di sapere a quanto ascendesse la dote, o fin dove potessero giungere le conseguenti speranze; e poi, a vederli! prendevano fuoco come tanti zolfini. Che cari figliuoli! E quando si arriva a combinare uno di questi contratti, è un parlarne in città, un rallegrarsene, un esaltarsene, come d’un vero miracolo. “Sapete il gran fatto? Non si direbbe, ma è proprio così; matrimonio d’amore! Si erano visti alle regate di Livorno, alle acque di Recoaro, ai freschi di Gressoney. Quel povero ragazzo non ha avuto più pace, ha perso a dirittura la testa„. Sì, eh? Ma almeno, fortuna sua, aveva conservata in tasca la tavola pitagorica. Quanto ai suoi pretendenti, Margherita era sempre stata chiamata ad esprimere la sua opinione. Il babbo l’amava moltissimo, per tutte le ragioni che sarà inutile dirvi, e ancora più la stimava per il suo retto criterio. Così ella era messa a parte di tutto, e sorrideva ad ogni nuova richiesta. — Lo conosci, quest’altro? — Io no, babbo; l’avrò forse intravvisto, ma non ne ho tenuto memoria. — È di buona famiglia; ricco, e figlio unico. Si fanno parecchi milioni a suo padre. — Buon per lui; ma io non lo conosco. La solidità della sua casa, come si dice, puoi saperla tu, con qualche approssimazione, non è vero? Ma il suo modo di pensare, il suo cuore, la sua istruzione, non puoi, come non posso io. Dire di no, può parere orgoglioso; ma come si fa a dire di sì? — E si rideva. Il signor Anselmo finiva sempre col dar ragione a sua figlia. In fondo, non gli dispiaceva di tenersi in casa quella cara fanciulla, che intanto era giunta ai ventiquattro anni, non accennando punto di voler così presto sfiorire, e che del resto non sentiva il desiderio di far mutamenti nel suo stato civile. In questo modo, ricusa oggi, ricusa domani, si dava materia d’almanacchi a chi aveva voglia e costume di farne. E il signor Anselmo, poi, dopo aver dato ragione a sua figlia, muoveva abitualmente dai particolari agli universali, sentenziando a un dipresso così: — Perseverate, bambine, e state volentieri coi vostri parenti. A rompervi il collo ci sarà sempre tempo; mentre una vita come quella che fate in casa vostra, senza pensieri, senza cure, senza affanni, senza rimpianti, non la farete mai più. — Pensava veramente così anche la signorina Margherita? Certo; se no, lo avrebbe detto, o lasciato capire; perchè simulazione e dissimulazione non erano il fatto suo. La vita era per lei tanto bella! Amava i suoi studi e non isfuggiva i divertimenti: il babbo, quante volte aveva ragione di muoversi, la conduceva con sè. Era stata in giro per quasi tutta l’Italia; aveva anche veduto Parigi e Londra, osservando dappertutto e studiando a suo modo, con quel babbo compiacente, che prendeva gusto a tutto quanto occupasse la mente o attirasse la curiosità di sua figlia. Sarebbe stato lo stesso con un altro uomo, più o meno innamorato, in quella vagabonda luna di miele, che dura poi come tutte le lune, ventinove giorni, dodici ore, quarantaquattro minuti, e, crepi l’avarizia, tre secondi e undici terzi? Aggiungete che quella dolce luna, come tutte le altre, è per gran parte scema. A queste cose, del resto, Margherita non aveva mai pensato, nè troppo, nè poco. Si contentava di non gradire i matrimonii combinati come contratti; degli altri non sapeva, nè avrebbe voluto figurarseli con uno sforzo d’immaginazione, e col rischio di non indovinarci. Venisse il giorno e l’uomo; l’avrebbe trovata. Ma certo bisognava toccarle il cuore, perchè ella rinunziasse alla sua libertà invidiabile, e a quella bella spensieratezza che ne era la conseguenza legittima. Pensierosa, per altro, e per la prima volta, appariva nell’uscire dal museo Correr. Pensierosa, è forse un dir troppo; mettiamo pensosa, mettiamo raccolta in sè stessa, senza mostrar più quel desiderio di ridere, di voltarsi qua e là, prendendo gusto al chiacchierìo della strada. Quel raccoglimento era forse il frutto d’un po’ di stanchezza dello spirito, per tante cose osservate. Comunque fosse, appariva egualmente bella, forse più bella dell’usato, venendo via con quell’aria composta e tranquilla, accanto alla mamma ed al conte Aldini; il quale era tutto attenzioni e riguardi per la signora Eleonora, e poc’anzi le aveva premurosamente aggiustata la pelliccia sulle spalle. — Ora poi la godrà; — le aveva detto egli. — L’aria incomincia a farsi frizzante. — La signora Eleonora lasciava fare, sorridendo amabilmente alle cortesie del suo cavaliere. Intanto, si spegneva la luce del giorno, si accendevano i lampioni, e la buona signora pensava con un senso d’intima allegrezza al pranzo che l’aspettava al Danieli. — Senta — diss’ella tutto ad un tratto, — dovrebbe quest’oggi venire a far penitenza con noi. — Con che piacere, signora! — esclamò Filippo, reprimendo un moto violento del cuore. — Ma ho gente sulle braccia, due vecchi amici, che mi son capitati l’altro giorno da Verona.... — E li ha lasciati per noi! Mi rincresce.... — Oh, non si dia pensiero di questo. Sono uomini, e non hanno bisogno di guida. Ma la sera, capirà, debbo lasciarmi vedere; tanto più che sono ad alloggio da me. — Non vorranno poi fare la visita di santa Elisabetta; — notò Margherita. — E l’avremo un altro giorno, non è vero? — Certo; sarò ben onorato; — disse Filippo, che per la prima volta si sentiva la lingua impacciata. — I miei vecchi compagni d’armi rimarranno pochi giorni ancora. — In questi discorsi erano venuti oltre il ponte di Rialto, e per la Riva del Carbone entravano in Merceria. Qui avvenne a Filippo Aldini di fare un gesto, come d’ingrata maraviglia; un gesto che non isfuggì all’attenzione della signorina Margherita. — Che cosa ha visto? — chiese ella. — Io? nulla; — rispose Filippo. — Ha fatto un gesto, — ripigliò Margherita, — un gesto di persona molto seccata. — Davvero? — esclamò egli, padroneggiandosi, e correndo col pensiero alle scuse. — Non me ne sono avveduto. Ma chi sa? Passano alle volte pel capo certi brandelli d’idee.... Un moto della fantasia li fa scorrere davanti agli occhi dell’anima, ed è naturale che ci secchino, come può seccarci una nuvola che passi in aria e c’impedisca di vedere il sole, senza che per questo avvertiamo la presenza della nuvola. Infatti, io non avevo avvertito nulla. Moti istintivi, signorina, moti macchinali; non è da farne caso. — E rideva, così dicendo, e gesticolava, come non aveva mai fatto, sempre per darsi un’aria disinvolta e serena. Quello che gli aveva dato noia, facendogli fare quel gesto di persona seccata, era ancora lontano, nascosto alle sue compagne di passeggiata da un piccolo crocchio di persone, che proprio in quella stretta avevano creduto opportuno di fermarsi a discorrere. Ma l’oggetto della noia si fece più innanzi, e tagliando la strada in isbieco dietro all’ostacolo, si affacciò finalmente alla vista delle signore Cantelli. Oh, il felice incontro! La contessa Galier di San Polo! E lì una buona fermatina, con un mondo di garbatissime chiacchiere, e di complimenti alla signorina Margherita, sempre più bella, sempre più cara. Nè al conte Aldini mancò la sua parte. — Hanno un gentil cavaliere e un cicerone prodigioso; — diceva la contessa Galier. — Sa tutto, ha veduto tutto. Oh, non dico per adularvi, Aldini, ma per rendere omaggio alla verità. Sappiano, signore mie, che tanti e tanti tesori d’arte in Venezia, ignoti a molti di noi veneziani il conte Aldini li conosce come la palma della sua mano. — Infatti, — disse Margherita, — al museo Correr ne abbiamo avuto oggi la prova. — Vengono di là? — Sì, e grazie al nostro cavaliere ci abbiam passato quattr’ore deliziose. — Ah, bene! Venezia ascrive ad onor suo, di poter dare simili gioie a visitatrici così intelligenti e così care. Ora, immagino, ritorneranno all’albergo. Ed io a casa. Son proprio felice di averle incontrate. — Qui venne il ricambio degli ultimi saluti; dopo di che la contessa Galier si avviò per Rialto verso i Santi Apostoli e il corso Vittorio Emanuele, mentre le signore Cantelli riprendevano il loro cammino verso San Marco e la riva degli Schiavoni. — Cara signora! — disse Margherita all’Aldini. — Dev’essere molto buona. — Filippo acconsentì col doppio moto del capo e del labbro. Ma dentro di sè l’avrebbe mandata volentieri a quel paese, quella cara Galier. Non già perchè l’odiasse, povera donna; ma perchè gli veniva in mal punto a ricordare tutto ciò che per un giorno egli aveva dimenticato così bene. E veniva innanzi turbato nel profondo del cuore, ma sforzandosi di parer tranquillo all’aspetto; senza parole, nondimeno, e sperando che della sua taciturnità lo scusasse abbastanza il doversi ad ogni tratto cansare tra la gente che correva per un verso o per l’altro. Ma riusciti che furono davanti a San Marco, e di là in Piazzetta, dove era più scarso il numero dei viandanti, il silenzio di Filippo doveva essere notato. — È pensieroso; — gli disse Margherita. — No; — rispose egli, con accento di viva sollecitudine. — Sì; — replicò la fanciulla, con accento di viva insistenza. — Ebbene, sì; — conchiuse egli, cedendo. — Penso infatti, che questa buona giornata è troppo presto finita. — Se è così — ripigliò Margherita, — se ne procuri.... ce ne procuri un’altra. Mediti lei, trovi lei il punto che dovremo visitare, e poichè i suoi amici di Verona non hanno bisogno di guida come noi, venga a dircelo; ci troverà pronte a muoverci. Non è vero, mamma? — Eh, non bisognerebbe poi abusare! — osservò la signora Eleonora. — Ma che? ma che? Io son fatta così. Se il signor conte gradisce di farci gli onori di casa, noi, che non vogliamo essere ipocrite, gli confessiamo di gradir molto la sua cortesia. Ma badi, — soggiunse con un risolino malizioso quella cara fanciulla, — ho detto onori di casa per modo di dire, poichè ora siamo a Venezia. Ma la casa non è qui, ci pensi, non è qui. — Sì, sì, ci penso, non dubiti; non penserò più ad altro; — rispose Filippo animandosi. — Che cos’è questa distinzione? — domandò la signora Eleonora. — Ah, mamma, tu non sai; tu non hai visto, come ho visto io, a Parma, il palazzo degli Aldini. Una bellezza! Ho raccomandato al signor conte di ricomprarselo, il palazzo dei suoi maggiori. Me lo ha promesso; parola di gentiluomo non può mentire. — Pazzerella! E se i proprietarii presenti non volessero vendere? — Oh, vorranno, vorranno. L’ho già capito dal modo come tengono quello stabile, non facendovi mai un ristoro. Siamo dunque intesi? — proseguì Margherita, volgendosi a Filippo, sull’uscio dell’albergo. — _Digne_.... — _Et in æternum_; — rispose Filippo con un filo di voce, ma mettendo in quel filo di voce il meglio dell’anima sua. VII. Alzata d’ingegno. Esistessero o no i due amici di Verona, erano stati annunziati come ospiti di pochi giorni, non potendo essi restare a Venezia oltre il termine di una breve licenza. Dovettero dunque ripartire, e il conte Aldini si ritrovò quello di prima, libero del suo tempo, e padronissimo di ritornare alle sue consuetudini. Ma non senza aver fatto ancora quella passeggiata artistica, ch’egli stesso doveva immaginare e proporre. Ed era stata proprio una passeggiata all’aperto, per vedere qua e là tante di quelle piccole cose, che i viaggiatori non trovano indicate nelle guide, e che sfuggono perciò alla loro ammirazione forzata: per esempio quelle scale scoperte nei cortili di parecchie abitazioni private, come nel palazzo Soranzo in campo San Polo, nel palazzo Sanudo a Santa Maria dei Miracoli, nella casa abitata da Carlo Goldoni a San Tomà, e originale su tutte la scala dei Bembo alla Celestia in calle Magno. E non dimentichiamo, poichè piacque singolarmente a Margherita, il bel motivo architettonico foggiato ad arco trionfale su d’un calle angusto, in capo al ponte del Paradiso, presso Santa Maria Formosa. Il ponte, per verità, era piuttosto un voltino di gora, accavalciato sopra un rio non più largo di cinque passi; l’arco trionfale si riduceva ad uno stipite, poggiato su due pietre sporgenti dagli angoli di due case, onde l’entrata del calle si restringeva alle forme di un uscio. Ma su quello stipite si girava un lunetto ad arco acuto, con entro una Madonna rozzamente scolpita, mantellata e coronata, in atto di far grazia a due divoti personaggi, forse due santi, inginocchiati intorno a lei; ma su quel lunetto si alzava, andando su su, una cuspide di marmo, elegantissima, incorniciata di fregi di leggiadra fattura, chiudente nel suo mezzo un disco egualmente fregiato, e nel disco un’apertura quadrilobata, che a Margherita parve il trifoglio di quattro foglie, tanto ricercato dalle fanciulle nei prati autunnali, come certo promettitore di desiderate fortune. Suprema eleganza di linee, grazia veramente divina di forme! E accanto alla costruzione fantastica, sul lembo d’una casa contigua, una finestrina lunga lunga, fiancheggiata da svelte colonne, reggenti un cappello di pietra ad arco acuto, ma acuto a modo suo, tondeggiante sui fianchi, assottigliato nel vertice, come un asso di picche, alla maniera degli Arabi. Che eleganza, che grazia, anche lì! E come era bello, in luoghi così umili, così poco osservati, quasi schivi di attirare la curiosità del viandante, imbattersi in quelle piccole maraviglie, vera fioritura dell’arte d’un popolo che apre gli occhi alla vita dello spirito, e pensa, indaga e crea, nella giovinezza esuberante della sua immaginazione! Cose piccole, cose piccole, spesso da anteporsi alle grandi! Ed anche nelle grandi, dopo averle contemplate nella loro maestà, sono da osservare più attentamente le piccole. Quante ce n’erano, di queste, che Margherita non aveva nemmeno guardate, nei capitelli svariati delle colonne sorreggenti la facciata del palazzo Ducale, nelle finestre di San Marco, nelle absidi esterne dei Servi e dei Frari, nei balconi della Ca d’Oro o del palazzo Cavalli, tutte eleganze fiorite in cui per l’appunto è dato di cogliere la prima impronta di un nuovo stile nell’arte! In quella serie d’osservazioni, minute e non faticose, Margherita vide nascere il sesto acuto in Venezia e svolgersi con ispontaneità tutta italiana un modo di architettura che gli Arabi avevano elaborato, mescolando elementi bisantini e persiani. Quell’arte era venuta dall’emporio prediletto dei Veneziani intorno al Mille; venuta dall’Egitto, come le istesse reliquie del benedetto san Marco. E la signorina Cantelli fu piacevolmente maravigliata di saper tante cose nuove ad un tratto, guardando, paragonando, ascoltando; maravigliata ancora di conoscere, contro l’asserzione di tutte le guide, che le due fronti del palazzo dei Dogi, verso la piazzetta e verso la Laguna, non erano opera di Filippo Calendario, il famoso architetto e scultore, involto nella congiura del doge Marin Faliero, e perciò giustiziato nel 1354, settant’anni prima che il Senato deliberasse di atterrare le due fronti della fabbrica antica, edificata da Pietro Orseolo nel principio del dodicesimo secolo. Infine, la cara Margherita imparava in breve ora tante belle cose, che accrescevano maravigliosamente la sua stima per Filippo Aldini; e beveva frattanto a stilla a stilla, assaporandolo, il più dolce tra tutti i veleni. Aveva ella dunque trovato l’uomo ideale, il primo e l’unico, per cui non avrebbe detto di no? Un po’ triste di umore, veramente; spesso pensieroso, e qualche volta, richiamato da qualche domanda, aveva l’aria di cascar dalle nuvole. Ma queste erano inezie, e non guastavano affatto. Egli era poi così intento a lei, così pieno di riguardi per la mamma! E certo, per esser tanto malinconico, il signor Filippo aveva le sue buone ragioni; lei ricca, e fors’anco creduta più ricca del vero; egli non tanto, da poter aspirare a lei. Margherita aveva ben capito, da certi discorsi, che il conte Aldini aveva appena del suo tanto per vivere signorilmente da scapolo. E ciò bastava, se era invaghito di lei, per giustificare tutte le malinconie, tutte le tristezze ch’ella veniva osservando. Oh, ma ci avrebbe pensato lei; ne aveva il diritto, ne aveva l’obbligo, oramai. Non gli si leggeva il suo pensiero da più giorni negli occhi? E infine, ad un _digne_ da lei proferito a fior di labbro, non aveva egli con un filo di voce, ma con accento di vera passione, risposto _in æternum_? Finita la sosta degli amici di Verona, il conte Aldini aveva dunque ripigliate le sue consuetudini, e per conseguenza la serie delle sue visite ai vecchi amici di Venezia. Ai signori Zuliani, per esempio; ma a questi per la prima volta in palco, al teatro della Fenice. Naturalmente c’era da godersi la sfilata del cavalier Lunardi, del signor Telemaco, del signor Ruggeri, del signor Gregoretti, del maestro di musica; obbligato in chiave, quest’ultimo, poichè si trattava di musica, per l’appunto. E più obbligata ancora la contessa Galier di San Polo, che la signora Livia voleva aver sempre ai fianchi, dando ai maligni buon argomento a rinfrescare il paragone della luce e dell’ombra, con la debita chiosa dell’ombra che serve stupendamente per dare maggior risalto alla luce. Ma dopo tutto, quell’ombra sempre attaccata ai panni della luminosa Zuliani, era una signora vera ed autentica, non ricca, ma d’una nobiltà anteriore alla “Serrata del Gran Consiglio„, e faceva buon effetto nel quadro, intonandolo: allegra, poi, salda alla celia, chiacchierina a quel dio, era fatta a posta per tener viva la conversazione, colmandone le lacune, smorzandone le asprezze. Filippo Aldini, entrato nel palco per riverire la signora Livia, pensò che la Galier non avrebbe tralasciato di parlargli dell’incontro di tre giorni prima in capo alla contrada di Merceria. Ma c’erano altri discorsi avviati, e la contessa non ebbe occasione di venire sul tema; fors’anche le era passato di mente. Le cose andavano; erano tutti di buon umore, quella sera, nel palco Zuliani, perfino la signora del luogo; e quando l’Aldini prese congedo, un altro giorno era felicemente sbarcato. Ma bisognava anche fare una visita in casa; ed egli ci andò la sera appresso, dopo l’ora del pranzo, come soleva, quando non c’era teatro. Raimondo lo accolse a braccia aperte; la signora Livia, per contro, non era di buon umore; parole poche, e muso lungo un palmo. Raimondo fortunatamente parlava per due e rideva per quattro. Aveva ragione di essere allegro; la mesata prometteva bene; la condizione delle borse era eccellente in tutto il mondo civile; nessuna nube appariva sull’orizzonte europeo. Di qui, prendendo le mosse, Raimondo scivolò presto nella politica, che era il suo forte, o il suo debole, e passò in rassegna tutti gli stati, continentali o insulari che fossero, dell’orbe terracqueo. Filippo ascoltava, approvava, e secondava il ragionamento dell’amico, mettendo qualche parola nei luoghi opportuni, perchè l’altro avesse gusto a continuare. E non faceva niente di nuovo, poichè, discorrendo coll’amico Zuliani, era sempre stato suo costume accomodarsi alle battute. Ma quella eterna politica doveva annoiare maledettamente la signora, che più d’una volta si alzò dal suo canapé, andando or di qua or di là per la casa a dar ordini, a prender libri, o giornali di mode, che distrattamente sfogliava. — Non badare, sai, all’umore di mia moglie; — bisbigliò Raimondo all’amico, appena ebbe il modo di dirgliene. — Tu la conosci. È un angelo; ma quando ci ha i suoi nervi, poveretta, bisogna compatirla. Giornate di scirocco, dice lei; il medico mi dà una zuppa di parole greche da accapponare la pelle; ma poi, se Dio vuole, conchiude che son cose da nulla. — Filippo Aldini conosceva benissimo la signora Zuliani; non c’era bisogno di dirgliene altro, nè di scusarla con lui. Ma fu molto felice quando venne l’ora di andarsene. Raimondo, sempre ilare e verboso, lo accompagnò fino in anticamera. — Sai? — gli disse, quando furono là. — Viene il babbo. — Il babbo! — ripetè Filippo. — Che babbo? — Il signor Anselmo, perbacco. Che uomo mi sei divenuto, da non capire alla prima? — Filippo sorrise, e tentennò un pochino la testa. — Tu pensi sempre al tuo sogno, Raimondo! — Ma sì, e più che mai; tanto più che non è un sogno. Felice mortale, tu sei nato vestito. Ti amano tutti; perfino la signora Eleonora, non sa parlarmi più d’altro che di te. Quasi quasi è più innamorata lei di sua figlia. — Che cosa dici ora? Sua figlia.... — Eh, dico quel che si vede. La bella Margherita ti rende giustizia, e la lodo. — Ma che giustizia ha da rendermi? — Sappiamo tutto, felice mortale, sappiamo tutto; anche la visita di quattr’ore buone al Correr. — Con queste parole Raimondo accomiatò finalmente l’amico. — Ah! — pensava Filippo scendendo la scala del palazzo Orseolo. — La gallina ha cantato. Ma infine, chi mi ha ficcato in questo ginepraio, se non lui? Potevo io più liberarmene? — Intanto una cosa lo maravigliava. Se la gallina aveva cantato, perchè non era entrata la signora Livia a discorrergli delle sue visite artistiche? E perchè non gliene aveva parlato in salotto l’amico, che aspettava a dirgliene sull’uscio di casa? Questo, poi, gli pareva di capirlo. La signora Livia non poteva soffrire le Cantelli; le aveva invitate alla cena del capo d’anno, ma solamente per obbedienza al suo signore e padrone. E questi, per compenso, le nominava il meno che potesse davanti a sua moglie. Amabil ricambio di gentilezze coniugali! E tanto meglio, del resto. Ma possibile che Raimondo, espansivo com’era, non si fosse aperto con lei del disegno che si era messo in capo? possibile che di punto in bianco fosse diventato un diplomatico di quella forza? Se così era, come infatti appariva, non più Raimondo bisognava chiamarlo, ma Guglielmo, Guglielmo il Taciturno. Con queste “conclusioni estreme„ Filippo Aldini se ne andò in gondola verso il rio di San Felice, nelle cui vicinanze abitava. Un po’ fuori di mano, veramente, ma non troppo lontano dal corso Vittorio Emanuele; tanto che quella cara matta della contessa Galier aveva detto una volta: — Il conte Aldini ha scelto quel luogo remoto per farmi la corte; perseveri! — Sul corso Vittorio Emanuele si avviava il giorno appresso, tra il tocco e le due, la signora Livia Zuliani. Era dunque guarita de’ suoi nervi? Ma sì, lo aveva ben detto il medico; che erano disturbi passeggieri. Più che nervi, del resto, potevano chiamarsi vapori; ed era certamente effetto d’un residuo di vapori la voltata improvvisa della bionda signora, che, invece di salire dalla contessa Galier, con mutato consiglio ritornò sui proprii passi, e discesa al primo traghetto di fianco al palazzo Sagredo, entrò in una gondola, dicendo al gondoliere: — Riva degli Schiavoni, davanti all’albergo Danieli. — Che novità era quella? Guarita di nervi, la signora Livia si sentiva anche guarita della sua vecchia antipatia per le signore Cantelli? Buon cambiamento a vista, e spontaneo, che avrebbe reso felice il suo Raimondo, se fosse stato presente! Ed era proprio una cosa strana, da segnarla col carbon bianco. Dacchè le signore Cantelli erano capitate a Venezia, la signora Livia non aveva fatto se non una visita, in principio, e per obbligo di convenienza. Ma certo ella sentiva ora, che alla loro cortesia di avere accettato l’invito alla cena del capo d’anno dovesse seguire una visita di ringraziamento. Le signore Cantelli erano in casa, e l’accolsero a festa. La bionda signora si ritrovava in uno dei suoi giorni di bellezza, vividi gli occhi, di bel colore la carnagione; ed ella potè sentirsi abbastanza soddisfatta di sè medesima, passando nell’anticamera davanti ad un’alta specchiera, e non di quelle, Dio le confonda, che vi fanno la testa più lunga o più larga del vero, e la faccia, poi, verde come la buccia d’un cocomero. Era già nel salotto qualcheduno in visita; Filippo Aldini, a farlo a posta. Filippo Aldini, che seduto ad un tavolino nel vano di una finestra, disegnava a memoria il ponte del Paradiso colla sua viottola stretta nel fondo, e, gittata sovr’essa, in traverso, la bella cuspide triangolare di marmo. La signorina Margherita si era tanto invaghita di quel motivo architettonico, ci ritornava così spesso col pensiero e col discorso, che il conte Aldini aveva creduto obbligo suo di fargliene un piccolo disegno a matita, da restare come un ricordo della loro passeggiata artistica per i calli di Venezia. La signora Eleonora non si sentiva disposta ad uscire, quel giorno; tra perchè era un po’ stanca di tante gite pedestri, e perchè aspettava il suo Federigo, che alle tre dopo mezzogiorno era libero. Così avvenne che il conte Aldini, venuto ad offrirsi per un’altra passeggiata, restasse all’albergo in dolce prigionia, consolandone gli ozi, o giustificando una fermata che voleva esser lunga, col lavorar di matita, sotto gli sguardi attenti della signorina Cantelli. Margherita, che stava per l’appunto seduta accanto al tavolino del disegnatore, fu la prima ad alzarsi per muovere incontro alla signora Zuliani, che la ringraziò col più amabile sorriso e la baciò sulle guance. Ugual sorte toccò naturalmente alla signora Eleonora; dopo di che la bionda visitatrice si volse al conte Aldini, che si era alzato a sua volta, facendo un rispettosissimo inchino. — Ah, bene, casco tra amici! — esclamò la signora Livia, tutta ridente, nell’atto di porgere a Filippo la bella mano inguantata. Poi, volle vedere il disegno. Le era parso a tutta prima che il conte Aldini lavorasse a fare il ritratto della signorina Cantelli, e la sua curiosità non doveva esser poca, ignorando ella che l’Aldini, da lei conosciuto come dilettante paesista, trattasse anche la figura in grande. Ma no, niente ritratto; il disegno raffigurava un ponticello, uno dei tanti che cavalcano i piccoli canali della città, con due spigoli di case, e qualche saggio di scultura medievale; anticaglie, vecchiumi, e mezzo anneriti dall’umidità, dalla mancanza di luce, ch’ella non riusciva ad intendere come piacessero tanto agli artisti. I palazzi sul Canal Grande, alla buon’ora! — Grazioso! — diss’ella nondimeno, dopo aver osservato coll’occhialino il disegno. — Grazioso tanto! E colle sue figurine alte un centimetro! — Infatti, il disegnatore aveva animata la scena, mettendo sul ponte tre figurine, accennate con pochi tratti di matita. Minuscole com’erano, corrispondevano ai contorni di tre persone vere, le quali, essendo passate per l’appunto di là alcuni giorni prima, ci si potevano ben riconoscere. Ma forse non le poteva riconoscere ugualmente la signora Livia, tuttochè s’aiutasse coll’occhialino; comunque fosse, non si fermò a sminuzzolare un esame critico, che doveva esser breve e leggero. — Continui il suo lavoro, prego; — diss’ella finalmente; — non voglio interrompere.... — E senza finire la frase, si allontanò, andando a sedersi presso la signora Eleonora sul gran sofà che era accanto al camino. Laggiù tra le due svisceratissime amiche (si vedevano infatti per la terza volta) incominciò un lungo discorso, tessuto di tutte le cose vane che sanno dirsi le donne, e con aria di prenderci un gusto matto. L’unica cosa importante, per verità, fu l’accenno della signora Eleonora al suo Federigo, che presto si sarebbe imbarcato per un viaggio intorno al globo; dopo di che le signore Cantelli avrebbero levate le tende. Qui da una parte la conclusione naturalissima che il soggiorno sulla Laguna era stato un po’ lungo, e dall’altra la dichiarazione obbligata della felicità che n’era toccata a Venezia. La regina dell’Adria parlava molto amabilmente per le labbra della signora Zuliani. E batti tu che batto io, alla maniera dei fabbri, le due signore si diedero l’illusione di una gran tenerezza. Ah, se Raimondo fosse stato là in un angolo, o dietro un uscio a sentirle! Filippo Aldini stette ancora pochi minuti, per convenienza; poi, sempre per convenienza, prese congedo. — Lascio le signore ai loro discorsi; — diss’egli. — Noi uomini ci siam sempre di troppo. — Era seccato di quella visita, ma non voleva parere. Margherita capì facilmente che con quella visita sopravvenuta, un uomo di garbo non poteva star sempre là, e per quanto le dispiacesse la partenza di lui, lo lasciò andare senza chiedergli se fosse davvero finito un disegno, che in altre circostanze avrebbe potuto durare fino all’ora del pranzo. Quanto alla signora Eleonora, la condizione sua e l’età le permettevano di dar commiato all’Aldini con qualche parola cortese. — La rivedremo presto, signor conte? — domandò ella a Filippo, nell’atto di porgergli la mano. — Sì, sarà mio dovere; — rispose egli, inchinandosi. — E via, dopo lo _shake-hand_ indispensabile, che non è sempre una stretta di mano. — Un ottimo signore, e tanto garbato; — disse la signora Eleonora, quando egli si fu allontanato. — Sì, — concesse la signora Zuliani, — ha belle maniere. Ma già, — soggiunse con un risolino malizioso, — i giovinotti del giorno d’oggi son sempre così colle dame. — Non sarebbe dunque sincero? — chiese Eleonora. — Che dirle? Non saprei bene; — rispose la signora Zuliani. — Si parla sui generali. Quanto a me, li ho tutti per gentilissimi. — Ma qualche differenza si può far sempre, e alle volte si deve; — notò la signora Eleonora. — Lo conosce bene, Lei, il conte Aldini; e da qualche anno, mi pare. — Oh, dica da parecchi; mio marito lo vede tanto volentieri! — La signorina Margherita era rimasta alquanto più in là, davanti al disegno del conte Aldini, che voleva mettere per precauzione tra due fogli di carta. — Margherita! — le disse sua madre. — Vuoi tu farmi il piacere.... La signora Zuliani permetterà. Vuoi tu farmi il piacere di finire per me la lettera al babbo? Io sono troppo lenta nello scrivere, avendo anche bisogno di occhiali; — soggiunse, volgendosi alla signora Zuliani. — Volevo aggiunger io una pagina; ma Anselmo ci guadagnerà di aver tutta la lettera di pugno della sua figliuola. A te, dunque, mia cara; e si potrà mandare per la posta delle quattro. — Sì, vado, mamma; — rispose Margherita. — La signora mi scusi. — Oh cara! a patto che ritorni presto; — gridò la signora Zuliani. Appena la bella creatura fu uscita dal salotto, richiudendo discretamente dietro a sè l’uscio della camera attigua, la signora Eleonora si strinse al fianco della sua visitatrice. — Perdoni, mia buona signora; — le disse; — avevo bisogno di parlarle da sola a sola. Non vorrei abusare della sua gentilezza; ma certe parole sue, quando io ho fatto un piccolo elogio del conte Aldini, mi hanno messa in pensiero. Ella ha senno e uso di mondo; conosce la città, e coloro che ci vivono; il conte Aldini, poi, viene in casa loro; Ella che è donna, e delicatissima su certi punti a cui gli uomini non badano sempre, può darmene un’idea più precisa. Non merita egli tutta la stima che io facevo di lui? — Intendiamoci; — notò la signora Zuliani. — Ho detto di non saper fare alcuna differenza tra lui e tutti gli altri. Sarò troppo severa, o troppo poco esperta in materia; ma infine non volevo andare più in là. Si sa bene, del resto; giovinotti eleganti.... — Ma dissipati, vorrebbe aggiungere. — Non questo, propriamente; ma oziosi, pur troppo. E l’ozio, mi concederà, può condurre molto lontano. — Il conte Aldini non fa nulla, per l’appunto. — Nulla di nulla; — rincalzò la signora Livia. — Ha tanto da vivere; scarsamente, perchè i suoi non gli hanno lasciato di più; ma non avendo famiglia, diciamo pure che ha tanto da vivere. Certo, gli bisognerebbe rifarsi con un ricco partito. Qui non ce ne sono; almeno, non ce ne sono di quelli che potrebbero fare al caso suo. Egli, dopo tutto, non se ne dà pensiero; mio marito piuttosto. Ma io l’annoio con queste scioccherie.... — No, no, continui; tutto ciò m’interessa moltissimo. — Del resto, si capisce; — ripigliò la signora Livia, ridendo. — Mio marito è un gran partigiano del matrimonio. Contento di quello che ha fatto lui, della qual cosa io non vorrò dargli torto, darebbe moglie a tutti,, e prima di tutti al suo conte Aldini. Conte! ecco il titolo che secondo i calcoli di mio marito può valere una dote vistosa. Il signor conte, diciamolo pure, non ne ha mai voluto sapere. Già, le ripeto, giovinotti eleganti.... e galanti, hanno altro da pensare che a prender moglie. — Qualche pratica.... — balbettò la signora Eleonora. — Eh, che debbo dirle? Son materie gelose. Ma infine, Venezia non è Parigi, nè Londra: si finisce presto col sapere ogni cosa. Il conte Aldini, nei primi tempi del suo soggiorno a Venezia, si era veramente un po’ sparpagliato, cantando come si suol dire a tutti gli usci, e aveva fatto parlar molto di sè; poi a poco a poco si è raccolto, si è fatto più serio, vorrei dire perfino misterioso, vero tipo del _beau ténébreux_ dei vecchi romanzi francesi. Ad ogni modo, son cose che non mi riguardano. Viene spesso da noi, e ciò, me lo lasci dire in confidenza ad una signora assennata come lei, potrebbe anche essere pericoloso; tanto che alle volte, approfittando per l’appunto della occasione, vorrei fargli una ramanzina coi fiocchi. Ma non ho ancora l’età, da assumere una parte simile, nè con lui, nè con altri. Me ne rincresce, perchè il mistero c’è, e un mistero non senza pericoli.... — Ella, da quanto pare, conosce anche la persona; — osservò la signora Eleonora. — Un cenno malinconico di assenso le disse che si era apposta. — E.... la condizione? — riprese. — Il nome, se Ella si fida di me? — Non è il mio segreto; — mormorò la signora Livia con anima e voce contrita. — È giusto, perdoni; — conchiuse la signora Eleonora. — Capisco intanto che il conte Aldini dev’essere in uno stato d’animo assai dispiacevole. Queste pratiche hanno sempre la loro punizione con sè. S’incomincia senza pensarci troppo; la via del precipizio è sparsa di fiori; ma poi.... cara signora, ne ho vedute nella mia vita, di queste belle passioni, ne ho vedute, parecchie e finite presto in tragedie. Ah, uomini pazzi! e donne pazze! perchè son esse le maggiori colpevoli. — Lo crede? — disse la signora Zuliani. — Ne son certa. Gli uomini, infine, sono spensierati e temerarii; spesso non hanno idea di giustizia, nè di morale, due buone e belle cose facilmente dimenticate, perdute nell’uso e nell’abuso dell’esistenza. Mio marito dice qualche volta che l’uomo è nato cacciatore; poveretto! egli che non ha mai preso in mano un fucile da caccia! Ma la donna, che s’adatta a fare da selvaggina a questi cacciatori, che orrore! essa, poi, che avrebbe tante ragioni per esser forte, per custodirsi, per arrestarsi, se non altro, sulla via del precipizio! L’educazione, per esempio, una certa delicatezza di sentire, che nell’uomo è così presto cancellata dalle volgarità della vita, il pensiero della propria dignità, e finalmente la ragione più forte, quella che le val tutte.... — E quale? — La religione, non le pare? E non già quel tanto di religione che consiste nel pregare a certe ore, biascicando frasi che spesso non s’intendono, e si ripetono macchinalmente, senza pensarci più che tanto; ma la religione piena, intiera, meditata, che c’insegna i nostri doveri, facendoci intendere la bellezza e gustare la felicità d’una coscienza tranquilla. — La signora Eleonora si era un po’ riscaldata, cosa che le accadeva di rado; e ci diventava perfino eloquente, di quella eloquenza che viene qualche volta alle madri. La signora Livia, che non se l’aspettava davvero, n’era rimasta maravigliata, e quasi sopraffatta, tanto che per un istante, pensando alle ragioni enumerate dalla sua interlocutrice, dimenticò quelle che avevano determinata la sua visita e la sua piccola alzata d’ingegno. Ma certamente senza volerlo gliele fece tornare in mente la signora Cantelli, discendendo dalle altezze della tesi morale, per rifarsi al caso particolare ond’era stato mosso il discorso. — Quello che più mi rincresce, — ripigliava la buona signora, — è di pensare a quel povero giovinotto, che non è, poi, e non meriterebbe di essere come tanti spensierati. Egli almeno sente che la sua condizione non è bella. È spesso malinconico, e si capisce che un triste pensiero lo turba. Gli si domanda, per isviare le sue malinconie, gli si domanda, qualche volta di punto in bianco: ed ora, che cos’ha? Si scuote allora, si sforza di sorridere, e risponde: nulla, sa, non ho nulla; difetto del mio spirito, che s’incanta volentieri, e va qualche volta nelle nuvole. — La signora Livia tentennò ripetutamente il capo, atteggiando le labbra ad un risolino d’incredulità. — Eh! — soggiunse poi. — Che cosa le dicevo io? Altro che nuvole! Il conte Aldini ha quell’altra in mente; e non può non avercela spesso, anche contro sua voglia. Ma bisognava pensarci in tempo, come ha detto lei così bene, signora Eleonora, nella sua rettitudine; bisognava pensarci in tempo, quando si era ancora sulla via piana e sparsa di fiori. Perchè, dopo tutto, siamo giusti, anche quell’altra avrà ragione a dolersi, non lo crede? e meriterà un pochino di compassione. — Il ragionamento, che non faceva una grinza, poteva durare dell’altro. Ma fu interrotto da un grido soffocato, che veniva dalla camera attigua, accompagnato da un rumor sordo, come di una caduta. La signora Eleonora ne fu sbigottita. — Margherita! figliuola mia! — gridò ella, balzando in piedi e correndo ad aprir l’uscio. Per un istante aveva creduto di trovarla più vicina alla soglia, e già si pentiva di aver condotto il discorso su quell’argomento delicato, senza badare che qualche frase proferita a voce meno bassa poteva essere udita di là, e destar l’attenzione di Margherita. Ma la fanciulla si vedeva più oltre, colla persona abbandonata sopra un divano, a piedi del letto di sua madre. — Signorina, che è stato? che cosa si sente? — gridava a sua volta la signora Zuliani, accorrendo anche lei. — Niente, signora; niente, mamma; — rispondeva Margherita. — Un leggero stordimento improvviso, mentre venivo a domandarti d’una cosa da dire al babbo. Mi ero alzata dalla sedia, e tutto ad un tratto non ho potuto più reggermi.... Ma sarà una cosa passeggera, speriamo. — Se apriremo la finestra, sicuro; — riprese la signora Zuliani. — C’è troppo caldo, qua dentro. Ah, i caloriferi! — soggiunse, andando appunto a girare la spagnoletta delle imposte, e facendo entrare nella camera un’ondata d’aria fredda. — Ah, i caloriferi! invenzione diabolica! — Sì, difatti, era troppo caldo; — disse Margherita. — E quest’aria fredda mi ha fatto bene. Non ho più nulla; sorridi, mamma, non ho più nulla, davvero. — La signora Eleonora non era molto persuasa; ma finse di crederlo, anche per dar modo alla signora Zuliani di congedarsi più presto. La signora Zuliani non era meno desiderosa di andarsene che quell’altra di vederla andare; perciò, fatti ancora due vezzi alla cara Margherita, prese lestamente commiato. Ma la bionda signora non era forse guarita de’ suoi nervi, o de’ suoi vapori, come da principio pareva. Il tragitto dalla Riva degli Schiavoni al palazzo Orseolo le parve maledettamente lungo. Appena giunta a casa si mise a letto; e a letto la trovò Raimondo, quando capitò a casa per l’ora di pranzo. Effetti del caldo, diceva lei; troppo caldo in quell’albergo, dove era andata a visitare le signore Cantelli. Ma Venezia non aveva bisogno di tanto caldo, per bacco; non ne aveva bisogno con quel suo clima sempre uguale, temperato dai venti tiepidi della Laguna, specie negli appartamenti esposti a mezzogiorno. VIII. Tra due ammalate. Raimondo a tutta prima si sgomentò, e senza por tempo in mezzo mandò per il medico, sebbene prevedesse di sentirsi dire che erano cose da nulla, sperando, anzi desiderando, che fosse tale il responso. È sempre bene averlo favorevole, da uomini di dottrina e d’esperienza, se anche ve lo incartoccino di astruserie, o ve lo confettino di vocaboli greci. Il dottore Teodoro Dal Vago non era poi così ottimista come pareva, sentendolo discorrere al letto dei suoi ammalati. Era un medico esperto e consumato, che conosceva l’arte di non turbare lo spirito degl’infermi, nè delle loro famiglie; quelli sempre disposti ad aver nelle ossa tutti i malanni di cui si faccia il menomo cenno, queste sempre facili a spericolarsi per eccesso di tenerezza, e magari a lasciarsi sfuggire dagli occhi un segreto che l’ignoranza e la paura più facilmente ingrandiscono. Venne, osservò, tastò il polso, che in verità era poco regolare, sebbene non forte, nè teso, ma che egli ebbe la buona grazia di trovare eccellente; poi venne all’interrogatorio, che fu lungo, minuto, amorevole. L’ammalata accusava dolori qua e là, al capo, al petto, alle spalle. Forse reumatici? Ma sì, reumatici per l’appunto: non aveva ella finito di raccontargli come le fosse accaduto di restare un’ora buona a conversazione in un salotto troppo riscaldato, e di uscir poi all’aria pungente della Riva degli Schiavoni? Si trattava dunque di una infreddatura; e bisognava star riguardati, riposare, riposare e ber caldo. Del resto, passando dal caso particolare, che in sè non aveva nessuna gravità, alle condizioni generali del vivere signorile, specie nella stagione fredda, o troppo variabile, il buon dottore aggiungeva le sue riflessioni tra il serio e il faceto. — Se lo lasciano dire, mie belle signore? Sacrificano troppo alla moda, troppo agli usi del bel mondo; non pensano che la salute è un dono del cielo, e un dono a noi fatto, come quello della vita, per una volta sola; donde la grande necessità di tenerselo caro. — Oh brutto dottore! — mormorò la signora Livia, con quell’accento di bambina scorrucciata, che soleva adoperare col suo Esculapio. — Che cosa faccio, finalmente? Non dovrò andare più neanche a teatro? — Non dico questo; ma andandoci.... si lasci dire anche questo, meno scollato, e più bavero. — Ah, per questo, — saltò su a dire Raimondo, che il primo responso sul caso particolare aveva levato d’ansietà, — ti dirò anch’io come mia moglie: brutto dottore! ed anzi aggiungerò: “sior Tòdaro brontolon!„ Passi pel bàvero, per la pelliccia, per la mantellina ovattata, per quell’altro che tu vorrai, e che raccomando sempre all’uscita. Ma un po’ di scollato, Dio buono, quando si è dentro, un po’ di scollato!... È così bella, mia moglie! — Raimondo! — esclamò la signora, con una languida intonazione di rimprovero. — Ebbene? — ribatteva egli, animandosi. — È ciò, che dicono tutti. Quel po’ di scollato ti va così bene! Non si sente infatti ripetere che la tua linea, dal collo alla spalla, ricorda appunto la Venere Capitolina? — Il buon dottore sorrideva, avendo l’aria di partecipare a quei maritali entusiasmi. — Sì, sì, — riprese egli, — è l’opinione generale. Ma appunto per ciò mi raccomando. Pensate, ragazzi miei, che la Venere Capitolina ha ricco il platisma micoide. — Platisma? — ripetè Raimondo, interrogando. — Micoide; — ribadì il dottore Dal Vago. — Ma già tu vuoi la moneta in ispiccioli: diciamo dunque pannicolo carnoso, quello che scende da qui fin qua, dal mento al petto, e vi si sovrappone e segue amabilmente il pannicolo adiposo; cioè a dire quel buon tessuto cellulare sottocutaneo, che conferisce grazia alla persona, proteggendo anche gli organi respiratorii. La Venere Capitolina, se ben ricordo, ne ha quanto occorre. Il troppo stroppia; ma per mantenersi in quelle giuste proporzioni, bisogna aversi riguardo, e nel caso nostro non esporsi a perdere, cercare anzi di guadagnare. Dunque, dico io, preservativi, e ricostituenti. Ella è di complessione sana, ma delicata, signora mia bella; voglia guardarsi adunque dai troppo forti cambiamenti di temperatura, ed anche assoggettarsi ad una piccola cura che la rinvigorisca. Tutto ciò che riguarda la salute va fatto; tutto ciò che riguarda la bellezza non va trascurato. Dico bene? — Così, tra raccomandando e celiando, il dottore Dal Vago lasciò la camera della bella inferma, per andare nello studio di Raimondo a scrivere quelle due righe di recipe, senza cui non pare che il medico abbia adempito a tutti gli obblighi suoi. Rimasto solo con Raimondo Zuliani, il buon dottore parlò in un modo alquanto diverso da quello di prima. — Fenomeni isterici, mio caro; e qui prima di tutto, vogliono esser rimedii calmanti. — Isterici! — esclamò Raimondo. — Tu mi spaventi, dottore. — Perchè? Leggeri, anzi tutto. Non creder poi che questo sia soltanto il caso di tua moglie. Son tutte isteriche, più o meno, le signore dei nostri giorni. Ed anche gli uomini, infine.... — Anche gli uomini? Ho sempre creduto che l’isterismo.... — Eh sì, — interruppe il dottore, — che cos’è l’isterismo, se non una sovreccitazione del sistema nervoso, e una forma della nevrosi, che è il gran male del secolo? Ora, vedi, più si è deboli, e più facilmente si soggiace alle conseguenze di queste sovreccitazioni; onde i cardiopalmi, i fenomeni stenocardici, le dispepsie.... Ah, dimenticavo che tu non vuoi parole greche; diciamo dunque palpitazioni, stringimenti di cuore, digestioni difficili. — Ed ora non mi spaventi più, mi atterrisci. — Calma; siamo appena ai principii, e tutte queste brutte cose sono ancora in proporzioni ristrette. Ma poi, chi non provvede in tempo, va soggetto a convulsioni, alle contratture muscolari, ai trismi.... voglio dire alle contrazioni persistenti dei muscoli elevatori della mascella inferiore. Seguono o precedono, secondo i casi, le allucinazioni, le insonnie, le anestesìe sensorie.... voglio dire i mancamenti temporanei, le diminuzioni di sensibilità; nella vista, per limitazione del campo visivo, essendo resa insensibile una porzione periferica della retina; nella voce, nell’udito, e via discorrendo. Alle anestesìe, poi, si alternano le iperestesìe .... cioè, diciamo pure gli eccessi di sensibilità, come accade per l’appunto nelle allucinazioni, quando l’isterico, in uno stato di mezza incoscienza, vede ripresentarsi alla sua mente più scene della vita passata, e ti mostra di riviverle, negli atteggiamenti diversi del viso, o nei fenomeni ipnotici, nel sonnambulismo, ad esempio, quando egli risponde macchinalmente alle tue domande imperiose. Bada, — soggiunse il buon dottore, vedendo la cera contraffatta di Raimondo, — io ti parlo così, contro l’uso mio, perchè siamo lontani da questi pericoli, e vogliamo e dobbiam prendere in tempo le nostre precauzioni. _Principiis obsta_.... E questo lo intendi benissimo. — So anche il resto: _sero medicina paratur_; — disse Raimondo. — Ma i rimedii? — In farmacia non ne mancano; — rispose il dottore; — ma sono pei casi urgenti e in fondo in fondo son palliativi e non altro; calmanti, tonici, narcotici, ipnotici, non valgono certamente la cura diretta dello spirito, sussidiata dalla dietetica e dalla climatica. Distrarre la mente, nutrire e corroborare l’organismo, ecco il punto. Lo stomaco si adatta mal volentieri ad una nutrizione ricostituente, lo so; ma appunto per questo il cambiamento d’aria è raccomandato. Potrai tu lasciare per un po’ di tempo i tuoi affari? — Per lei, figùrati, farò questo ed altro. — Alla buon’ora. Stazioni climatiche invernali non mancano; in Liguria, per esempio, da Nervi a San Remo, e più in là, se ti piace. Si fa doppia cura, dello spirito e del corpo; ed anche è doppia quella dello spirito, perchè alle distrazioni moderate e sempre piacevoli della vita nuova, si aggiunge il benefizio dello avere abbandonata la vecchia, con tutti i suoi turbamenti. — Qui, per altro, — osservò Raimondo, — la mia Livia fa una vita abbastanza quieta. — Sì, va bene; ma le visite, i teatri, i balli, le conversazioni; son tutte cagioni di esaurimento nervoso, per una costituzione così delicata. — Come si fa, buon Dio? — esclamò Raimondo. — Come si fa a romperla con tutte le consuetudini sociali? — Eh, lo so bene; restando, non si può; ma andando?... Del resto, hai tempo a pensarci, poichè i disturbi della tua signora sono nello stadio iniziale. Forma leggera di una malattia molto seccante, si possono, si devono domare in tempo, per non aver noie più tardi. — Fatto questo po’ di chiacchiere, coll’amico Zuliani, il dottor Teodoro Dal Vago lasciò il palazzo Orseolo, e fuori di là il dialogo si restrinse in monologo. Sempre così, il buon dottore; un discorso al malato, un altro alla gente di casa, e il terzo a sè. — “Donne, donne! eterni Dei!„ — incominciò, canticchiando tra i denti, sull’aria conosciuta del _Barbiere_. — Eccone una che non me la dice giusta, colla impressione del freddo all’aperto, dopo essere stata in un salotto troppo riscaldato. Dio sa che altro sarà stato, per metterle i nervi in combustione. Ed è più malata che non sembri. Quella tosse spasmodica! quella respirazione accelerata! Già incominciamo dal dire che questa storia è vecchia; e di forma ereditaria, ci scommetterei la testa. La madre, a quel modo nevrotica, come è finita! Quanto a lei, è stravagante, a dirne poco. Capricciosa è sempre stata, dacchè la conosco, ed è ancora una bambina, a trent’anni, se non li ha passati d’un bel poco. Età climaterica, direbbero gli astrologi. Basta, se l’amico Zuliani si decide a tirarla via da Venezia, e lei si lascia condurre, che mi pare il più difficile, possiamo rimediarla ancora. Ma occhio alla penna! — Così conchiuso il suo ragionamento, se ne andò il buon dottore Dal Vago a visitare altri ammalati, a fare altri dialoghi, per finire con altri monologhi. I medici l’hanno ancora, la consolazione di questi piccoli sfoghi, dopo essere stati costretti a dir le cose per metà, ed anche a non dirle affatto. Raimondo Zuliani aveva bene inteso che tutta la serie dei mali minacciati alla sua Livia risguardava il futuro, e un futuro abbastanza remoto da lasciar tempo a provvedere e fondata speranza di scongiurarli. Perciò era presto uscito d’apprensione, non restandogli altra cura nell’animo se non quella di obbedire ai consigli del medico. Una cosa era ben risoluta, che sul finir di gennaio, o sui primi di febbraio, alla più lunga, avrebbe condotta la moglie in un clima più confacente alla sua salute. La gita in Liguria gli sorrideva: quanto agli affari del banco poteva fidarsi del signor Brizzi, uomo pratico, accorto, ed onesto a tutta prova. Del resto, pei casi ordinarii avrebbe provveduto il carteggio, e per gli straordinarii il telegrafo. In questi pensieri, aveva finito di calmarsi. Ed anche si calmava la signora, che la mattina seguente non aveva più nulla, nè dolori vaganti, nè tosse, nè agitazioni, nè ardori alla pelle. Certo, per quella volta, i fenomeni isterici non c’entravano affatto; il guaio era tutto venuto dal gran caldo nel salotto delle signore Cantelli. Anche i medici, poveracci, qualche volta la sbagliano. Oh, a proposito, una visitina alle signore Cantelli non era mica da tralasciare. Gli premeva la felicità dell’amico, e prima di muoversi da Venezia voleva anche per quel rispetto aver messe le cose a buon termine. Per intanto occorreva sapere se la signora Eleonora avesse ricevuto lettere dal marito, e notizia del giorno ch’egli sarebbe capitato a Venezia, come prometteva di fare. Andò dunque al Danieli, e di mattina, per esser sicuro di ritrovare le signore in casa; se no, ad aspettare dopo colazione, c’era rischio che col “felice mortale„ fossero andate a fare qualche artistica passeggiata. Salito all’appartamento delle signore Cantelli, trovò in salotto la signora Eleonora sola, accigliata e più taciturna del solito. — E la nostra bella Margherita? — chiese egli, guardando attorno, dopo aver fatto i suoi convenevoli. La signora Eleonora scosse la testa, e battè un pochettino le labbra. — Incomodata; — rispose poi asciuttamente. — Oh, senti! E da quando? — — Da ieri. — Strano! E mia moglie, che è stata qui, non me ne ha detto nulla! — Era appunto da noi, — replicò la signora Eleonora, — quando la mia figliuola si sentì venir male. — E la cagione? — domandò Raimondo. — Forse il troppo calore dei camini.... — Diciamo il troppo calore; — mormorò la signora Eleonora, assentendo a mezza bocca. — Dico questo, — riprese Raimondo, un po’ sconcertato, — perchè mia moglie, appena ritornata a casa, si è messa a letto con dolori per tutta la persona, accennando al freddo della strada dopo il gran caldo che aveva sentito qui. Ma il riposo assoluto e i pronti rimedii del medico le hanno fatto bene, tanto che ora ha potuto alzarsi un pochino. — Non così la mia Margherita; — disse la signora Eleonora, sospirando. — È ancora molto debole. — Che pena! — esclamò Raimondo. — Ella non può immaginare come io ne soffra. — Voleva chiedere se avessero chiamato un medico, e che cosa avesse egli trovato, che cosa ordinato. Ma vedeva la signora Eleonora così seria, così poco disposta ad accogliere le sue effusioni di cuore, che non ardì aggiunger altro su quel tema, e stimò opportuno di cangiar discorso. — Dal signor Anselmo ha lettere? — domandò egli, dopo un istante di pausa. — Le scrive che verrà presto? — La signora stette alquanto sopra di sè, battendo ancora le labbra; poi di schianto, non potendo più contenersi, proruppe in queste parole: — Senta, son quasi tentata di scrivere a lui che non venga affatto. — A quell’uscita inattesa Raimondo aveva dato un balzo sulla scranna. — E perchè? — domandò con voce trepidante, mezzo soffocata dallo stupore. — Perchè.... perchè.... — balbettò la signora Eleonora, pentita di essere andata troppo oltre, senza aver meditato le conseguenze dell’impegno in cui si metteva. — Ella ha ragione a volerlo sapere, il perchè. Ed è giusto che io glielo dica. Perchè il suo conte Aldini non è l’uomo per mia figlia. — Signora!... — riprese Raimondo, più stupito che mai. — Non intendo la cagione di questo suo mutamento improvviso; ed anche, mi consenta di dirglielo, irragionevole. Della parola, forse troppo vivace, Le chiederò scusa poi, quando avrò giustificato il concetto. Per sua norma, e sul mio onore, Le attesto che il conte Filippo Aldini è il fiore dei gentiluomini, e dei galantuomini, degno in tutto e per tutto di quell’angelo della sua cara figliuola. Lo innalzo troppo, mettendolo al paragone con la signorina Margherita? E sia; ma se nessuno può starle alla pari, nessuno potrà avvicinarsi tanto a quell’altezza, quanto Filippo Aldini; e questo glielo dico in coscienza dell’anima mia. — Non è l’opinione di tutti, — notò la signora Eleonora. — Ed io, — ribattè Raimondo, — non so di tutti, nè di pochi; so questo soltanto, che nessuno, intenda bene, nessuno al mondo, può pensare di Filippo Aldini diversamente da me. Chi ha potuto calunniarlo presso di lei, mentendo e sapendo di mentire? — Si calmi, signor Zuliani, la prego. Abbiamo bisogno davvero di tutta la calma possibile, — disse la signora Eleonora. — In ogni altra circostanza, mi creda pure, tacerei, non amando io un certo genere di ciarle, che possono degenerare in pettegolate di donnicciuole. Ma si tratta di mia figlia, ed ho l’obbligo di parlare ad ogni costo. Ella mi ragiona dell’amico suo con tanto ardore di convinzione, che debbo credere alla sua sincerità; ma posso anche credere che ella viva in un inganno continuo. L’amicizia, si sa, porta una benda sugli occhi come l’amore. Altri, a cui non fa velo l’amicizia, può aver veduto più chiaro di lei. — Voglio sapere.... la prego, la supplico di dirmi chi le ha parlato male di lui. — Male.... intendiamoci. È male per me, che son madre, e su certi argomenti delicati debbo essere scrupolosa; ma può non essere male egualmente per gli altri. Infine, e pregandolo ancora di esser calmo, faccia delle mie parole un uso discreto, da buon cavaliere e da onest’uomo. La sua signora, ieri, seduta lì, dov’è Lei in questo momento, mi ha fatto una pittura del conte Aldini, del suo passato e del suo presente, che senza esser troppo nera, badi, senza esser troppo nera agli occhi del mondo, sarebbe sempre nerissima agli occhi di una madre. Insisto su questo nome, — soggiunse nobilmente la signora Eleonora, — perchè in esso è la mia forza, e la giustificazione del mio operare. — Raimondo era rimasto attonito, come stordito da una percossa sul capo; e stette lì per alcuni istanti, senza proferir parola, guardando la signora Eleonora. — Mia moglie! — diss’egli finalmente. — Ma che cosa ha potuto raccontarle mia moglie, contro la verità sacrosanta? — Qui la signora Cantelli, che oramai non poteva più dissimulare nè attenuare, riferì tutto intiero il suo colloquio del giorno innanzi colla signora Zuliani, tra gli atti di stupore e i dinieghi di Raimondo, che non sapeva stare alle mosse. E narrò ancora dello svenimento di Margherita, che dalla camera attigua aveva potuto udire ogni cosa, o tanto che bastasse a farla cadere, povera innocente, dall’alto delle sue illusioni verginali. — Fu un grande errore, il mio; — conchiudeva la buona signora; — grande errore di non avere aspettato suo padre, lasciandoci intanto venir troppo attorno il conte Aldini. Ma che vuole? Conoscendo il modo di pensare del mio Anselmo, sapendo che in questi casi si è sempre rimesso al parere di sua figlia, non potendo infine dubitare di Lei, che mi stava garante del carattere di quell’uomo.... — E ne sto garante ancora; — interruppe Raimondo. La signora Eleonora fece un gesto che voleva dire: ne so abbastanza, della sua garanzia; poi continuò ad alta voce: — Ora il male è fatto, e bisognerà rimediare. Io sono grata alla signora Zuliani della sua sincerità, se anche questa sincerità è stata cagione involontaria dello svenimento di Margherita. Le ragazze, finalmente, debbono avvezzarsi a questi malanni; la vita ne è così piena! Mia figlia non è più una bambina, del resto; sentirà l’obbligo della sua dignità personale, e si riavrà di questo colpo. Quanto a me, se sono andata un po’ a precipizio nel fare, posso consolarmi pensando di essere ancora in tempo a disfare. — A disfare! a disfare! — gridò Raimondo. — Spero bene che ciò non sarà. Del mio buon disegno avevo scritto a suo marito, ed egli lo ha in massima approvato; nè certo poteva fare altrimenti, conoscendo la mia serietà, come la mia amicizia per lui. Ne va il mio onore, se Filippo Aldini non è pienamente giustificato. Ma si figuri! ciance di donne sciocche, o di giovinotti invidiosi, accolte alla cieca da una graziosa isterica! Eh sì, l’ho detto, e non mi disdico. Il medico me ne parlava ancora iersera. Amo mia moglie quanto ad un uomo è dato di amare una donna; ma la virtù non può andarne di mezzo, nè la giustizia; e la donna che amo non deve guastare i disegni che ho formati in mente, per la felicità di due nobili cuori. Per sua norma, signora mia, l’Aldini è l’onore personificato. Ella vuole concedere qualche cosa a sua scusa, dicendo: leggerezze agli occhi del mondo. Ebbene! non ci sono state neppur quelle. Ma non sa Lei che da quattro anni lo conosco, e da tre, poi, non passa giorno che non ci vediamo, ricambiandoci i nostri pensieri più intimi? La pratica di cui hanno riempite le orecchie a mia moglie, non c’è, creda pure, non c’è; ne saprei qualche cosa io, se ci fosse, perchè Filippo non ha mai avuto segreti con me. Pensieroso, malinconico, sì, un poco, e diciamo pure più del bisogno; ma è il suo naturale, e non occorre cercarne altre cagioni men belle; è pensieroso e malinconico, se mai, come tutti coloro che pensano e sentono, come, tutti coloro che aspettano qualche cosa, che so io? il loro astro sull’orizzonte. — Vogliamo dire che ne avesse il presentimento? — chiese la signora Eleonora, con accento sarcastico. — E lo dica pure; sarà nel vero. Non mi ha egli sempre detto di no, quante volte io gli ho fatto proposte, e vantaggiose in sommo grado per lui? Il cuore non c’era, il cuore non aveva parlato. Ha questa volta, no: il cuore è stato preso in un súbito. E badi, non voleva, e non vorrebbe neppur oggi farsi avanti, aspirare alla mano dell’angelica creatura. Egli sa che è ricca, troppo più ricca di lui, che possiede a mala pena un trecentomila lire di patrimonio. — Noi non badavamo a queste cose; — notò la signora. — Ma doveva badarci lui, delicato com’è. Vuole di più? Mi stia a sentire. Avendogli io detto che mettevo a sua disposizione cento o duecentomila lire, se occorrevano, per pareggiare le partite, non ne volle a nessun patto sapere. Gli pareva una bugia. Ma che bugia! Se a me piaceva di mettere quella somma a sua disposizione, quella somma era sua, magari per sempre. No, no, mi rispose, non parliamo di ciò; le ragioni d’interesse non vengano ad offuscare quelle dell’amicizia. Ho dovuto cedere io, rimangiarmi l’offerta. Un’anima rara, signora mia; anime tali non ce ne sono molte nel mondo. — Con che ardore ne parla! — esclamò la signora Eleonora, che si sentiva scossa a suo malgrado da quella foga eloquente. — È l’ardore con cui va difesa e sostenuta la causa della verità. Ne intenda l’accento, mia buona signora. Ella ha senno e prudenza; non creda niente. Mia moglie ha raccattato ciarle d’invidiosi, e, senza pensarci più che tanto, le ha riferite. Che follia! l’Aldini indegno!... Non creda niente, e dica alla cara Margherita di non creder niente neppur lei. Del carattere di Filippo Aldini, del suo modo di vivere, della sua fortuna, non grande, ma neppur disprezzabile, possono prendere informazioni da altri, se la mia testimonianza non basta. No? l’accolga adunque piena ed intiera; è quella di un uomo d’onore. Che interesse avrei io a mentire? L’Aldini non mi può certo far ricco. Ciò che io valgo in piazza lo sa benissimo il signor Anselmo, con cui ho relazioni d’affari da dieci e più anni, con cui ho tante operazioni in corso, ad utile suo non meno che mio! — La signora Eleonora fu sollecita a chetarlo e colla voce e col gesto. — Ma non si riscaldi per questo, signor Zuliani. Ella ora mi fa pena, lasciandomi credere che le mie parole contenessero qualche allusione amara per Lei. Non ho messa in dubbio la sua probità, la nobiltà del suo carattere. Son madre, ecco tutto; e forse ho dato corpo alle ombre. Ella mi giura che il conte Aldini è degno di Margherita; si figuri come son lieta di crederlo! E se sarà destinato in cielo, se Anselmo vorrà, non sarò io quella che farò il menomo ostacolo. Sappia bene, signor Raimondo, che il conte Aldini, a Lei tanto caro, io l’ho per così e per così. — E tutta commossa, parlando, la buona signora faceva colla mano distesa una gran croce di Sant’Andrea sovra il petto. Raimondo afferrò quella mano e la baciò con devozione d’animo grato. — Dunque, — ripigliò ella, conchiudendo, — crederò a Lei. E dirò a Margherita di credere con me. Oramai non si può, non si deve tacerle più nulla. — Raimondo se ne partì consolato, e la signora Eleonora si mosse per recarsi nella camera di sua figlia. Ma non andò oltre la camera attigua al salotto, che era la sua. Margherita era là, dietro l’uscio, inviluppata nel suo accappatoio, ancora un po’ tremante per un resto di febbre, ma cogli occhi scintillanti di gioia. — Ah, che follìa! — disse la signora Eleonora, stringendosela al cuore, e cercando di ricondurla presto al suo letto. — Mamma, perdonami! Ieri ho dovuto sentire per forza; parlava tanto alto, quella signora! Oggi, ho voluto; non potevo resistere: avrei avuto più febbre, a restare laggiù nel mio letto. Ma sono forte, sai; non mi sento più nulla. — Più nulla! più nulla! e ti brucia ancora la pelle; — replicò la mamma, traendola via. — Presto a letto, e discorreremo. Hai sentito, del resto; il signor Zuliani parla con molta sincerità; è un uomo d’onore, e gli credo. — Ah, vedi? Eran tutte bugie. — Sì, cara; ma c’è qualche cosa sotto, che non riesco a capire. Per fortuna hai bisogno di riposo, e mi stai riguardata qualche giorno ancora nella tua camera. — Oh, mamma! e quando quel povero Filippo verrà... — Quando verrà quel povero Filippo, lo riceverò io. Lo riceverò bene, non dubitare. Egli non merita di essere sospettato. Sta dunque tranquilla; non sarà come se ci fossi tu, a riceverlo; ma egli vorrà contentarsi. È necessario. Tua madre non è un’aquila, — soggiunse sorridendo la buona signora; — ma a certe cose ci arriva ancora. Bisogna aspettare il babbo, e col babbo la volontà del Signore. — Aspetterò.... e pregherò; — disse Margherita, umiliata. Ma era anche rassegnata, intendendo benissimo che aveva ragione sua madre. Al punto in cui erano le cose, bisognava andare più lenti, ed anche fermarsi un pochino; troppo si era corso fin allora, prima che il babbo avesse dato il responso. Ma col babbo si sarebbe rifatta e come! Col babbo non aveva sempre ragione lei? IX. “All’s well that ends well.„ Raimondo Zuliani arrivò quella mattina a casa, per la colazione, con una mezz’ora di ritardo; cosa che agli uomini d’affari accade sovente, ed anche a coloro che non hanno affari. Ma egli, quella mattina, non aveva perduto il suo tempo, e da quel lato poteva stimarsi felice. In fondo all’anima, piuttosto era stizzito parecchio per l’alzata d’ingegno di sua moglie. Ma perchè quel discorso matto di Livia alla vecchia Cantelli? Sua moglie non poteva soffrire la signora Eleonora; ed ecco, senza che ce ne fosse l’urgente bisogno, era andata a farle una visita. Capricci! Quella cara donnina aveva i capricci inesplicabili, come aveva le antipatie irragionevoli. Di queste, poi, ne aveva egli avuto le prove in molte altre occasioni; a proposito di Filippo Aldini, per esempio, che nei primi tempi ella vedeva volentieri come il fumo negli occhi. — Questi farfalloni! — diceva lei. — Come mi seccano! — Ma no, cara, no; — rispondeva egli. — Io lo conosco bene, ed è tutt’altro da quello che tu t’imagini. — Sì, bravo! come se non si sapessero tutte le sue scorribande! come se non si conoscessero tutte le belle che ha compromesse! — Ma qui Raimondo Zuliani aveva una sua teorica bella e fatta, che gli pareva inespugnabile. — Ordinariamente, mia cara, un farfallone non compromette se non le farfalline che si vogliono lasciar compromettere. Le Galier, verbigrazia. Eh, non andare in collera! Parlo della Galier, come parlerei delle.... aiutami a dire. E ancora, intendo parlare delle Galier che non abbiano raggiunta l’età del giudizio: perchè infine l’età del giudizio viene per tutte, e tanto peggio per quelle tra loro che non ne sanno approfittare. Del resto, niente di male; — concedeva bonariamente Raimondo; — sono gran signore, e non si mettono al bando per così poco; diventando più serie, riguadagnano in gravità ciò che hanno perduto in leggerezze, tanto che un bel giorno te le fanno perfino venerabili; un passo ancora, e sono canonizzate sante. Ma ritornando al mio amico Aldini, egli non ha mai ammesso nessuna delle imprese che tu gli regali. Visite, galanterie, perditempi, non nego; perditempi soprattutto, dei quali si è pentito amaramente, dopo essersi molto seccato. Del resto, vedi, io gli porto fortuna, tirandolo sempre più alla fede. E come no? Egli assiste in casa nostra ad un sano spettacolo, contemplando una coppia di sposi che si amano oggi come il primo giorno della loro unione. Qualche volta a vederlo lì, con la sua cera malinconica, si direbbe perfino geloso della nostra felicità. — Che idee! — Ma sì; e pare in quei momenti che lo assalga un vivo desiderio d’imitarmi. Son cose che si capiscono, che si afferrano a volo. Ed io, tant’è, voglio andare incontro al suo desiderio. — In che modo? — Cercandogli moglie, perbacco. — Si rideva, allora; e tanto più rideva la signora Livia, poichè non credeva che suo marito fosse l’uomo più adatto a simili uffici. Ma egli si era ostinato in quall’idea; la grande amicizia che lo legava a Filippo Aldini aiutava a fortificarlo nell’onesto proposito di trovargli moglie. Ed una volta era stato lì lì per azzeccarla; ma che è, che non è, proprio da Filippo Aldini gli venivano le difficoltà; quel caro sragionatore non aveva voluto a nessun patto saperne. Sragionatore, sicuramente; erano forse ragioni, quelle che opponeva all’amico? — Non sono ricco abbastanza per prender moglie; — diceva Filippo Aldini. — Povera, non posso; ricca, non voglio. Non me ne parlare, se mi vuoi bene. Il blasone degli Aldini, che tu metti avanti come un gran titolo, è veramente un po’ danneggiato; ma non vuol dorature. Il nome della mia casa finirà con me; non è forse meglio? — Una casa storica! — aveva ribattuto Raimondo. — Perchè lasciarla perire? — Appunto per ciò, perisca pure. Ho sempre pensato, sfogliando i grossi volumi del Litta, che le famiglie storiche guadagnino un tanto a rimaner sepolte nella storia, fasciate nelle loro bende imbevute di aromi. Già, i nomi che si perpetuano, corrono il rischio di seccare i posteri. E i posteri, caro mio, non hanno poi tutti i torti. Che cosa c’è più da fare, ai tempi nostri, se non piccole cose? Bisogna farsi piccini come esse, adattandosi a tutte le piccole leggi, a tutte le piccole consuetudini, che d’ogni parte stringono la nostra volontà, come i fili di seta degli abitanti di Lilliput stringevano il povero Gulliver sulla spiaggia dov’era naufragato. E non c’è pericolo che diventando piccoli uomini, i tardi rampolli delle grandi famiglie levino un po’ di credito ai famosi antenati? — Dio, quanti pericoli! — aveva esclamato Raimondo. — E quanti guai vedi tu in una proposta di matrimonio! Basta, lasciamola lì. Ci penserai meglio, e ci sarà da discorrerne ancora. Ma intanto non aveva creduto opportuno d’insistere, e per un pezzo doveva essergli passata la voglia di ritoccare quel tasto. La signora Livia, dal canto suo, aveva riso di gusto; e dal canto suo si era man mano adattata all’amico di Raimondo. Almeno, pareva che fosse così, perchè non le era più accaduto di dirne male, o di trattarlo con troppa freddezza, nelle rare visite ch’egli faceva in casa Zuliani. Bisognava proprio che le antipatie ripigliassero allora, mentre Raimondo era sul punto di vincere le ripugnanze matrimoniali dell’amico! E quell’altra antipatia per le Cantelli! Quella, poi, era la più irragionevole di tutte. Dall’appoggio del banco Cantelli non ripeteva le sue fortune il banco Zuliani? Giunto a casa, Raimondo trovò la sua signora, non pure alzata, ma risanata del tutto, come ella diceva, e di buonissimo umore. Per contro, era imbronciato Raimondo, avendo in corpo quel po’ di stizza che sappiamo. Certo, l’avrebbe smaltita, se Livia fossa stata ancora ammalata. Ma era sana, ilare nell’aspetto; ed egli, non potendo più digerirsi il suo malumore, non sapeva neanche dissimularlo. — Che cos’hai? — gli disse ella ad un certo punto, vedendolo mandar giù bocconi su bocconi, senza mai proferire una parola. — È calata la rendita? — No, anzi c’è un mezzo punto di rialzo. — O allora? — Allora, che? — Tu hai qualche cosa; ti si legge negli occhi. — Ebbene, sì; — rispose Raimondo; — sono in pensiero per quella povera fanciulla. — Povera fanciulla! — ripetè la signora. — Quale? — La signorina Margherita. È indisposta; e non dev’essere una cosa tanto leggera, perchè sua madre non me l’ha lasciata neanche vedere. — Ahi sei stato al Danieli. — Sì. — Qui, al monosillabo asciutto successe un breve silenzio. La signora Livia esplorava il volto di suo marito. Ma poco poteva vederne, perchè egli teneva il mento abbassato sul piatto. — E lo hai sentito, — riprese ella, — il gran caldo di quelle stufe? — L’ho sentito, e mi è parso tollerabile; — rispose Raimondo. — Del resto, facciamo a parlarci chiaro, bella mia; non è stato il gran caldo, quello che ha colpito la signorina Margherita, ma piuttosto certi discorsi fatti a sua madre, e che sua madre avrà dovuto riferirle. — Discorsi! di chi? — Tuoi, cara, a proposito del conte Aldini. — La signora Livia levò gli occhi al soffitto, come se volesse invocare quel di lassù a testimonio della sua innocenza. — Ma non può essere; — esclamò; — non può essere. Sua madre non può averle riferito nulla da alterarla, se Margherita si sentì male nella camera attigua, mentre io stavo ancora in salotto a discorrere colla signora Eleonora. — Allora diciamo che ti abbia sentita, ascoltando dietro l’uscio. E il tuo discorso era tale, certamente, da farle un senso spiacevole. Ne convieni? — disse Raimondo, studiandosi di dare alle sue parole la intonazione più delicata. La signora Livia ebbe l’aria di cascar dalle nuvole. — No, meno che mai; — rispose. — In che cosa, di grazia, qualche mia parola a proposito del tuo amico, sua conoscenza casuale, e neanche di antica data, poteva dispiacere tanto alla signorina Cantelli? — Ma tu non sai.... Tu non hai dunque capito, mia cara, che c’era di mezzo un disegno.... un disegno mio, di nozze fra lei e Filippo Aldini? — Ah, sì? questo? — esclamò la signora, con accento di gran meraviglia. — E perchè non dirmelo prima? Avrei saputo come governarmi. Tu non hai dunque confidenza in me? Sei brutto, molto brutto. — A quelle moinerie non resisteva Raimondo; non aveva mai resistito. — Ma che! — diss’egli, confuso. — Ti avrei avvisata di questi giorni appunto. Era un negozio appena appena incominciato, e poteva risolversi in nulla. Volevo esser sicuro di non fare strada falsa; volevo sentir l’opinione del signor Anselmo. Capirai, sono lavori fini, che vanno maneggiati coi guanti, come gli affari di banco. Ti parlo io degli affari che faccio, quando sono appena imbastiti? Li sai, quando sono cuciti di sodo; e ne hai la tua parte, bella mia. Non ti dico questo per farmene un merito, ma solamente per ricordarti che io ti associo nel mio pensiero a tutto quello che faccio, essendo sicuro che tu mi porti fortuna. Ma tu, piuttosto, perchè fare quel discorso alla signora Eleonora? — Discorso! — rispose Livia. — Bisognerebbe sapere in che termini ti è stato riferito, poichè ella ha stimato di farne un gran caso. Del resto, ecco qua, se lo ricordo bene; si parlava di tante cose, e di tante persone, come è l’uso, senza dare importanza a nulla. È venuto in ballo il signor Aldini, e la signora Cantelli mi ha chiesto che uomo era. Le ho detto quello che ne sapevo io, quello che ne avevo sentito dire, quello che se ne è sempre raccontato nei salotti di Venezia, e meno, s’intende, assai meno di quello che avrei potuto. — Ma la signora Cantelli se ne è conturbata; — osservò Raimondo. — Si conturba di poco; — rispose Livia, alzando le spalle. — Ma già, dovevo ricordarmelo, che è un’oca. Sì, le ho detto che è un giovine alla moda; che ha fatto molto parlare di sè, pei suoi trionfi in società; che ora si è dato al tenebroso, al misterioso, come un eroe da romanzo, e che ci doveva esser sotto una grossa passione; quello che infine si dice da tutti. Ho aggiunto che tu lo ami molto, lo proteggi, lo difendi a spada tratta. E avrò anche detto, in risposta ad una domanda dell’oca, che non è ricco, vivendo egli d’una piccola rendita. — Male! — esclamò Raimondo. — Perchè, male, se è il vero? Dovevo io farlo passare per un milionario travestito? Che cosa voleva lei che gliene dicessi io? che glielo gabellassi per il più ricco, il più santo, il più meraviglioso degli uomini? — Ma tu sei crudele con quel poveretto! — notò malinconicamente Raimondo. — Speravo che conoscendolo meglio tu ti fossi oramai riavuta di certa antipatia primitiva, e lo vedessi un po’ più di buon occhio. — Non l’ho da vedere nè di buono nè di cattivo; — replicò la signora. — Mi annoia sempre un pochino che tu t’innamori tanto d’altre persone. — Bambina! Ma non si tratta già di una bella signora! — Eh, non ci mancherebbe più altro! — conchiuse Livia, con accento di comico dispetto, che piacque maledettamente a Raimondo. — Basta, — diss’egli rimettendosi al grave, — ho aggiustato io ogni cosa. — Ah! e come? — Dicendo alla signora Eleonora che son tutte ciarle di scioperati. L’Aldini è un gentiluomo serio, che frequenta poco il bel mondo, e perciò gli hanno fatta riputazione di uomo misterioso, come, quando lo frequentava, gli avevano fatta quella di uomo leggero. — Scaricando lui, naturalmente, avrai caricata un tantino tua moglie; — notò la signora, con accento di sottile ironia. — No, me ne guardi il cielo; ho detto che potevi essere indotta in errore da ciarle di scioperati ed invidiosi, che nei salotti disgraziatamente son troppi, e confondono gli spiriti più elevati, come i cuori più nobili. Voi, donne care, non ci badate, a certe malignità, che possono anche parervi innocenti burlette, e perfino verità sacrosante. Quando una cosa vi preme poco, ascoltate, non andando a vedere il fondo, e bevete grosso, come le spugne. L’Aldini, io ho dovuto studiarlo a lungo, direi quasi sminuzzarlo. Come gentiluomo, non c’è nulla da dire; come amico, è leale, sincero, senza segreti per me, ed io ho potuto in coscienza farmi garante per lui; come proprietario, non è ricco, ma neanche può dirsi povero. È questione d’intendersi sul valore del vocabolo; ad ogni modo, trecentomila lire di terre al sole, non sono miserie da povera gente. — Ma non saranno neanche grandezze, da poter aspirare alla mano di una Cantelli. — Perchè? So, a buon conto, che Anselmo non fa questione di denaro. È tanto ricco lui! Ha sette milioni di sostanza, già consolidata, come si dice, in beni stabili, rendita nominativa, buoni del tesoro, azioni di ferrovie, di banche, e va dicendo. Conosco il suo asse, come egli conosce il mio, tanto più modesto del suo. — Fortunato, l’Aldini! — esclamò la signora Livia. — Ma quanto ne toccherà a lui, di quei sette milioni? — Il conto è presto fatto; — rispose Raimondo, che si sentiva invitato al suo gioco; — basta attenersi alla legge. Non è infatti da credere che nel suo testamento il signor Anselmo voglia trattare con diversa misura i suoi figli, e la femmina men bene del maschio. Quanto assegnerà egli in dote a Margherita? Tre, quattro, cinquecento mila lire? Lo saprò, quando avremo discorso a quattr’occhi; ma la batte sicuramente tra questi numeri. Siano anche cinquecentomila, come propendo a credere; non intaccheranno i sette milioni, che da qui al giorno fatale “della partenza che non ha ritorno„ vorranno esser cresciuti d’un bel poco. Ragioniamo dunque sui sette: della metà, cioè dei tre milioni e mezzo, il testatore può disporre come crede, per beneficenze, o per impegni diversi che possa avere, o per favorire la sua vedova a cui per legge un po’ cruda spetterebbe soltanto l’usufrutto d’un quarto sull’altra metà dell’asse, divisibile in eque parti tra i figli. Io penso che Anselmo vorrà lasciare la signora Eleonora assai ben provveduta; e penso ancora che della quota a lei assegnata, la brava signora vorrà poi disporre in parti eguali tra i figli. Quanto ai tre milioni e mezzo, divisibili tosto tra i figli, Margherita ne avrà la metà, compresa la dote già ricevuta; dunque un milione e settecentocinquanta mila lire. E questo è il sicuro; resta sempre l’incerto, ma probabile, come avrai già capito. — Si adatterà, il tuo amico? Sai bene quello che pensa, in materia di denaro. — Sì, so bene quello che ne pensava un giorno; — rispose Raimondo, sorridendo. — Ha dunque cangiato opinione? — No, ma vedi, mia cara; in tutti i ragionamenti umani c’è sempre un piccolo elemento perturbatore, che te li cambia lì per lì nel cervello, quando meno ci pensi. Qui non si tratta più, come un giorno, di accettare o no una proposta di alleanza con una persona sconosciuta, o indifferente; qui s’è intromesso l’elemento perturbatore, quell’elemento che i poeti chiamavano una volta “il bendato arciero„. — Ma non vorrà essere ugualmente bendato il banchiere; — osservò con molto giudizio la signora Livia. — I banchieri hanno l’uso di tener gli occhi bene aperti; e non ci vogliono bende, se mai, preferendo un buon paio di occhiali. Vorrà almeno che ci sia tanto da garantirgli la dote. Ora tu propendi a credere che la dote sia di cinquecentomila lire.... — C’è rimedio anche a questo; — rispose Raimondo, con aria di trionfo. — E le dugentomila che soverchiassero il patrimonio di Filippo, s’investirebbero con tutto il resto della dote in altrettanta terra, magari accanto a quella che già possiede Filippo, arrotondando così la tenuta, e facendone un vero latifondo. Ti capacita? Quanto alla parte dell’eredità paterna, è cosa di là da venire, e Margherita potrà costituirsela in sopraddote. Il signor Anselmo, del resto, come ti ho detto, non cerca ricchezze, ma la felicità di sua figlia. Che vuoi tu che si faccia dei denari di un genero? Ce ne siano per la decenza, e basteranno. L’essenziale è che ci sia serietà nel giovane, e che il giovane piaccia a Margherita. Ora il giovane è serio, e le piace. — Come lo sai? — domandò la signora. — Te lo dimostra abbastanza il suo svenimento. — Ma proprio non mi vuoi credere che sia stato il gran caldo? — Non voglio? non posso. Metti pure che la signora Eleonora mi abbia tutto confessato. — Allora, non parlo più; — disse Livia, dando in uno scoppio di risa. E seguitava a ridere come una pazza, arrovesciando il capo sulla spalliera della scranna, a ridere sfrenatamente, fino a farsi venire il singhiozzo. — Perchè ridi così? — le chiese egli finalmente. — Rido della confessione, mio caro; — rispose la signora, ripigliando lo sfogo della sua profonda ilarità. — Ma che si confessano i segreti delle ragazze, agli amici di casa? È un’oca ti dico, anzi una pàpera. E se poi, Dio guardi, per una ragione o per l’altra, si scombinasse il combinato, i dolci segreti della bella Margherita sarebbero stati messi in circolazione. — Si fermeranno a me; — disse Raimondo. — E a me; — soggiunse Livia. — Siamo già in due a conservarli. — Non sei tu una parte di me stesso? e la migliore? — riprese Raimondo. — Sia, come vuole la galanteria del mio signore e padrone; — conchiuse Livia amabilmente; — ma la signora Eleonora resta sempre una gran sciocca. Il migliore amico dell’oggi può essere domani tutt’altro. Dopo di che, corro il rischio di diventarci oca ancor io. Che importa a me di tutto ciò? Ognuno si contenti a suo modo. Così, dunque, secondo te, questo matrimonio è sicuro? — Spero bene; si potrà crederlo tale, dopo l’arrivo del signor Anselmo. — Che sarà stato informato di tutto, m’immagino. — Certo, e verrà presto, appena abbia sbrigato alcuni affari urgenti. Che te ne pare? Ho io fatte le cose per bene? — Ottimamente. Ma se permetti un’osservazione.... — Permettere! — esclamò Raimondo. — Ma tu sei la mia padrona; lo sai bene, questo! — Sì, sì, ma qualche volta.... — mormorò ella, con quell’accento bambinesco, che le andava così bene, — Ci sono delle osservazioni che annoiano, che potrebbero perfino offendere un uomo. — Ed ora, mia bella, tu mi rendi curioso, curioso come.... — Come una donna, di’ pure; ti assolvo. — Ed io te, per la tua osservazione, che aspetto. — Eccola qua; non sei un po’ sciocco, anzi molto sciocco anche tu? — Raimondo balenò un istante sulla vita. Sentirsi dir sciocco non è piacevole mai ad un uomo. — In che modo? — diss’egli turbato. — Col tuo voler lasciare la professione di banchiere, per cangiarti in sensale di matrimonii. — È tutto qui? — riprese egli, riavendosi un poco. — Tutto qui. — Ebbene, aggiungi sensale a titolo gratuito. — Ma è sempre ridicolo, sai. — Raimondo era lì lì per sentirsi tale davvero. Ma si fece forza, e cercò ragioni da nobilitare il suo atto. — Per l’amicizia, mia cara. Che cosa non si farebbe per l’amicizia? Aggiungi il punto d’onore. Sì, certo, anche questo è stato il movente. Quel cervello balzano di Filippo non mi aveva battuto una volta, con le sue ragioni che non erano ragioni? Gliel ho detto allora; ci penserai meglio e ne riparleremo. Ho aspettato il mio giorno e la mia ora. In cambio di proporgli un partito, gliel ho fatto capitare davanti agli occhi, senza dargli avviso del pericolo. N’è rimasto abbagliato; s’è innamorato a buono, e il dardo dell’arciero bendato non gli esce più dalla ferita. Ho vinto io, dunque; ho riconquistato il mio onore, essendo stato più forte di lui. Che ne dici? — Che hai molto buon cuore; — sentenziò Livia solennemente; — molto buon cuore. — Sei dunque contenta della mia vittoria? — Sì, caro, contentissima; quantunque, con tutta la tua vittoria, tu non mi abbia l’aria di muovere in cocchio verso il Campidoglio, ma di volerti adattare piuttosto a seguire il cocchio degli altri. Ti par bello? Hai fatto, e finirai di fare l’intermediario tra gli amori altrui. Mettici pure di mezzo il parroco e il sindaco; il fatto è sempre quello. Ma il fatto non si può disfare, e contentiamoci così. Torno a dirti che sono contentissima. Se tu mi avessi avvertita prima, del tuo lavorìo, non avrei certamente messo parole a guastarlo. Per fortuna, hai potuto rimediare, e dare anche una spinta più forte al cocchio di cui parlavamo. Così ha ragione il proverbio, che tutto il male non vien per nuocere. — Ma se lo dico io, che sei un angelo! — gridò Raimondo che vedeva finire in un’aperta di cielo quella mezza burrasca. — Hai le tue piccole antipatie, veramente. — No, caro. L’oca mi dà un po’ di noia, ecco tutto. La figlia è carina, e le rendo giustizia. Carina per ora, intendiamoci; bisognerà vedere come metterà. — Oh Dio, degli altri dubbi? — Già; se diventasse un’oca come sua madre, che brutti giorni al signor conte! — E ripigliava a ridere, la signora Livia, a ridere più che mai, fino alle lagrime, e facendosi ritornare il singhiozzo. Raimondo pensò che quello fosse un ridere troppo forte per troppo lieve cagione. Ma conosceva il carattere di sua moglie, con quella facilità di andare agli estremi. Ora tra un estremo e l’altro, era da preferirsi quello del ridere. Il ridere fa buon sangue, finalmente. Ed egli poteva consolarsi pensando al titolo di una commedia dello Shakespeare: _All’s well that ends well_; è tutto ben quel che finisce bene. Per tali ragioni Raimondo Zuliani se ne andò quel giorno assai felice al suo banco; felice ancora di essersi sollevato d’un gran peso, confidando alla sua Livia il segreto che gli doleva di aver mantenuto troppo a lungo con lei. Quel giorno, ancora, a pranzo, la bella signora trovò nella sua salvietta un astuccio di velluto azzurro che prometteva gran cose. — Un gingillo, — disse Raimondo, con aria modesta; — ed era un gioiello di grandissimo prezzo, una vera meraviglia, un regalo da principe. X. Idilio domestico. Filippo Aldini aveva lasciato passare un giorno senza andare al Danieli. La visita inaspettata della signora Zuliani, mettendolo presto nella necessità di congedarsi, gli aveva impedito di chiedere alle signore Cantelli se potesse piacer loro di fare qualche altra passeggiata artistica la mattina seguente; perciò non aveva stimato neanche opportuno di ripresentarsi, e senza una apparente ragione, a ventiquattr’ore di distanza. Andò il terzo giorno, che era un mercoledì, conciliando col suo desiderio le convenienze sociali. Lo ricevette la signora Eleonora, che era sola nel salotto; nè per tutto il tempo delle solite ciarle preliminari d’ogni visita di cerimonia Filippo Aldini vide comparir Margherita: l’uscio della camera attigua, donde soleva presentarsi la luminosa figura, rimaneva inesorabilmente chiuso, “d’ogni lume muto„. Ardì finalmente chieder di lei, parendogli che più del parlarne fosse disdicevole alla condizione sua di visitatore il tacerne. — È poco bene; — gli disse la signora Eleonora. — Il medico le ha raccomandato qualche giorno di riposo. — Speriamo sia cosa leggera; — riprese egli turbato, invocando colla intensità dell’accento e dello sguardo una confortante risposta. — Sì, sì, leggera; ci ha avuto un po’ di febbre; ma anche questa è svanita. — La signora Eleonora rispondeva impacciata, fors’anche di mala voglia, e Filippo Aldini non osò chieder di più. Era già per andarsene, avendone buon pretesto nel timore di riuscire importuno; ma la signora lo trattenne, dicendo che per allora la sua Margherita non aveva bisogno di lei. Così seguitarono un altro poco a discorrere, lei senza calore di frasi, egli non sapendo che dirle di nuovo o di vario, per offrire appiglio ad una conversazione che non fosse di parole scucite. Per fortuna giunse Federigo, e la signora Cantelli si animò un tratto alla presenza del figlio. Anche Filippo ebbe modo di tacere, senza venir meno alle buone creanze, e tempo di collocare discretamente qualche frase qua e là. Poi se ne andò, giustamente immaginando che il suo rimanere più a lungo avrebbe impedito a quei due di andare nella camera di Margherita. Quella indisposizione subitanea, e più ancora il silenzio intorno alle cause che l’avevano prodotta, mettevano Filippo Aldini in una grande ansietà, ch’egli tentava invano di dominare. E Raimondo non ne sapeva niente? Forse da lui avrebbe saputo qualche cosa. Passò dunque a salutare Raimondo al suo banco, non facendo nulla di strano con ciò, poichè soleva andarvi quasi ogni giorno, dalle tre alle quattro del pomeriggio. Raimondo fece festa all’amico, secondo l’uso, e fu il primo a parlargli delle Cantelli, chiedendogli se fosse andato a salutarle. — Sì, sono stato; la signorina Margherita è indisposta; — rispose Filippo. — La signora Eleonora dice che è cosa leggera. Ma che sarà veramente? — Non te lo ha detto? — No, niente, ed io non ho creduto conveniente insistere colle domande. — Ebbene, te lo dico io; è stato un effetto del gran calore che mandano le stufe dell’albergo. Anche mia moglie ne ha sofferto, solo a restarci un’ora in visita: ma per lei, fortunatamente, è bastata qualche ora di letto; mentre la signorina Margherita, che a quella fornace si è scaldata più lungamente, ne ha sofferto di più. Non temere, per altro; è cosa da nulla, tanto da nulla, che ieri, quando fui al Danieli, la signora Eleonora non aveva neanche chiamato il medico. — Lo ha chiamato poi; — disse Filippo; — perchè me ne ha parlato. — Ah sì; e il nome? — Non lo ha detto. — E che cosa ha ordinato? — Qualche giorno di riposo. — Vedi dunque? Non c’è da stare in affanno, mio felice mortale. Ci si vede, stasera? Non si va a teatro, e si fanno quattro ciarle, al solito dei mercoledì. Ma vieni per tempo; se no, potrebbe darsi che uscissi, e ti vedrei troppo tardi. — Filippo Aldini promise. Andare per andare, meglio di prima sera, per non correre il rischio di perdere la compagnia dell’amico. Raimondo era di buonissimo umore: a casa fu piacevolissimo, pensando sempre come la sua Livia avesse gradito il suo regaluccio. Disponendosi ad accompagnare la moglie nella sala da pranzo, le disse tra tante altre cose più o meno importanti: — Stasera avremo il nostro Filippo. — La signora Livia non rispose. Ma forse non aveva udito; poichè egli, dopo un istante, riprese: — Se almeno capitasse sull’ora del caffè!... Egli ha sempre detto che quello di casa Zuliani è il primo caffè di Venezia. — Chi? — domandò la signora. — Filippo, Filippo Aldini. È passato da me oggi alle quattro; e mi ha promesso di venire questa sera da noi. Vedi come son forte in grammatica. — Che cosa viene egli a fare? — scappò detto alla signora. — S’è inabissato il Danieli? non dovrà egli condurre le signore Cantelli a teatro? — Non è questo il suo uso; — notò pacatamente Raimondo. — Poi, come ti ho detto, la signorina Margherita è ancora indisposta. — Ah, non ci pensavo. E allora il signor conte si degna di venire da noi? Staremo agli avanzi. — Ma che idea! — Bene, lo riceverai tu. Io mi ci seccherei; e il meglio sarà di darmi per ammalata. Non è la moda? — Via, fammi il piacere! — gridò Raimondo. — Che cosa ci hai, contro quel poveretto? — Niente; che vuoi ch’io ci abbia? O piuttosto, sì, pensandoci meglio, sento di averci qualche cosa. Prima d’ora, lo stimavo; oggi.... mi pare un altro uomo, e un altro carattere. Sai che son fatta così; quel che penso debbo dirlo, o lasciarlo capire. E intanto, con tutto quello che penso, dovrò, per far piacere a te, parlargli della felicità che lo aspetta, e rallegrarmi con lui della gloria di quei due milioni, o giù di lì, che la fortuna gli porta. — È tutto qui? — disse Raimondo. — Non gliene parleremo. — Sarebbe l’unica; — consentì la signora. — Ma tu col tuo fare così largo, così espansivo, sarai capace di star zitto? — L’osservazione non era piacevole; ma Raimondo ebbe il buon senso di mandarsela in celia. — Ah sì, birichina? Perchè non ho saputo tenere un segreto con te, mi credi incapace di star zitto con gli altri? Ma con te era un’altra cosa, mia bella. Non potevo tacerti più a lungo un’idea che mi premeva tanto, e che contro il tuo pensare, permetti, mi pareva e mi pare sempre più una bella cosa. — Puoi dirla anche bellissima; — rispose la signora. Che si canzona? Un milione e duecento cinquantamila lire, e poi la dote di cinquecentomila. — No, cara; la dote prima, l’eredità poi, e speriamo assai tardi. — È tutt’uno; e verrà egli in possesso di tutto. — Neanche questo; sarà tutta roba dei figliuoli. — Che han da venire; — commentò la signora. — Ed egli frattanto amministrerà. — Amministrare non è scialacquare, ed egli vorrà tenere i suoi conti in regola. Oh, infine, perchè una ragazza è ricca, non troverà più un galantuomo che s’innamori di lei? E se il galantuomo s’innamora, dovremo noi sospettarlo di secondi fini? Sii giusta, amica mia, sii ragionevole. — Sì, sì, quello che vorrai; tanto più che non ho da farci uno sforzo; — rispose la signora, ridendo di quel suo riso pazzesco. — Un giudizio interiore sugli atti del prossimo nostro non si può soffocare, ecco tutto. Ma il fare una bella o una brutta cosa, risguarda lui. Resta che io non gli entrerò di nulla, e tu nemmeno; altrimenti un po’ d’amaro dovrebbe uscir fuori. — Ma perchè, Dio santo, perchè? — Sei tu che me lo domandi? Tu, a buon conto, hai sposato una donna che non aveva un soldo. Ho detto un soldo. — Bella forza! — esclamò Raimondo. — Quella donna era Livia la bella. — Anche quell’altra è bella, ma con la ricchezza in più. — Bella, sì, non lo nego; — riprese Raimondo. — Ma che paragoni vuoi fare? Sono essi possibili? Riconosco tutto quello che va riconosciuto; ma sopra Livia, o alla pari con Livia, niente, niente; hai capito? vuoi che vada a gridarlo sul campanile di San Marco? — Livia era in quel momento un po’ avanti a lui. Si arrestò, mentre egli finiva la frase, gli appoggiò le spalle sul petto, e arrovesciando il capo sull’omero di lui, volse la faccia ridente per modo che il galante marito potè cogliervi un bacio. Quella sera Filippo Aldini capitò al palazzo Orseolo; non sull’ora del caffè, come Raimondo avrebbe desiderato, ma pochi minuti più tardi. Fu accolto con grazia incantevole dalla padrona di casa, e di ciò fu contento Raimondo assai più che di poter offrire all’amico una chicchera del primo caffè di Venezia. Così, fatto felice con poco, Raimondo parlò volentieri per tre, mentre Filippo anche più volentieri ascoltava, e la signora Livia guardava i giornali, interrompendo di tratto in tratto quella leggera occupazione con qualche breve sparizione; per dar ordini, naturalmente, e una volta poi per ritornare tutta gloriosa e trionfante con una gran busta di velluto azzurro, che posò sulla tavola sotto gli occhi dell’Aldini. — Confetti? — mormorò egli, tanto per dire qualche cosa. — Se ne gradisce, signor conte; — rispose la signora, facendo scattare il coperchio. — Per serate di gala. — Filippo Aldini rise involontariamente dell’errore in cui era caduto. Ma l’errare è da uomini, specie in simili cose. La gran busta di velluto azzurro racchiudeva nella sua custodia di raso bianco un gioiello stupendo, una specie di diadema tra lo stile egizio e l’etrusco. Un cerchio d’oro, che s’andava assottigliando verso i capi, e che doveva nascondersi mezzo entro le ciocche della capigliatura, reggeva nella sua parte anteriore un serpente, avvolto in larghe spire, eretto il collo e spalancate le fauci, in atto di ghermire una farfalla. L’idea, forse, non era nuova; ma la facevano parer tale, se mai, le grazie di un’arte squisita, e più di tutto una leggerezza di esecuzione che contrastava mirabilmente colla varietà della materia posta in opera, e tutta distribuita in piena evidenza. Il serpente era coperto per intiero di smeraldi sul dorso, di crisòliti nel ventre, con aggiunta di carbonchi nella cresta e negli occhi: la farfalla aveva il corpo formato di tre zaffiri, e le ali tempestate di brillanti; screziate di brillanti minuscoli le antenne, e terminate in due rappettine di brillanti più grossi, tremolanti e scintillanti ad ogni moto dei loro tenui sostegni. Insomma, era uno splendore, una maraviglia, un portento. Filippo ammirò, come doveva, esaminando attentamente in ogni parte il lavoro, e lodò senza fine il buon gusto della scelta. — Della scelta! — esclamò Raimondo, — Non ne ho nessun merito. Era il meglio della vetrina, e la grande ultima novità di Parigi. Con queste raccomandazioni, non c’era da scegliere; bisognava portar via senz’altro. — Ti loderò dunque di aver portato via; — disse Filippo. — Sei contento? — Raimondo è un angelo; — sentenziò la signora. — Angeli in terra, e coi baffi! — gridò Raimondo, con accento di protesta. — In terra, mia cara, non ci sono altri angeli che le donne: e aggiungerò: alcune donne. — Angeli caduti di lassù, dunque; — fu pronta a ribattere la signora Livia; — voleranno male, non ti pare? E saranno anche capricciosi, diseguali d’umore, come siamo noi troppo spesso. Ma tu, Raimondo, sei sempre quello d’un giorno. Dica Lei, Aldini; non pensa come me, che Raimondo è un angelo? — Filippo Aldini sentiva di fare in quell’idilio maritale una parte abbastanza ridicola. Avrebbe per intanto voluto trovare qualche idea che gli facesse gioco, rialzando un pochettino la sua condizione di terzo incomodo. — Raimondo è banchiere; — diss’egli. — Come banchiere gradirà le cambiali a due firme. Ma non qui certamente; e il mio avallo varrebbe poco, anzi diciamo pure che guasterebbe, dove ella ha parlato così bene. Io so per mio conto che Raimondo Zuliani è la perla degli amici. — Ah, ne conviene? — gridò la signora con accento di viva esaltazione, mentre gli occhi le si accendevano d’un lampo subitaneo. Filippo si era già pentito della sua giunta. Gli passò per la mente che da quelle sue parole si prendesse occasione ad entrargli del suo matrimonio, che era ancor di là, molto di là da venire. Ma non se ne fece nulla; il lampo subitaneo degli occhi si spense, l’accento si rifece pacato, ed anche Raimondo si era fatto sollecito a cangiare argomento. Ne uscì dunque colla paura; e frattanto uno squillo del campanello in anticamera annunziava visite. Entravano pochi istanti dopo in salotto il cavaliere Lunardi e il maestro di musica. Oh bravi! Filippo Aldini li avrebbe di gran cuore abbracciati. Anche la signora Livia fu molto contenta di quei due arrivi. E come no? Erano due gentiluomini della sua corte, e si dimostravano singolarmente fedeli; erano anche i più utili, l’uno per tener viva la conversazione, l’altro per variarla con un pochino di musica. — Abbiamo pensato che era mercoledì, e che Ella non andava a teatro; — disse il cavaliere Lunardi, stringendo devotamente la mano che Livia gli stendeva con gesto regale. — Usanza vecchia; — rispose ella. — Bisognerà cambiarla. — Perchè? — Per far novità, non le pare? Il mondo cammina; non possiamo star fermi noi, che ci dobbiamo viver dentro. — Oh, signora, non si dia pensiero del mondo. Quando avrà ben camminato, si stancherà. Noi facciamo intanto il comodo nostro. Ed ella, per carità, non ci levi la nostra buona serata. — Ella è sempre gentile, signor cavaliere. Ma io non la leverò di qui, se non per vederla ancora a teatro. — Tra queste ed altre chiacchiere d’uguale importanza, il maestro di musica era andato al pianoforte. E suonò, quasi sarebbe inutile il dirlo, un po’ di _Bohème_, quindi un po’ di _Manon_; anzi delle due _Manon_: avrebbe suonato anche un po’ di _Tosca_, se la _Tosca_ fosse già stata messa in musica e portata agli onori della scena. Ma ciò, senza avere in animo di far torto ai giovani compositori italiani, conveniva poco alla signora Livia. — Maestro, — diss’ella, facendo interrompere di punto in bianco una elegantissima frase melodica, — ci suoni il duetto d’amore dell’_Otello_. È una cosa tanto appassionata, veramente deliziosa! — Il maestro fu pronto ad attaccare il pezzo richiesto. — Che dolcezza! che incanto! — mormorava la signora Livia. E coi moti del capo, e col battere delle dita sulle pieghe della gonna di velluto, accompagnava i suoni, che le andavano all’anima. Dovevano tutti infiammarsi, andarne in visibilio come lei, e primo frattanto il cavaliere Lunardi, che le sedeva vicino. Ma il buon cavaliere era in vena, quella sera, e non voleva arrendersi senza battaglia. — Strano! — diss’egli, poichè il maestro ebbe finito. — Un duetto d’amore tra marito e moglie! S’è mai sentita in teatro una cosa simile? — La signora Livia s’inalberò, minacciando il cavaliere Lunardi colle stecche raccostate del suo ventaglio. — Ma sa, cavaliere, — gridò, — che questa sera, contro l’uso, Ella è molto brutto? — Grazie per l’uso; — riprese egli, inchinandosi sulla vita; — ma in che sarei brutto, stasera? — Non se ne accorge? Nel non veder poesia nel matrimonio. Il nodo è sacro; non è dunque da buttar via. E se due creature l’hanno per tale, non ci vorrà Ella riconoscere un bello esempio di costanza in amore? La costanza.... — Tiranna del core; — soggiunse a mo’ di glossa il cavaliere Lunardi. — Tiranna pei duchi di Mantova; — ribattè la signora; — ma non per chi ama davvero. E le pare una cosa tanto poco poetica, da non tollerarsi in un duetto d’opera? — Ecco, io non so veramente; — rispose il cavaliere Lunardi, fingendo di mettersi sul grave; — bisognerebbe aver provato. Del resto, qui si fa per discorrere, ed io, in questa causa di santificazione del matrimonio sarò l’avvocato del diavolo; una parte che non disdegnano di sostenere i più fedeli cristiani. Il matrimonio, ella dice, può essere esempio di un amore costante. Un amore costante è un amore che rischia d’invecchiare. Diciamo dunque un amor vecchio. Ed io ho letto in un autore antico, e latino, il che accresce di tanto la sua autorità, che un amor vecchio è una gran prigionia. Dimmi tu, Filippo, se cito giusto; tu che hai gli autori latini sulla punta delle dita. — L’Aldini sorrise, tentennando la testa. — Troppo forte mi fai; — rispose. — Ma per questa volta ti posso servire. L’autore latino è Petronio. _Antiquus amor carcer est_, ecco la massima; ma egli, per tua norma, la fa dire da uno dei commensali di Trimalcione, e per celia. — Bravo! — gridò Raimondo. — Aiutaci un po’ tu contro questo terribil cavaliere. — Terribile, è troppo onore per un combattente mio pari; — disse il Lunardi, ridendo. — Infatti, vedete; io, da buon campione.... senza valore, cedo volentieri sulla questione poetica; ma mi rovescio sulla questione musicale. Mi battano anche su questa. Intanto io sostengo e dico che l’amore matrimoniale non è da duetti alla ribalta. Questo dell’_Otello_, che credo sia l’unico, su che idee tenta di appoggiarsi? Su questa, che è poi un cenno di tempi anteriori al matrimonio: “E tu m’amavi per le mie sventure. — Ed io t’amava per la tua pietà„. Diciamo di passata che il Moro, anzi il Negro, è molto generoso con una bella e bionda patrizia veneziana; l’ha riamata per la sua compassione! Quanto a lei, se è vero che ne sentisse tanta, che bisogno c’era di sposare il Nubiano? Un negro, lo so, è un uomo come un altro. Ha delle sventure? Poveraccio, gli si apre una colletta, e la figlia del senatore Brabanzio ci mette magari tutti i ducatoni che le hanno regalati per Ceppo. Che cosa ci ha guadagnato la bella Desdemona a sposare il Nubiano? Un fazzoletto. Gran signore, e veramente prodigo, quel generale della Repubblica! Va dai Bocconi del tempo, e compra un fazzoletto; neanche una dozzina, per l’uso; e quel fazzoletto unico, vuol vederlo sempre. Avesse pensato almeno a regalarle un bel solitario di diecimila lire! o un diadema come quello che ieri è stato pagato venticinquemila al Marchesi! — Ieri? — domandò la signora. — Sì, ieri, tra le quattro o le cinque. Se ne parla dappertutto, e si almanacca sul nome del compratore, che il gioielliere non ha voluto dire. — Raimondo! — esclamò la signora, mezzo severa e mezzo sorridente nell’aspetto. — Una follia! — Come l’amore, se mai; — rispose a mezza voce Raimondo. Frattanto la signora aveva riaperta la busta di velluto azzurro, che era rimasta davanti a lei sulla tavola, e la faceva ammirare al cavaliere Lunardi. — Eh, lo pensavo ben io! — gridò il cavaliere, dopo aver guardato per tutti i versi il gioiello. — Ci avrei giocata la testa. Da due giorni c’era folla, alle vetrine del Marchesi; ma nessuno s’era arrischiato dentro. E poi, quando fu sparito dalla mostra, lo avrebbero tutti voluto, il capolavoro costoso. Dico tutti per iperbole; saranno poi stati tre. Mariti? non so. Bene è stato un marito, quello che ha portata la palma; il _record_, come ora si dice. Ed ecco, — conchiuse allegro il cavaliere Lunardi, — ecco i mariti con cui si possono far dei duetti. — Ne conviene, eh? — disse Livia, raggiante. — Ma sì, nel caso presente che è il caso vero, e forse unico. Ma in quell’altro, del Nubiano, Dio guardi! E poi, con quella brutta fine! — Ammetta che amava bene, quell’uomo. — Da pazzo, sì, che ancora potrebbe andare; da cieco, che non va più in nessun modo. — Eppure, mi lasci dire, — notò la signora, — nel caso di Otello aveva torto Desdemona. Ma sì, cavaliere, aveva torto, con quella sua eterna compassione per Cassio. Compassione pei negri, compassione pei bianchi; era un pozzo inesauribile di compassione, quella nostra concittadina. — Consoliamoci, — soggiunse il cavaliere Lunardi, — consoliamoci pensando che Desdemona non è mai esistita, e che a nessuna delle nostre belle Veneziane è mai passato per il capo, da che Venezia esiste, di sposare un Negro. — Ah, non è storico, il fatto? — Non credo. Del resto chiediamone all’amico Aldini. Che cosa puoi dircene tu, Filippo? — Quello che ne saprai tu pure; — rispose Filippo. — Il fatto vero è brevemente questo. Cristoforo Moro, veneziano, e governatore a Cipro nel 1508, uccide la moglie per gelosia. Trent’anni dopo, o giù di lì, un romanziere prende il fatto nudo e bruco dalla cronaca veneziana, e ne fa una novella. Un po’ per riguardo alla casata patrizia dei Moro, un po’ per seguitare il suo uso, che era quello di travisare i fatti d’ogni storia, e sacra e profana, per far mostra di genio inventivo, trasforma il Moro di casato in un Moro di nazione, e lo fa di pelle anche più nero che non siano mai stati i Mori. Ecco tutto. Su quella novella del Giraldi ha lavorato lo Shakespeare. Sul dramma dello Shakespeare hanno fatto musica, da quei due grandi artisti che sono, il Rossini ed il Verdi. Ho abbreviato per non dar noia, ma credo di non aver dimenticato nulla; — conchiuse modestamente l’Aldini. Aveva infatti abbreviato molto; e forse c’era da dirne più a lungo, specie in onore di quel povero Giraldi, la cui novella era stata ormata periodo per periodo, quasi parola per parola, dal grande tragico inglese. Quando i salotti si occupano d’arte, prendendo occasione da un’opera moderna, è ben giusto che sopportino anche un richiamo erudito alle fonti. Ma l’argomento dava noia all’Aldini. Che idea stramba era venuta in mente al cavaliere Lunardi, con la sua arguzia sul caso di Otello, e, peggio ancora, sulle massime di Petronio Arbitro! Del resto è sempre così, nei salotti; quando vien fuori un tema antipatico, non c’è caso che nessuno se ne voglia staccare; ed è proprio come quando siete afflitto da un fignolo, o da altra noia consimile, che tutti sentono il bisogno di farvi carezze, e ci dànno allegramente del dito. L’Aldini non aveva ancora finito il suo discorsetto erudito, che già la signora Livia si era dileguata con la sua busta di velluto azzurro tra mani. Raimondo aveva creduto lì per lì che fosse andata a riporre il suo gioiello; e non fu poca la sua maraviglia, quando la vide ritornare col diadema in fronte. Proprio così; la bella donna aveva voluto fare, a benefizio di pochi eletti, la prova generale della sua rappresentazione a teatro. — Serata di gala! — diss’ella, avanzandosi con incesso di dea in mezzo al salotto, maestosa, trionfante, sotto quel luccichìo di gemme, con quel pennacchio di piccoli brillanti, che tremolavano ad ogni suo passo, mandando attorno bagliori di fiamme azzurrine e rossiccie. Il cavaliere Lunardi gettò un grido di ammirazione. — Questo divino spettacolo è per noi, solamente per noi; — soggiunse egli tosto. — Tutti possono invidiarcelo; nessuno ce lo leva più. — Raimondo gongolava. La sua Livia non poteva fargli davvero un regalo più prezioso del comparire innanzi agli amici col suo bel diadema in capo, che la faceva rassomigliare ad una regina antica, della leggenda o della storia, ad Elena, per esempio, a Cleopatra; a questa, soprattutto, che parve creata a bella posta per dar risalto ai più costosi ornamenti. Un pensiero di quella fatta balenò certamente alla fantasia del cavaliere Lunardi. — Chi oserebbe negare, — diss’egli, — che le pietre preziose siano state fatte per accompagnar la bellezza? Tutto, in natura, ci si mostra ordinato ad un fine. Lo smeraldo, lo zaffiro, il diamante, sono fatti per le donne belle; se così non fosse, a che servirebbero? — La trionfante signora sorrise a quella scarica di complimenti, e passò, avviandosi al pianoforte, per dire al maestro di musica: — Un altro duetto, la prego; per me e per Raimondo, mi capisce? — Il maestro di musica assentì prontamente con un cenno del capo; e subito attaccò il duetto dei _Puritani_: “A te o cara amor talora.„ Era la passione di Raimondo Zuliani, che giurava e spergiurava esser quello il motivo melodico più bello che fosse mai passato per la mente di un musicista. Così pensando in materia di musica, era naturale che Raimondo si accostasse anche lui, e ritto lì dietro la cassa armonica del pianoforte prendesse a battere il tempo con la punta delle dita sul coperchio, canticchiando tra i denti il suo motivo prediletto. Ma non canticchiava più, cantava a dirittura, quando veniva a frammettersi nel duetto la parte del coro: “Senza occaso questa aurora Mai null’ombra o duol vi dia; Santa in voi la fiamma sia, Pace ognor v’allieti il cor.„ — Ed eccoti, Lunardi mio; — diss’egli, alla fine del pezzo, — il duetto di due che si sono sposati. — Sì, sì, hai ragione, Arturo; ed ha ragione Elvira; — rispose il cavaliere Lunardi. — Potrei ribattere ancora che le eccezioni non contano; ma già mi son dato per vinto, “campione senza valore„, come ti ho detto in linguaggio postale. — Infine, si era allegrissimi. La signora Livia, rutilante, sfavillante, di gioie e di gioia, trionfava accanto al suo Raimondo, che era diventato il re della festa, e che in cuor suo ripensava i versi indimenticabili del coro nuziale. “Santa in voi la fiamma sia, Pace ognor v’allieti il cor.„ Il re della festa non lasciò partir quella sera i suoi fedeli, senza aver fatto saltare il turacciolo a due bottiglie della Vedova incomparabile. Ottimo signor Cliquot, voi mancavate a quell’altro duetto; ma si ricordò di voi il cavaliere Lunardi, che bevve alla vostra pace e alla gloria del vostro casato fino alla consumazione dei secoli. Filippo Aldini se ne andò quella sera abbastanza consolato dal palazzo Orseolo. Si era festeggiato un santo matrimonio, e non si era fatto il menomo cenno del suo. Un altro giorno guadagnato, frattanto; ed egli giunse a casa sua, oltre il corso Vittorio Emanuele, colla illusione di non esser più lui, ma un altro essere, sciolto di pensieri, di cure, di malinconie d’ogni specie, padrone di sè, padrone del mondo. XI. La testa di Medusa. Filippo Aldini ebbe modo, nella pace notturna del suo quartierino, di almanaccar lungamente su quello che per calmarne le apprensioni gli aveva detto Raimondo. Margherita era dunque ammalata per il caldo soverchio di una stufa? Strano ripensandoci allora, strano che quel gran caldo, magari con tutte le esalazioni capaci di ingombrare il cervello, egli non lo avesse neanche avvertito! E proprio, nello spazio di tempo assegnato, ad una visita di cerimonia, ne era rimasta offesa la signora Zuliani che aveva dovuto in giornata mettersi a letto anche lei! Bizzarra coincidenza di indisposizioni! E quella ottima signora Eleonora così impacciata con lui, quando era andato a far visita! Un vago sospetto passò per la mente di Filippo. Che la Zuliani avesse fatto qualche colpo di testa con le signore Cantelli? Ma in che modo? e perchè? La signora Zuliani, egli l’aveva ben veduta la sera antecedente, guarita affatto della sua emicrania, tutta gaia, felice, raggiante e scintillante, tutta fiori e baccelli col suo Raimondo più caro che mai. Ah, restasse ella sempre così! Anzi, fosse restata sempre così! Perchè infine, considerando i suoi falli, Filippo Aldini poteva confessare a sè stesso che erano gravi, ma non suoi. Si era trovato involto senza pensarci, travolto nell’abisso, prima di vedere il pericolo. Ne scampava ora, dopo tanti vani ma onesti tentativi? Lode al cielo, e dal profondo dell’anima. Solo dalla sera antecedente, tra diademi sfavillanti e duetti maritali, il povero Aldini incominciava a ricogliere il fiato. E intanto, gli premeva di aver notizie più chiare intorno alla salute di Margherita. Ne sentiva il bisogno, insieme con l’obbligo; cortesia voleva ch’egli andasse, per chieder di lei, foss’anche ogni giorno, al Danieli. Andando di mattina, e perciò senza mostrar desiderio di fermarsi, non correva pericolo di dar noia, oltre quella che è comandata dalle buone creanze, e che perciò gli uni debbono dare, come gli altri accettare. A che ora, la visita? Non troppo presto, certamente; ma neanche troppo tardi. Alle dieci? Sì, e forse alcuni minuti dopo. Dunque, alle dieci sarebbe partito da casa, aspettando per l’appunto nel suo studio che le dieci scoccassero. Era già vestito di tutto punto per uscire, col cappello e la mazza tra mani, ad ogni tanto guardando le lancette dell’orologio sospeso alla parete, davanti alla sua scrivania. Ma ecco, che è, che non è, un improvviso rumore, come di chiave che giri in una serratura, di là da un uscio a vetri opachi, nel fondo della parete a sinistra. Il quartierino di Filippo aveva due ingressi; il nobile e da tutti conosciuto come quello di casa sua, e un altro di minor conto, quasi uscio per la gente di servizio, che metteva ad una scaletta, la quale riusciva al cortile di un vicino edifizio. Da quel cortile, per una scala a collo, cioè fiancheggiata per una parte sola da un muro, per l’altra da una balaustrata interrotta qua e là da colonne, e tutta sormontata da una tettoia risalente, si ascendeva all’abitazione della contessa Galier di San Polo. Si è già detto che la contessa e l’Aldini erano vicini di casa, abitando in due palazzi contigui da tergo. Lo scricchiolio dell’uscio segreto fece sobbalzare Filippo Aldini sulla scranna. Tutto poteva egli aspettarsi quel giorno, fuorchè la visita che quel rumore annunziava. Avrebbe voluto essere in tempo a sbiettare di là, riuscire in anticamera e trafugarsi per lo scalone, come uno che non s’aspettasse di aver gente dalla scaletta. Ma non era più in tempo. L’uscio di servizio, per chiamarlo una volta così, appena aperto si era richiuso; si apriva in quella vece la vetrata che metteva allo studio dell’Aldini, e nel vano appariva la testa di Medusa, anzi tutta la persona di lei. Che se quella non era proprio la Gòrgone antica, dai bei capelli d’oro tramutati per l’ira di Minerva in orribili serpenti, pareva essere ancora investita del triste privilegio di tramutare in pietra chiunque si fosse trovato sotto il sinistro baleno de’ suoi occhi scorrucciati. Ed era rimasto come impietrato, l’Aldini, in quella che Medusa s’inoltrava nella stanza, lenta nel passo e quasi noncurante in vista, ma torbido lo sguardo e pieno di oscure minaccie, bianca nel viso come una persona morta, resa tanto più bianca all’aspetto, per il nero della gonna e della mantellina, come per il nero del cappellino di velluto e dei larghi nastri, che scendevano lungo le guance, per unirsi a cappio sotto il mento, nascondendole il collo. — Livia! — mormorò l’Aldini, allibito. — Sì, Livia. Miracolo! Sapete ancora il mio nome? — diss’ella, nell’atto che si slacciava il cappellino, per gittarlo sopra uno scaffale. — Che follia! — riprese egli. — Se vi hanno veduta.... — Non sarà stata la prima volta; — riprese ella, accostandosi. — Tu eri per uscire, non è vero? Deponi il tuo cappello, e ragioniamo. A proposito di follie, che cosa diremo della tua, che da due settimane mi annoia? Spero bene che sarà stato uno scherzo. Brutto scherzo, per altro; e sono venuta a dirti che è tempo di finirlo. — Filippo era stato lì a capo chino, come, in un’ ora di temporale, il viandante che aspetta il passar d’una raffica. — Raimondo, — si provò allora a rispondere, — vi avrà pur detto.... Ma la signora non gli lasciò terminare la frase. — Raimondo, — sentenziò ella, — è uno sciocco. — Dite un uomo di cuore. Sì, vi ripeto, un uomo di cuore; e non lo riconosco tale da oggi. Quante volte, e da anni, non ve l’ho io ripetuto? — Sì, — rispose ella, con un risolino sardonico, — molte volte, moltissime volte, seguitando a tradire la sua cieca fede nella tua amicizia. — A questo ragionamento si potevano rispondere assai cose. Ma erano di quelle che un uomo, se è cavaliere, non rinfaccia mai ad una donna. — E n’ebbi sempre rimorso; — replicò in quella vece, umiliato. — L’ho sempre sentito acutissimo, e voi lo sapete. Noi ci perdiamo, vi dicevo ancora, vi ricordate? — E siamo sempre qui sani e salvi; — conchiuse la signora, sviando quel molesto discorso, più che con la parola, col gesto. — Ma tu non farai questo matrimonio; tu gli dirai che è impossibile. — Impossibile! Ora? Ma se egli ha tutto ideato, tutto predisposto e concertato a suo modo! Chi mi ha presentato, senza chiedermi se la cosa mi fosse gradita? Chi mi ha cacciato avanti, accompagnatore in servizio, come un altro signor Brizzi, a disposizione delle dame? E potevo io credere, rassegnandomi all’ufficio, che ciò mi dovesse condurre a questo punto? C’è stato, vedete, c’è stato un momento che io ho avuto un sospetto; il sospetto che egli dubitasse di me, e mi volesse imporre un vincolo, per la sua quiete. Sì, l’ho creduto accorto a tal segno, nella notte del capo d’anno, quando egli mi stringeva a quel modo col suo brindisi, e voi, anche voi, vi siete messa dalla sua parte. Forse, dissi allora tra me, anch’ella ha capito; ha capito ciò che assai prima era ben naturale di capire, di prevedere; ed ella mi dà il buon consiglio. Ora egli incalza più che mai; non ho più difesa possibile. Non so, Dio mio.... non so che fare; la mia testa si perde. Domandatemi ogni cosa, fuorchè d’oppormi alla volontà di Raimondo; io non ho questo coraggio. — La signora Livia era stata ad ascoltare quella lunga difesa, tentennando il capo, battendo le labbra, e sorridendo sarcasticamente al povero argomento che Filippo attingeva da lei, da una sua vana parola. — E sei tu, tu, che ho creduto un uomo? — ribattè, com’egli ebbe finito. — A voi dovrebbe esser proibito di amare, e di pretendere che si credesse alle vostre parole. Voi siete mediocri. Bastate a formare la felicità di una fanciulla, o ad appagare la sua curiosità, per quel breve spazio di tempo, che può essere un anno, come un giorno. Poi sopravviene da una parte e dall’altra la noia. Voi agli affari, essa alle galanterie. Questo avverrà anche per te, Filippo Aldini, te lo pronostico io, io che non ho amato così. — Anche qui le si poteva rispondere di trionfo: e voi, bella, che vi vantate di amare altrimenti, che cosa avete fatto poi di diverso? Ma non era Filippo Aldini, l’uomo che potesse rispondere a quel modo. — Tutto è possibile! — diss’egli, pacato; — ed io, uomo mediocre, non meriterò altro, davvero. Ma la nostra questione non è in ciò che io possa meritare; è in ciò ch’io non posso fare per compiacervi. Pensateci, Livia, siate buona, ed ascoltate le mie ragioni, vi supplico.... — Ma ella non era disposta ad ascoltar nulla di nulla. Aveva presa dal piano della scrivania una lunga stecca d’avorio, e batteva con quell’arnese a gran colpi sull’orlo del mobile, davanti al quale Filippo era rimasto seduto. — Oh, a proposito, — gridò ella, mozzandogli in bocca le parole supplichevoli, — perchè non mi dai del tu? — Non era la risposta ch’egli s’aspettava da lei, pregandola con tanta effusione di cuore. Ma bisognava adattarsi al suo modo di ragionare, seguirla ne’ suoi voli capricciosi. — Perchè è male; — riprese. — Debbo io ricordarvi sempre il passato? Una volta, davanti a lui, vi accadde di dirmi: sai! — È vero; e ne fui tanto felice! — Egli poteva sentirvi. — Mi avesse pure sentita! E mi sentisse ancora! — Egli vi ama; lo avete veduto iersera. Ed io che già speravo, nel vedervi così buona con lui! — Ah sì? — gridò ella con accento impresso di profonda ironia. — E ti piaceva molto? E tornando a casa col cuore sollevato da un peso enorme, ti sei addormentato in una gran sicurezza? — Colpiva giusto, fors’anche senza saperlo. Filippo evitò di rispondere. — Infine, — ripigliò, — è bene ch’egli vi ami sempre così. — E mi pesa, capisci? — ribattè ella, sdegnosa, esaltandosi a grado a grado delle sue stesse parole. — Mi pesa, col suo amore così cieco; mi pesa, colla sua serenità così sciocca. Alle volte io dico tra me: se indovinasse il vero, mio Dio! se mi uccidesse, in un impeto di rabbia feroce, quanto meglio farebbe per sè, come per tutti! Ma tu non sposerai quella puppattola. Le parlerò io, se è ciò che ti turba. — Oh, voi non farete ciò! Che colpa ci ha lei? — gridò Filippo, atterrito. — Che colpa? Quella di crederti, essa, che non ha neanche le tue ragioni, i tuoi pretesti di uomo mediocre. Del resto, ho già incominciato. Sì, a sua madre, senza tanti riguardi, a faccia a faccia, e a lei che ascoltava dietro un uscio, quella cara puppattola, ho detto chiaro e tondo che cosa siano e che cosa valgano certi vagheggini dei nostri giorni. — Era ciò che Filippo aveva sospettato. Ma poichè il male era fatto, egli trovò ancora la forza di padroneggiarsi, nascondendo il suo turbamento. — Non vorrò dolermene io, per me stesso; — notò, dopo un istante di pausa. — Ma se egli viene a saperlo? — Tu hai paura di lui? — Rimorso, ve l’ho già detto. — E dovevi dirlo prima, assai prima, cacciandomi da te, bel conte avvezzo ai trionfi, quando quest’altra vittima ti cadeva nelle braccia. Vorresti dirmi, — soggiunse ella, cogliendo e interpetrando a suo modo un gesto di Filippo, — vorresti dirmi che lo avevi tentato più volte; e non l’osi. Sei anche vile con me. Ma te lo confesserò io, bel conte delle vittorie, io che avrò tutto il coraggio che ti manca. Eppure, anche allora l’hai difesa male, la tua virtù cavalleresca. Ed ora, forte guerriero, ed ora, impavido cavaliere, temi allo stormir di ogni foglia; hai paura; hai paura di lui. — Filippo Aldini torse la bocca, levando la testa con atto sdegnoso, e fu l’unica risposta che diede. Ma ella ripigliò, incalzando più forte. — Se non hai paura di lui, crederò di te quello che non avrei creduto mai; che tu ami quella donna. — Filippo era sul punto di rispondere un sì tanto fatto; e succedesse un po’ quel che voleva succedere. Ma pensò ancora, da cavaliere, e si trattenne. Se ci son cose che non si rinfacciano ad una donna, ci sono anche quelle che non si confessano a lei. — Io! ma che?... — disse in quella vece appoggiando i suoi monosillabi con un sorriso ed un gesto che poteva parer di diniego. — Ma sì, l’ami; — replicò la bella implacabile. — E come no? Cinquecentomila lire di dote, sono una bellezza trionfale. Aggiungiamo un milione e duecento cinquantamila lire di eredità, facendo calcoli sull’asse del vecchio al giorno d’oggi. Eh, si son fatti i conti, mio caro; si sanno fare, anche senza bisogno di cavarne nulla. Oggi come oggi, il banchiere ha sette milioni di sostanza, messi fuori di giuoco. E tu, bel conte, dai il tuo blasone in baratto. Lo vendi bene, non c’è che dire, lo vendi bene. — E diede in uno scoppio di risa, lasciandosi andare mezzo arrovesciata contro la spalliera del divano che correva lungo la parete, poco lontano da lui. Filippo era rimasto fieramente colpito da quel terribile assalto. Non proferì parola; ma ben si vedeva all’aspetto che molte cose gli bollivano dentro. Si alzò dalla scranna, e misurò due volte a passi concitati la stanza, che era divenuta per lui una prigione, una camera di tortura. — Ebbene, — riprese ella, premendo più forte, quasi volesse mandare più addentro la punta che lo aveva tanto irritato, — dimmi che non è vero, perchè io rida dell’altro. Oh, bello bello, il tuo blasone rimesso a nuovo! — Filippo Aldini si piantò davanti a lei, severo, accigliato, com’ella non lo aveva mai visto. — Signora, — incominciò egli, lentamente, meditando le parole, — voi toccate un tasto, che rende cattivo suono. Le male cose che mi gettate in viso come un insulto.... — Ah, bene! — interruppe la signora. — Riscaldati una volta! — Le male cose che mi gettate in viso come un insulto sanguinoso, — riprese Filippo con accento solenne, — non hanno virtù di commuovermi. Paura, mi avevate già detto, paura di lui! Quella che voi chiamaste paura, è vergogna, vergogna di apparire a quell’uomo leale un traditore dell’amicizia; quanto alla paura, ho ancor da sapere dove ella stia di casa. E dite lo stesso di altre brutte ragioni, che la mia coscienza di gentiluomo sdegnosamente respinge, e che la mia mano ricaccerebbe in gola a chi ardisse solamente accennarle. — Lampeggiavano in quel momento negli occhi di Filippo molte imagini di vecchi Aldini, ugualmente accigliati, ugualmente severi, duri soldati di quindici o venti generazioni, col sentimento dell’onore sulla fronte, e la mano fieramente aggravata sugli elsi della spada. Le vide Livia; anche confusamente, non poteva non vederle. Ma anche in lei soverchiava lo sdegno, infiammandole il sangue. — Ricacciatele, dunque! — proruppe. — Avanti, terribil guerriero! — Parla una donna; — rispose Filippo, con accento mutato; — e dirò in quella vece alla donna: Tutte le male cose che mi avete gettate in viso, ho voluto pensarle ancor io; e come le ho pensate, esagerandole molto, le ho dette; le ho dette, nella speranza di vincere con un eccesso di scrupoli la inconcepibile ostinazione di lui. Niente è servito. Tu non sei ricco, mi ha egli risposto; ma intanto ciò che possiedi basta a fronteggiare i due terzi della dote; meglio invigilato, amministrato a dovere da te, basterebbe a fronteggiarla tutta. Quella gran dote, finalmente, sarà investita in terreni, e tu non ne toccherai un centesimo. Non ti basta ancora, di averne le mani nette? Puoi chiedere che sia diminuita, lasciando che la sposa si costituisca il rimanente in sopraddote. Mi parli di quello che verrà poi? Il poi è lontano, e speriamo, da galantuomini, che sia lontanissimo. E non risguarda te, il poi; sarà della donna, non tuo. Questo, — soggiunse Filippo, — lo sapevo bene ancor io; non sapevo, piuttosto, non ho cercato di sapere come e fin dove fosse ricco il signor Cantelli, od altri al mondo, mai! — Così, dunque, ti sei volentieri acquietato? — replicò la signora. — Ci s’acquieta bene, quando c’è l’interesse, non è vero? — Non vi risponderò più; — disse Filippo. — Ah, il gentiluomo s’inalbera! Bada, conte Aldini, mercante di blasoni, ciò che io posso fare ti costerebbe assai caro. Ancora una volta, ricuserai la puppattola? — No; — rispose egli inflessibile. — Guai a te, conte Aldini! — ruggì, più che non dicesse, la donna inviperita. — T’inganni, se pensi ch’io possa lasciarla passare così; t’inganni, t’inganni. — E non lo penserò; — diss’egli di rimando. — Ma infine, perchè non metterlo prima, il vostro gran veto? Aspettate ora? — Ella rizzò il capo, saettando Filippo d’uno sguardo viperino. — Aspetto ora! aspetto ora! — ripetè con accento di profonda amarezza. — E quando potevo farlo io, prima d’ora? Con la tua casa vietata ai profani? Non l’avevi tu dichiarata locanda, ad uso dei viaggiatori.... di Verona? Cari, quei due viaggiatori, che nessuno ha mai visti, nè per via, nè a teatro, mentre tu eri visibile, bel conte, con due viaggiatrici.... di Milano! Ti hanno fatto buon giuoco, i due ospiti! E così ti fossero durati di più! Ma avevano una breve licenza, ed hai dovuto lasciarli partire; che peccato! T’intendo, la trovata non era poi altro che una continuazione di tanti vecchi artifizi. Da gran tempo ti eri messo in mente di guarirmi con la tua freddezza, come prima coi tuoi continui timori, coi tuoi eterni rimorsi. Ma io, questa volta, incalzando il pericolo, volevo vedere fin dove saresti arrivato. Ah, mi hai fatto soffrire, soffrir tanto, tanto! Finchè il mio cervello ha potuto reggere, ho contenuto il mio cuore, che ad ogni momento era lì per ispezzarsi. Ora non più, mi ribello. Vedi, Filippo, mia madre.... è morta pazza. E ci sono momenti che temo ancor io d’impazzire. — E cadde riversa sul divano, dando in un pianto dirotto. Filippo Aldini, a tutta prima più irritato che scosso, si era sentito scorrere un brivido per le ossa all’accenno che Livia faceva della morte di sua madre; un accenno che a lui giungeva nuovo, e che gli schiudeva dinanzi agli occhi un abisso doloroso. Peggio, in quel punto, il cadere di lei, con quel pianto disperato, misto a singhiozzi ripetuti, che parevano annunziare alcunchè di più grave. Il pianto era infatti convulso, il singhiozzo spasmodico. — Calma, vi prego! — gridò, curvandosi su lei. — Rialzatevi, Livia; abbiate forza, vi supplico! Io non so, non posso far nulla, se voi vi abbandonate così; non posso neanche chiamare in soccorso i vicini. Animo, via, un piccolo sforzo! — Ella tentò di sollevarsi; ma fu mestieri aiutarla, prendendola per la vita. — Dirai di no? — chiese ella, tra i singhiozzi, aggrappandosi a lui. — Mio Dio! che cosa domandate? Lo sapete pure che io non posso oppormi ai suoi desiderii, senza correr pericolo di nuocere a voi. — A me? Che importa, se già tu stesso mi uccidi, obbedendogli? Dirai di no? — Tutto quello che sarà in poter mio, lo farò.... lo tenterò, certamente; — rispose Filippo, temendo sempre ch’ella fosse per ricadergli svenuta tra le braccia. — Gli parlerò ancora, e più forte ch’io non abbia mai fatto, se pure è possibile ch’io non gli abbia detto abbastanza. Questo vi posso promettere, e questo manterrò. — Parola di gentiluomo? — Veramente, — mormorò egli, — non dovrei esser più creduto tale. — Oh, perdonami; ero pazza. Ma vedi, Filippo mio, soffro tanto, che non son più capace di padroneggiarmi; e parla la lingua, ma il pensiero non c’è. Perdonami, perdonami! Non è vero che nel tuo cuore mi hai già perdonato quelle brutte, brutte parole? — Ma sì, senza dubbio; — rispose Filippo, sempre cercando di chetarla. — Se voi mi promettete di esser più forte, io perdono, dimentico ogni più aspro giudizio. So anche bene di non meritarlo, — soggiunse. — Ma voi, Livia, mi ascolterete una volta. È un gran male ciò che è accaduto, un gran male; dobbiamo dimenticare anche quello, se pure avverrà che non possiamo averne perdono dalla nostra coscienza. — Come vorrai.... tutto ciò che vorrai.... accetto ogni patto più crudele. Ne morirò? Tanto meglio; ma almeno contenta, se tu avrai detto di no. — Riuscendo finalmente a sollevarla dal divano Filippo aveva data di sbieco una guardata all’orologio. — Dio mio! — esclamò. — Già le undici! È ora che andiate. Se egli, ritornando, non vi trovasse in casa?... — Ebbene, che importa? Già altre volte è accaduto. Uscita per qualche piccola compera, ho perduto un po’ di tempo; ecco tutto. Ma vado, sì, vado; — ripigliò, notando l’ansietà di Filippo, a cui quelle ragioni non potevano bastare. — Tu per altro, mi giuri.... — Tutto quello che un gentiluomo può giurare, al punto in cui sono le cose; — diss’egli, facendo un gesto disperato. — Parlerò, parlerò come volete, e sia poi ciò che vuol essere. — Sì, resisti, resisti, ed egli cederà. Se tu risolutamente non vuoi, chi ti può sforzare? Non sei già una vittima ignara, da potersi condurre così facilmente al sacrifizio! Resisti, resisti, Filippo; te ne supplico per quell’amore, che non hai sempre ricusato, e che conserva nei ricordi, almeno nei ricordi, i suoi sacri diritti. — Filippo fremeva, ribellandosi in cuor suo ad una logica pazza, che non voleva darsi per vinta. Ma bisognava ad ogni costo calmar quella donna, ad ogni costo persuaderla, incuorarla a partire. — Non è vero? — incalzava ella frattanto. — Cercherai di liberarti? — Sì, sì, e non mi par più tanto difficile; — rispose Filippo, atteggiando le labbra ad un mesto sorriso, — se penso che tu hai parlato di me.... a quelle signore, e in modo certamente tale da disingannarle sul conto mio. — Ahi, non da quel lato poteva ella aver sicurezza, dopo che alla signora Eleonora aveva parlato Raimondo. — Non ti fidar troppo di loro; — diss’ella. — Da te, Filippo, da te aspetto un nobile atto di forza. Non mi negare quest’ultima prova di amicizia. Io rinunzierò a te, se questo è il voler tuo.... — Il dovere; — fu pronto a corregger Filippo: — il dovere. — Sia, diciamo il dovere; ma a questo dovere che tu m’imponi, corrisponda quello che ho bene il diritto di pretender da te. Resisti, resisti! — Colla voce e coi gesti Filippo prometteva ogni cosa. E l’aiutava frattanto a rimettersi il cappellino in testa, avendolo preso egli stesso dallo scaffale, e la mantellina sulle spalle, andando a raccoglierla, sulla estremità del divano, dove era stata gittata da lei. Ciò fatto, e vedendo lei ancor troppo agitata, era andato ad aprire la finestra, perchè un soffio d’aria fresca aiutasse a calmarla. — Mi sento meglio, non dubitare; — diss’ella. — Vado, non perdo più tempo, se ciò ti dispiace. Ma tu resisterai; ho la tua promessa, Filippo; ho la tua parola di gentiluomo. Vado, sì, vado.... ma non così freddamente, come se fossimo nemici.... come se tu non mi avessi perdonato. — E gli gittò le braccia al collo e lo baciò, in un impeto di passione disperata. Solo allora si spiccò da lui, e accompagnata fino all’uscio segreto, finalmente disparve. — Era tempo; Filippo Aldini non reggeva più a quello strazio di tutte le fibre, del cervello e del cuore. Forsennato, furente contro sè stesso, richiuse l’uscio, e ritornò nel suo studio; ma non poteva rimanere là dentro, dove gli era troppo presente l’imagine di quella donna terribile, a cui si resisteva così male, poichè ella non intendeva ragione. Ed egli aveva promesso, per liberarsi da quella oppressione, aveva promesso di riparlare a Raimondo. Che cosa gli avrebbe ancor detto, dopo essersi lasciato persuadere una volta, dopo avergli confessato perfino l’amor suo invincibile per Margherita? Ah si, quello era proprio il momento di pensare a ciò che avrebbe potuto dire di nuovo, o ripetere di vecchio! Infine, non ci avrebbe pensato affatto! si sarebbe buttato a mare, aspettando il maroso che lo cacciasse sotto, una volta per sempre. Sospettasse pure, quell’altro, indovinasse pure: passata la vergogna, Filippo Aldini non sentiva paura. Ridottosi frattanto nella sua camera, si era gittato bocconi sul letto, piangendo e ruggendo. Gli bruciavano le labbra; quel bacio che aveva ricevuto, e forse reso, gli pareva un sacrilegio. Rimorsi nuovi, da aggiungere ai vecchi! E il suo bel sogno svanito, e Margherita, la dolce Margherita, perduta per sempre! Perchè oramai il dado era tratto; doveva resistere, lo aveva promesso. Aspra punizione del destino! Ma egli l’aveva pur meritata. XII. A caso disperato. La signora Zuliani giunse al palazzo Orseolo prima che capitasse Raimondo per far colazione. In verità, quell’Aldini era un grande spericolone; ma non faceva poi niente di nuovo, quel giorno; era stato sempre così, se non peggio. Gli si era bene imposta lei, in un momento di follia; lo aveva involto davvero, e stravolto, non vedendo, non considerando più nulla, attratta da un fascino arcano verso quell’uomo, che tutti decantavano, che tutti alzavano in palma di mano, come un perfetto cavaliere, per cui tante belle sospiravano, per cui più d’una aveva perduta la pace del cuore e quella dell’anima. E quel don Giovanni, inconsapevole della sua forza, si era dimostrato così discreto con lei, timido come un ragazzo, tutto scrupoli, tutto riguardi, volenteroso dispensatore di quei savi e prudenti consigli, che non sogliono essere il fatto degli uomini, specie dei fortunati in amore. Livia ci pensava spesso, a quei cominciamenti strani della loro conoscenza, non potendo dissimularsi di essere stata lei la grande colpevole. Che cosa doveva egli fare, per trattenerla sull’orlo dell’abisso, più di quello che aveva fatto, fino a parerne ridicolo? Amandola, per altro, che non sapeva negarlo; ed anzi c’insisteva tanto più volentieri, quanto più si mostrava disposto a resistere. Questo, almeno, a lei pareva evidente, chiaro come la luce del sole; e mettiamo pure che le piacesse esagerare la forza di un sentimento, in cui potevano aver parte la delicatezza dell’animo e la cortesia dei modi signorili. Quanto agli scrupoli cavallereschi, onde i timori e i rimorsi continui, ella bene intendeva come fossero effetto necessario della grande amicizia tra lui e Raimondo. Ah, quel Raimondo, così infatuato del conte Aldini, non era stato egli la prima cagione del male? Dove l’uomo s’infatua, la donna s’innamora; ecco il guaio. Così innamorata, e forse più nella fantasia che non fosse nel cuore, quanto aveva ella sofferto di quegli scrupoli, di quei timori, di quei rimorsi, che ella non conosceva, pur dovendo fingere di sentirli con lui! Ed egli voleva ricondurla ad ogni costo sulla via della ragione, e non riusciva ad altro che ad irritarne lo spirito. Troncare, finire, ascoltare la voce del dovere; come si fa, quando l’anima è piena del suo bel sogno, e la passione trabocca? Pure, in gran parte, aveva dovuto cedere. Si vedevano di rado, e quasi alla sfuggita; Raimondo, frattanto, parlava sempre di voler ammogliare Filippo. Anche quello ci voleva! Finchè erano discorsi in aria, pazienza; si poteva sorriderne, quantunque a denti stretti. Filippo, dal canto suo, si era sempre valorosamente difeso. Ma allora non si vedeva il nemico alle porte: ora il pericolo appariva vicino, imminente, ed ella lo aveva sentito senz’altro, al primo comparire della graziosa puppattola. Così la chiamava, anche tralasciando l’epiteto; così chiamava tutte le fanciulle di bella presenza, dalle ricche capigliature, dalle guance vermiglie, dai grandi occhi incantati, ancora un po’ dure negli atti, senza languori, senza tenerezze, ma forti della loro fiorente e promettente giovinezza. Ah, quella puppattola, graziosa sì e no, ma innegabilmente troppo ricca, faceva ben soffrire la signora Zuliani nel profondo dell’anima, dove s’annida quella triste miscela d’orgoglio e di vanità, che è il nostro amor proprio. Ed era giunta a questo: rinunziar lei a Filippo, purchè egli rinunziasse a Margherita. Su questo patto si era ostinata; egli avrebbe resistito con nuovi argomenti alla idea malaugurata di Raimondo; ella si sarebbe rassegnata a non veder più Filippo, ridiventato in istile di cerimonia il signor conte Aldini, a non vederlo più, se non qualche volta, a punti di luna, nel suo salotto, o nel suo palco a teatro. Fino a quando così? Fino a quando si potesse durare. Tante cose si promettono, colla speranza di non doverle poi mantenere! Raimondo Zuliani giungeva a casa, secondo l’uso, di buonissimo umore. Si era a tutta prima turbato, vedendo la sua Livia un po’ pallida e abbattuta nell’aspetto; ma pensò che erano i soliti vapori, frequenti a dir vero, ma brevi, passati i quali la strana creatura ritornava più fresca e fiorente che mai. Strano uomo anche lui, con tutte le virtù, con tutti i doni dello spirito, meno la perspicacia nelle cose più vicine e più intime. Ma questa qualità non va mai senza un certo spirito diffidente; e può questo allignare dov’è rigogliosa la fede? Raimondo aveva una fede robusta in ogni cosa, fede in lei, fede nell’amico, fede in sè stesso. Questa, poi, era principio e cagione di tutte le altre. Per l’amor suo e per la passione del lavoro, non aveva egli fatto miracoli, raggiungendo una condizione invidiata? Ben lavorava per quella donna, che era tutta la sua famiglia; e ancora non aveva egli varcato nel cammino della vita quel mezzo, oltre il quale s’incomincia a perdere qualche illusione e qualche speranza. Egli e Livia potevano dirsi soli nel mondo; ma se non gli arrideva forse più l’idea di lavorare per una nidiata d’innocenti, bene egli vagheggiava il disegno ambizioso, ma non temerario, di rallegrare gli anni maturi della sua donna con due o tre milioncini, da aggiungere a quello che non aveva più da aspettare. Egli lo aveva pure indovinato, che i troppi milioni delle Cantelli entravano per una gran parte in certe antipatie di sua moglie, le quali senza ciò si sarebbero potute stimare irragionevoli. Ebbene, a questo piccolo guaio c’era rimedio, e in sua mano: giovine ancora e pieno di salute, animoso ed accorto, col vento in fil di ruota da un pezzo, avrebbe raddoppiate, triplicate le sue sostanze in pochi anni. Non gli mancava il genio “degli affari„; la fortuna lo aiutava; due buone ragioni per veder la vita sotto l’aspetto più roseo. Per allora, il sud sogno era quello di ammogliare l’Aldini, il suo Pilade, che considerava come una sua creatura. E ciò senza nuocere alle sue faccende, che non entravano punto nel giuoco. Quello, infatti, era quasi un lavoro delle ore avanzate; lavoro fine, lavoro delicato, in cui si esaltava la sua mente, e si compiaceva il suo cuore. Far dei felici intorno a sè, bella cosa, e gaudio divino: peccato che sia cura di pochi. Or dunque, egli era di buonissimo umore a colazione; ma fu di umor pessimo a pranzo. I giorni si seguono, e non si rassomigliano; così disgraziatamente vanno, e anche dissimili, le ore d’un medesimo giorno. La signora Livia, che aveva le sue particolari ragioni in quel giorno, per ispiare attentamente il volto di suo marito, non ebbe da fare nessuna fatica per riconoscere che il vento era cambiato. La faccia di Raimondo non nascondeva mai nulla dei sentimenti interiori: gli occhi erano in lui veramente lo specchio dell’anima. — Che cos’hai? — gli domandò, vedendolo accigliato. — Nulla; — rispose Raimondo. — È troppo poco, il tuo nulla; — replicò la signora. — Tu hai un dispiacere; ti si legge sulla fronte. — Eh, cara mia! gli affari non vanno tutti bene ad un modo. Corro il rischio, oggi, di perdere ventimila lire. — E per questo hai le gronde? Avrai perduto altre volte, e senza far quella cera. — Non so; — disse Raimondo, svogliato. — Il perdere è sempre spiacevole. Venti lire son venti lire per tutte le borse, anche per quella di un Rotschild, come dice il proverbio della gente d’affari; figùrati poi.... ventimila. — Voleva ridere, ma rideva stentato. Ed anche stentato gli era venuto l’accenno di quella gran perdita, che finalmente non era ancora una perdita, ma un rischio di perdere. — Filippo ha parlato; Filippo ha resistito; — disse la signora Livia tra sè, reprimendo un sussulto di allegrezza, la cui manifestazione per verità sarebbe stata fuori di luogo. Sì, Filippo aveva parlato, e in ciò che Filippo aveva detto era da trovar la cagione della tristezza di Raimondo. Ma questi non voleva confessare a sua moglie che una nuova difficoltà fosse nata, e che questa difficoltà gli venisse appunto dagli scrupoli, dalle fisime cavalleresche, dalle ubbie pazzesche del suo caro Filippo. Temeva troppo di sentirsi dire da sua moglie: “Ti sei bene infatuato di quello sciocco? Ti sei bene affondato negli impicci per lui? Vedi ora che bei giuochi ti fa, rendendoti ridicolo, con la tua smania di far l’agente matrimoniale! Aggiungi al ridicolo il doverti guastare coi Cantelli. Per le donne, poco m’importerebbe; molto deve importare a me, perchè importerà a te, e non andrà senza le più gravi conseguenze, l’esserti guastato col vecchio, padre canzonato e banchiere offeso nella sua dignità.„ Questo, od altro di simile, ed anche di peggio, gli avrebbe detto sicuramente sua moglie. Ora, egli non voleva più aver guerra di parole con quella donna, tanto amabile, cara, idolatrata a quel dio, ma un po’ per cagione de’ suoi nervi, un po’ troppo facile ad aspreggiare, a schernire. Donna adorabile, se non avesse avuto quel piccolo difetto, che a volte lo avrebbe fatto dare nei lumi! Ma esseri perfetti non ne nascono al mondo. Filippo adunque, era stato quel giorno al banco Zuliani, secondo il costume invernale, sulle quattro del pomeriggio; l’ora canonica, come la chiamava Raimondo, per fare la passeggiata igienica, aspettando ambedue l’ora del pranzo, che doveva separarli, avviando l’uno al palazzo Orseolo e l’altro al caffè Quadri. — Oh, bravo, sei tu? — disse Raimondo, veduto entrare l’amico. — Siedi; finisco di minutare una lettera, e son da te. Sei stato al Danieli? — soggiunse, rimettendosi a scrivere. — No; — rispose Filippo. — Come va questa faccenda? Ier l’altro, no; ieri nemmeno; oggi meno che mai. Che giuoco è questo? Se credi di toccare il cuore alle belle, con questo modo di farei.... — Sai, — disse Filippo, impacciato, — colla signorina indisposta.... — Appunto per ciò; — interruppe Raimondo, — buona ragione per andare ogni giorno a chieder notizie. Agli occhi della signora Eleonora tu sei già un fidanzato, mio caro. Ma che cos’hai, ora? — Filippo s’era lasciato cadere allora allora su d’una poltrona, accanto alla scrivania di Raimondo, e abbassata la fronte rimaneva lì immobile, quasi istupidito, collo sguardo fisso al tappeto. — Più ci penso, — mormorò egli, senza levar gli occhi da terra, — e più vedo questo matrimonio impossibile. — Raimondo per quella volta depose la penna, e inarcò il sopracciglio. — Impossibile? perchè? — Lo sai, lo intendi, dovresti immaginarlo anche tu. Quella donna è troppo ricca per me. Temo le ciarle del mondo. Ma sì; — soggiunse Filippo animandosi, poichè tanto aveva preso l’aire; — questo pensiero è più forte di me. Ho cercato di vincerlo; non ci sono riuscito; sento che non resisterò a questa vergogna. — Vergogna, anche! La parola è grave. — Nella mia condizione è la vera. — La tua condizione è onorata; quante volte avrò io da ripeterlo? Non sei uno spiantato, perbacco, e molti galantuomini si sentirebbero in diritto di pretendere ad un partito come quello, con molto meno di terra che tu non n’abbia al sole. Inoltre, te l’ho anche detto; da amici, e segretamente, e senza aver neanche da rimetterci un soldo, son sempre qua io per pareggiar le partite. — Filippo fece il solito gesto di diniego all’offerta. — Sì, quel che vorrai; — diceva egli frattanto. — Ma non si tratta solamente della dote, per me; si tratta del resto, di tutto il resto, capisci?... Con tanti milioni!... — Tanti milioni!... Chi te l’ha detto, che sian tanti? E mettici un numero, almeno. — Filippo sentì che su quella strada non era prudente andare più innanzi. Lo sapeva bene, il numero di quei milioni; ma non poteva lasciar trapelare da chi lo avesse saputo. — Ma, — balbettò egli impacciato, — è da supporre, almeno.... — Non ne supporre troppi, ti prego; — disse Raimondo, vedendo che l’altro non accennava a voler compiere la frase. — Anselmo è ricco, o potrà diventare ricchissimo. Ha ancora molti anni davanti a sè; tu ne avrai altrettanti da aspettare, prima di darti pensiero di ciò che egli potrà lasciare, non a te, ma a sua figlia. — Ebbene? — rispose Filippo. — Cessa forse per questo ogni dubbio, ogni sospetto di calcolo da parte mia? Pensa, ti ripeto, pensa alla mia condizione, che è delicata, che è grave. — Pensa, pensa! — ripetè Raimondo, con accento sarcastico. — E non pensi tu, frattanto, che altri possa trovarsi in una condizione più grave, più delicata della tua. — Altri? — Io, per tua norma; io che ho imaginato, proposto e condotto così avanti il disegno che oggi ti spiace. — Hai ragione, hai ragione; — rispose Filippo, umiliato. — Ma non è poi così avanti, come tu dici. Il signor Anselmo, finalmente, ha ancor da vedere e da conoscere tante cose, prima di accettare la tua proposta. Se egli non è ancora impegnato a nulla, devi crederti tu impegnato a tutto? — A tutto, sì, proprio a tutto. Vedi qua, una lettera che ho in tasca da tre giorni. Non meriteresti di leggerla; ma oramai è necessario che tu sappia a che punto siamo arrivati. Ecco, e giudica tu. — Così dicendo, aveva cavato dalla tasca del soprabito il suo portafogli, e ne estraeva una lettera, porgendola tosto a Filippo. L’aperse questi, e incominciò a leggerla sottovoce, fremendo, tremando, balbettando dalla commozione. La lettera diceva così: “_Caro Zuliani_, “Vi ho sempre stimato per un uomo di cuore, d’onore, e di buon consiglio. Quello che a voi parve un eccellente partito, era già accettato da me, sempre sotto la condizione che fosse accettato dalla mia cara Margherita. Nondimeno (perdonatelo alla giusta sollecitudine d’un padre, ed anche un pochino alle vecchie abitudini dell’uomo d’affari), nondimeno, avendo necessità di rimanere ancora pochi giorni a Milano per le faccende della Rete Mediterranea, ho voluto prender lingua laggiù. Conoscevo la gente di fama, gente onoratissima, e che a Parma ha lasciato buon ricordo di virtù pubbliche e private. Sapevo da voi che la sostanza, senza essere larghissima, era tuttavia non spregevole, e capace di maggiore incremento. So ora di laggiù che l’erede rimasto orfano in età giovanissima, e avendo dalla carriera militare incentivo a spendere, non ha intaccato d’un soldo il suo patrimonio. Questa è una ragione di gran sicurezza per un babbo, e vale già il doppio, il triplo di ciò ch’egli possiede. Mi resta solo un timore; quello di essermi imbattuto in una perla d’uomo; cosa tanto difficile ai giorni nostri, che mi pare un prodigio, una stranezza. Perchè non mi sembri più tale, debbo ricordare che mi sono pure imbattuto in voi, caro e stimato Zuliani. “Io partirò giovedì da Milano, ma per far sosta a Padova, dove m’aspetta una seduta della Veneta. Ci ho piccolo interesse, come sapete, ma bastante a farmi fare il viaggio. Sabato mattina, poi, muoverò per Venezia, dove giungerò, come mi promette l’orario, alle 9,50. Venitemi incontro alla stazione, se potete; e non dite nulla alle mie donne, poichè mi spiacerebbe obbligarle ad alzarsi troppo per tempo. Avremo così più agio di ragionare tra noi due, e se Dio vuole avremo presto varata questa nave, ad onor vostro e mio. State sano, ottimo tra gli amici, e credetemi sempre il vostro “_Anselmo Cantelli_.„ Filippo Aldini era fortemente commosso; leggeva e rileggeva, guardava e riguardava il foglio per tutti i versi, come se non sapesse staccarsene. — Scrive da uomo di cuore; — diss’egli finalmente: — e ciò ch’egli dice dei miei vecchi mi tocca l’anima. — Una lagrimetta, frattanto, gli era spuntata in pelle in pelle. — Vedi, eh, che fior di galantuomini ci abbiamo noi per le mani? — gridò Raimondo con aria di trionfo. — Come si fa a non amarli, a non andar magari nel fuoco per essi? — Vero, vero; ma io.... — Ma tu non sei convinto, ora, non sei persuaso della impossibilità di dare indietro? — Vorrei contentarti; lo sa Iddio, se vorrei; ma non posso. — Non puoi? Di’ che non vuoi. Le tue ragioni le ho già combattute una volta, e vinte. Perchè ritorni alla carica? Ti avverto, caro, che io non posso seguirti. Non fo il burattino, io. Voglio la tua felicità, finalmente. Non ami tu Margherita? — Sì, — gridò Filippo, infiammandosi, — l’amo, lo sai, l’amo con tutte le forze dell’anima. — E allora che ti trattiene? Avresti tu qualche vincolo.... d’onore, che io non conosco? — Filippo fece ripetutamente un gesto di assenso. — Ti torna in mente un po’ tardi, se mai. Ed è una persona libera, a cui tu debba dare il tuo nome? — Filippo rispose con un gesto di diniego. — D’altri? — ripigliò Raimondo, facendo una vigorosa spallata. — Oh, allora, mio caro, essa non ha male che non si meriti. E tu, se mai, la guarisci. Puoi confidarmi il suo nome? Le parlo io, da onest’uomo. Non puoi? O per caso, non sarebbe questa un’invenzione dell’ultim’ora? Anzi, poichè al vincolo ho accennato io scioccamente, non sarebbe un’invenzione dell’ultimo momento? Io ti conosco da un pezzo; non ho mai veduto nelle tue abitudini nulla di misterioso, o di strano. Non c’è neppur l’ombra di un vincolo, e tu vuoi darmela a bere; non c’è altro che un capriccio pazzo, per tormentare te stesso e chi vuole il tuo bene. Quanto a costui, dico male, non lo tormenti; vuoi farlo bugiardo, vuoi levargli l’onore. — Questo no! — disse Filippo, fremendo. — Questo per l’appunto; — ribattè prontamente Raimondo; — è la conseguenza logica del tuo capriccio. Se tu non te la senti di resistere alla vergogna..., l’hai detta tu questo mala parola!... io non resisterò alla figuraccia che m’avrai fatto fare con una famiglia tanto rispettabile; te l’assicuro io. — Ma che cosa.... — balbettò Filippo, — che cosa vorresti tu fare? — Quello che un uomo d’onore sa fare, quando per colpa sua, o d’altri, ha perduta la stima della gente dabbene. Non sarà poi un grande sacrificio; — disse Raimondo, con voce improvvisamente mutata, e quasi parlando a sè stesso. — Che famiglia ho io? Non figli a cui provvedere, col desiderio di farli sempre più ricchi; anche la mia vita diviene una cosa inutile e sciocca. Non ti ho mai detto queste cose; ma da un pezzo lo sento. Allegro una volta per indole, ho del mio carattere antico mantenuta la maschera: ma sono nel fondo un disgraziato. Vorrei amare l’universo mondo; e a modo mio non ama nessuno. Mia moglie.... tu la conosci, e sai se l’amo.... mia moglie è malata più che non sembri. Con te, in confidenza, posso dire ciò che ho sempre taciuto: è figlia d’una donna che è morta pazza; mi capisci? pazza. Ed anche lei, nervosa all’eccesso, mi tiene da qualche tempo in continua ansietà. Oggi ride, domani piange. Non so che cosa farei, per quella donna; ma so bene quello che ho fatto.... — Qui il povero Raimondo faceva la faccia scura; tristi ricordi si erano aggravati sull’anima sua, come un velo denso di nuvoli sulla vetta di un monte. — Per isposar lei, — continuò, — mi sono persino disgustato con mia madre. Tu vedi bene che la santa donna non viene quasi mai a Venezia, nella città dove è nata! Ella non ha mai potuto perdonarmi questo matrimonio. E neanche la mia Livia, — soggiunse egli, sospirando, — ha mai fatto nulla per disarmarla, per rabbonirla; è così, e non si muta. La mia povera madre, che adoro, la cara donna, l’unica persona al mondo per cui sono ancora un bambino, mi tiene il broncio, mi punisce così della mia disubbidienza. Ho meritato il suo rigore, lo so: ma ero tanto innamorato! E vivevo per l’amor mio, in questi anni; vivevo anche per l’amicizia, che ho sempre creduta una grazia del cielo. Ma tu, l’amico del cuore, ricusi i miei doni. La vergogna.... il capriccio.... il puntiglio!... Io avrò fatto male a correr le poste, già te l’ho detto; ma posso aggiungerti che non le ho corse davvero, se non quando mi hai dato il tuo sì, che oggi ti vorresti riprendere. Pensaci! Come è vero Dio, ti accerto che domattina non andrò alla stazione per incontrare il signor Cantelli, se non potrò portare con me il tuo consenso. Ciò che in quella vece avrò fatto, saprai. Tu mi disonori in faccia a quell’uomo; non sopravviverò a questo colpo. — Filippo Aldini era allo stremo delle sue forze: il suo cuore si contorceva nello spasimo di un’aspra tortura morale. Fremeva al pensiero del rischio in cui la sua ostinazione precipitava l’amico; e la imagine di Medusa gli si affacciava lumeggiata di sinistri bagliori, nell’ombra. — Perdonami. Raimondo; — annaspò; — non ti esageri ora il pericolo? — No; — rispose netto quell’altro. — La lettera di Anselmo ti mostra che cosa pensi egli di me. Quando un uomo è collocato tant’alto nella stima altrui, egli è come la statua rizzata sul suo piedistallo; se casca non c’è rimedio, va in pezzi. Aggiungi che quando io fossi perduto nella stima di Anselmo, ogni relazione d’amicizia e d’affari sarebbe rotta tra noi. Tutto ciò farebbe scandalo tanto più grave, in quanto che, non essendo conosciute le cagioni della rottura, il mondo ne imaginerebbe a sua posta. Vedi a che punti mi condurrai col tuo no. Ma io prego ancora? — gridò Raimondo, inalberandosi tutto ad un tratto. — Dopo ciò ch’io t’ho detto delle mie risoluzioni, sarebbe una viltà continuare. Pensaci! Tu non hai avuto ragioni da oppormi, ed hai sentite le mie. Pensaci! Aspetterò la tua risposta prima di notte. Per darmela meditata e seria, come ho il diritto di esigerla, poichè il cuore non te l’ha subito dettata, devi restar solo colla tua coscienza. Va! — Raimondo! — gridò Filippo non voce lagrimosa. — Raimondo! Se tu mi leggessi nell’anima!... — Te l’ho detto, aspetto la tua risposta. Leggerò quella; non più parole inutili; va! — Si era alzato, così dicendo. Anche l’Aldini si levò in piedi e si mosse per uscire, con un gesto d’addio disperato; veramente disperato, come il caso in cui lo aveva messo il suo triste destino. Rimasto solo nelle stanze, Raimondo si studiò anzitutto di ricomporre il viso ad un’apparenza di tranquillità. Con uno sforzo violento venne a capo di padroneggiarsi, tanto da poter finire di minutare la lettera rimasta interrotta; poi chiamò il signor Brizzi, per dargli le opportune istruzioni. Finalmente uscito dal banco, andò attorno passeggiando senza saper dove e perchè, ma rinfrancandosi a grado a grado nell’aria pungente della sera, e portò a casa il resto del suo turbamento, quel resto che non poteva sfuggire all’occhio indagatore di Livia. Lì per lì, come s’è visto, Raimondo aveva dovuto scodellare quella bugia delle ventimila lire in pericolo; la prima che gli era venuta alla mente, e la più facile ad un uomo d’affari, ma non lavorata abbastanza, non aggraziata nè condotta a pulimento, per la fretta che aveva di trovar qualche cosa. Forte di quella bugia, era rimasto aggrondato, per tutto il tempo del pranzo, ed anche più tardi in salotto, mentre la signora fingeva d’esser tutta intenta nel suo ricamo turco (un ricamo che voleva durare quanto la tela di Penelope), ed egli di essere sprofondato nella lettura dei suoi giornali. Ed ella di tanto in tanto, col pretesto d’infilar l’ago, mandava una rapida occhiata al marito; ed egli, a più lunghi intervalli, come se si destasse ad un tratto da una specie di letargo, attaccava qualche discorso vano, che tosto lasciava cadere. Serata uggiosa per tutt’e due! Frattanto egli non dava indizio di volersi spiccare da casa, per andare a far quattro passi. Erano già suonate le nove all’orologio dell’anticamera, quando si udì una scampanellata. Visite? Per quella sera non ne aspettavano. Poco dopo entrava in salotto il fido Giovanni, portando un vassoio d’argento, e sul vassoio una lettera. — Per lei, signor padrone; — diss’egli, accostandosi al signor Raimondo. Prese questi la lettera con un gesto convulso, che alla signora Livia potè sembrare impaziente. Ella intanto sbirciava il messaggio, che Raimondo aveva dovuto recare più presso alla tavola, sotto il vivo lume della lampada elettrica ond’era rischiarato il salotto; e tosto riconosceva il tipo delle buste del banco maritale, insieme colla mano di scritto del signor Brizzi, gran maestro in calligrafia commerciale. Anche questi particolari aveva notati Raimondo, e alla sollecitudine con cui aveva afferrata la lettera era succeduto un senso di delusione e di noia. Nondimeno, aperse la busta, ne estrasse il foglio, e lo spiegò. C’erano pochi versi di scritto, e lo sguardo di Raimondo li abbracciò tutti in un colpo; egli ripiegò quindi il foglio, lo rimise nella busta, e cacciò tosto il messaggio nella tasca interna del suo soprabito. Ma un gran mutamento si era fatto in lui: sparite le gronde, la fronte rasserenata, l’occhio tornava a brillare della solita luce, e le labbra, non più strette come dianzi, s’ammorbidivano ad una espressione di gran contentezza. Tutto ciò non era sfuggito allo sguardo di Livia. La bella signora aveva molte ragioni, quel giorno, per essere in singolar modo curiosa. Passati appena pochi secondi, quanti ne bastavano a capire che Raimondo non avrebbe aperto bocca egli stesso per darle ragguagli, placidamente, senza levar gli occhi dal suo ricamo, gli disse: — Buone notizie? — Eccellenti; — rispose Raimondo. — Il rischio che correvi di perdere?... — Sfumato. Lo dicevo ben io a me stesso! Come ti si può cangiare così, di punto in bianco, diventare tutt’altro, l’uomo che hai sempre stimato, vedendo in lui la perla degli uomini? Ecco intanto come vanno le cose di questo mondaccio; — soggiunse Raimondo, chetando un pochino quella sua foga soverchia; — è bastata la voce di un maligno, per far credere che un galantuomo chiamato a Padova da un negozio urgente, rimasto colà un giorno più del previsto, fosse dato per un fuggiasco, che volesse sottrarsi ai suoi impegni d’onore. È tornato, il brav’uomo; è capitato al banco, dopo che io n’ero uscito, ed ha soddisfatto il suo debito. — Le spiegazioni verbali erano belle e buone; ma la signora Livia avrebbe preferito leggere senz’altro la lettera. Disgraziatamente Raimondo teneva gli affari e le lettere d’affari per sè; ed era un gran fatto che per una volta tanto si fosse lasciato cavar di bocca quel poco. Uscito di pena, Raimondo lesse meglio i giornali, anzi diciamo che incominciò a leggerli soltanto allora; ed anche, secondo l’uso, lesse e commentò la cronaca cittadina a sua moglie. La quale, frattanto, pensava che suo marito, anche avendo perduto o corso rischio di perder somme più forti, non era mai stato tanto accorato come quel giorno, tra le sei e le nove di sera. — Va, caro; tu non me la dici giusta; — pensava ella in cuor suo. Quella sera egli si ritirò nelle sue stanze un po’ prima del solito. E al servitore che lo accompagnava col lume, parlò facetamente così: — _Paron Nane_, domattina vorrei il caffè alle sette. E svegliatemi, s’intende; che non vorrei beverlo freddo. — Era strano, quell’ordine di svegliarlo alle sette. Nell’inverno, di solito, si faceva portare il caffè alle otto, e magari alle otto e mezzo. Inoltre non diceva “paron Nane„ al suo vecchio servitore, se non quando era allegrissimo. Che proprio tutto quel buon umore venisse da una lettera d’affari? e niente, il cattivo delle ore innanzi, da un discorso che aveva dovuto fargli Filippo Aldini, quel medesimo giorno? XIII. Triste risveglio. Ma aveva poi parlato Filippo Aldini? Bene lo aveva promesso a lei, sulla sua fede di gentiluomo; ed ella doveva crederlo risoluto, come le era apparso sincero. Quella fiducia si era avvalorata in lei vedendo ritornare a casa Raimondo così profondamente turbato: ma la fiducia si era dileguata oramai, e tanto più facilmente quanto era stato più rapido il trapasso di Raimondo dalla insolita tristezza al buon umore consueto. Ch’ella si fosse ingannata nei suoi sospetti? Si trattava egli davvero d’una somma di denaro in pericolo? tutto si riduceva egli adunque ad un episodio volgare della vita bancaria, sempre seminata di rischi? In questo caso, bisognava concludere che Filippo non avesse ancora parlato, e che tutto il rimescolo di Raimondo dipendesse da quell’altra cagione, che le era parsa insufficiente a produrlo. Ma allora, perchè aveva indugiato l’Aldini a parlare? Quando aspettava egli a farlo, mentre il farlo era più urgente che mai? Ah quella lettera! quella lettera, se a lei fosse riuscito di leggerla, le avrebbe dato modo di procedere a più sicure induzioni. Senza dubbio, quella lettera usciva dal banco Zuliani; lo diceva la busta con tanto di bollo; lo diceva la nota calligrafia commerciale del signor Brizzi degnissimo. Ma il foglio che c’era dentro, che cosa portava nelle sue pieghe? proprio la notizia che un debitore non era scappato? Questi pensieri, tutti intessuti di dubbi angosciosi, dovevano tenerla quella notte ben desta, facendole dar volta ad ogni momento nel suo letto, sotto gl’impulsi d’una febbrile inquietudine. A un certo punto non seppe più trattenersi. Scivolò dalle coltri, indossò la sua veste da mattina e passò nell’abbigliatoio, che separava la sua dalla camera del marito. Muovendo leggera leggera si accostò all’uscio di questa, e stette un pezzo origliando, per assicurarsi che Raimondo fosse ben preso dal sonno. Di solito, quando dormiva, Raimondo dormiva sodo. Ma come fu lunga per lei la fatica di girar la maniglia che teneva chiuso quell’uscio, traendola così delicatamente, così lentamente, che la toppa non avesse a cantare! Raimondo, benedetto lui, non avrebbe sentito neanche il cannone. E finalmente, se si fosse risvegliato, non mancavano pretesti a giustificare l’apparizione notturna di lei. Poteva dire, ad esempio, di essersi turbata, sentendolo parlare, o dolersi in sogno, come alle volte accade. Ma allora, addio lettera: e su quella lettera appunto bisognava metter la mano. L’uscio era aperto senza rumore, e Livia entrò guardinga nella camera; inoltrandosi alla fioca luce della finestra, arrivò strisciando fino alla spalliera di un canapé, dove ella sapeva che suo marito usava gittare i suoi abiti. Allungò il braccio, palpò destramente, trovò il soprabito, e ficcò la mano nella tasca di petto; ivi sentì il portafogli, e accanto al portafogli una busta. Era quella? A buon conto la prese, e così lieve lieve com’era venuta, si ritrasse, strisciando sul molle tappeto, fino alla camera sua. Là dentro, al lume di una lampadina da notte, guardò ansiosamente la busta. Era proprio quella, col bollo del banco, e la soprascritta già da lei ravvisata. Tosto, con ansia indicibile, e con pari sollecitudine, ne estrasse il foglio, e lo spiegò, accostandolo quanto più poteva al cristallo. Ah! non c’era più da ammirare là dentro la calligrafia commerciale del signor Brizzi; bensì da stupire, e come! davanti ad una mano di scritto meno regolare, senza sfoggio di filetti e svolazzi, tutta personale, asciutta, rigida, e chiara, poi, chiara fin troppo! Filippo aveva dunque parlato? Sì, certamente, poichè egli appunto scriveva. Ah, bravo! anche la malizia dello scrivere all’amico sotto la copertina del banco? Tutto ciò, ben inteso, per non dar nell’occhio a lei, per guardarsi da una sua indiscrezione. E come aveva dovuto lavorar di fine, per giungere a tanto! Il banco Zuliani si soleva chiudere poco dopo la partenza del principale. Per usare a quel modo della carta del banco e dell’opera del suo segretario, il conte Aldini era andato a scovare il signor Brizzi. Come ciò fosse avvenuto, s’indovinava benissimo: dal Quadri, ove pranzava l’Aldini, al _Cappello Nero_, ove il Brizzi faceva i suoi pasti, non era lunga la strada. Queste cose pensò in un baleno; frattanto leggeva il biglietto. Così scriveva brevemente l’Aldini a Raimondo: “Hai ragione, ed io sono un pazzo. Ma se tu vedessi nell’anima mia!... Basta, io non ti dirò altro dei miei turbamenti. Vedi pure il signor Anselmo; io non ho più nulla da opporre alle tue argomentazioni, segnatamente all’ultima, che mi ha troppo commosso. Ah, Raimondo, Raimondo! Tu eri ben degno d’un amico migliore. “Il tuo _Filippo Aldini_.„ E nient’altro: ma quel tanto bastava ad illuminare la signora Zuliani. “Vedi pure il signor Anselmo; io non ho più nulla da opporre.„ Oh, caro! Si era egli dunque finito di persuadere da sè? C’erano molte più cose da opporre a lui, e alle sue facili persuasioni. Ma non c’era tempo da perdere. Livia rilesse il biglietto, per non dimenticarne una sillaba; poi lo ripose nella sua busta, e com’era andata una volta, così guardinga ritornò nella camera di suo marito; rimise la lettera al suo posto, mentre Raimondo seguitava a dormire, e si ridusse nella sua camera. Soltanto allora poteva dar libero corso allo sdegno ond’era tutta invasata. — Ah no! non sarà come tu la pensi, cacciatore di doti! Saltasse il mondo, questa non la spunterai, te lo prometto. Ed io, quando prometto, mantengo. — Così borbottava tra i denti, mentre la sopraccoglieva un gran freddo, obbligandola a rimettersi in letto. Indossava ancora la veste da camera, e non ci aveva neanche badato. Tra poco, al gran freddo sarebbe succeduto un gran caldo; tanto già incominciava la febbre a darle travaglio. E rileggeva con gli occhi della mente il biglietto fatale. “Vedi pure il signor Anselmo„. Ma dove, se il signor Anselmo era a Milano? Che, forse era egli per giungere a Venezia? Ma sì, l’ordine dato da quell’altro di esser destato alle sette, non indicava che volesse andargli incontro alla stazione? Si faceva tutto a gran furia; e sul tamburo la scritta nuziale! Ah, no, mille volte no! Ella non voleva; non avrebbe mai consentito. Filippo adunque perduto irremissibilmente per lei! E di lei si era fatto giuoco, il vigliacco! Ogni tentativo, pur troppo, le era andato a male. Aveva parlato alle signore Cantelli, seminando accortamente sospetti; e Raimondo si era affrettato a dissiparli. Curiose quelle donne, che si lasciavano così facilmente persuadere, tanta era la fretta di acciuffare un marito! Aveva parlato a Filippo, ottenendo da lui la promessa di resistere; e Raimondo era venuto a capo di persuadere anche quello, facendogli rimangiare la sua sacra parola. Con tante fatiche, non era dunque riuscita a nulla? E non le si offriva nient’altro, per muovere alla riscossa, per mettere a segno il cacciatore di doti? Ah, se avesse potuto discorrer lei, col banchiere Anselmo! Quello non doveva avere la stupida fretta delle sue donne, e neanche gli stolidi capricci del suo collega di Venezia; quattro ragioni spiattellate lì, senza tanti rigiri, lo avrebbero convinto della necessità di rompere quei negoziati vergognosi. Che cosa gli avrebbe detto? Non lo sapeva ancora; si sarebbe buttata là a capo fitto, anche a rischio di confessargli ogni cosa di sè. Lo sdegno non ragiona; può passar sopra alla vergogna. L’essenziale, per lei, era di vincere. Ma come poteva sperare di veder subito il banchiere Cantelli, e senza importuni alle costole? Ci pensava, e mulinava disegni, l’uno più sottile e più pazzo dell’altro. Lo sdegno intanto cresceva, cresceva come un fiume in piena, che raggiunge il colmo degli argini, li sormonta e dilaga. Il sangue le dava tuffi frequenti; le tempia le ardevano; le si offuscavano gli occhi. Filippo sposo! Filippo che si rideva di lei e delle sue furie impotenti! Ah, il signorino, il bel conte, così mutato da quello di un giorno! Perchè egli, con tutti i suoi rimorsi, con tutte le sue prudenti esortazioni, non poteva negare a sè stesso di averla ricambiata di amore. Gli avrebbero dato, se mai, una solenne mentita le sue medesime lettere, piene di soavissime cose. Bruciando per tutte le membra, non potendo più stare sotto le coltri, si alzò di scatto, mosse alla volta di uno stipo che stava appoggiato contro la parete, lo aperse, e toccato un segreto nel fondo, ne fece uscir fuori un involtino di carta. Erano lì, strette da una fettuccia color di rosa, le lettere di Filippo Aldini. Non molte, per altro; l’amico era assai presto diventato sospettoso e prudente: tanto prudente, che si era fatto promettere da lei di bruciare quegli otto o nove messaggi d’amore. Che bisogno di conservarli, se durava nei cuori il sentimento gentile ond’erano stati ispirati? Così egli diceva. Ma qual donna innamorata, o che tale si creda, accetterà mai il consiglio di distruggere i dolci ricordi del tempo felice, i cari trofei della sua stessa vittoria? Aveva promesso di bruciare, ed aveva conservato; rileggeva allora, e si esaltava sempre più. Scoccarono le cinque, ed ella non aveva anche finito di sfogliar quelle pagine, di notarne i pensieri, di meditarne le frasi, di richiamarsi alla mente le sensazioni che s’erano accompagnate alla prima lettura. E se quell’altro si fosse destato? Se udendo il fruscìo delle carte, od altro lieve rumore nella camera di Livia, e imaginando ch’ella non dormisse più, fosse comparso là, dall’uscio dell’abbigliatolo, e l’avesse colta in sull’atto dell’amorosa lettura? Ebbene, comparisse pure, lo spettro della vendetta. Oramai, ella non reggeva più alla violenza del suo dolore; ogni altro male sarebbe stato un sollievo. Ma egli dormiva ancora, dormiva sempre il sonno del giusto; e Livia ebbe tempo a rileggere, a meditare, a richiamar sensazioni antiche, poi a rifar l’involtino, a rimetterlo nel suo cassetto d’acero, e a richiuder lo stipo. Il freddo la riprendeva, ed ella ritornò a rannicchiarsi nel letto, formando sempre nuovi disegni, non trovando mai nulla che valesse, rabbrividendo, fremendo, gemendo, e nella sua disperazione chiedendo a Dio che la facesse morire. Il mondo le pareva un buio deserto, oramai, se le mancava Filippo, se Filippo doveva appartenere ad un’altra. E vedeva la puppattola sciocca, bianco rosata sotto le ciocche luccicanti dei suoi capelli neri; la vedeva lieta, trionfante, venirle incontro con un sorriso che tradiva lo scherno, per ringraziarla dell’esser venuta ad assistere alla cerimonia nuziale. E a quella, e ad altre feste doveva esser presente la moglie di Raimondo Zuliani, autore glorioso e dissennato della felicità del suo caro Filippo. Ah no, per la collera di Dio, che punisce i traditori, quella felicità non sarebbe giunta a maturanza; no, no, mille volte no; sarebbe morta, piuttosto, ma della collera divina sarebbe stata lei lo strumento. Intanto albeggiava; il cielo si tingeva di un tenue chiaror cenerognolo, sui tetti dei palazzi nereggianti in grandi masse dall’altra riva del Canal Grande. Ed ella ancora non aveva chiuso occhio; e quell’altro seguitava a dormire, più saporitamente che mai. Attraverso gli usci dell’abbigliatolo, Livia ne udiva il respiro largo, profondo, monotono nel suo ritmo uniforme. — E tu dormi, sciocco! — mormorava ella, stizzita. — Così tu hai sempre dormito. — Infatti, che cieca fiducia, in quell’uomo! Quante volte non si era ella trovata sul punto di essere scoperta! Ogni altro si sarebbe insospettito di meno; egli no. Gran fede! gran fede! Si fonda una religione, colla fede, non si governa una donna. Ed era stato lui, a tirare in casa il bel conte; lui a magnificarne ogni atto, ogni parola, ogni gesto; tanto che, sul principio, ella ne era seccata parecchio, avendo perfino accolto nell’anima il sospetto che il suo Raimondo, senza volerne aver l’aria, fosse noiato di lei e chiamasse un aiuto a portar la sua croce. Ma che cosa aveva di tanto miracoloso, quel conte? Era bello, sì, senza eccesso; elegante con misura; scarso di parole, che parevano tutte assai meditate; spesso e volentieri taciturno; sempre in atteggiamento pensoso. Forse per questo lo dicevano un uomo fatale? La uggivano maledettamente, gli uomini fatali. Ma intanto, volere o no, poichè egli era entrato nelle grazie di Raimondo, bisognava studiarlo, ed anche poteva essere utile studiarlo per indovinare con qual segreta malìa avesse egli incantato parecchie bellezze, delle quali in ogni ritrovo più o meno aristocratico si bisbigliavano i nomi. Ahimè, studiare è principio di amare; e quando la signora Livia ebbe molto studiato, si ritrovò pazzamente innamorata del conte Aldini. Un amor pazzo non è sempre, anzi non è quasi mai un amor vero; non è certamente un amore profondo; nasce dal cervello e non dal cuore; l’imaginazione lo ha concepito, il sentimento la ha tenuto a battesimo, secondo l’usanza di tanti padrini, senza calcolar troppo i suoi obblighi. Così travolta dall’impeto della passione, era stata lei la prima cagione del male onde ora aveva a dolersi. Il suo amor proprio non le permetteva di confessarlo; alla peggio, la colpa di tutto andava ascritta a Raimondo. E certo, quel marito non era stato prudente, nè savio: felice tra due diversi affetti dei quali sentiva bisogno il suo gran cuore, non aveva veduto nulla, sospettato di nulla; beatissimo uomo, aveva dormito tra due guanciali, proprio come in quel momento faceva. Ma per allora, a buon conto, l’amico doveva risvegliarsi. “Paron Nane„ aveva bussato due volte all’uscio della sua camera, discretamente la prima, più forte la seconda; finalmente, a rompergli l’alto sonno nella testa, era entrato, portando il vassoio del caffè, secondo l’ordine ricevuto. Livia sentiva dalla sua camera la voce del vecchio servitore che riscuoteva Raimondo, e tosto quella di lui, che destato in soprassalto chiedeva: — È già l’ora? — Sono le sette, signor padrone; — rispondeva quell’altro. — Non mi ha ordinato di svegliarla ad ogni costo? — Sì, sta bene, sta bene; versate il caffè, paron Nane, — replicava Raimondo. — Ma in verità, dormivo così di gusto! — Le sette scoccavano infatti all’orologio dell’anticamera. Le sette; e Livia aveva passata tutta la notte insonne! E il sangue le ribolliva nelle arterie, pulsando forte, martellando alle tempie. Già Raimondo era sceso dal letto, ed ella lo sentiva andare e venire nella fretta del vestirsi, poi richiamare il servitore e ordinargli che la gondola fosse pronta per le otto alla scalinata del palazzo. Un’ora, dunque, un’ora appena doveva passare, ed egli sarebbe uscito, sarebbe corso dove lo chiamava il suo matto desiderio di far la gente felice. Ella, intanto, era fuori di sè. Tremassero i felici, ai quali Raimondo dedicava le sue cure amorevoli: ella sentiva una voglia furibonda di balzare dal letto, di fare un chiasso, di romperla con ogni riguardo, come con ogni paura. Non ne poteva più, non ne poteva più; o sfogarsi, o morir soffocata. Raimondo era entrato nell’abbigliatoio; Raimondo veniva ad aprir l’uscio della camera di lei; Raimondo appariva sulla soglia. — Livia, dormi? — chiedeva egli a bassa voce. — Che! — rispose lei, coll’accento sdegnoso che Raimondo conosceva così bene, e a cui così bene, se non volentieri, si adattava da un pezzo. — Ma si può egli sapere dove corri a quest’ora? — Non corro, come vedi; vengo a darti il buon giorno. Per uscire c’è tempo ancora; ma volevo esser pronto: il sonnellino d’oro è così traditore, che guai, a fidarcisi! Debbo trovarmi alla stazione intorno alle nove. — Ella ebbe al cuore un sussulto violento. Non si era dunque ingannata; Raimondo muoveva ad incontrare il Cantelli. Ma volle averne l’intiero da lui. — Alla stazione! — ripetè, simulando un alto stupore. — E perchè? — Sai, arriva questa mattina l’amico Anselmo; — rispose Raimondo. Non le diceva nulla ch’ella già non sapesse: pure il sentirselo confermare da lui, le diede una stretta dolorosa. — Ah! — esclamò con accento sardonico. — Sempre per quel matrimonio! — Ma sì; — diss’egli, stropicciandosi le mani. — Oramai siamo alle porte coi sassi. — Davvero? — ripigliò la bella sdegnosa. — E si contenterà di quattro sassi sul parmigiano, il babbo dei sette milioni? — Si è già contentato, mia cara; egli viene soltanto per conoscere il suo futuro genero. Quanto agli interessi, — concluse Raimondo, — avevamo già tutto combinato in questi giorni per lettera. — Livia si morse le labbra a sangue. — Che scioccheria! — gridò, esasperata. — Ma che ti salta in mente di far dei felici a loro malgrado? — A loro malgrado? — ripetè Raimondo. — Spero di no. Si amano tanto! — Quelle parole, con tanta calma proferite, giunsero aspre al cuore di Livia, acute, cocenti, come un ferro arroventato. Si era rizzata sulla vita, puntando una mano sul letto e con voce stridente gridava: — Si amano, hai detto? Egli ama dunque davvero quella donna? E non la dote? — Ma che dote! Ne abbiamo già discorso una volta, e speravo di averti disingannata su questo proposito. L’ama, ti ripeto; me lo confessava ancor ieri; l’ama di un amor disperato. — E sia; — riprese ella, fremente. — Ma il tuo Aldini non può sposar quella donna. — Perchè? — domandò Raimondo. — Che vincoli lo potrebbero trattenere? — Vincoli, o riguardi da buon cavaliere, dovrebbero esser tutt’uno; — replicò ella concitata. — Ah, vuoi parlare di antiche fiamme? — disse placidamente Raimondo. — Storie del vecchio Testamento, mia cara. — Eh, non tanto vecchio come tu credi. — Raimondo tentennò la testa, in atto d’uomo che fosse ben sicuro del fatto suo. — T’inganni, bella mia, t’inganni; — ribadì, più placido che mai. E per un momento, sappi, m’ero ingannato ancor io. Vedendolo sempre così incerto, così facile a volere e a disvolere, mi era passato per la mente quel che tu dici. E gliene domandai, senza tanti preamboli. Figúrati che a tutta prima voleva dirmi di sì. Ma lo faceva parlare in questo modo l’eterna paura di sembrare un uomo interessato, quel che tu dici un cacciatore di doti. Ma io l’ho confessato per bene, sai. Ha dovuto convenire di esser libero, liberissimo di ogni specie d’impegno; così, su tutti i punti ho avuto il piacere di vincerlo. — Livia guardò suo marito negli occhi. Le parve orribile, con la sua faccia fresca, con la sua asseveranza, con la sua serenità imperturbabile, e più coi suoi canti di vittoria. — Dunque, tu credi che non abbia vincoli di cuore? — Lo credo fermamente. — Sciocco! — gridò la fiera donna, divorata dalla febbre, divampante di collera. — Apri quello stipo; c’è ancor la chiave nella toppa. — A quelle strane parole Raimondo diede un balzo sulla poltrona ov’era andato a sedersi, presso il letto di sua moglie, fin dal principio del loro colloquio mattutino. — Che è ciò? — diss’egli turbato. — Che cosa ho io da vedere là dentro? — Il tuo disinganno, se credi l’Aldini un fior di cavaliere. Ah, egli si è fatto ben pregare, per ingannare te, per ingannar la tua Margherita, per ingannare la signora Eleonora, il banchiere, e tutti quanti. Non ama la tua puppattola, te lo dico io; non l’ama d’amore. Apri! — Ma, in nome di Dio, che cosa c’è là? — gridò Raimondo, irritato. Attraverso i vapori della febbre, un lampo di ragione era passato per la mente di Livia, rischiarandole il vuoto di un abisso pauroso. Ma ella non era più in tempo per dare indietro; e del resto, a qual pro? Non era meglio finirla una volta, e per sempre, anzichè dibattersi vanamente tra gl’impeti della gelosia furibonda e dell’ira impossente? — C’è un involtino di lettere; — rispose, con voce mezzo soffocata da un tuffo di sangue alla gola; — lettere del tuo cavalleresco Aldini.... ad una signora. — Una nube si era stesa sugli occhi di Raimondo; ma egli trovò ancora tanta forza nell’animo per discacciarla da sè. — E tu, — diss’egli, tentando di dare aspetto di celia ad un modesto rimprovero, — e tu hai fatto da segretaria? — Apri e vedrai; — replicò Livia, impaziente. Raimondo andò barcollante verso lo stipo; girò la chiave, e fece cadere lo sportello a ribalta, mettendo in mostra parecchi scompartimenti di cassettini e ripostigli in bella ordinanza disposti a parecchi ripiani, nei quali il mògano si alternava coll’àcero. — Dove? — chiese egli, non sapendo in qual punto metter la mano. — A sinistra, il cassettino più basso; fallo scorrer fuori; troverai un assicella di legno bianco. Ancora a sinistra, premi col dito; salterà. — Egli aveva macchinalmente obbedito alle istruzioni di Livia. L’assicella, premuta appena, scattò, discoprendo il ripostiglio segreto. In quel ripostiglio giaceva un involtino di carta bianca, legato da una fettuccia color di rosa. Le afferrò, ne sciolse il legaccio, spiegò il foglio, e ne trasse fuori un mazzettino di lettere, che portò nel vano della finestra, sotto la luce scialba di quel mattino invernale. Non avevano soprascritta; certo erano state cambiate le buste. Aperse la prima; gittò un’occhiata sui primi versi dello scritto, e mise un grido; aperse la seconda, lesse ancora poche parole, e il grido di doloroso stupore si mutò in urlo di belva ferita. E ancora aveva sperato, poc’anzi; aveva sperato d’imbattersi in segreti altrui, che poco o punto gli dovesse importar di conoscere. Avrebbe guardato, per contentare sua moglie, strana donna in verità, che di altrui debolezze non si sarebbe dovuta occupare; avrebbe guardato, e non letto. In quella vece.... “Mia Livia„, diceva incominciando la prima lettera che gli era venuta sott’occhio; “Adorata„, diceva la seconda; ed anche quella s’intendeva dal contesto che fosse per lei. — Ah, per l’anima mia! — ruggì, più che non gridasse, il disgraziato Zuliani. E non voleva più veder altro; il demone della gelosia lo mordeva al cuore; lo torturava l’orgoglio ferito; lo straziava l’amore umiliato. Ma se non fosse vero niente? Se gli occhi suoi avessero traveduto? E leggeva ancora, leggeva con rabbia crescente, cercando invano il segno della innocenza di lei, come della sua propria follìa, e cacciandosi sempre più profondo il ferro nella piaga. Apriva buste, e le gittava sul tappeto, scorreva foglietti e cartoncini, che si venivano l’un dopo l’altro spiegazzando tra le sue dita convulse; ruggiva, intanto, con la schiuma alla bocca e gli occhi iniettati di sangue. Così trangugiato sino alla feccia il suo calice di amarezze, stringendo i fogli maledetti nel pugno, tremando tutto di vergogna e di collera, balbettando parole sconnesse, si volse e andò minaccioso verso il letto. Ella era là, poggiata sul gomito, con gli occhi sbarrati, e rideva, rideva d’un riso spasmodico. Ma tosto gettò un grido, e diede in uno scoppio di pianto. — Uccidimi! uccidimi! — mormorò tra i singhiozzi. — Almeno non inganni più te, nè altri, il miserabile! Uccidimi, Raimondo! Amerò la morte, se mi viene da te. — E già Raimondo si scagliava su lei, con gli occhi fiammanti e con le mani levate. — Tu.... disgraziata.... — proruppe, ma non potendo dir altro. Le parole gli gorgogliavano nella strozza; ed anche i pensieri si agitavano confusi nel suo cervello. Guardò la disgraziata, che ansante e palpitante, riarsa dalla febbre, con atto disperato protendeva il collo verso di lui, come implorando la stretta fatale; mise un urlo di fiera, quasi volesse coll’urlo stimolarsi a vendetta; ma le sue mani levate a minaccia non si aggravarono su lei: una forza arcana combatteva i suoi feroci propositi, trascinandolo indietro. — Tu.... disgraziata, — ripetè allora, in uno sforzo supremo, — vivi colla tua onta, se puoi. Non macchierò le mie mani nel sangue di una donna. — Ella si era precipitata dal letto, avvinghiandosi alle ginocchia di lui. — Una disgraziata, sì, hai detto bene; — gemeva. — Uccidimi! uccidimi! — Rispose egli alla preghiera con un gesto sdegnoso; e poco potevano trattenerlo le braccia di lei. Cacciati in tasca i fogli spiegazzati, dei quali aveva già fatto nel colmo dell’ira un batuffolo, afferrò i polsi di lei, premendo così forte, da strapparle un grido d’angoscia, e da costringerla tosto, sebbene riluttante, ad aprire le palme. — Va! — disse ancora, respingendola a tutta forza, per modo ch’ella andò riversa sul pavimento. Fu quella l’unica violenza usata da Raimondo Zuliani contro la donna che lo aveva così crudelmente ingannato, e più crudelmente levato d’inganno. Si rialzò la misera Livia sulle ginocchia, supplicando. Non diede ascolto Raimondo, e fuggì. XIV. È il destino! Livia era rimasta spossata, fisicamente e moralmente spossata, inerte il corpo, inerte la mente. Soltanto dopo un tratto di tempo, cedendo alla sensazione del freddo che la coglieva così discinta com’era, macchinalmente si trascinò fino alla sponda del suo letto, tante volte abbandonato nel corso di quella notte dolorosa; ma fu grande fatica per lei, a ridursi sotto le coltri. Aveva bisogno di riposo; e l’ebbe la persona, non l’anima, pur troppo; non l’anima, che, ravvivata da un ritorno di calore alle membra, non poteva egualmente rinfrancarsi in una serie di quieti pensieri e d’imagini liete. Dio, che cosa aveva ella mai fatto! Cessate il parossismo della febbre, sentiva allora, riconosceva finalmente tutto l’orrore dell’atto dissennato, commesso in una crisi nervosa. Il suo male! “Mia madre è morta pazza„, aveva ella detto il giorno innanzi a Filippo. E così fosse morta pur lei, che aveva parlato in un vero accesso di follia, e viveva, povera carne sofferente, disdegnata in mal punto da chi avrebbe dovuto farle la carità di una stretta alla gola, che finisse in lei ogni rimorso, ogni spasimo. Ed ora, quante rovine intorno a lei! e fatte nella pazzia d’un istante da lei! Così quando un fiume si gonfia, infuria e straripa; dove già si stendevano campi ubertosi, suscitando speranze di popolo onestamente operoso, tutte in un subito le speranze svaniscono; vanno perdute, col terreno sconvolto e colle piante sradicate, le care promesse di un viver modesto ma sicuro; e i tetri fantasmi degli anni squallidi, che seguiranno al disastro d’un giorno, si levano minacciosi su sterili lande, spogliate d’ogni cosa, fuorchè di rena e di sassi. Finita in ugual modo la pace signorilmente lieta del palazzo Orseolo; finite le gaie conversazioni, le fastose comparse ai balli, ai teatri, alle pubbliche feste, dove la felicità dei trionfi ottenuti luccicava nel volto, mentre l’invidia doveva esprimersi in sorrisi a fior di labbro, o consumarsi in sè stessa e tacere. In quella vece, oramai, le ciarle assassine del mondo elegante, i sogghigni maliziosi del salotto, gli scherni del crocchio; lei, finalmente, su tutte le bocche, e il suo caso diventato la favola della città. Orribile idea! E quell’altro? Ah, solo pensando a quell’altro, ella s’irrigidiva nel suo amor proprio offeso, nel suo orgoglio ferito, e poteva sentirsi non del tutto pentita. Quella grande rovina involgeva anche lui. Certo, dopo il suo triste risveglio, Raimondo Zuliani non avrebbe più mosso un dito per la felicità di quell’uomo. Frattanto la casa taceva, come se fosse incantata, o i servitori temessero tutti di farsi vivi col più lieve rumore. Avevano sentito qualche cosa del terribile colloquio? Forse sì, forse no: ad ogni modo, non era quello il momento di darsene pensiero. La gente di servizio è poi così avvezza a certe scenate padronali, in una casa o nell’altra! Ne bisbiglia discretamente, e tacitamente conchiude: “i vizi dei signori!„ godendone anche un pochino in cuor suo. Il pane che si mangia servendo, non può sgradire questi condimenti, che lo rendono più saporito. Ma infine, che importano i suoi commenti, fossero anche malevoli? La gente di servizio ha l’obbligo di fare l’ufficio suo e tacere, mostrando negli atti di non aver nulla sentito. E per intanto non si sentiva di alcuno nè la voce nè il passo. Ma infine quel gran silenzio fu rotto da una scampanellata all’uscio di casa. E poco dopo il Giovanni batteva delle nocche sull’uscio della camera, chiedendo il permesso di aprir l’uscio a mezzo, per gittar dentro poche parole. Annunziava una visita. E come una visita a quell’ora? Ma era il signor Brizzi, che domandava per grazia di veder la signora. — Debbo dirgli che è ancora a letto? — chiedeva il vecchio servitore, quasi precorrendo la risposta. — No no; — rispose in quella vece la signora Zuliani, — fatelo entrare nel salottino; mi vesto in fretta, e vengo. — Ella indossava ancora (e se ne avvide in quel punto) la sua veste da camera, tutta discinta, ed anche malamente gualcita dai moti incomposti, dai tramutamenti irrequieti d’una notte febbrile. Ma questo era il menomo guaio; e pel signor Brizzi, che era quasi della famiglia, poteva passare anche un po’ di scompiglio nell’assetto mattutino. Raccolta la veste al seno, gittato uno sciallettino intorno al collo, la signora Livia si ravviò alla meglio i capelli davanti alla specchiera, e passando rasente allo stipo, non senza un brivido per l’ossa, ne rialzò e richiuse lo sportello a ribalta, ch’era rimasto calato; indi frettolosa si avviò nel salottino, dove il signor Brizzi aspettava. Il pover uomo era tutto sconvolto, contraffatto nel viso, tanto ch’ella, al vederlo in quello stato, tremò di qualche nuova disgrazia. — Signora.... signora.... — balbettò egli, muovendole incontro, — che cos’è avvenuto stamane? Io veramente, non dovrei farmi lecito.... Ma il caso è così grave!... — Grave! — esclamò la signora. — Che cosa è accaduto di grave? Mi dica Lei, signor Brizzi. — Il signor Raimondo, — riprese egli allora, — il signor Raimondo.... che doveva andare alla stazione per le nove, non è andato. — Un sorriso sarcastico sfiorò le pallide labbra di Livia. — Ah, non è andato! — diss’ella. — Come lo sa? — Lo so, perchè il signor Raimondo è venuto al banco una mezz’ora fa, proprio quando avrebbe dovuto prendere la via della stazione. Ella sa che il banco non si apre mai prima delle dieci. Ma io, questa mattina, c’ero andato per tempo, volendo spacciare con più calma un lavoro urgente. Stavo scrivendo, quando sentii cacciare una chiave nella toppa e subito aprirsi l’uscio. Mi alzai, corsi a guardare in sala; era il principale. Molto alterato in faccia, si avvide appena della mia presenza: lo salutai, mi rispose a stento. Notavo frattanto che con questo freddo egli era vestito alla leggera, in soprabito. Gliene dissi; mi fece una spallata, rispondendo: “ho caldo, molto caldo„. Feci qualche domanda, parendomi che non dovesse star bene; ma egli ripigliò spazientito: “Brizzi, lasciatemi stare, debbo scrivere una lettera„. Non fiatai più, e mi trassi indietro, ma senza uscir dalla stanza, non perdendolo d’occhio. Appena seduto, aveva incominciato a scrivere, ma senza venire a capo di nulla, gettando foglietti nel cestino, l’un dopo l’altro, appena incominciato a vergarne una o due righe. È in collera con qualcheduno, pensai; si scrive male, quando si è agitati: Veduto che uno di quei foglietti, gittato via con atto d’impazienza, era volato fuor della bocca del cestino sul pavimento, mi chinai a raccoglierlo per collocarlo al suo posto. Avrò fatto male, signora; ma gli occhi mi corsero allo scritto, che incominciava così: “Signor Conte„. — La signora Zuliani aveva inarcate le ciglie; un tremito la prese al cuore, diffondendosi tosto per tutte le membra. Nondimeno, ella si contenne ancora. — E nient’altro? — domandò. — Nient’altro; — rispose il signor Brizzi. — Forse in qualche altro foglio ci sarà stato di più. Dopo alcuni minuti di quel vano lavoro, osai interromperlo, e riparlargli del suo abito troppo leggero, offrendogli di mandare a prendere il suo pastrano. “Sì, mi disse, mandate a casa il fattorino. E lasciatemi stare, ho da scrivere questa lettera.... parecchie lettere; se voi mi state qui sempre alle costole, non riesco a far nulla; non vedete che ho il cervello in fiamme?„ Chiesi umilmente scusa, e per quella volta mi ritirai davvero. Il fattorino del banco non era ancora arrivato; così mi sono arrischiato a venir io, anche per chiedere a Lei che cosa può essere accaduto, da metterlo in questo scompiglio. — Signor Brizzi, Ella è un amico.... — disse la signora. — E come! Ella lo sa; vecchio, sincero e fidato. — Bene! Ad ogni modo, o prima o poi, dovrebbe sapere ogni cosa. Son certa anzi che Raimondo si confiderà a Lei prima che ad altri. Sappia dunque che c’è stato tra lui e me un gravissimo alterco. Finiremo, ne son certa, con una separazione. Ma Ella, prego, non ne fiati con anima viva. — Si figuri! — gridò il signor Brizzi. — I segreti di casa Zuliani mi son più sacri dei miei. Ma speriamo che non sia il caso, per un semplice alterco, di giungere a quella estremità. — Oramai il signor Brizzi aveva capito ogni cosa. L’alterco gravissimo colla moglie, onde il suo povero principale era uscito così stravolto dall’ira; la lettera al “signor conte„ ch’egli non poteva tirare innanzi, tanto era agitato; erano quelli i due capi di una catena, che raccostati offrivano la chiave di tutto l’occorso, specie a chi già conoscesse un certo segreto di casa Zuliani. Ahimè, quello era a conoscenza di troppi; vero segreto di Arlecchino, come tanti e tanti altri d’ugual genere nel nostro povero mondo; così facilmente, di leggerezza in leggerezza, d’imprudenza in imprudenza, lasciamo indovinare i fatti nostri più intimi a tutta una turba di sfaccendati, in ogni città che non sia Londra o Parigi! Ed anche si può rinunziare a queste eccezioni, chi pensi che Londra e Parigi non debbono sfuggire neppur esse a certe piccole noie, essendo anche laggiù il mondo elegante e il mondo pettegolo nelle istesse condizioni di buon vicinato, ed esercitando i loro disutili uffici in una sfera piuttosto ristretta, come in tante altre città di minore importanza. Di quel segreto d’Arlecchino il povero signor Brizzi si era sempre doluto in cuor suo, poichè egli amava molto il suo principale, e non era mai stato senza timore che un giorno o l’altro gliene giungesse un cenno all’orecchio. Era un segreto, quello, da non metterci bocca; e cercava, se fosse stato possibile, di dimenticarlo egli stesso; per intanto non permetteva che davanti a lui qualche amico imprudente vi facesse la più lontana allusione. — Comunque sia, — rispondeva la signora Zuliani, la cui fede era certamente men salda che non fossero le tenui speranze del suo pietoso interlocutore, — il vivere insieme è impossibile. Ella veda frattanto, mio buon signor Brizzi, se può avere qualche altra notizia, che mi giovi di conoscere, nello stato in cui siamo, di aperta rottura. Chi sa? Egli vorrà bene confidarsi con Lei. E a me deve importare moltissimo che si confidi con Lei, anzichè con altri, che sia meno amico di ambedue; non le pare? — Il signor Brizzi, che era tutto cuore, promise assai volentieri. Se il signor Zuliani, com’era da credere, si fosse aperto delle proprie tristezze con lui, certamente egli avrebbe raccomandato calma e prudenza. Gran cose, la prudenza e la calma; quanti malanni non hanno esse evitati! E ciò senza contare che le famiglie non debbono mettere i loro dissapori in piazza; perchè la gente ne ride, e tra le risate della gente se ne va il loro buon nome, il credito, il rispetto, l’onore, tutto ciò che è più geloso, e dovrebb’esser più sacro per noi. Con questi ed altri simiglianti discorsi, l’ottimo Brizzi prese commiato dalla signora Zuliani. A lui si accompagnò, recando il pastrano del padrone, il vecchio Giovanni; quel povero “paron Nane„ che pur troppo non doveva aspettarsi la ripetizione della faceta apostrofe con cui dodici ore innanzi era stato salutato. Ritornata nella sua camera, la signora Zuliani si vestì in fretta e furia, poco o punto giovandosi dei troppo lenti uffici di Giustina, la sua cameriera. — Andate piuttosto a vedere se Giovanni è tornato; — le disse. — Appena arriva, mandatelo qua. — Il vecchio servitore giungeva proprio in quel punto, e fu tosto avvertito del comando di lei. — Avete fatta la commissione? — gli chiese. — Sì, signora. — E veduto il padrone? — No, signora; egli era nel suo studio, ed io son rimasto nella prima camera, dove lavora il signor Brizzi. Ma l’ho sentito rispondere “sta bene, mettete là, su quella sedia„, dopo che il signor Brizzi gli ebbe detto che il pastrano era stato portato da casa. — Raimondo era dunque rimasto al suo banco. Aveva egli finito di scrivere le sue lettere? Di questo ella non poteva chiedere al servitore, che aveva riferito quanto era in poter suo di sapere, non essendo stato introdotto alla presenza del padrone. Erano le dieci e mezzo: la signora Zuliani fece una pronta risoluzione; mise il cappellino in testa, ravvolse il velo intorno alla faccia, ed uscì prendendo cammino verso il corso Vittorio Emanuele. Di certo, andava a trovare la Galier, avendo anch’essa bisogno di sfogarsi, di versare la piena delle sue afflizioni nel cuore compassionevole della contessa, della sua intima amica, dell’amica più vera, anzi dell’unica, che avesse per tale. Pallida e spossata, con gli occhi pesti, in ogni altra occasione la signora Zuliani avrebbe rinunziato ad una corsa fuori via; ma il momento era grave, ed urgente il bisogno; del resto, quel velo fitto sul viso poteva dissimular molti guasti. Ella pensava, frattanto: mentre il corpo era in moto così frettoloso, il pensiero non poteva restarsene inerte. — Ha sdegnato di uccidermi; — diceva ella tra sè. — Vuole sfogarsi contro di lui, è chiaro; gli manda un cartello di sfida. Come non l’ho io preveduto, ch’egli si potesse appigliare a questo partito? E ancora, se lo avessi preveduto, mi sarei io trattenuta dal fare quello che ho fatto? Ora, egli manderà la sua lettera. L’avrà poi potuta scrivere? Ne ha strappate già tante, che altrettante potranno ancor fare la medesima fine. Comunque sia, bisogna avvertire quell’altro, che non sa nulla, avvertirlo ad ogni costo. La contessa è così buona, mi è tanto amica, che vorrà pure aiutarmi. — Avvertirlo, sì, era bene, e faceva bella testimonianza d’animo compassionevole. Ma era lei, Livia, la terribile Livia, la furia scatenata di poche ore innanzi, che pensava allora in quel modo? Il suo odio implacabile, dov’era andato a finire? Forse odiava quell’uomo, sentendolo felice, prossimo al compimento dei suoi voti più cari, alla consumazione del tradimento più nero; e nell’animo di lei si era stemprato ad un tratto il geloso furore, dando luogo ad un sentimento di pietà, forse di amore per quel disgraziato, allo scatenarsi della bufera che doveva travolgerlo. Arcani del cuore! Quando fu giunta al portone della Galier, la signora Zuliani entrò nel vestibolo, ma non si volse già verso la scala a collo, che conduceva al quartierino dell’amica; si volse in quella vece al cortile, e prese la scaletta di servizio che metteva allo stabile attiguo. — Perchè no? — aveva ella detto tra sè. — Sarà tutto tempo guadagnato. Forse egli non ha ancora pensato a serrare col catenaccio, non aspettando più apparizioni di gelose importune; — soggiunse ella sospirando. — Tentiamo! — Ed era salita; e giunta al noto usciolino, aveva provato nella toppa la piccola chiave inglese, grazioso gingillo da cui non si era ancor separata. La piccola chiave fece liberamente il suo giro; ma l’usciolino non si aperse altrimenti. Per l’appunto, non aspettando più visite da quella parte, Filippo Aldini aveva dato di dentro il catenaccio. Disperata, bussò colle palme distese, bussò quanto più forte potè, a colpi reiterati. Ah, per fortuna era stata udita; ella sentì aprire la vetrata dello studio, e tosto nell’andito oscuro un passo ben conosciuto, il passo di Filippo. Ancora pochi secondi, e il catenaccio era levato; aperto l’uscio, le apparve Filippo nel vano. — Voi! — esclamò egli, ancora compreso di stupore. Non l’aspettava infatti; ma l’aveva indovinata poc’anzi al giro di chiave, quindi al batter disperato delle piccole mani. — Sì, io; — rispose ella, entrando nello studio. — Datemi ospizio per due minuti. So bene che vi annoio.... — Annoiarmi, no; — fu pronto egli a rispondere. — Ma voi intenderete il mio stupore; dopo ciò che avevo promesso ier l’altro, e che ho fedelmente eseguito, ma senza ottenere nulla da lui.... lo saprete bene.... — Io non so nulla; — interruppe la signora. — Ho potuto credere in quella vece che non abbiate voluto resistere fino all’ultimo. — Fino all’ultimo! — ripetè Filippo, con voce impressa di orrore. — L’ultimo... era il suicidio di vostro marito. Me lo aveva minacciato, poichè il mio rifiuto lo disonorava, dopo l’impegno assunto col banchiere Cantelli, ed egli non voleva sopravvivere al suo disonore. Così sono stato debole, così ho ceduto, signora. — Quelle parole la scossero. Ricordò le frasi del biglietto di Filippo Aldini; ricordò la nera tristezza di suo marito, in attesa di quel biglietto, e il suo mutamento repentino appena lo ebbe ricevuto. Tutto ciò si accordava con le parole di Filippo. Ma ella non era disposta a convenirne; e neanche era tempo da confessarsi in colpa; ben altro aveva ella da dirgli. — Lasciamo le dispute vane; — replicò, — e le lagnanze e le recriminazioni, egualmente vane. Il mio orgoglio non ne farà; il mio sdegno si è abbastanza saziato. Sono venuta per dirvi ch’egli sa tutto. — E cadde, così dicendo, sul divano dello studio, ove si tenne rannicchiata, colle palme raccolte intorno agli occhi, non osando levarli a guardare l’effetto che le sue parole producevano in lui. Filippo era rimasto fieramente colpito. Istintivamente aveva recata una mano al cuore, come se lì avesse ricevuta la punta mortale. Anche intorno a lui, quante rovine in un tratto! — Sa tutto! — ripetè, dopo un istante di pausa. — In che modo? — Io gli ho date le vostre lettere. — Le mie lettere! Non le avete bruciate? — No; vi amavo.... non potevo obbedirvi. Ora il male è fatto; e irrimediabile, non è vero? — soggiunse la signora, accompagnando la frase d’un amaro sorriso. — Vengo ad avvertirvene, per un senso di misericordia, che ho ritrovato ancora in fondo al mio cuore. Badate a voi, conte; non v’incontrate con lui in questi momenti. — Grazie, — rispose Filippo, sorridendo più amaramente di lei. — Ma come evitarlo? — Fuggendo. — Io?... lo pensate?... io fuggire? — Ma non c’è altro scampo; — diss’ella. — Se egli vi cerca, e al primo incontro vi ammazza.... come un ladro del suo onore? — Sarà nel suo diritto, ed avrà fatto bene; — conchiuse Filippo, alzando la fronte, che fino allora, sotto la sensazione del colpo doloroso, aveva tenuta abbassata. Non c’era nulla da rispondergli; e la signora Zuliani non rispose parola. Filippo Aldini aveva errato; riconosceva il suo fallo, senza voler sottilizzare, senza voler distinguere come e fin dove si potesse creder suo; era disposto a pagarne la pena; non gli si poteva chieder di più. Egli, a buon conto, accettando il suo destino, si sentiva libero una volta per sempre, intieramente padrone di sè. — Molto male, — ripigliò allora, con accento grave, ma tranquillo, — molto male avete fatto, signora. E adesso, poi, mi avrete gittato quell’uomo sulle braccia, per venirmi a consigliare una viltà? Pagherò il mio debito da gentiluomo, se il signor Zuliani vorrà, come io finalmente penso contro la vostra supposizione, rifarsi con armi e forme da gentiluomini; ed anche lo pagherò, posso prometterlo, da uomo di cuore, che conosce i suoi torti. Se dunque è un bersaglio, quello che vuole, egli ne ha il diritto, e lo contenterò. — Ed egli vi ucciderà egualmente.... — ribattè la signora. Filippo si strinse nelle spalle, e non rispose. — O voi ucciderete lui; — proseguì ella, terminando il dilemma. — Non farò ciò; — diss’egli, più col gesto che con parole formate. In quel punto si udì una scampanellata all’uscio di casa. — Ah, lui! — gridò Livia atterrita. — Non credo; manderà piuttosto qualcuno; — notò freddamente Filippo. — Ad ogni modo uscite, vi prego. — E non volete ascoltarmi?... — Non posso, signora. Qualunque cosa egli pensi di fare, io sono a’ suoi ordini. Dopo ciò che avete fatto voi, non vedo altro che questo: e sono lo schiavo della sua volontà. — Una seconda scampanellata, e più forte, avvertì che non era tempo da nuovi discorsi. — Andate, vi supplico, andate; — disse Filippo, traendola con dolce violenza verso l’uscio a vetri. — E non tremate per lui. — Ella non aveva più parole, nè volontà per opporsi; obbediva alla esortazione di Filippo. — E badate; — soggiunse egli, prima di richiudere la vetrata alle spalle di Livia; — serrate voi l’uscio, mentre io vado ad aprire di là. — Livia era sparita, e la vetrata richiusa. Filippo andò all’uscio padronale, lo aperse e si trovò davanti a Raimondo Zuliani, che già stava per dare una terza strappata. Filippo aspettava una coppia di padrini, per verità, ma anche, tra varii casi possibili, aveva preveduto quelle di ricever la visita di Raimondo Zuliani. Perciò non fece atto di grande stupore, vedendolo. Soltanto, doveva fingersi ignaro della cagione che gli faceva capitare in casa l’amico, a quell’ora. Da chi, infatti, poteva egli essere informato di ciò che era avvenuto al palazzo Orseolo, quella stessa mattina? Ma egli, per contro, non poteva mostrarsi lieto nell’aspetto, come sarebbe stato naturale, alla vista del suo amico migliore. Si tenne dunque a mezz’aria, e il suo atto di temperata maraviglia non prese colore da nessun sentimento di sciocca allegrezza, o di inopportuna alterigia. — Ah! — diss’egli, sforzandosi di parer tranquillissimo. — Tu qui? — Sì, io qui; — rispose Raimondo, con misurata gravità. — E siamo soli, per parlare liberamente? — Solissimi; entra pure di qua. — Non era vasto il quartierino di Filippo Aldini. Il suo studio era anche la sua sala di ricevimento. Raimondo fu dunque introdotto nello studio. Egli era serio nell’aspetto, anzi severo ed accigliato; ma non più stravolto, non più contraffatto, nè irrequieto, come lo aveva veduto due ore prima il signor Brizzi. In quelle due ore passate nel suo banco, Raimondo Zuliani aveva avuto tempo di padroneggiarsi abbastanza. E perchè poi, sarebbe egli durato nell’agitazione dei primi momenti? Niente val più d’una risoluzione fatta, sulla quale non si deve più ritornare, per render la calma necessaria agli spiriti dell’uomo. Egli si era tanto padroneggiato, da poter pensare a parecchie cose più o meno urgenti della giornata, da lasciar ordini per alcune operazioni bancarie, e da incaricare il signor Brizzi d’una gita all’albergo Danieli, per far le sue scuse al signor Anselmo del non esser egli potuto andare alla stazione, e dirgli che sarebbe andato a riverirlo più tardi. Non aveva egualmente potuto scrivere la sua lettera al “signor conte„; ma non già perchè gli si fossero schiarite abbastanza le idee. Troppe cose, aveva finalmente pensato, troppe cose gli sarebbe stato necessario di scrivere. Capitava egli in persona, per dirle al “signor conte„. Le cose d’un certo rilievo, si sa, vengon più facili a voce, che non per iscritto. Entrò nello studio, adunque; e appena fu entrato, fece egli da padrone di casa. Era una cosa da nulla; ma si poteva argomentarne subito la gravità del colloquio. — Siedi; — aveva egli detto all’Aldini. — E tu? — disse l’altro, obbedendo. — Anch’io; — rispose Raimondo, ricusando la poltrona che Filippo gli offriva col gesto, e prendendo in quella vece una scranna. — Vedi come son calmo; — soggiunse, poichè fu seduto. — Pure, ecco un uomo, al quale tu hai tolta la pace e l’onore. — Filippo Aldini finse di guardarlo con aria trasognata. Ma poichè all’artifizio della bugia non poteva durare, non aggiunse all’atto la ipocrisia della parola; ed anzi il suo atto di stupore si mutò rapidamente in un altro, di rassegnazione umiliata. Ah, se quell’uomo gli fosse capitato là con una rivoltella in pugno, e d’un colpo lo avesse freddato, certo gli si sarebbe mostrato più umano, che non tenendolo lì, alla tortura d’un colloquio angoscioso, lasciandogli pensare la triste cosa che pensò in quel momento supremo. — Margherita! immagine cara! Perduta, dunque, irremissibilmente perduta! È il destino. — XV. Fermi ai patti! Stettero muti a lungo, guardandosi; Raimondo più risoluto e severo, come ne aveva diritto; l’altro quasi timido, e profondamente umiliato, come doveva. Era il duello morale che incominciava, prima del duello materiale; era la punizione anticipata, in quel fronteggiarsi di due uomini, uno dei quali si poteva dire il giudice, e l’altro era certamente il reo. Raimondo Zuliani fu il primo a rompere quell’angoscioso silenzio. — Ma dimmi, — incominciò, — perchè io conosca il segreto della umana ipocrisia.... un segreto che non ho mai potuto comprendere, e nemmeno concepire.... come hai potuto mentire così lungamente, così vilmente con me? — Ad una domanda simile Filippo Aldini avrebbe potuto rispondere molte cose. “Non è stata menzogna, non ipocrisia volontaria, la mia; non sono stato io il colpevole, o solamente di debolezza. Trascinato, travolto, nell’ora maledetta in cui l’uomo che non cede alle lusinghe di una donna è ridicolo, ho ceduto ad un impeto di follìa. Ma il pentimento è stato pronto, come era stato improvviso l’errore. Quel pentimento io l’ho ancora dissimulato, per non offendere una debole creatura; l’ho dissimulato a lungo, mettendo innanzi un sentimento che in me era forte egualmente e profondo, il rimorso. Ho esortato, ho pregato, ho supplicato; un po’ tardi, se ti parrà; ma infine, ho detto tutto ciò che consigliava l’onore, la santità della nostra amicizia. Pensa ancora, a mia scusa, che l’uomo non è spirito puro, a cui si possa chiedere l’esercizio delle più eroiche virtù; pensa soprattutto che l’obbligo di vivere così famigliarmente con te, di usare così frequentemente in tua casa, e di non potermene allontanare senza timore di peggio, fu un’altra specie di catena, che mi tenne ben duramente legato. Che credi? ch’io non vedessi il pericolo? e che ci andassi incontro di buon animo? Ho combattuto, e non ho vinto; le conseguenze della mia disfatta eccole qui. Non intendo già di sfuggirle; mi basta, per l’onor mio, di averti dimostrato che non ero un ipocrita, che potrei esser degno di scusa, non avendo tradita con deliberato proposito la tua fede, la tua amicizia.„ Questo avrebbe potuto rispondere tutt’altri, che non fosse stato Filippo Aldini, attenendosi alla verità, ma venendo meno a tutta una serie di rispetti umani e di cavalleresche virtù. Le sue difese morali avrebbero aggravata una donna; Filippo Aldini le mise da banda senz’altro. — Non mi chieder nulla; — rispose in quella vece. — E non mi dir nulla, ti prego. Se ha da essere un rimprovero, io me lo faccio da un pezzo. Vedi la mia umiliazione? C’è più rimorsi qua dentro, che mille coscienze umane non ne possano contenere. Risparmia questo carico nuovo alla mia. Poc’anzi, quando io t’ho veduto entrare, ed ho letto nei tuoi occhi la collera dell’uomo offeso, ho anche sperato che tu fossi per cavare un’arma e freddarmi d’un colpo. — L’ho pensato; — disse cupamente Raimondo. — Già ero per via.... e sono ritornato indietro per deporre quell’arma, che sarebbe stata una tentazione troppo forte. Ucciderti qui come un cane.... Lo avresti meritato. Ma io.... se non son nato gentiluomo, mi sento tale nell’anima. Facciamo le cose da gentiluomini, ho detto; ed eccomi qua, disarmato. — Sono a tua disposizione; — mormorò Filippo, inchinandosi. Raimondo Zuliani crollò il capo, ed atteggiò le labbra ad un sorriso sardonico. — Lo so bene; — riprese. — So come queste cose si fanno; ed anche come figurino bene in drammi e romanzi. Si sceglie la pistola, non è vero? Tu spari senza puntare, o per delicatezza cavalleresca fingendo di prender la mira; ma poi nel momento buono, sviando un tantino la canna, o in alto, o da un lato. Così, nobilmente, ti lasci uccider da me, se io ne vengo a capo nel numero stabilito di colpi. Non mi conviene. Aggiungi il chiasso che si potrà fare, e si farà certamente, intorno allo scontro. Voglio, ho il diritto di voler evitare uno scandalo, incominciato coi mezzi silenzii di quattro padrini informati a dovere, e continuato coi larghi commenti di una intiera città, che si occupi delle mie disgrazie coniugali. Nè solo a me devo pensare. — soggiunse Raimondo Zuliani, passando dall’accento amaro al solenne. — Quella donna è una disgraziata, una colpevole; ma io l’ho amata; ma essa porta ancora il mio nome; ed è infine una donna. Siamo cavalieri fino all’estremo. L’ho risparmiata stamane, quando ella mi confessò tutto, mostrandomi le tue lettere a lei.... e lasciamo stare le pazze ragioni che l’hanno consigliata a guarirmi così duramente della mia cecità.... l’ho risparmiata, e le ragioni mie potranno essere state pazze come le sue; ma io non le rinnego per questo. Dovrò io condannarla ad una morte più grave? dovrò farla arrossire e vergognare agli occhi del mondo? Neanche ciò mi conviene. — Allora?... — chiese Filippo. — Allora, — rispose Raimondo, — rimane che stabiliamo esattamente i termini della nostra questione, e che tu ne riconosca le conseguenze legittime. Rispondi sincero ad alcune domande. Mi hai tu ferito nell’onore? — Sì; — disse Filippo, chinando la fronte. — Mi hai tu uccisa la felicità? — Sì; — disse ancora Filippo, con un profondo sospiro. — Credi che uno di noi due sia di troppo sulla terra? — Filippo stese le palme in atto supplichevole, come a scusarsi del non poter rispondere con un monosillabo; poi con accento risoluto soggiunse: — Mi ucciderò io; sei contento? — No; — disse Raimondo, sdegnoso. — Una morte volontaria! La tua parte sarebbe ancora troppo bella, davanti a qualche animo preoccupato, disposto a giudicare coi lumi, o coi fumi, della passione. E a me, poi, resterebbe la parte d’un tiranno da melodramma. Non mi conviene. — Ma allora?.... — tornò a chieder Filippo. — Allora, ecco ciò che io voglio, a pareggiare le nostre condizioni; ecco ciò che ho il diritto di pretendere. Prima di tutto, giurami di stare al patto. — A qual patto, mio Dio! — gemette Filippo. — A quelle che vorrò io; — rispose Raimondo inflessibile. — Non sei tu a mia disposizione? — Sì, te l’ho detto. — E tu dunque giura di attenerti a ciò che mi piacerà stabilire. — Sia; te lo giuro; — conchiuse rassegnato quell’altro. Raimondo mise la mano alla tasca di petto del suo soprabito, e ne cavò il portafogli. Insieme col portafogli era venuta fuori anche una lettera, che Filippo riconobbe sua, del giorno innanzi. Povera lettera, che doveva essere il principio della sua felicità, ed era stata in quella vece la cagione della sua rovina irreparabile! Sospirò, guardandola; sospirò ancora mentre Raimondo la ricacciava in tasca, con un gesto d’impazienza e di sdegno. Aperto il suo portafogli, Raimondo Zuliani ne cavò due foglietti quadrati, sui quali si vedeva un accenno di scritto. — Li avevo già preparati; — diss’egli, — Guardali bene. — Filippo li guardò. C’erano scritti due nomi; Aldini nell’uno, Zuliani nell’altro. — Esamina attentamente; — incalzò Raimondo. — Non c’è scritto altro, nè sopra, nè sotto. Ed ora piegali in quattro. — Filippo obbedì. Raimondo, frattanto, offriva il suo cappello: ma ravvedutosi tosto, e guardatosi attorno, aveva veduto appeso in un angolo il cappello dell’Aldini. Lasciato il suo, corse ad afferrar quello, e lo porse a Filippo, dicendogli: — Mettili qua dentro. — E perchè quell’altro si schermiva, riprese con accento imperioso: — Suvvia! voglio così. — Filippo aveva obbedito. Oramai, si sentiva ridotto allo stato d’una macchina, in piena balìa di quell’uomo. Raimondo Zuliani agitò un tratto il cappello, perchè il caso disponesse i biglietti a sua posta. — Ed ora, — riprese, — cavane uno. — Perchè? — È vero, debbo dirti il perchè. Il nome estratto dirà chi di noi due dovrà morire, in un termine stabilito di tempo. Metto il termine a sessanta giorni, da oggi. Ti parrà forse troppo lungo; — soggiunse Raimondo; — ma ti dirò poi perchè sia necessario. — Filippo esitava sempre; ed allora più che mai. — Raimondo! — gridò con accento supplichevole. Ma quell’altro era implacabile. — Hai dunque paura? — gli chiese. Filippo Aldini si rizzò tosto sulla persona, con tutto l’orgoglio del sangue antico, con tutto l’ardore della sua gioventù, con tutta la fierezza dei freschi ricordi d’una vita onorata. — Non per me, — gridò egli, ferito nel cuore. — Come puoi tu dimenticare che parli ad un soldato? E non ti ho offerto io poc’anzi un patto migliore del tuo? Te l’offro ancora; sarai più sicuramente vendicato, ed io l’avrò per atto di giustizia. — Raimondo crollò sdegnosamente le spalle. — Se lo dicevo io, che si scivola nel melodramma! — esclamò. — Debbo ripeterti ancora che tu vorresti la parte bella per te? e che questo non mi conviene? Finiamola, e resti ciò che io ho stabilito. Quanto al termine che ho posto, è forse a mio vantaggio, ma tu non devi lagnartene. Io, se ha da toccare a me, non me ne voglio andare dal mondo come un fallito. Grazie a Dio, non son tale. Voglio dar sesto alle cose mie, chiudere il banco da uomo che si è seccato degli affini, trovare un buon pretesto alla mia sparizione, ed anche portare le mie ossa condannate assai lontano di qua. Dunque siamo intesi, alla sorte! — Così dicendo, porgeva ancora il cappello. Filippo torse il viso con un gesto di viva repugnanza. — Non io, se mai, — diss’egli, — non io. — Ebbene, tanto fa; — disse Raimondo; — sarò io. — E mise la destra in fondo al cappello. Il momento era solenne. Grave nell’aspetto, ma calmo, Raimondo levò la mano, tenendo un biglietto tra le dita; lo spiegò tranquillamente, e lesse: — Zuliani! — Filippo diede un balzo di tutta la persona. Quel balzo rispondeva ad un violento sussulto del cuore. Divento pallido, smorto nel viso; un sudor freddo gli gocciolava dalla fronte. — Ah! Raimondo! — esclamò, tendendo le braccia in atto disperato. — Non così! non così! — Perchè? — disse Raimondo, grave e tranquillo come prima. — Perchè, se le cose sono state fatte a dovere? Vedi l’altro biglietto; c’è pure il tuo nome, che poteva uscire, com’è uscito il mio. Fermi ai patti, dunque; non c’è stato inganno, e i patti onestamente accettati debbono essere onestamente osservati. — Ma il colpevole sono io: perchè pagheresti tu, con la vita, per una colpa non tua? — Raimondo fece un gesto di sublime rassegnazione; e l’accompagnò di un mesto sorriso. — Caro, — rispose, — è la giustizia del cielo; cieca come quella degli uomini! Ma no, — soggiunse tosto, ravvedendosi, — dico male; non cieca. Guardandoci bene, non è piuttosto, da dirsi avveduta, quella di lassù, e cauta, e provvida, come l’altra di quaggiù non sarà mai? Pensaci; come potrei viver più io, se anche m’avesse favorito la sorte? — aggiunse Raimondo, rabbruscandosi in volto. — Tanto la mia sentenza era scritta; non mi avevi ucciso tu già nei miei due sentimenti più vivi e più sacri, l’amicizia e l’amore? — Va, dunque, e lascia che il destino si compia. Quanto a te, sei punito abbastanza; dal tuo rimorso, anzitutto, a cui credo.... Che è ciò? — chiese egli, interrompendosi a mezzo del sua triste discorso, e volgendo gli occhi verso la vetrata di fondo, nella parete di sinistra. Era venuto di là un piccolo rumore, breve e leggero, ma secco, come di serratura delicata, ove una stanghetta a colpo avesse battuto nella bocchetta, per chiudere un uscio. Anche Filippo lo udì, ricevendone una scossa molesta; ma non poteva mostrare di averlo notato. — Che cosa? — domandò egli a sua volta, fingendo di non intendere il perchè di quella interruzione. — Un rumore di là; — disse Raimondo. — Di là? C’è un anditino; — replicò Filippo; — e la camera del servitore. Ma il servitore, di giorno, non c’è. — Avrebbe potuto dire che il servitore non c’era neanche di notte, e che al governo del suo quartierino bastava una persona di mezzo servizio. Ma a tanta abbondanza e sincerità di ragguagli non era neanche obbligato. Bene sentì l’obbligo di assicurare il suo ospite, andando ad aprir l’uscio a vetri, ed anche di entrare nell’andito, per poter dire, tornando, che infatti non c’era nessuno; onde il rumore udito da Raimondo poteva credersi effetto di un fenomeno acustico d’una risonanza da camere e scale del vicinato. Il signor Zuliani, del resto, non si trattenne a pensarci più oltre, dovendo ritornare al fatto suo; il quale, per allora, si mutava nel fatto del suo avversario. — Ed ora, — diss’egli, — la prima parte è assestata. — Ma no, Raimondo, ma no! — gemeva ancora Filippo Aldini. Quell’altro non voleva sentire piagnistei. Lo saettò d’un’occhiata severa, e riprese: — Ai patti, ai patti, e non mi seccare. Queste ragazzate non sono degne di te, nè di me. Rimane da assestar la seconda; quella del tuo matrimonio. — Ah sì, proprio quello! — esclamò Filippo, tentennando la testa. — Quello, infatti; — ribadì l’altro, inflessibile. — E mi preme, perchè c’è impegnato il mio onore. Ricorda ciò che ti dicevo ieri; niente è mutato nella mia condizione delicatissima rispetto ad Anselmo Cantelli. Dunque, stammi a sentire; senza interrompermi, il che mi annoierebbe; senza opporti al mio volere, il che mi offenderebbe, e sarebbe una giunta crudelmente inutile.... a tutto l’altro che sai. — Filippo s’inchinò senza proferir parola; e Raimondo pacatamente seguitò: — Anzitutto, niente traspiri di ciò che è seguito tra noi. Anselmo è arrivato stamane; e proprio nel punto buono! Ma io debbo mantenermi fermo nella proposta, ch’egli ha accettata, e per cui egli è venuto. Anselmo è il re dei galantuomini; non merita d’esser trattato alla leggera, e molto meno di essere canzonato da noi. Tu dunque, sposerai Margherita. Sicuro, poichè non è toccato a te il cattivo numero, la sposerai. Andrò oggi sulle quattro al Danieli; già mi sono fatto scusare, della mia assenza alla stazione, dal Brizzi; dal Brizzi, che ho pure mandato a casa.... mia.... — e qui Raimondo fece la pausa e l’atto di chi ingoia sforzatamente un amaro boccone, — a casa mia, dico, per avvertire che non sarei andato a far colazione, ma soltanto m’attendessero a pranzo. Così, vedi, tra le quattro e le sei avrò finito di combinare ogni cosa con Anselmo, e tu potrai fare questa sera la tua visita solenne, che io avrò debitamente annunziata. Ci sarò anch’io, per farti da padrino.... o da padre. Ti va? — Filippo aveva le lagrime agli occhi. — Ti ho ascoltato devotamente; — rispose. — Sei un eroe. Ma se tu volessi dimenticare ciò che si è fatto qui, dianzi!... — Raimondo fece una spallata, in atto d’impazienza e di sdegno. — Ma non l’hai capito ancora, che questo è impossibile, assolutamente impossibile? Io, prima di tutto, non sono un eroe. Se fossi, non ti avrei neanche invitato al giuoco di poco fa. Era il resto dell’ira, che bisognava sfogare. Ma bada, dell’andarmene da questo mondo bugiardo, non sarà stata cagione la sorte d’un bigliettino estratto in vece di un altro. Credilo, Aldini; sono caduto da troppa altezza d’illusioni, e la vita mi è un peso insopportabile. Sarei già fuori di pena, se non fosse che voglio uscirne bene, da persona pulita. Tu, certamente, sei stato la cagione di tutto, cagione immediata, per altro, e vicina; prima e lontana cagione furono le mie sciocche illusioni. Che ci vuoi fare? Sono andate al diavolo; ci restino. Dopo tutto, tu non hai fallito senza complici; e la tua complice io l’ho amata. Chi sa?... forse l’amo ancora; ed è questo il pensiero che mi rende feroce, odioso a me stesso. Sia dunque finita così, come ho deciso. Me ne andrò, dopo che il tuo matrimonio sarà compiuto. Mi sei debitore di questo sacrifizio.... se proprio ti sembrerà tale. E lagnati ancora! Infine, sacrifizio, o no, fermo ai patti, e rispetta l’onor mio, dove ancora è possibile. — Filippo Aldini fece quello che già tante volte aveva fatto, nel corso di quel doloroso colloquio; chinò la fronte, in atto di obbedienza, e più di vergogna. Raimondo si era alzato, riprendendo il suo cappello, ch’era rimasto posato sulla tavola. — A questa sera; — diss’egli; — sulle nove; ed anche un po’ prima, non sarà male. — Poi, con un gesto d’addio, che non giunse alla stretta di mano, si avviò all’anticamera. Filippo Aldini lo aveva accompagnato fino all’uscio, senza parole, umile in atto, sempre coll’animo abbattuto, quasi curvando la testa sotto il peso di una grande tristezza. — Ti obbedirò; — aveva risposto brevemente, malinconicamente, alla raccomandazione di Raimondo. Nè altro aveva soggiunto, imitando così l’esempio severo di lui. Egli intendeva benissimo che l’amicizia era morta, e solo ne doveva restare la onesta finzione in faccia alla gente. Ritornato nella quiete del suo studio (quiete, ahimè, già più volte così violentemente turbata!), il povero Aldini rimase lungamente pensoso. Quante cose, in due giorni! quante confusioni, quanti contrasti, e quante rovine! Ma erano veramente due giorni? non due settimane, due mesi, due anni? Ed era stato proprio il giorno innanzi, ch’egli aveva promesso a Livia un ultimo atto di resistenza, il tentativo iniquo di mandare in fumo la propria felicità? Era stato il giorno innanzi, che Raimondo Zuliani, amico più caldo ed imperioso che mai, aveva sgominato il suo tentativo, rotto d’un colpo il suo faticoso tessuto di scrupoli vani, dimostrandogli che oramai l’onor suo era impegnato, e che alla perdita dell’onor suo non avrebbe potuto sopravvivere? Povero amico Raimondo! Ben altra perdita doveva egli toccare indi a poco, perdendo tutte le sue illusioni ad un tratto! Lei infedele, la sua Livia adorata; lei pazza, e nell’impeto cieco del suo orgoglio offeso, diventata feroce, tragica come una Furia antica! Egli, il povero disilluso, giustamente irato, anelante a vendetta, incatenato ancora dall’amor suo, smarrito tra la necessità di provvedere al suo onore oltraggiato e il desiderio di salvare quella donna da una vergogna altrimenti inevitabile, non era riuscito ad altro che a scavarsi con le sue mani la fossa! Era giustizia, quella? Cieca, davvero, cieca lassù come in terra! Ed ora? Se la signora Zuliani, che era stata a sentire, commetteva un’altra delle sue malaugurate follìe, qual nuova vergogna per lui, nel cospetto di quell’uomo infelice! Perchè certamente aveva sentito; soffermata là, dietro l’uscio a vetri, per assicurarsi che il visitatore fosse veramente Raimondo; rimasta inchiodata a quel posto da un sentimento di curiosità morbosa; partita finalmente, dopo aver ascoltato l’essenziale, il terribile, dell’infausto colloquio. Egli ne era addolorato insieme e sgomento. Ma infine, perchè sgomentarsene? perchè dolersene? L’imprudenza di lei non aveva portato lì per lì conseguenze spiacevoli; per tutto l’altro, poichè il male era fatto, bisognava commettersi in balia del destino, e tanto meglio se quella donna aveva ascoltato: ella poteva misurare l’ampiezza del male commesso con le sue smanie gelose; poteva anche riconoscere la grandezza d’animo dell’infelice Raimondo, così poco savio con le sue illusioni, ma così nobile ad un tempo, perchè quelle illusioni erano state belle come l’anima sua, e che ad ogni modo se ne riscattava con un eroismo sublime. Filippo Aldini ammirava quell’uomo, che si svelava così grande nell’orrore del suo disinganno, come era stato semplice e buono nella ingenua fede in cui lo spirito suo si era lungamente cullato: lo ammirava per ciò, lo invidiava. Quanto a sè, dopo quanto era avvenuto tra loro in quel giorno fatale, poteva l’Aldini accettare i frutti della magnanimità di Raimondo Zuliani? Troppo bene ricordava egli che l’amico aveva pochi giorni innanzi scongiurati gli effetti di un velenoso discorso nell’animo buono della signora Eleonora Cantelli, giurando e spergiurando che nei sospetti addensati sul capo di Filippo Aldini non c’era nulla di vero. Combatteva sospetti, il povero Raimondo, forte della sua fede e dell’intima conoscenza, che s’illudeva di avere, del cuore, e degli atti del suo giovane amico. Avrebbe egli potuto parlare una seconda volta con tanta asseveranza? No, certo; la buona fama di Filippo Aldini era dunque tutta fondata sopra una vecchia testimonianza; la verità, nella mente disillusa del buon testimone, era tutt’altra, pur troppo. E non era un ingannar Margherita, presentandosi a lei puro d’ogni colpa, scevro d’ogni ombra di sospetto, sulla fede fatta per lui da Raimondo Zuliani? Filippo amava Margherita con tutte le potenze dell’anima sua; neppur egli sarebbe vissuto, perdendola; ma voleva ottenerla meritandola; meritandola almeno con la sua sincerità, con la sua lealtà. E questa, ahimè, come dimostrarla alla divina fanciulla? Perciò avvenne ch’egli pensasse a lungo; ma finalmente la sua risoluzione fu fatta. Guardò l’orologio; era il tocco. Prese allora il suo cappello, infilò lestamente il suo pastrano, ed uscì, ma non senza aver serrato con tanto di chiavistello quell’uscio segreto nel fondo della casa, e giurato che pei pochi giorni in cui fosse rimasto ad abitarla, quell’uscio segreto non si sarebbe aperto ad anima viva. Fatta la sua risoluzione, si sentì più sollevato dell’animo; almeno quanto poteva esser tale nelle tristi circostanze di quell’aspra giornata. Andava di buon passo verso San Marco, e di là fino alla riva degli Schiavoni, giungendo in pochi minuti all’albergo Danieli, ove dimandò se il banchiere Cantelli, arrivato quella mattina a Venezia, fosse in casa, e visibile. — Non è uscito ancora, signor conte; — gli dissero al camerino della direzione; — a mezzodì, faceva colazione. — Avrà dunque finito; — osservò Filippo. — Abbiano la bontà di fargli giungere questo biglietto di visita. — E consegnò il cartoncino, su cui a matita, sotto il suo nome e cognome, scrisse in aggiunta: “desidera vivamente di riverire il commendatore Anselmo Cantelli, e di ottenere da lui la grazia di un breve colloquio„. — Breve! — soggiunse mentalmente, in quella che un servitorello minuscolo, in fantastica divisa militare tra il cacciatore e l’ussero, assaltando a quattro a quattro i gradini della scala, portava il biglietto alla sua destinazione. — Che ne so io? Ma egli capirà che vorrei parlargli da solo a solo. — Due minuti dopo, scendeva il piccolo guerriero, più che saltando i gradini, scivolando a rovina sugli orli. E il conte Aldini, per non esser da meno, gli fece scivolare tra le dita una liretta d’argento, mentre il ragazzo gli diceva, colla precisione di linguaggio cerimonioso che è pregio dei grandi alberghi: — Il signor commendatore Cantelli prega il signor conte Aldini di voler salire da lui. — Bisognava dunque veder le signore! Ma infine, quella era la conseguenza più naturale del partito a cui si era appigliato. Filippo Aldini salì. Sul secondo pianerottolo, frattanto, si apriva un uscio, e ne veniva fuori un vecchio signore, colla manifesta intenzione di muovergli incontro. XVI. Confessione generale. Anselmo Cantelli, poichè era lui il cortese signore venuto innanzi sul pianerottolo, fece all’Aldini un sorriso che valeva da solo tutte le cerimonie del mondo, e con affabilità da vecchio amico lo prese per mano, traendolo a sè. — Venga, venga; — gli disse. — Faremo conoscenza or ora, sotto gli occhi delle dame. Favorisca di passare. — Per ubbidienza; — rispose l’Aldini, e salutando con un cenno rispettoso del capo entrò nella sala. I Cantelli erano ancora a tavola; ma si vedeva che avevano finito di far colazione, e allora allora stavano prendendo il caffè. Di rimpetto al posto che il signor Anselmo aveva lasciato vuoto per muovere incontro al visitatore, sedeva la signora Eleonora; Margherita e Federigo sui lati. Il giovane ufficiale di marina si alzò con premura, per stringer la mano al suo caro Aldini; Margherita non volle esser da meno di lui in nessuno dei due atti, che erano di bella cortesia, se anche il primo di essi non rispondeva del tutto alle piccole leggi dell’etichetta. Un po’ pallidina tuttavia, la cara fanciulla, e con una cert’aria di languore diffusa sul volto; ma quella era una grazia nuova, che s’aggiungeva alla bellezza. Margherita, poi, era bella a tutti i modi, e cara in tutti gli aspetti. Della signora Eleonora non si dice nemmeno, se accogliesse a festa l’Aldini. Contegnosa sempre, perchè stava sempre un po’ dura sulla vita, sorrise nondimeno e porse con bel garbo la destra, lasciando che con altrettanta gentilezza il perfetto cavaliere facesse l’atto del baciamano, all’antica. — Quant’è che non abbiamo il piacere di vederla! — ebbe la bontà di dirgli, e senza aria di sforzo. — Quattro anni, non è vero? — E per me furono secoli, signora; — rispose l’Aldini, inchinandosi. — Ma temevo tanto di essere importuno, in questi giorni! Son sempre venuto, nondimeno, a chieder notizie. — Non è la stessa cosa, — notò Margherita; — e bisognerebbe tenerle il broncio.... per quattro secoli ancora. Ma è festa oggi, e sia remissione di peccati, per l’arrivo del babbo. Ebbene, signor conte, che cosa ne dice, del nostro babbo? — “Del nostro„ aveva ella detto! Filippo Aldini si sentì tremar tutto, dal capo alle piante. Ed era un tremito doloroso, pur troppo! In tutt’altra occasione gli avrebbe fatto fiorire una grande allegrezza nell’anima: per allora non poteva far altro che chiamargli un pallido sorriso e qualche frase stentata sul labbro. — Vedi, babbo, — proseguiva intanto Margherita; — il signor conte Aldini è stato il nostro gentil cavaliere in tante passeggiate artistiche; ci ha fatto conoscere ed ammirare le più belle cose di Venezia. E vuol rivederne una bellissima, Lei? — soggiunse, rivolgendosi ancora a Filippo. — Guardi un po’ là, nel vano della finestra. — Nel vano della finestra, dove Margherita accennava, era una seggiola, davanti ad un tavolincino da lavoro, e sul tavolincino, poggiata sopra un cavalletto minuscolo, una cornicetta di felpa cremisina, entro cui si vedeva un disegno a matita. — Che cos’è? — domandò Filippo Aldini, dando un’occhiata da lontano. — Come? Non riconosce più l’opera sua? — Filippo si avvicinò, guardò più attentamente, e commosso mormorò: — Il ponte del Paradiso! — Ahimè, come asserragliato, quel ponte! e come lontano, quel Paradiso? L’avrebb’egli raggiunto mai? E doveva fare un certo discorso, che lo avrebbe allontanato sempre più da quell’Eden vietato. Venuto a sedersi accanto al signor Anselmo, guardava ad ogni tanto con espressione di angoscioso desiderio quel babbo, ch’egli vedeva per la prima volta e forse per l’ultima; quel babbo cortese che con tenta amorevolezza gli batteva sul ginocchio con la morbida palma. Che simpatico vecchio era il signor Anselmo Cantelli! Vecchio, così per dire, che a dargli cinquant’anni d’età gli si faceva torto. Aveva i capelli bianchi, per verità, ma la faccia fresca, vermiglia, senza una grinza, gli occhi aperti, lucenti e pieni di vita, la bocca giovine come gli occhi, e per conforto all’orgoglio di due file di denti sanissimi, le labbra sempre disposte al sorriso. — Perchè guarda tanto il mio babbo? — gli domandò Margherita. — Me lo vuol forse rubare? Badi, gli fo buona guardia, io. Al più al più, potrei concedere di fare a metà. — Stavo osservando, signorina, — disse Filippo, reprimendo a forza un altro moto interiore, — stavo osservando come il tipo del babbo corrisponda al suo. Fatte, s’intende, le debite restrizioni; — soggiunse, imbrogliandosi un poco nel suo ragionamento; — in quel modo che una donna può rassomigliare ad un uomo.... — Ad un uomo che ha tanto di baffi; — conchiuse Margherita ridendo. Si conosceva a colpo d’occhio che la cara birichina era molto felice in quell’ora. Tra lo sfolgorìo dei grandi occhi luminosi e il luccicore perlaceo della bocca divina, le sue guance prendevano un bel colore di rose incarnatine, che prometteva il sollecito rifiorire di quell’aspetto di bellezza ond’era stato deliziato Filippo Aldini parecchi giorni innanzi; in quel giorno, ad esempio, che egli e Margherita erano stati al ponte del Paradiso, e, Dio, permettendo, lo avevano anche varcato. Finalmente il signor Anselmo si levò da sedere. — La mia gente avrà da fare; — incominciò — la mamma da coccolarsi in cento discorsi col suo Federigo; Margherita da scrivere alle sue amiche di Milano. Io, se il conte Aldini mi fa grazia, vorrei fare una passeggiatina in Piazzetta con lui. — Come aveva capito il bisogno di Filippo! Come aveva accortamente girata la frase! L’Aldini fu pronto ad ossequiare le signore, promettendo una visita per quella sera. Ma prometteva a fior di labbra, impacciato nelle parole e negli atti. Se ne avvide Margherita, e cogliendo il buon momento ch’egli si era ridotto presso il vano della finestra, aspettando che il signor Anselmo avesse indossata la sua cappa di panno verde cupo foderata di pelliccia di martora, gli disse a mezza voce: — Ella non è in uno de’ suoi bei giorni, conte. — Ha ragione, — rispose egli, rabbrividendo; — ho qualche pena, difatti. Ma non per me; — aggiunse tosto, notando l’effetto che produceva; — per un amico che ha qualche dispiacere. — E un desiderio lo prese, mentre stava lì, davanti alla divina creatura, nella piena luce dell’ampia finestra, un desiderio intenso, a cui non seppe resistere. Se era condannato a perderla, come gli pareva naturale, come pur troppo gli pareva fatale, voleva almeno guardarla bene, guardarla intensamente a quella breve distanza, involgerla tutta in una occhiata, aspirarla, assorbirla. Il lampo degli occhi dilatati, e la gagliardia del respiro tratto a larghi polmoni, non furono senza un muover di labbra, che formavano parole, lasciandole tuttavia prive di suono. — Ella mi dà il buon augurio? — mormorò ella, arrossendo. — Sì, ch’Ella sia felice, felice, felice. — Risponderò con tre grazie; — replicò Margherita, facendosi sempre più rossa. — Ma torni stasera più gaio, o più consolato; avrà il suo conto saldato in tremila. Sono o non sono un onesto banchiere? — Ah, tu sei un banchiere, bambina? — disse il signor Anselmo, cogliendo in aria le ultime parole della sua Margherita. — Ed io, come mi vedi in questa pelliccia, sono un certo che.... tra il tenore e il baritono. — Gran capo ameno alle sue ore, il signor Anselmo Cantelli! E bisognava volergli bene ad ogni costo. Sceso sulla riva degli Schiavoni, quell’uomo eccellente così parlò al conte Aldini: — Ella ha da intrattenermi di cose importanti, m’imagino; ma non gravi, spero. Siano come si vogliono, Ella si lasci dire per intanto che in casa mia sono tutti incantati di Lei; mia moglie, mia figlia, mio figlio. Stamane, dato il tempo necessario alle accoglienze “oneste e liete„, han tutti incominciato a tessere il suo panegirico. A tavola, poi, per tutto il tempo della colazione, è stato un piatto solo, Aldini, Aldini. Se lo lascia dire con quella confidenza di linguaggio che l’amicizia permette? Aldini al _consommè_; Aldini _au beurre d’anchois_; Aldini all’_aspic_; Aldini alla _suprème_. Aldini alla _maître-d’hôtel_, e chi più n’ha ne metta. — L’Aldini sorrideva malinconicamente. — Non si offende già, voglio credere; — ripigliava il signor Anselmo, prendendolo amichevolmente pel braccio. — Son fatto così, e gradisco la celia. — Che dice? Mi confonde; — rispose l’Aldini, stringendo sotto il braccio la mano del signor Anselmo. — Ella mi dà una gran prova di benevolenza; così potessi meritar la sua stima! — L’una e l’altra possiede; — replicò il signor Anselmo. — Per me, glielo confesso, quella non potrebbe andar senza questa. Metta che noi siamo già vecchie conoscenze. E così.... facciamo un piccolo tradimento al nostro Zuliani? — Filippo rabbrividì, a quella scappata, pure imaginando ch’ella fosse scevra d’ogni malizia. — In che modo? — balbettò. — Non lo vede? L’amico, che ha la moglie ammalata, e perciò non si è potuto muover da casa per venirmi a ricevere alla stazione, mi annunzia la sua visita per le quattro, e mi promette di condur Lei alle nove, perchè io abbia il piacere di conoscerla. Ed ecco, noi ci siam visti e conosciuti assai prima; saremo già amici vecchi, stasera. Glielo dirò, e rideremo. — No, non gliene dica, per carità; — supplicò, fortemente turbato, l’Aldini. — Non sappia egli che ci siam visti prima!... almeno, — soggiunse dopo un istante di pausa, — bisognerà dirgli che ci siamo veduti per caso. Ella del resto, vedrà e giudicherà, dopo che io le avrò parlato un po’ a lungo.... se Le piacerà di ascoltarmi. — Certamente mi piacerà; sebbene il suo turbamento mi lasci temere che non si tratterà di cose tutte piacevoli. — No davvero; — disse l’Aldini sospirando. — E sarà bene, perchè io possa parlare liberamente, che andiamo in luogo appartato. — Non in piazza, capisco; e neanche in una camera d’albergo. Che cosa mi propone Lei? — Ma.... se osassi.... — In casa sua? Sta benissimo. Casa di scapolo; _garçonnière_.... Come esprimerebbe la cosa in italiano? Ci ho pensato tante volte; ma non son forte in lingua madre. Col rispetto dovuto agli scapoli come Lei, avrei detto: paretaio. Scherzo, sa? E mi par bene scherzare, finchè siamo in istrada, per non aver aria di due frati certosini. È lontana, la sua abitazione? — Correndo, — rispose Filippo, — ci si arriva in dieci minuti; andando di passo regolare, in quindici. — Sto bene a gambe; — conchiuse il signor Anselmo; — arriveremo in dieci. — Entrati in Merceria, affrettarono il passo. Il signor Anselmo era anche stimolato da una grande, curiosità e più agitato da un senso di vaga inquietudine. Che cosa aveva da dirgli il conte Aldini di così grave, o geloso, che l’amico Zuliani non dovesse neanche sapere che egli, Anselmo, e il suo genero _in pectore_, si erano già visti? Questione di denaro? Il sospetto ne corse alla mente del banchiere; ma egli fu pronto a scacciarlo. Cozzava troppo con tutto quello che egli sapeva delle condizioni, del modo di vivere, della serietà e della estrema delicatezza del giovine gentiluomo. O allora? Allora il partito migliore che si potesse abbracciare era quello di non far almanacchi per via, aspettando di essere in casa del signor Aldini e di sentire il gran segreto da lui. Quanto all’Aldini, poichè aveva fatto il suo preambolo oscuro, ma promettente, non si sentiva più di simulare una calma che non aveva nello spirito, e camminava in silenzio, tutto chiuso ne’ suoi pensieri, rannuvolato come il cielo di Venezia in quell’ora. — Ecco una strana avventura! — disse il signor Anselmo tra sè, come fu entrato in casa di Filippo Aldini, ed ebbe preso posto sulla poltrona che questi gli offriva. Filippo si era seduto dopo di lui, sopra una scranna, ma standoci, anzi che seduto, appoggiato, col capo basso e il petto in fuori, mezzo inginocchiato tra l’orlo della scranna e l’orlo della scrivania che gli stava davanti. Si era rimpicciolito, in tal guisa, umiliato nel cospetto di quell’uomo, che doveva esserne il suo giudice. — Signor Cantelli.... signor Anselmo.... — incominciò, — vuol essere il mio confessore, ed accogliere la mia confessione generale? So che Ella aveva.... ed ha ancora buone intenzioni per me. Per tutto ciò che risguarda la mia vita di cittadino e di soldato, di onest’uomo e di gentiluomo, credo di esserne degno. — Lo so; — disse il signor Cantelli. — L’amico Zuliani me ne ha scritto quanto occorreva. Anche da Parma ho saputo molto, ed altamente onorevole, della sua gente e di Lei. Ma certo, a me sarebbe bastato ciò che mi asseriva, sulla propria fede, un uomo d’alta probità, un uomo d’oro, come Raimondo Zuliani. — Filippo abbassò il capo ancor più che non avesse fatto in principio. — Ahimè! — diss’egli. — Il signor Zuliani si è in qualche punto ingannato. Aggiungo, col rossore della vergogna sul viso, che quell’uomo ottimo non poteva non ingannarsi. Ho dei torti, e gravi, verso di lui, che egli non conosceva ancora, scrivendole. Non inarchi le ciglia, La prego, non mi levi il coraggio di proseguire. Debbo confessarle sinceramente ogni cosa, chiedendole, per altro, d’ogni cosa il segreto. — Ella mi ha preso per confessore; m’investo del sacro ministero. Non abbia dunque verun timore; manterrò gelosamente il segreto. — Così disse il signor Anselmo, più inquieto che mai, ma disposto a prestare la più viva attenzione. Filippo Aldini, sempre incurvato sul braccio e mezzo inginocchiato com’era, incominciò toccando brevemente del servizio militare abbandonato, del suo stabilirsi a Venezia, del suo vivere elegante, ma non al tutto dissipato, del suo spendere misurato, dello aver conosciuto il banchiere Zuliani, incaricato di rimettergli le sue modeste rendite, e infine dell’essere entrato, senza secondi fini, naturalmente, per semplice bontà di Raimondo Zuliani, in grande dimestichezza con lui. Qui il primo guaio; qui la cagione d’ogni male per ambedue. Si erano troppo fidati, Raimondo della virtù dell’amico, egli della sua propria forza, che veramente poteva bastare, essendo corazzata di bella indifferenza. Come si perdette egli? come naufragò la sua buona e leale amicizia, tra le lusinghe del palazzo Orseolo? Cavalleresco ossequio, rispettosa confidenza, erano questi i termini, non varcati per un pezzo, delle sue relazioni colà. Certamente, la rispettosa confidenza e l’ossequio cavalleresco non potevano escludere quel tanto di galanteria superficiale ed innocente che si usa in società con le dame, zucchero in polvere, con quintessenza di sottili profumi, senza cui pare che il mondo elegante non possa vivere, temendo sempre che certa riserbatezza puritana di modi lo conduca a morir di noia. Intanto, si può egli ricordare con precisione quando e come si varchino certi confini, sempre male segnati? e quando e come sia nata quella confidenza più intima, che è già un principio di complicità, per cui l’uno sovrabbondando e l’altro cedendo, si dispone in tortuosi giri quel nodo, che una volta formato stringe e lega due esseri? Una preferenza insignificante a tutta prima, un servizio da nulla esagerato dal sentimento, una frase spensieratamente più tenera tra i fumi di un convito, gli ardori e le fragranze arcane, tra le ebbrezze di un ballo e le libertà d’una veglia mascherata.... Che dire, e che cercare di più? Il signor Anselmo, il confessore, il giudice poteva intender questo, ed altro a sua posta. Certo, una cosa poteva asserire l’Aldini, nella sincerità della sua confessione; ch’egli si era trovato senza avvedersene sull’orlo del precipizio; ch’egli c’era rimasto, con una vaga speranza di ritrarsi e un esagerata timore di apparir vanitoso e ridicolo, nella ostentazione inopportuna di una sciocca paura. Involto, sconvolto e travolto; in queste tre parole Filippo Aldini esprimeva i tre stadii dell’error suo. Così era egli caduto; ma presto aveva tentato di rialzarsi, e di rialzare, consigliando con tenerezza, a grado a grado cercando di persuadere, sperando di esserne venuto a capo, ricadendo ancora, per rialzarsi di nuovo, tentando sempre, volendo ad ogni costo riuscire all’intento. Il signor Anselmo ascoltava, tentennando il capo a quando a quando, e sorridendo con filosofica espressione di compatimento benevolo. — Eh, si capisce; — diceva, colmando un intervallo che Filippo aveva posto nella sua dolorosa esposizione di fatti. — Le occasioni fanno il ladro. Certe care donnine son poi così matte!... E chi sa? più assottigliano il cervello, più hanno i nervi teneri. Se mettiamo poi in loro presenza un giovinotto come Lei!... — Sì, tutto questo era buono e bello, ma non attenuava punto la triste condizione di Filippo Aldini. Seguiva infatti il guaio peggiore; e Filippo Aldini passò a raccontarlo. Bene aveva egli spezzata quella catena di errori, non dubitando di apparire nell’ansia continua delle esortazioni e delle preghiere un codardo. Ed oramai confidava di aver ridotta quella donna alla sua medesima fede; non la vedeva più altrimenti che in conversazioni, a teatri, in visite cerimoniose; a farla breve, nelle sole occasioni in cui ogni mancamento alle consuetudini antiche avrebbe piuttosto nociuto che giovato, dando argomento ad osservazioni maligne, suscitando ingiuriosi sospetti. Quella donna, se non al tutto persuasa; gli pareva convinta, rassegnata, tranquilla. Perchè da ultimo aveva dato in ismanie? Orgoglio ferito, certamente, non fiamma rinnovata d’amore: ed era stato un colpo di follìa, quell’amore; spento dalla ragione, non avrebbe dovuto più divampare. Non egli, poi, colpito dalla bellezza, dalla grazia, dalla virtù d’una cara fanciulla, d’una creatura divina, aveva osato vagheggiare il pensiero di farla sua: era stato Raimondo, a formarne il disegno, imaginando senza dubbio, nel favorire l’amico, d’infondergli il coraggio che a lui sarebbe per troppe ragioni mancato. Per verità, egli amava Margherita con tutte le forze dell’anima, e ciò che ardeva nell’anima sua gli traspariva sicuramente dagli occhi. Di dar moglie al suo giovine amico, Raimondo Zuliani aveva parlato in presenza della sua Livia; ed ella aveva sorriso, assentito, perfino aggiunte le sue esortazioni a quelle del marito. Poteva egli, Filippo Aldini, nel lasciare che Raimondo Zuliani parlasse per lui, povero innamorato, ai signori Cantelli, prevedere lo scoppio di una nuova follìa che doveva esser cagione di tante rovine? — Rovine! e quali? — pensò il signor Anselmo mentre aguzzava l’orecchio. Certo, seguitava Filippo, in tutta quella faccenda gelosa, egli non era stato senz’arte: si era destreggiato in modo da non esser tirato mai a discorrere del suo matrimonio possibile. Ma questa era arte legittima, ed anche necessaria. Di certe cose, che sono il dolce futuro, si parla male, in presenza di certe persone, che rappresentano l’amaro passato; e sono delicatissime, le dolci cose sperate, e non è prudenza ragionarne, se non quando siano avviate per modo di non correr più il pericolo di andare in dileguo. Del resto, se era Raimondo quegli che aveva tutto ideato e tutto imbastito, se egli ne aveva parlato e molto probabilmente seguitava a parlarne con sua moglie, se ella appunto in quei giorni era tutta tenerezza col marito, poteva egli prevedere quella repentina tempesta di collere, incominciata con un velenoso discorso alle signore Cantelli; continuata con un assalto diritto a lui, chiamato cacciatore di doti, e costretto a mendicar pretesti per rinunciare alla propria felicità; giunta finalmente al suo colmo spaventoso, quella stessa mattina, colla consegna di un antico carteggio al marito? — Grave! grave! — borbottava il signor Anselmo, che oramai vedeva sopraggiungere il dramma. E il dramma, il dramma, bisognava raccontargli. A frasi rotte, ma non dimenticando nulla, neanche l’improvvisa e folle apparizione di quella donna là dentro, dov’essi erano seduti in quel punto, e dove indi a poco doveva irrompere il furente marito, Filippo Aldini raccontò. Sopraffatto dall’ira, il signor Zuliani non era stato altrimenti acciecato; le sue mani vendicatrici non si erano aggravate su quella disgraziata. Bensì a lui si era rivolto, a Filippo Aldini, per chieder conto dell’onor suo oltraggiato e dell’amicizia tradita. Lì, per l’appunto, dov’essi stavano, e mentre la donna, esortata dall’Aldini a fuggire per quell’uscio segreto, pur rimaneva inavvertita in ascolto, Raimondo aveva voluto stabilire le condizioni d’un duello mortale, inesorabilmente mortale. Due nomi scritti, e la sorte decidesse quale dei due, in un termine inviolabile di tempo, doveva uccidersi, sparire, poichè uno dei due era di troppo sulla faccia del mondo. Così voleva Raimondo; forma e condizioni del duello erano in sua balìa, essendo egli l’offeso; e l’Aldini aveva dovuto giurare di star fermo ai patti. La sorte era stata contraria a Raimondo, il quale, del resto, a temperargli il nuovo rimorso, affermava che in nessun modo, anche vincitore nel giuoco della sorte, avrebbe voluto sopravvivere alla perdita della sua felicità, alla morte delle sue illusioni. Ed egli, l’Aldini, aveva dovuto inchinarsi; più ancora, fatto schiavo di quell’uomo per forza di cose, per rispetto ad una sventura ond’egli era stato in tanta parte cagione, aveva dovuto sottomettersi ad un’altra volontà di Raimondo. Questi, la cui parola era impegnata con Anselmo Cantelli, aveva già fatto del matrimonio tra l’Aldini e Margherita una questione d’onore; voleva adunque che il matrimonio seguisse; quanto a sè, fatte le nozze, avrebbe provveduto, secondo il decreto della sorte, e secondo l’istesso disgusto, invincibile omai, della vita. Ma questa volontà di Raimondo metteva l’Aldini in una condizione assai triste. Doveva egli tacere? Era una viltà, e la sua coscienza gli avrebbe sempre rimproverato quel tradimento alla buona fede dei signori Cantelli, che sulla testimonianza di Raimondo Zuliani lo avevano per un gentiluomo senza macchia. Doveva egli parlare? Era una slealtà, poichè con questo egli tradiva i segreti di casa Zuliani, quei segreti dolorosi che la magnanimità di Raimondo aveva voluto coprire del velo più fitto, abbracciando il partito d’un duello alla sorte. Ma se il parlare fosse stato ristretto in certi confini di prudenza, e nella misura della necessità, ristretto sopratutto all’unica persona che aveva poi il diritto di sapere ogni cosa, perchè d’ogni cosa era liberale a lui, come avrebb’egli meritata la taccia di sleale? La coscienza gli diceva che nel discreto orecchio di Anselmo Cantelli egli poteva deporre il suo segreto e l’altrui. Senza dubbio, tra due mali era da sceglier sempre il minore; e il minore consisteva per l’appunto nel non commettere una viltà così grande, come sarebbe stato il tacere. Un cacciatore di doti, certificato ed autenticato un portento di delicatezza, poteva tacere e lasciar correre: un uomo onesto davvero, non tale per attestati antichi o recenti, doveva parlare, fosse pure nella angosciosa certezza di rinunziare con ciò al bene supremo, alla mano ed al cuore di Margherita. Il danno era immenso; ma non sarebbe lungamente durato. Solo in ciò confidava. — Là! là! — disse il signor Anselmo, commosso, un po’ stendendo la mano per battergli amorevolmente sul braccio, un po’ tirandola a sè per rasciugarsi una lagrima. — Non si lasci trasportare dalla vivacità dei suoi sentimenti. Ragioniamo, se è possibile. Intendo ch’Ella abbia voluto aprirsi intieramente con me: intendo, ed ammiro. Ma le cose non mi paiono così gravi, com’Ella le fa. La sua storia, se non si trattasse di quell’ottimo Zuliani, che c’è di mezzo, e al cui caso bisognerà provvedere, non mi farebbe, creda, nella mia veste di padre, nè caldo nè freddo. Quando ella si lasciava involgere, sconvolgere, travolgere.... ricordo la sua frase, vede?... Ella, dico, non conosceva ancora mia figlia. Del passato non ci può esser colpa per noi. L’uomo è nato cacciatore; si può dirlo qui.... nel suo paretaio; — soggiunse maliziosamente il signor Anselmo, che non rinunziava alla burletta, quando la sentiva germogliare sul labbro; — e bisognerebbe interrompere il corso della specie umana, ivi inclusa la discendenza di Nembrot, se si dovessero ricusare per generi gli uomini che sono stati a caccia. — Qui il signor Anselmo fece una brevissima pausa, come l’oratore che dall’esordio sta per passare al vivo dell’argomentazione, poi ripigliò: — Non induca da ciò che io sia stato un gran cacciatore nel cospetto del Signore; no, ma buon Dio! quando Eleonora Langosco non era comparsa ancora sul mio modesto orizzonte, creda che ho fatte le mie sciocchezze pur io, come ogni fedel cristiano. E del resto, voglia ricordarsi di quel comico latino; Terenzio, mi pare: “son uomo„ ha fatto dir egli ad uno dei suoi personaggi; “son uomo e mi accollo la parte mia di tutte le umane debolezze„. Dunque, niente paura, signorino; pensi in quella vece che la mia stima per lei è cresciuta a mille doppi. — Filippo Aldini levò la fronte, e lo guardò trasognato. — Già — riprese il signor Anselmo; — proprio così. Sa Lei, conte Aldini, che un discorso come il suo non lo fanno due uomini? Almeno, — volle concedere il buon vecchio, — almeno, a cercarli tra le mie conoscenze. Ella rinunzia, per delicatissimo sentimento d’onore, ad una donna che ama profondamente; ad una donna che vale assai.... Lascio stare i quattrini; — soggiunse il banchiere, a mo’ di parentesi; — sono la nostra miseria! Parlo delle qualità morali, che conosco ben io, anche superiori alle fisiche, visibili a tutti. Ci rinunzia, e son certo che ciò potrà costarle la vita. Ora io.... gliel ho a dire? Venga qua, poichè tanto è già mezzo ginocchioni davanti al suo confessore.... Si accosti bene! — Così dicendo, venne ad aver tra le palme la testa di Filippo Aldini. Lo baciò allora sulla fronte, poi si curvò per dirgli all’orecchio, ma forte, ben forte: — Ora, io.... non rinunzio a Lei. Ha capito? — Filippo mise un grido; afferrò le mani del signor Anselmo, e le baciò, inondandole di lagrime. — Si calmi, si calmi! — esortava il buon vecchio. — Che c’è egli di strano, in ciò che le ho detto, o che ella non meriti, per la sua bella sincerità? Le ho parlato per conto mio, s’intende; — aggiunse egli poscia; — e perchè ella sappia bene fin d’ora con che animo parlerò a Margherita. — A Margherita! — esclamò Filippo, sussultando. — Eh, niente si può fare, concederà, senza che venga da lei una parola di gradimento. Ella stima mia figlia, signor conte; la crederà degna di ricevere in deposito, e capace di custodire gelosamente un segreto. — Filippo assentiva col capo, ma contorcendosi anche un pochino, e stringendo le labbra, al pensiero che del segreto non tutto suo, dovuto confidare al signor Anselmo per troppo gravi ragioni, andasse a parte anche un’altra persona. Quell’altra era bensì Margherita, la divina creatura; ma proprio era fatto per lei, quel segreto? — Pensi un po’; — riprese il signor Anselmo, che si era facilmente avveduto di quel contrasto di pensieri. — Se io non ci fossi, Ella, quest’oggi, trovandosi al bivio crudele di cui mi ha fatta una così viva pittura, si sarebbe pur confidato d’ogni cosa con Margherita; ne conviene? Dunque, procediamo. Margherita ha senno maturo in giovane età; Margherita è una donna forte, sa? Non la giudichi da un po’ di stordimento che ha in questi giorni sofferto. Era naturale. La poverina stimava lei come il più leale degli uomini, e lì, senza preamboli, ne ha sentito dir corna. Capirà.... Ciò doveva colpirla nel mezzo del cuore; e ciò va ad onor suo, come a testimonianza della stima che aveva concepita per Lei. Ma infine, sa padroneggiarsi, distinguere, e giudicare con calma. Le aggiungerò che io mi fido molto del suo retto giudizio; e in certe faccende, poi, nelle matrimoniali, ad esempio, non la contrario mai. Non sono già io, che ho da prender marito; è lei, e perciò giudica lei, decide lei in prima ed ultima istanza. Per un nugolo di pretendenti, finora, ha detto di no: per Lei, così poco pretendente, lo vedo bene! ha detto di sì. Vuole che si disdica? Io non lo credo. Comunque sia, quella savia figliuola merita tutta la mia confidenza, ed io mi rimetto intieramente alle sue decisioni. Pel suo segreto, signor conte, non dubiti; Margherita saprà farne buon uso. Ella vada tranquillo, e non mi dica altro, se mi ama. — Filippo chinò la fronte, persuaso. — Sarei uno sciocco, — diss’egli, — se non riconoscessi quanta bontà c’è in Lei, sopra ogni merito mio: sarei un essere indegno di vivere, se dubitassi della signorina Margherita, della sua delicatezza di sentire e della sua nobiltà di pensare. Ah, quante cose aggiungerei, — gridò Filippo, animandosi, — se non mi ritrovassi in questa dolorosa condizione! — Bravo! io le immagino tutte; — ripigliò il signor Anselmo, levandosi da sedere; — speriamo di averne presto un bel saggio. Fa così piacere ai babbi sentirsi lodare il sangue loro! Ma veda come ci siamo sbrigati; — soggiunse, guardando il suo Patek. — Sono appena le due e mezzo. Ritornerò all’albergo; Ella mi metta sulla buona strada per San Marco, perchè non mi fido troppo dell’indirizzo proverbiale: _La vaga drio a la zente_. E restiamo intesi fin d’ora ch’Ella verrà come ha promesso, alle nove, e magari alle otto. — Ma.... — disse Filippo, perplesso; — se la signorina Margherita mi avesse condannato? — Il signor Anselmo lo guardò con una tale espressione di tenerezza, che il povero Filippo non avrebbe potuto augurarsene di più nel cuore della sua bella figliuola. — In questo caso l’avvertirei con due righe di biglietto; — rispose. — Dove pranza lei? Al Quadri, mi han detto. — Sì, è il mio luogo solito. Ma ne avrò voglia, quest’oggi? — Non perda l’appetito, mio caro Aldini; è una tra le prime raccomandazioni della scuola di Salerno. Un boccone inghiottito è poi, davanti alle nostre malinconie, come la provvista d’aria di cui si rinnovano i nostri polmoni; lavoro inavvertito, quasi meccanico. Si continua a respirare, anche nei momenti più tristi, quando si dispera di tutto, e s’invoca la morte. Ma non filosofiamo; se no, perdo il treno.... voglio dir l’ora buona per ragionare con quella cara figliuola. Stia di buon animo, su! Resta inteso ad ogni modo che Ella viene senza aver aria di saper nulla, di aspettar nulla, trattandosi d’una visita di presentazione alla mia modesta persona. Le cose van fatte da cavalieri molto sbadati, molto ignoranti, anche e più coll’amico Zuliani, il quale fra un’ora e mezzo mi darà l’annunzio della visita sullodata, che noi dal canto nostro non potremo dirne di aver già ricevuta. Quanto a Margherita, che crede? ch’essa non voglia più riconoscere il conte Aldini, neanche per prossimo? Comunque sia, mio caro, per levarla di pena, le invierò il mio bigliettino, e sperando di poterci scrivere una frase, del genere di questa: “il ponte del Paradiso è in ottimo stato di conservazione; ci si può passare senza pericolo„. — Dio voglia! — esclamò Filippo Aldini. — Ella ha intanto la mia assoluzione; — aggiunse il signor Anselmo. Erano arrivati frattanto in capo alla Merceria. Di lì il signor Cantelli poteva andare da solo a San Marco; e Filippo Aldini lo lasciò, per non correre il pericolo di farsi vedere a quell’ora con lui. XVII. La donna forte. Certo oramai della strada, poichè la Merceria metteva appunto a quella nobilissima parte di Venezia che tutti i viaggiatori conoscono anche prima d’esserci stati, il signor Cantelli si avviò speditamente all’albergo; pensieroso, e non senza ragione, così per il triste caso dell’amico Zuliani, come per il discorso malagevole che avrebbe dovuto fare alla sua cara figliuola. Ma nell’animo di quel babbo soverchiava un sentimento di viva simpatia per quel conte Aldini, il quale, ora più che mai, colla sua nobile sincerità, meritava di diventare suo genero. Tutta la difficoltà consisteva nel modo come la confessione generale del giovinotto sarebbe stata intesa da Margherita: quanto a lui, lo confortava abbastanza la sua vecchia massima: “l’uomo è nato cacciatore„; alla quale poteva anche aggiungere che nel caso concreto il cacciatore era stato trascinato, più che dalla imprudenza sua, dalla follìa della selvaggina. Una vera fatalità! e tanto più fastidiosa, in quanto che l’errore lontano portava conseguenze vicine. Ed ora, come dire tutte queste cose a Margherita? Erano discorsi da farsi a ragazze? Ma sì, pur troppo, viene il momento che anco alle ragazze bisogna parlare l’aspro e volgare linguaggio del brutto mondo in cui vivono, povere anime ignare! Del confidarsi alla moglie, perchè facesse lei il discorso, gli era pur venuta l’idea; ma subito l’aveva messa in disparte. Anzitutto il segreto rischiava di non esser più tale, passando per troppe orecchie; ed egli non ne aveva preso licenza dal suo penitente. Poi, l’effetto buono o cattivo di quella confessione generale sull’animo di Margherita poteva dipendere, più che dalla esposizione di alcuni fatti dolorosi, da quella di molti particolari che li accompagnassero, ora aggravandoli, ora attenuandoli, spiegandoli sempre. Come se la sarebbe cavata, da questo passo, la signora Eleonora? E non sarebbe poi stato il caso di ricorrere a lui, per aggiunte e commenti? Tutto ciò si evitava, parlando egli diritto diritto a sua figlia. Mentre veniva innanzi, pensando queste cose con tanto giudizio, il signor Anselmo s’imbattè in sua moglie, che in compagnia di Federigo andava girando botteghe. — Oh bravi! — diss’egli. — E Margherita? — In camera, a scrivere le sue lettere; — rispose la signora Eleonora. — Hai lasciato il conte Aldini? — Sì, poco fa. E a proposito di lui, ricordiamo che verrà questa sera col signor Zuliani. Non bisognerà dunque lasciarci sfuggire ch’egli sia venuto prima; e ciò per lasciare all’amico Raimondo il piacere di averlo presentato egli stesso a me. Sarà un atto di delicatezza verso di lui, non vi pare? Il signor Zuliani ne è degno. — Così disposte le cose, e felicissimo di trovar Margherita sola, affrettò il passo verso l’albergo. Era appena arrivato nel suo appartamento, che Margherita lo udì, e tosto gli mosse incontro serena e sorridente. — Ahi, ahi! — pensò egli. — Come si fa ora a dirle tante brutte cose, a questa cara figliuola? — Margherita non gli aveva ancora letto negli occhi. — Ebbene, — gli disse, — come sei rimasto contento del signor Filippo? — Io, molto. Così ne fossi contenta tu! — Oh, babbo! A me non c’è bisogno di augurarmelo. — Il signor Anselmo colse la palla al balzo, entrando subito nel vivo dell’argomento. — Neanche se nel suo passato ci fosse.... qualche taccherella? — domandò. — Come sarebbe a dire, taccherella? — Ma sì, qualche scappata, qualche impennata, come può fartela il cavallo più generoso. Intendimi per discrezione.... qualche antica passioncella, via!... Sai bene; l’uomo è nato.... un po’ leggero di testa. E se una fiammatella ci fosse stata.... anche fuoco di paglia.... specialmente fuoco di paglia.... che ne diresti! come vedresti la cosa? — Margherita stette alquanto sovra pensiero, guardando il suo babbo negli occhi. — Tu sai qualche cosa. — gli disse, — sai.... della signora Zuliani! — Figurarsi l’atto di stupore del signor Anselmo, a questa scappata della sua dolce figliuola! — O come? Già eri informata? — Eh, ci voleva poco a capirlo. Quella graziosa signora ci ha sempre veduto volentieri come il fumo negli occhi. Appena una visita, in tutto il dicembre passato, e ci ha lasciate sole a far la nostra vita di forestiere. Finalmente, perla notte del capo d’anno, c’è stato l’invito, e neanche fatto da lei, ma dal signor Raimondo, che, evidentemente per salvar le apparenze, metteva innanzi il nome della sua agrodolce metà. E là, a quella cena, mio caro, ho inteso tutto, ho tutto indovinato. Guardava me con aria di volermi sorbire come un uovo fresco: poi covava quel povero Aldini con gli occhi, mettendolo in uno stato d’angustia e d’impazienza da far veramente pietà. Dio, com’era seccato! e come si vedeva che l’avrebbe tanto volentieri mandata a quel paese! Vecchie lune, è questo il vostro destino. Ed era una vecchia luna, quella lì, molto vecchia; non c’era da prendere abbaglio. — Quante cose hai osservate in una notte! — Seconda vista, babbo; e si ha sempre, per le cose che premono. Ed anche ho notato l’atto della signora, quando suo marito destinò il conte Aldini per accompagnarci in gondola fino alla riva degli Schiavoni. Avrei avuto compassione di lei, te lo confesso, se non avessi veduto, e prima e poi, che il signor Filippo pensava a lei, com’io al Gran Turco. Ah, la stizza, che la prese cinque giorni dopo, quando capitò qui e trovò il signor Filippo intento a disegnare il ponte del Paradiso, per ricordo d’una passeggiata artistica, che avevamo fatta quarantott’ore prima! È vero che se ne vendicò da sua pari, distillando veleni nell’orecchio della mamma. Così li avesse distillati in presenza mia! Ero donna da risponderle, sai? come va che lei lo riceve, un uomo simile? E ne parla così a noi, ora, ch’egli è appena appena uscito di qui? Permette che ci lagniamo a suo marito, di averci presentato un tal uomo? Avrei voluto vederla, allora, che cosa mi sapesse rispondere. — Il signor Anselmo sorrideva, sentendosi un po’ più sollevato. — Dunque, non ti dai pensiero di quella vecchia luna? — Nè di quella, nè d’altre, le cui fasi son da lasciarsi dormire negli antichi almanacchi. D’una sola cosa potrei darmi pensiero; come sei venuto a saper tu, appena arrivato, di quella vecchia luna? — Appagherò subito la tua legittima curiosità. Quel bravo giovinotto mi ha voluto condurre in casa sua; e là, con grande effusione di cuore, mi ha fatta la sua confessione generale. — E ti ha detto che si trattava di una vecchia luna? — Sì, ed io l’ho assolto col proverbio; acqua passata non màcina. È un onest’uomo; è stato tale anche in quella debolezza passeggera, in cui la minor parte di colpa è stata certamente la sua. Fu involto, sconvolto, travolto: mi servo delle sue stesse parole. Ma in verità, il parlare di queste cose ad una ragazza come te.... — Babbo, non sarò io tra poco Margherita Aldini? — Eh, Dio sa se mi farebbe piacere! Vorrei che fosse oggi la vigilia e domani la festa. Ma tu la fai liscia più che non sia veramente. Se ci fosse ancora qualche difficoltà da superare? — Margherita impallidì a quelle parole del babbo. — Tu non me la dici giusta; — esclamò. — E tu, bambina, non sei tranquilla come vorrei. — Vediamo di contentarti; — ripigliò Margherita, facendo uno sforzo visibile, per padroneggiare la sua inquietudine. — Viene da lui, la difficoltà? — Non da lui; egli ti ama pazzamente.... disperatamente... — Allora, son tranquillissima; — diss’ella, respirando. — Vedi che effetto produci, con un paio di avverbii? — aggiunse tosto, ridendo. — Sono una donna forte più che tu non creda, e poco mi basta a farmi riavere, purchè quel poco sia buono.... — Ed abbondante; — conchiuse il signor Anselmo, ridendo più gustosamente di lei. — Sentiamo dunque; — ripigliò Margherita. — Donde viene la difficoltà a cui accennavi? — Da un caso spiacevole di cui egli non ha colpa veruna, e che mi ha dovuto raccontare, confessandosi a me. — Se egli si è confessato a te, la sua confessione era sicuramente per me. Dunque, sentiamo tutto. — Tutto! Faceva presto a dirlo, quella cara figliuola. Il babbo impacciato non ne disse neanche la metà. Nondimeno, ce ne fu d’avanzo per lei, quando ebbe sentito brevemente del vecchio errore, dei pronti rimorsi, delle oneste esortazioni, che erano sembrate efficaci per rimetter quell’anima in pace, ma che tutto ad un tratto, in quei giorni, avevano perduto ogni forza. Non era divampata da capo una fiamma d’amore, che più non poteva davvero, e che ad ogni modo non avrebbe trovato propizio il terreno; era stato un incendio di orgoglio offeso, di collera feroce, all’udire che un certo matrimonio era imminente, e che Raimondo Zuliani sarebbe andato quella mattina alla stazione per aspettare l’arrivo d’un padre, d’un padre già persuaso di quelle nozze e dispostissimo ad affrettarle. Qui, in breve spazio di tempo tutta una rovina, un precipizio di cose; la donna, vera furia scatenata, che scopre sè stessa al marito, per nuocere altrui, anche a suo rischio di vita, e sempre poi a suo danno; il marito che corre a chiedere ragione all’amico traditore, ma precorso dalla donna impazzita, che va a dare avviso della commessa follìa, ed anche a consigliare la viltà d’una fuga, avendo appena il tempo di trafugarsi lei in un andito, presso un uscio segreto, donde ascolta il colloquio terribile tra i due uomini ch’ella ha messi l’un contro l’altro, e donde si ritira anche male, imprudentemente facendo rumore nel chiudersi l’uscio dietro alle spalle; onde avrebbe potuto accadere di peggio, se il signor Zuliani, sospettando il vero, fosse corso ad inseguire quella donna nella scaletta di servizio. Margherita ascoltava fremendo la rapida esposizione di quel viluppo di casi. E più doveva farla fremere il racconto di ciò che era seguito tra i due, così posti di fronte. Raimondo Zuliani era l’offeso; dettava egli le condizioni della sua vendetta; imponeva la sua volontà, con un duello alla sorte. La sorte aveva favorito l’Aldini; lo Zuliani perdente, doveva uccidersi entro un termine di tempo già stabilito tra loro. Ma egli, da galantuomo, confessava al suo avversario che si sarebbe ucciso egualmente, vincendo, poichè aveva perduta la sua felicità con tutte le illusioni della sua vita. Amava ancora, pur disprezzandola, quella donna infedele, che già era stata cagione del suo dolore più acerbo. Per far sua ad ogni costo quella donna, il poveretto aveva perduto l’affetto di una madre adorata. — La signora Adriana che vive a Belluno; — disse Margherita, ricordandosi. — Infatti, veneziana com’è, non si lascia più vedere a Venezia. Si vede ora che conosceva bene la sua futura nuora. Povero signor Raimondo! Ed è tanto un brav’uomo! — Tanto bravo, che con tutto quello ch’è accaduto fra lui e il conte Aldini, vuole che il matrimonio si faccia, e dentro i sessanta giorni che gli resterebbero da vivere, secondo il patto giurato. Patto segreto, s’intende, e noi non dobbiamo saper nulla di nulla. Solo la bontà di cuore del conte Aldini, la sua rettitudine, la sua probità verso di noi, ci mettono a parte di quel triste segreto. Sicchè, vedi tu a che punti siamo. Quell’ottimo giovinotto ha pensato che tu dovessi sapere ogni cosa dei suo passato, per dar giudizio di lui. E qui è da lodare la sua delicatezza: io gli ho già detto che per questa io lo stimavo mille volte di più. Ma egli ha voluto raccontarmi ancora tutto l’occorso di questa mattina, pensando che un matrimonio in queste condizioni potesse dispiacere a te.... — Ha ragione; — interruppe Margherita. — Come, ha ragione? — gridò il signor Anselmo, stupito. — Sì, ha ragione, e per questo lo stimerò io diecimila volte di più. Io non sposerò il conte Aldini, coll’ombra del suicidio di Raimondo Zuliani davanti agli occhi. Il nostro matrimonio è stato ideato dal signor Zuliani, desiderato, preparato, voluto da lui. Con che cuore, dimmelo tu, con che cuore andrei io all’altare, pensando che dopo la cerimonia, il padrino delle mie nozze, si toglierebbe la vita? — Capisco, — rispose il signor Anselmo. — Ma a fargli mutar proposito non ci adopreremo anche noi? Lo metteremo con le spalle al muro, vedrai; lo pregheremo, lo piegheremo; ascolterà le voci della ragione. — Lo credi? Ci vuol altro che esortazioni e preghiere! Ci penserò; — rispose Margherita con accento risoluto. — E intanto, cara mia, che si fa coll’Aldini? Egli ha riconosciuta la necessità di farti sapere tutta la sua confessione, ma soggiungendo che ne dovevano conseguire due mali; uno, il più grave, e per lui certamente insopportabile, che il tuo cuore si allontanasse da lui; l’altro, che ne sarebbe il corollario immediato, di non potersi presentare questa sera da noi. Lo vedresti tu volentieri, dopo ciò che conosci di lui? — O babbo, — disse Margherita, — anch’io mi sono confessata a te; più brevemente, e per un fallo minore. Speravo di aver fatto un giudizio temerario, sospettando che tra lui e quella donna ci fosse stato.... qualche cosa. In verità, non pensavo di colpir così giusto. Ad ogni modo ero certa.... il cuore mi diceva, il cuore che non s’inganna mai, che fossero vecchie lune, tramontate da un pezzo, e che solo per orgoglio offeso, od altro di simile, quella donna mi odiasse. Quanto a lui, senti, io ti confesserò candidamente, che non avrei voluto quell’ombra del passato ad oscurargli la fronte. Mentirei, se ti dicessi il contrario. E credi ancora, avrei rinunziato a lui, se egli fosse stato un altro. — Che sottigliezze! — Sì, e da capirsi benissimo. Egli era così gentile e buono, così nobile e colto, così rispondente al mio ideale, che, salvo sempre il tuo consenso, io non avrei rinunziato a lui per il ricordo di un’ombra passata sopra i suoi occhi, prima che quegli occhi si fossero posati su me. Così potevo perdonare il passato; così posso ancora, e perdonarlo e cancellarlo. Egli è oggi senza colpa, per me. Non lo hai tu confessato, del resto? — soggiunse la cara fanciulla, sorridendo. — E non gli hai data la tua paterna assoluzione? — Con tutta l’anima; — rispose il signor Anselmo, intenerito. — Dunque, ecco qua; lo riceverai bene. Io gli ho detto, congedandomi da lui: esplorerò l’animo di Margherita, e le scriverò un bigliettino, con questa frase, che lo conforti: “il ponte del Paradiso è in ottimo stato di conservazione; ci si può passare senza pericolo.„ — Babbo cattivo! Tu ascolti, passando.... — Come tu dietro agli usci. — Ma io non potevo fare diverso, essendo nella camera attigua. — E neppur io, essendo nella stessa camera, e infilando la pelliccia. — Erano pari e patta. Margherita conchiuse il giuoco, abbracciandolo stretto, e stampandogli due baciozzi sulle guance. — Sicchè?... — diss’egli. — Scriverai.... scriveremo.... anzi scriverò io il biglietto. Si guadagna tempo. Non l’ho mica da sposare domani. E gli parlerò un pochino ancor io, per l’appunto domani.... se il babbo permetterà. — Veramente.... — Veramente, al punto in cui siamo, anch’io debbo parlare. E poi che cos’è? Dubiteresti della prudenza di tua figlia? — No, questo, no. Ma siete prudenti in un certo modo, voialtre donne; e prepotenti, poi!... Insomma, farai quel che vorrai. — In quel punto venne un cameriere ad annunziare la visita del signor Raimondo Zuliani. — Ditegli che passi; — rispose il signor Cantelli. — Ed io, babbo, passo di là, per iscrivere ancora una lettera; poi vengo da voi. — Leggera leggera, la fanciulla si trafugò nella camera attigua. Aveva già richiuso l’uscio, quando il signor Zuliani entrò nel salotto. Raimondo era calmo nell’aspetto, quasi severo. Gran forza di volontà in quell’uomo, che la sventura aveva così duramente percosso! Si sarebbe mostrato anche ilare, se non avesse dovuto dare, a scusa della sua assenza mattutina all’arrivo di Anselmo, poco liete notizie della sua signora. Nervosa all’eccesso, la sua Livia aveva sofferto nella notte un potentissimo assalto del suo male, restandone molto abbattuta. Era a letto, naturalmente, e n’avrebbe avuto per parecchi giorni. Egli intanto, rinnovate le sue scuse, ringraziava caldamente l’amico di esser venuto alla chiamata, e di mostrarsi tanto disposto ad accogliere il suo disegno. Gli premeva di esser egli l’autore della felicità di un carissimo giovine, che avrebbe presentato quella sera ad Anselmo Cantelli. Un gentiluomo perfetto, quel conte Aldini, un’anima grande, un cuor d’oro, degno di Margherita, almeno in quel modo e in quella misura che un uomo poteva esser degno di un angelo. Ed anche a questi patti, poteva l’angelica creatura esser certa di non trovar fallo presente in quell’uomo. Tutti si è stati giovani, conchiudeva Raimondo, e qualche antica debolezza, com’egli aveva avuto l’onore di dire alla signora Eleonora dopo l’imprudenza di un certo discorso leggero, non doveva assolutamente contare. — Acqua passata non mácina; — disse il signor Anselmo; — e poi, bisogna sempre passarne qualcuna, pensando che l’uomo è nato cacciatore. La mia figliuola non ha poi badato molto ad un discorso che voi volete pur ricordare, mio caro Zuliani, dicendolo anche leggero, mentre infine esso non usciva dai limiti delle chiacchiere da salotto, urbane sempre e graziose. E dopo tutto, la mia Margherita, senza essere un angelo, come voi avete la bontà di chiamarla, è una donna forte, ve l’assicuro io, una donna forte. — Dunque, — riprese Raimondo, — è affar combinato? — Eh, quasi. Bisognerà bene che questo giovinotto lo veda prima ancor io, e ancor io me ne innamori; ne convenite? — È giusto; — conchiuse Raimondo. — Ma di ciò sono più che sicuro. — L’uscio della camera attigua si aperse, e Margherita comparve, Margherita luminosamente bella, col sorriso sul labbro, e un mazzettino di lettere nella destra, che fece scorrere prontamente nella sinistra, per istender l’altra con atto cortese e sollecito al signor Raimondo Zuliani. E strinse forte, quella mano delicata, strinse forte la mano di quell’uomo, per cui sentiva una simpatia più viva e più profonda di prima. — Permette? — diss’ella poscia, accennando le sue lettere. — Le consegno, e sono da Lei. — Andava intanto alla parete, e toccava il bottone del campanello elettrico. — Subito queste lettere nella cassetta postale; — ordinò al cameriere, che era comparso alla chiamata. Poi, libera dalle sue piccole faccende, venne a sedersi accanto al signor Raimondo, chiedendo anzitutto notizie della signora Livia, ed ascoltando con molta attenzione quello che egli ne diceva; egli poveraccio, che dalla mattina non era più ritornato al palazzo Orseolo. Di quante piccole bugie necessarie non si compongono le nostre conversazioni! Di lì, mutando argomento, la donna forte passò a discorrere della mamma, che era in volta col suo Federigo, per arricchirne il corredo. Sicuro, anche lì ci voleva un corredo di nozze; non per la sposa, che non ne aveva bisogno, se non di carbone e di munizioni da fuoco, essendo una bella corvetta, destinata a fare con Federigo, per suo viaggio di nozze, il giro del globo. La lunghezza del viaggio voleva adunque che fosse più ricco dell’usato il corredo dello sposo. In queste chiacchiere si consumò una mezz’ora; dopo di che il signor Zuliani prese commiato, promettendo una visita più lunga per quella medesima sera. — Non so, — diss’egli, — se troverò il conte Aldini, per presentarlo io al suo babbo. Ci siamo intesi per le nove. Ma se per caso egli avesse da capitare prima di me, prego Lei, signorina, di far le mie veci. — Con gran piacere; — rispose Margherita, stringendo ancora ben forte la mano di Raimondo; — ed Ella me ne ricambierà con buone notizie della sua signora, alla quale vorrà fare i nostri più caldi augurii per la sua pronta guarigione. — Non una fibra del volto di Raimondo Zuliani tradiva lo stato dell’animo suo. — Uomo forte davvero, e risoluto; — pensò Margherita, vedendolo partire; — questo sarà duro a vincere, più che il babbo non pensi. — Indi a poco arrivò Federigo con la mamma. — Grandi acquisti, — disse la signora Eleonora al marito. — Quest’oggi ti costiamo un capitale. — Dài, dài dentro senza misericordia; — rispose il signor Anselmo, stropicciandosi le mani. — Sei capace, scommetto, d’avermi speso un dugento di lire. — Sì, bravo; aggiungi uno zero. — E che cos’è uno zero? Nulla, mia cara. Infatti, non si dice di un uomo.... come me, verbigrazia, ch’egli conta come uno zero? — Si rideva, così, aspettando l’ora del pranzo; e il signor Anselmo, prendendo esempio da quella donna forte di sua figlia, le cercava tutte per rallegrar la sua gente. E la signora Eleonora, ottima pasta di donna, era lontana le mille miglia dal sospettare che figlia e marito non avessero punto voglia di star sulle celie, dopo tanti sopraccapi che avevano avuto in tre ore. Bello, passare tra i drammi della vita senza avvedersene! Ma un gusto simile è solamente capace d’intenderlo bene chi della vita ha saggiato il disgusto. Quella sera, alle nove in punto, ritornava Raimondo Zuliani, tranquillo, sereno, anche ilare, secondo il suo vecchio costume, poichè della sua signora poteva recare sempre migliori notizie. Con lui veniva Filippo Aldini, che il signor Anselmo ebbe l’aria di vedere per la prima volta. Così voleva la diplomazia, concertata tra loro. L’Aldini non appariva ilare come Raimondo, tra perchè quello non era mai stato il suo costume, e perchè allora come allora gli sarebbe parso un insulto, o poco meno, all’interna pena del suo compagno di visita. Era calmo, nondimeno, e garbato: un po’ umile, anzi un po’ vergognoso, si accostò a Margherita, osando appena di toccarle la mano. Ma sul cuore sentiva il dolce conforto di una letterina, ricevuta quella sera al Quadri; una cara letterina, che lo aveva miracolosamente aiutato a mandar giù qualche boccone con minor reluttanza. La soprascritta era di pugno del signor Anselmo; lo scritto interno di Margherita. Così erano in due a dargli animo. Ed era la prima volta, quella, che Filippo Aldini vedeva i caratteri della divina creatura, fini, svelti, e chiari ad un tempo, non imitati, grazie al cielo, da certi uncini, arpioni e rampini bislunghi e bistorti dei secoli barbari, come si usa oggidì dalle graziose donne del mondo civile. La letterina di Margherita diceva brevemente ed eloquentemente così: “Il babbo ha molte faccende e non può scriverle, come sarebbe suo desiderio vivissimo. Ma faccia conto che scriva egli in persona, nel lasciare che fa il grato incarico a me di significarle che si può passare senza pericolo; Ella sa dove. “_Margherita„._ Certo il Povero Aldini sarebbe stato molto impacciato, quella sera, a trovar materia di conversazione, così turbato com’era, e per parecchie ragioni. Ma gli venne provvidamente in aiuto la signorina Margherita, tirando il discorso sull’arte. Il ponte del Paradiso ebbe naturalmente la parte sua; l’ebbe il pittore Longhi; l’ebbe il Pannini; l’ebbe soprattutto il divino Correggio. Erano a Parma, buon Dio; frugarono tutti i piani della Pilotta, dal museo archeologico al teatro Farnese; poi fecero una serie di scorribande, alla rocca di Torrechiara, a quella di San Secondo, a Montechiarugolo ed a tante altre castella circonvicine, per andare a finire nelle alte solitudini del lago Santo. Ci prese gusto anche il signor Anselmo, che sul territorio parmense possedeva un latifondo da principe, e meditava di ampliarlo ancora, tanto vedeva di quei luoghi invaghita la sua cara figliuola. — Margherita, — diss’egli giubilante, — ha Parma sulla punta delle dita. — Babbo, il tuo complimento sarebbe più bello in francese: _je la sais par coeur_. — Non è lo stesso? — Sì: ma c’è quel cuore, che ha più sentimento delle dita; non ti pare? — Per la maggior bellezza della frase doveva aver ragione lei, se anche le si potesse rispondere che il sapere una cosa _au bout des doigts_ aveva corso libero in Francia. Quella sera faceva lei tutte le carte, ma usando l’arte di far parlare più che potesse l’Aldini. Il signor Zuliani notò con soddisfazione che il Cantelli non ispiccava mai gli occhi da Filippo, se non forse per rivolgerli alla sua Margherita. — Mi pare che il negozio cammini; sia lodato il cielo; — pensò egli in cuor suo. Quando egli fu sul punto di andarsene, Margherita gli disse con la sua grazia adorabile: — Signor Raimondo, io so che Lei mi vuol bene; e Lei sappia che io gliene voglio ancora di più. — Mi par difficile; — rispose egli con bella galanteria. — Vedremo. Chi vive, ha tempo a vedere.... e a ricredersi. Vuole che scommettiamo? — Raimondo Sorrise, ma non accettò la scommessa. Al conte Aldini, che era rimasto ancora qualche minuto, la donna forte trovò il modo di dire in disparte: — Ci si vede domani? L’aspetteremo alle tre, io e babbo. Si parlerà d’alte cose. — E perchè Filippo era rimasto un po’ sconcertato da quelle “alte cose„, soggiunse: — Ma sì, c’è da aggiustare quel benedetto ponte. Non pericola, lo so; ma qualche restauro mi pare che lo richieda.... e lo meriti. — Ah, birichina, quella donna forte! Ed aggiungeva per il buon peso: — È anche un po’ angusto, quel povero ponte. Non già come quello che la fantasia di Maometto ha saputo imaginare, fatto d’un filo di ragnatela, che, guai alle anime, se non son più che leggere, perchè non ci si potrebbero reggere e cascherebbero nella Geenna, fiammeggiante di sotto! Ma al nostro dobbiamo pensare, da buoni architetti, facendolo ampio al bisogno, e ben saldo. Sorrida intanto; sorrida almeno una volta! — Filippo Aldini sorrise, e promise. XVIII. La giornata dei misteri. La mattina seguente il signor Anselmo diceva alla sua Margherita: — Carina, siamo dunque alle porte coi sassi? — Perchè? — domandò la fanciulla. — Perchè mi è parso, ieri sera, che tu fossi molto contenta, tanto contenta da avere certamente deposta l’idea di tirare le cose in lungo. — No, babbo, non credere. Sono la donna forte, come tu dici; ma ho il cuore.... come dirò io? il cuore piccin piccino. A vedere quel povero signor Zuliani tanto padrone di sè, ho ben capito che sarà impossibile smuoverlo. Ha fatta la sua risoluzione, e non la muta; almeno, se non interviene un miracolo. — Ella sospirava, e il signor Anselmo non seppe far altro che seguirne l’esempio. Ah, un miracolo, un miracolo! Era più tempo da miracoli? — Se si potesse.... — incominciò egli, dopo aver almanaccato un bel poco, — se si potesse trovare il modo di apparire informati dell’accaduto, senza averne avuto notizia da quel povero giovinetto.... oh, allora, sarebbe un affare più spiccio. Andrei dall’amico Zuliani, e glielo parlerei io, il linguaggio della ragione. Il rispetto al suo buon nome.... la sua probità e la sua riputazione bancaria in balia dei peggiori sospetti.... la vergogna che ad ogni modo cadrebbe su lui, quando si conoscesse il vero.... ecco parecchie cose che potrebbero farlo pensare. — E le avrà pensate, babbo, le avrà pensate e ripensate già tutte. Figùrati se a questi danni morali non avrà trovato il rimedio! Quell’uomo liquida, come dite voi altri banchieri, liquida i suoi interessi in due o tre settimane, e buona notte a chi resta. Ragioni, poi, o pretesti a spiegare un atto disperato, non ne mancano, incominciando dalla malattia incurabile. Non ti confondere adunque a cercare il modo di essere informato senza far sospettare del signor Filippo; non lo troveresti, e non ti sarebbe creduto. Piuttosto, e per tastar terreno, sarebbe da sapere che cosa accade al palazzo Orseolo. Dopo la scena orribile di ieri mattina, si sono più visti, il signor Zuliani e sua moglie? Si parlano? C’è stato un accordo tra loro, per evitare gli scandali, e prima di tutto le chiacchiere della gente di servizio? Se questo si potesse sapere.... — E da chi? — Dal signor Brizzi, per esempio. Quello è il segretario, il braccio destro del signor Zuliani. Tu hai pure saputo dal signor Filippo che Raimondo, uscito da casa ieri mattina, andò al suo banco, dove stette a lungo, in preda ad una grande agitazione d’animo. Possibile che al signor Brizzi non abbia detto nulla? che il signor Brizzi, andato al palazzo Orseolo, non abbia indagato per conto suo, scoperto qualche cosa, almeno per ispiegarsi quel turbamento improvviso del suo principale? — È un’idea; — gridò il signor Anselmo. — Voglio andare al banco Zuliani, con una scusa qualsiasi, e magari all’ora della colazione. Se trovo il signor Brizzi solo, potrò farlo cantare. Egli vorrà pure aver confidenza con me, col vecchio amico di Raimondo; e non inutile amico, nè tiepido, com’egli certamente saprà. — Vai dopo le undici; — suggerì Margherita. — È l’ora che il signor Zuliani esce dal banco; e il signor Brizzi non vorrà andarsene alla stessa ora del suo principale. So ancora che il signor Brizzi fa i suoi pasti al _Cappello Nero_, in piazza San Marco. Se non lo trovi più al banco, puoi appostarlo alla trattoria. Intanto mi permetti che per oggi, se te ne arrivano durante la tua assenza, io apra i tuoi telegrammi? — Non ne aspetto; — rispose il signor Anselmo. — Ma perchè? — Perchè ne aspetto uno io. — Diretto a me? — Diretto a te; ho dato il tuo ricapito. — Che cos’è questo mistero? — Non me lo domandare, babbo; abbi fede in me. Se quel telegramma arriva, chi sa che non si trovi la via di salvezza? E ancora una preghiera: — soggiunse Margherita. — Non uscire quest’oggi, quando avrai fatto colazione; o almeno sii qui per le tre, facendo in modo che la mamma sia fuori con Federigo. — Un altro mistero? — Non del tutto, babbo. Ho detto iersera al conte Aldini che lo avremmo aspettato quest’oggi alle tre. — Per che cosa? — Ma.... per discorrere un poco. Ho da interrogarlo su qualche punto oscuro della sua storia. — E se questi non sono misteri, voglio perder la testa; — brontolò il signor Anselmo, mezzo burbero e mezzo faceto. — Li saprai tutti, via! Finalmente, di che si tratta? Di un interesse tuo, anzi di due. Il primo è di salvare il signor Zuliani, al quale vuoi bene. — Non c’è che ridire. E l’altro? — L’altro è di accasare la tua povera figliuola. Non hai paura che ti sfiorisca in casa? — Matterella! — esclamò il signor Anselmo, facendo bocca da ridere. Alle undici, come aveva promesso di fare, il signor Anselmo uscì, e stette fuori appena un tre quarti d’ora; di guisa che la colazione non fu neanche ritardata. In quella vece, essendo presente la signora Eleonora, fu ritardato a Margherita l’appagamento di una viva curiosità, rispetto alle notizie che il babbo aveva certamente raccolte, come infatti era dimostrato dal suo ammiccar frequente alla sua cara figliuola. Fu un bel momento per lei, quando la mamma si alzò, per andar nella sua camera a mutar veste e a mettersi in punto per uscire, appena Federigo fosse arrivato dall’Arsenale. Qui, stando nel vano d’una finestra in atto di contemplar la Laguna e l’isola di San Giorgio Maggiore, il signor Anselmo snocciolò in fretta la sua coroncina di notizie. Avviato al banco Zuliani, s’era imbattuto nel signor Raimondo, che allora ne usciva. Accompagnatosi un tratto con lui, e tirato sull’argomento dell’Aldini, non gli aveva negato che quel giovinotto gli piaceva moltissimo, soggiungendo per altro che voleva discorrer più a lungo con lui, e rigirarlo, come si suol dire, per tutti i versi. Poi, col pretesto di non conoscere abbastanza le strade, e meno ancora le straducole di Venezia, e di non volersi smarrire in quel labirinto, aveva lasciato l’amico Zuliani tirar di lungo verso casa, ritornandosene egli verso San Marco. Libero di andare dove voleva, si era difilato al banco, trovandoci appunto il signor Brizzi, a cui aveva detto di voler scrivere un biglietto; e il signor Brizzi si era affrettato a cedergli il posto alla sua scrivania. Entratogli bel bello in materia (e glie ne offriva un ragione voi pretesto l’aver notato una grande alterazione di spirito dell’amico Zuliani), era venuto a sapere tutto ciò che il signor Brizzi poteva raccontare a persona degna di tanta fiducia come il banchiere Cantelli. Non era molto quel che sapeva il signor Brizzi; ma era quello per l’appunto che il signor Cantelli ignorava, e che gli premeva di conoscere. Il signor Brizzi era il giorno innanzi andato due volte al palazzo Orseolo; la prima, intorno alle nove, per far portare al suo principale il pastrano, lasciato a casa con quel po’ di freddo, che accapponava la pelle; la seconda per portare alla signora Livia un biglietto, in cui suo marito l’avvertiva che non sarebbe andato a casa per l’ora della colazione, bensì solamente per l’ora del pranzo. Una commissione, questa, che il signor Raimondo aveva affidata al fattorino del banco, ma che egli, il signor Brizzi, si era voluto accollare, per riguardo delicato verso la signora Zuliani. Questa, infatti, la prima volta che il signor Brizzi era stato in mattinata al palazzo Orseolo, gli aveva accennato un fiero alterco avuto con suo marito, come cagione del gran rimescolo di lui; era naturale adunque che andasse egli, e non un fattorino. Così avvenne che rivedendo la signora Livia (un po’ tardi, veramente, perchè era uscita, ed egli aveva dovuto far due viaggi al palazzo Orseolo), il signor Brizzi sapesse da lei che cosa conteneva il biglietto. In freddo e reciso linguaggio, Raimondo le manifesteva il suo proposito che niente apparisse mutato tra loro, agli occhi della gente di servizio; quanto alla loro questione, egli l’avrebbe sciolta, e presto, nel modo più netto e più degno, per la pace e l’onore d’entrambi. In quella seconda visita il signor Brizzi aveva trovata la signora Livia assai più agitata che non gli fosse apparsa nella prima. Forse era effetto dell’aver troppo meditato sulle conseguenze dell’accaduto. Comunque fosse, ella non ritornò sull’alterco di quella mattina con nessuna giunta, con nessuno schiarimento che a lui desse lume di quel dissidio coniugale. Ancor più chiuso di sua moglie era stato il signor Zuliani con lui. Solamente, all’opposto di sua moglie, appariva in giornata più calmo, come l’uomo che ha presa una risoluzione e non ha più da stare coll’animo sospeso tra mille dubbi e timori. Il signor Brizzi, nondimeno, avrebbe amato vederlo inquieto, agitarsi, dare nei lumi, anzi che tranquillo, quasi sereno, esporre a lui un pazzo disegno, di cui pareva tutto invasato; ritirarsi dagli affari, cedere il banco, o chiuderlo a dirittura; e ciò nel termine più breve, per levarsi ogni noia. Che idee! per un dissidio coniugale, a cui non voleva neanche accennare! — Te lo dicevo io? — commentò Margherita. — Egli vuol liquidare i suoi interessi, salvar l’onore del suo nome, evitare le ciarle del mondo, e sparir da Venezia prima di mandare ad effetto il suo terribile divisamento. Che uomo! Ma le ciarle del mondo, come le eviterà, colla gente di servizio che ieri mattina avrà sentito ogni cosa? — Nessuno ha sentito; — rispose il signor Anselmo: nessuno, almeno, di quei servitori che potrebbero trovar gusto a rifischiare i segreti dei padroni. Il signor Brizzi ha saputo anche questo dalla signora Zuliani. La gente di servizio dorme al pian terreno, e non sale prima d’una cert’ora al pian nobile, se non è chiamata. Anche la cameriera stava al pian di sotto, facendo la sua prima colazione di caffè e latte, sapendo che la padrona non aveva bisogno di lei fino alle nove. Al pian nobile non dorme altri che il Giovanni, quel servitore che ricorderai d’aver visto, alto, grosso e nerboruto, specie di maestro di casa, tutto devoto al padrone, presso il quale è impiegato da trent’anni e più. “Paron Nane„, come lo chiama il signor Zuliani quando è di buon umore, non apre bocca se non per comando o per utilità del padrone; per tutto l’altro è muto come un pesce. Di modo che, se ha sentito qualche cosa, si può star certi che non ne fiaterà con anima viva. Le parrà che il bravo uomo sia molto diverso da me; — mi diceva il signor Brizzi, conchiudendo; — ma io parlo con Lei, non con altri; parlo con Lei, che so quanto ami il mio principale, e quanto egli debba alla sua vecchia amicizia. Infine se non ci mette la mano Lei, non vedo che altri possa far desistere il signor Raimondo dal suo strano disegno. Ritirarsi dagli affari!... chiudere il banco!... che pazzia! Ma sa, signor mio, che nel banco Zuliani, pure andando coi piè di piombo, come è l’uso del principale, si fanno affari per milioni e milioni, mettendo da parte anno per anno cento e più mila lire, senza contar la levata mensile per le spese di famiglia? — E tu gli hai promesso.... — Naturalmente, di sconsigliare l’amico, appena mi entrasse a parlare di questa follia. — Bene — conchiuse Margherita, tirando le somme. — Sappiamo quel che si voleva sapere. C’è corda tesa, al palazzo Orseolo, non ispezzata; così tesa, non può mica durare! A noi la cura di rallentarla. — In che modo? — Margherita alzò le ciglia ed allungò le labbra. — Mistero! — diss’ella, dando subito in uno scoppio di risa. — babbo, non andare in collera; saprai tutto più tardi. — Poco dopo giungeva Federigo, e si stette a chiacchierare con lui, che doveva uscir tosto colla mamma. Il corredo dello sposo non era anche finito. — Non mi spendere altre dugento lire, mi raccomando, — disse il signor Anselmo alla moglie. — Eh, forse un po’ meno di ieri, speriamo; — rispose la signora Eleonora. — Del resto, oggi si finisce di spendere. E non venite voi altri? — No, grazie; non amo girar botteghe, e sto in riposo; Margherita non ha cuore di lasciarmi qui solo soletto. Usciremo più tardi, e da una parte o dell’altra v’incontreremo di certo. Già, secondo l’uso, Schiavoni, Ponte.... dei Sospiri, Piazzetta, Piazza, Procuratie vecchie, Procuratie nuove, Merceria.... e non si esce di lì. — Margherita e il babbo restarono soli, tratto tratto guardando l’ora; lei al pendolo del caminetto, egli al suo _patek_, nel quale aveva più fede. Poco dopo le tre, fu annunziato il conte Aldini, ed accolto a festa, come prima. Egli appariva un po’ mesto, come sempre, ed anche triste, come la sera innanzi; ma lo sguardo di Margherita possedeva la virtù del raggio di sole, che, dovunque arriva, ravviva. — Ed ora veniamo a noi; — disse Margherita, dopo qualche minuto di ciarle preliminari. — Conte, so tutto, per bontà di mio padre; perdono tutto, per bontà mia. Si contenta? Oh bene! Ma Ella deve appagare un mio desiderio. Ecco là, sul noto tavolino da lavoro, carta e matita. Vuol disegnarmi la pianta del suo quartierino? — Filippo rimase un po’ sconcertato, guardandola, e non sapendo lì per lì che cosa rispondere. — Da bravo, mi contenti! — incalzò la fanciulla. — Le piacerà forse di più che glielo comandi? Non so, e non voglio imparare quest’arte per usarne con Lei; — soggiunse, con una espressione di grazia incantevole. — Mi dirà che il disegno desiderato da me non è il Ponte del Paradiso.... Ma questo lo possiedo. Non è neppure il Ponte.... dei Sospiri, per servirmi della stessa sospensione che dianzi, come per canzonarmi un pochino, ha usato mio padre. Del resto, il Ponte dei Sospiri non mi va; sarebbe di malaugurio. Mi disegni a semplici tratti, ma precisi, tutto il suo quartierino, che lo conosca nella disposizione delle sue parti ancor io. Così, gentilissimo sempre! Ma badi, ci vorrei tutto; la linea della strada, il punto dell’ingresso padronale, l’uscio segreto, coll’andito che lo precede, come è lungo e largo, la scaletta di servizio, finalmente, e il cortile dove questa riesce. — Filippo Aldini era alla tortura. Ma dallo sguardo e dall’accento della sua inquisitrice non traspariva nessuna intenzione di crudeltà raffinate. Soltanto, non veniva a capo d’intendere la ragione di quel capriccio donnesco. — Ma perchè?... — domandò egli timidamente. — Per una curiosità architettonica; — rispose la fanciulla. — Se sarò Margherita Aldini, potrà bene saltarmi l’estro di fabbricare una casa; e voglio sapere.... come non vada fatta una casa. Non si turbi, la prego; ho tutto perdonato, le dissi, e presto avrò tutto dimenticato. Presto! — ripetè Margherita con accento malinconico. — Dio voglia che sia così. Quell’uomo dabbene, a cui siamo debitori di tanto, quell’uomo di cuore non deve morire per cagion nostra. — Nostra? — esclamò Filippo, sconcertato. — Sì, — rispose Margherita, — perchè in verità ci ha un po’ di colpa ancor io. Se non giungevo io, signor Filippo, io, povero astro, sul suo quieto orizzonte, niente accadeva; ciò che doveva estinguersi coll’aiuto del tempo e svanire, avrebbe fatta la sua fine tranquilla, senza scatti d’orgoglio ferito, senza impeti d’ira selvaggia, e senza tutto l’altro che dobbiamo piangere insieme, e scongiurare, se ci verrà fatto, nella sua parte più triste per noi. — Signorina, — disse Filippo Aldini, profondamente commosso, — quell’uomo dabbene, quell’uomo di cuore, mi ha ripetuto tante volte: Margherita Cantelli è un angelo del paradiso. Come la conosceva bene! — Si era commossa anche lei, a quelle parole di Filippo; si era commosso anche il signor Anselmo, che diede prudentemente le spalle per asciugar di nascosto una lagrima. Il disegno, a semplici tratti, e senza indicazione di spessori, non richiedeva un lungo lavoro. In un quarto d’ora il destro disegnatore se n’era sbrigato, aggiungendovi ancora ai luoghi opportuni le indicazioni per iscritto, che Margherita gli veniva chiedendo via via. Verso le quattro entrò un cameriere, portando al commendatore Cantelli un messaggio sul vassoio di rito. Era un telegramma; il signor Anselmo, sbadatamente o pensatamente che fosse, lo aperse e lo lesse, facendo un atto di grande stupore. Ma lo chetò prontamente uno sguardo supplichevole di Margherita. — Le tue amiche.... milanesi; — diss’egli allora, porgendo il telegramma a sua figlia. — Sta bene, sta bene; sono tanto carine! — rispose Margherita, leggendo. E dopo aver letto, richiuse diligentemente il foglio giallo, lo ripiegò in quattro doppi, quanti ne occorrevano per farlo capire in una tasca del suo portafogli minuscolo. Frattanto, aveva levate le pupille al cielo, in atto di ringraziare il Dio delle misericordie. Filippo aveva finito il disegno. Margherita lo ringraziò della sua cortesia, e prese a parlar d’altro; ma a lui, dopo alcuni minuti di conversazione, parve di capire che la sua bella interlocutrice fosse alquanto disattenta. Anche il signor Anselmo, certamente per esser rimasto un pochettino stonato dal telegramma delle amiche milanesi, era disattento da parte sua, anzi, più che distratto, sovra pensiero. E Filippo, dopo essere stato un po’ incerto di quel che dovesse fare, si alzò per prender commiato. Margherita intese il pensiero, di lui, e non volle lasciarlo così addolorato. — Mi trova un po’ distratta, non è vero? — diss’ella, porgendogli la mano, e lasciandola amabilmente in quella di Filippo. — Non ci pensi; non è per Lei, ma per una faccenda che mi preme. Ad ogni modo, mi perdoni questo ed altro. Sì, ho dell’altro da farmi perdonare. Il suo segreto non sarà più conservato in due, ma in tre persone. Non tremi; — aggiunse, stringendogli più forte la mano; — sarà sempre ben custodito. L’essenziale sarà che ad ogni richiesta.... m’intende? ad ogni richiesta possibile, quantunque improbabile, Ella dica di non averlo confidato a nessuno. Soltanto per farle questa raccomandazione, le ho confessato il mio piccolo peccato, che non è neppur tale, e non avrà nessuna conseguenza, ora che possiedo il disegno del suo quartierino. Ella non capirà nulla in questo mio indovinello; ma non importa; capirà poi, e mi approverà. Ci rivedremo stasera? All’ora solita, signor conte; e le giuro che non sarò più distratta. — Così ebbe commiato Filippo Aldini, e ben dolce, poichè tanto a lungo la mano di Margherita era rimasta nella sua. — Ed ora mi dirai.... — incominciò il signor Anselmo, poichè furono soli. Ma la fanciulla non gli lasciò finire la frase. — Caro babbo; — diss’ella, abbracciandolo. — Dobbiamo noi vincere, sì o no, questa battaglia difficile? E salvare quel poveretto? Le armi che ho preparate sono di buona tempra, mi pare, e leali; speriamo che valgano. — Dio ti assista, donna forte! — esclamò il signor Anselmo. — Ma se Raimondo.... — Verrà da me, se mai; ed io saprò difendermi. Ora tu, si capisce, per debito di cortesia, vai incontro.... alle amiche di Milano. L’arrivo è per le cinque e quarantatrè. Si capisce ancora che tu mi conduci con te alla stazione. — Il signor Anselmo tentennò il capo e sorrise. — Non ci mancherebbe altro che ci andassi da solo! — rispose. — Con tanta carne che hai messa al fuoco, Dio sa come mi troverei impacciato! — Erano suonate le quattro, e con le quattro era di ritorno all’albergo la signora Eleonora, accompagnata dal suo Federigo. — Vi potevamo aspettare! — diss’ella. — Sì, hai ragione; — rispose placidamente il signor Anselmo. — Come disse quella gentildonna ai suoi convitati: “perdonino, mi ero dimenticata in biblioteca„, così noi ci siamo dimenticati in chiacchiere. Ma non dubitare, ci rifacciamo subito anche noi. — Dove andate? — Alla stazione, incontro ad un amico di babbo;-entrò a dire Margherita. — Saremo di ritorno, ad ogni modo, per l’ora del pranzo. — Uscirono, padre e figliuola, presero una gondola, e si fecero cullare sulle acque del Canal Grande, che a lume di tramonto erano bellissime. Ammirarono i bei palazzi, così degni di osservazione, nella diversità delle forme architettoniche e nella varietà degli stili. Di là dal ponte di Rialto, Margherita sporse il capo fuori del felze, e tese lo sguardo cercando il palazzo Orseolo, uno dei più graziosi di Venezia, notevole per la eleganza delle sue cornici, delle sue modanature, e più per le sue finestre ad arco acuto, dai terrazzini sporgenti, vagamente intessuti di pilastrini ornati a fogliami e di rosoni traforati, nello stile del Quattrocento. — Povero signor Raimondo! — mormorò la fanciulla, quasi parlando a sè stessa. — Che vita, la sua! — La gondola guizzò oltre, leggera leggera. Poco prima delle cinque erano già alla stazione. Ci avevano da aspettare un bel pezzo, e spesero il tempo passeggiando. Il signor Anselmo, che quel giorno era rimasto così lungamente seduto, non ebbe certo a dolersene. Margherita, per contro, aveva da infastidirsi non poco, vedendosi fatta argomento di tante ammirazioni d’una turba di peripatetici aspettanti. Non è poi vero che a tutte le donne belle piaccia di essere ammirate, specie con troppa insistenza. Quelle che n’hanno fastidio pensano di sicuro che ad una dose più scarsa di ammirazione potrebbe accompagnarsi benissimo una dose più abbondante di reverenza, o di tatto. Il treno delle cinque e quarantatrè arrivò miracolosamente puntuale. Margherita l’ebbe per un segno di buon augurio. Tra le poche persone che scendevano dalle vetture di prima classe, indovinò quella che aspettava, e le corse incontro, indovinata a sua volta: si ricambiarono i nomi, si presero per braccio, e si trassero in disparte sulla calata, discorrendo animatamente sottovoce. Parecchie cose dovevano essere state già dette per lettera; ora la signorina Cantelli aggiungeva utili ragguagli, o colmava lacune. La stazione si era già tutta vuotata di viaggiatori e di aspettanti, quando Margherita e la sua nuova compagnia si decisero ad uscire. Sul ponte si separarono; la persona misteriosa strinse la mano al signor Cantelli, presentato in quel punto; poi quella discese in una gondola; Margherita e suo padre nell’altra, che li aveva portati, e che doveva restituirli alla riva degli Schiavoni. Giunsero all’albergo prima dell’ora di pranzo; alquanto sollevati di spiriti, come chi si conforta nella coscienza di aver fatto il debito suo; ma pensosi, come chi, arrivato al punto della prova, dubita istintivamente della bontà d’un suo ritrovato, ond’era poc’anzi ben certo. Son quelli i momenti che il facile incomincia a parervi difficile, e il difficile vi diventa impossibile. Ahimè, non son tutti sicuri, i meglio architettati disegni, come non son tutte rose nel giardino della vita; il qual giardino è troppo spesso una landa. Per nascondere la sua ansietà, Margherita tirò accortamente i discorsi di tavola sulle compere fatte dalla mamma in quei giorni, pel corredo del suo Federigo; quel famoso corredo che doveva accordarsi nelle sue parti con tanti climi e temperature differenti sulla faccia del globo. La signora Eleonora aveva pensato a tutto; non la trovarono mai in fallo, nè mai la colsero alla sprovveduta. Così vigile è l’amor materno, che aguzza l’ingegno alle creature più tarde. Del resto, non era tarda d’ingegno, la signora Eleonora; solamente un po’ dubitosa, non ben sicura di sè; piccolo difetto che non istarebbe male, in guisa di correttivo, agl’ingegni più pronti. Una fissazione dell’ottima signora era questa, che le navi da guerra non dovessero prendere il largo altrimenti che a primavera, come le antiche galere. E per intanto vagheggiava l’idea che la corvetta non fosse pronta per la fine del gennaio. Ah, un altro mesetto di armamento! Si sarebbe potuto far assistere Federigo alle nozze di sua sorella. — Ma sì! — aggiungeva facetamente il signor Anselmo. — Vedrai che il governo seguiterà a non indovinarne mai una; e questa volta, per far dispetto alla moglie d’un commendatore, si sbriga. — Così ingannavano il tempo tutti e quattro; e due di essi ingannavano anche l’ansietà onde erano divorati. Alle nove in punto arrivò il conte Aldini, e la corvetta e il suo armamento passarono in seconda linea. Il signor Anselmo prese a discorrere di politica spicciola, come la recavano, per favorire la digestione dei popoli, i giornali della sera. Margherita parlò di teatri, facendoli presto piacere al nuovo venuto, che in verità non n’era mai andato pazzo, trovandoli tutti a lor volta nemici di qualche senso umano, o assordanti, o accecanti, o indigesti, o scipiti. Margherita conosceva già la teorica dell’Aldini, e rammentava di non averla neanche combattuta. Per quella sera, tuttavia, un pochino di controversia avrebbe fatto buon giuoco. — Sostenga lei un’opinione; — diss’ella; — io sosterrò l’altra. — È impossibile, signorina; — rispose Filippo — e sarà sempre impossibile tra noi. Se Ella esprimerà un pensiero diverso dal mio, io lascerò il mio per conformarmi subito al suo. — Perchè, signor conte? Le idee possono esser molte, e le opinioni diverse. — Vero; e può anche esser piacevole di abbracciar l’opinione.... dell’avversario. — Il quale, — ribattè Margherita, — non si troverà molto soddisfatto di vincere senza aver combattuto. — Verissimo; mi persuade; — conchiuse Filippo, dandosi tosto per vinto. — Ah, ora lo fa apposta; — notò Margherita. — Ma no! — Ma sì! — Ella ha ragione; — conchiuse Filippo una seconda volta. — E vede? — soggiunse, a mo’ di commento, — vede, da questi piccoli esempi? Tra due che discutono, volendo ognuno di essi aver ragione, ce n’è sempre uno.... che merita di averla. E l’altro ha ragione a suo modo, rinunziando alla sua opinione. Vuol dire di no! Ed io son tanto lieto di darle ragione, che ancora una volta, e sempre, dirò come Lei. — Anch’egli, in questa piccola scherma, cercava d’ingannar la sua cura; una cura tanto più molesta al suo spirito, in quanto che doveva essere inerte, non obbligandolo a scuotersi, a darsi moto, per iscongiurare un gran guaio. Tutto era in mano di Margherita; ed ogni sua speranza era in lei. Che cosa aveva ella incominciato a fare? I suoi misteri del pomeriggio erano pieni di promesse; la sua allegrezza di quella sera egualmente. Ma poteva anch’essere un’allegrezza mentita; o non significar altro se non questo, che ogni lavoro di difesa o d’approccio della guerriera animosa era rimesso al domani. Così viveva ancor egli dubbioso, tra speranza e timore. Sulle dieci, mentre la conversazione languiva, si udì un rumore di passi frettolosi su per la scala. Bussarono all’uscio del salotto, ed entrò un cameriere annunziando il signor Antonio Brizzi. — Fate passare; — disse il signor Anselmo, alzandosi tosto per muovere incontro all’inaspettato visitatore. — Oh, bene! — Ma l’esclamazione di giubilo morì sulle labbra del signor Anselmo, al vedere il signor Antonio affacciarsi sulla soglia, pallido, anelante, e con gli occhi stralunati. — Che cos’è stato? — domandò allora. — Entri, la prego, e richiudiamo l’uscio. Per amor di Dio, non ci tenga in pena! — Il povero signor Brizzi durava fatica a contenersi. Parole e lagrime gli facevano nodo alla gola. — Una disgrazia.... — balbettò; — al palazzo Orseolo.... una grande disgrazia!... — XIX. Al palazzo Orseolo. Raimondo non era ancora tornato a casa, quando fu annunziato alla signora Zuliani l’arrivo della sua inaspettatissima suocera. N’ebbe una scossa di nervi, un tuffo di sangue al cervello, un rimescolo per tutte le fibre. Ma bisognava striderci, e andarla a ricevere. Le due donne si guardarono a lungo, dopo il saluto strettamente necessario; non si baciarono, non si strinsero la mano. La signora Adriana si presentava in sembiante di giudichessa. C’era tanta espressione di dolore in quella figura veneranda, che Livia ne fu sgomentita e umiliata. Ad un certo punto, essendo uscito il servitore, come soggiogata dallo sguardo severo della vecchia, si buttò ginocchioni, tentando di afferrarle la mano. — Mamma! — gridò, con voce lagrimosa. — Cessate! cessate! — disse la signora Adriana, ritraendosi. — Dov’è mio figlio? — Sarà a casa per le sette. Ma non mi perdonerete voi? — Non è mio ufficio, perdonare. Dio vede i cuori; Dio giudica le opere e le intenzioni; egli solo può perdonare; non io. — Livia chinò la fronte, avvilita. Si sentiva mancare, già sfinita com’era da quei due giorni terribili. Il giorno innanzi, Raimondo era venuto a pranzo, ma preceduto da una lettera, che fissava i termini delle loro relazioni, pel breve tempo che sarebbero ancora durate. In presenza delle persone di servizio si era mostrato tranquillo, come se niente fosse accaduto fra loro; aveva discorso di cose vane; poi, subito dopo il caffè, si era ritirato nella sua libreria. Ella, di tanto in tanto origliando agli usci, lo aveva sentito scrivere, rovistar carte, scrivere ancora fino alle undici, e poco dopo andarsene a letto. Fortuna che non erano giorni di ricevimento serale per lei, da obbligarla a sforzi di volontà, di padronanza sull’animo suo, che certamente non avrebbe potuto durare. Spossata, rifinita, era andata a letto tardissimo, passando la notte in un dormiveglia doloroso, pieno di tristi visioni e di oscuri terrori. Quel giorno, poi, a colazione, era stata la medesima scena. Egli, tranquillo al solito, non taciturno in presenza dei servi, aveva sparsamente condito il breve pasto con piccoli discorsi, e tutti di piccole cose. Aveva perfino toccato di affari, egli che in casa se n’era sempre astenuto; operazioni sbagliate del governo sulla rendita, conseguenti ribassi, fallimenti probabili, rallegrarono la conversazione domestica. Ella era disfatta, quel giorno, quasi sformata nel viso; tanto che la cameriera, osservandola, non aveva potuto trattenersi dal dirle: — Signora, si sente male? Vuole che mandiamo pel medico? — Che! che! — aveva risposto. — Sono i miei soliti sconcerti nervosi. Frutti di stagione! Che cosa potrebbe dirmi di nuovo il dottore? Stasera, per dormire e rifarmi, prenderò il cloralio. — La sua, frattanto, era una condizione intollerabile. Raimondo le aveva scritto, il giorno innanzi, di voler sciogliere la loro questione, presto, nel modo più netto e più degno, per la pace e per l’onore d’entrambi. Quale era il modo immaginato da Raimondo? Ah, lo sapeva ben lei! ed ora, capitava la suocera; non aspettata, non desiderabile, al certo, in quello stato d’angoscia. La signora Adriana, che a Venezia e nella casa del figliuolo era comparsa in sette anni tre volte, e da oltre un anno non si lasciava vedere, per qual cagione si presentava allora, senza neanche il pretesto di una occasione solenne? Chiamata da Raimondo, forse? Anzi senza il forse; non mostrava ella, appena arrivata, di saper tutto, o quasi? Ne faceva testimonianza manifesta la sua severità, che superava di tanto la freddezza consueta delle sue relazioni con la nuora; si aggiungevano a quella severità di contegno le sue parole così gravi, e lo sdegnoso rifiuto di ragionare con lei, di perdonarle, di ascoltarla almeno. Venne Raimondo poco prima delle sette. E fu meravigliato, alla vista di sua madre; parve quasi sconcertato all’aspetto. Ma il sentimento figliale vinceva; si buttò nelle braccia della donna veneranda, reprimendo a tutta forza le lagrime. Non voleva piangere, no, non voleva dar saggio di commozione soverchia. — Figlio mio! figlio mio; — gridava la vecchia signora, non saziandosi di baciarlo, di guardarlo negli occhi, e di baciarlo ancora. — Eccolo qua; — rispondeva Raimondo sforzandosi di sorridere a quella effusione violenta di affetto materno. — Eccolo qua! Ma anche tu, mamma.... che bella improvvisata ci hai fatta, quest’oggi! — E non proseguì, vedendo negli occhi e nelle labbra di sua madre che quel plurale non tornava gradito. La fiera nemica delle nozze di lui non aveva ancora disarmato, non si era ancora piegata a consigli più miti. Ahi, come presaga, sette anni addietro, dei danni che quelle nozze avrebbero apportato al suo figliuolo infelice! Il pranzo riuscì freddo in tre, più che non fosse stato quello del giorno innanzi in due. La conversazione, ad onta degli sforzi evidenti di Raimondo, era impacciata e ad ogni tanto interrotta, segnatamente per la risoluzione della signora Adriana di non rivolger mai il discorso a sua nuora. Di ciò che venne in tavola, poi, la signora Adriana assaggiò a mala pena. Aveva fatto più che uno spuntino in viaggio, diceva lei, nella fermata di quasi un’ora a Treviso, dove il treno di Belluno aspettava il treno di Udine. Una scusa, certamente; e il fatto era questo, che la vecchia signora non aveva volontà di mangiare. Subito dopo il caffè la signora Adriana volle ritirarsi nel suo appartamento. Al terzo piano del palazzo Orseolo erano sempre due camere preparate per lei. Fece per saluto alla nuora un cenno del capo, e si mosse. Il figlio l’accompagnò, dandole il braccio. Livia rimase sola, in preda ad un’agitazione indicibile. Raimondo, da un quarto d’ora uscito di là per accompagnare sua madre, non discendeva. Senza dubbio si discorreva molto, lassù, si facevano liberamente tutti i discorsi che in presenza di lei non si erano potuti fare. E si sentiva fischiare gli orecchi di tutte le cose spiacevoli che in quel mentre si dicevano di lei. Il sangue le martellava alle tempie; vampate e brividi, alternandosi con frequenza, davano indizio di febbre crescente. A un certo punto non potè più resistere all’inquietudine che s’impadroniva di lei. Balzò in piedi, e corse alla scala interna che metteva al piano superiore; stette alquanto in ascolto; poi guardinga salì fino al corridoio che collegava parecchie camere dell’appartamento superiore. Arrivata ad un certo punto, di là da quelle che occupava la signora Adriana, poteva anche nascondersi dietro una svolta, caso mai fosse per uscir suo marito. Di servi, che capitassero lassù, non aveva timore. Quella era appunto l’ora che, sparecchiata la mensa dei padroni, la gente di servizio, tutta raccolta a pianterreno, si assideva tranquillamente alla sua. Così d’ogni parte sentendosi abbastanza sicura, si accostò all’uscio della camera in cui madre e figlio stavano parlando insieme, e tese l’orecchio. Erano frasi rotte da prima, e non era possibile intendere a qual punto delle loro confidenze già fossero i due; ma il nome suo ricorreva nel discorso più volte. “Livia„ diceva il figliuolo; “quella donna„ diceva la madre. Ma questa a grado a grado si veniva riscaldando, e la sua voce giungeva finalmente più chiara. — E per quella donna, infine, ti uccidi! Perchè? — incalzava la signora Adriana. — Uccidermi! Io? — rispondeva con accento turbato Raimondo. — Chi ve lo ha detto? Chi ve lo ha scritto? Quell’uomo? Sarà un’altra infamia sua. Il suo tradimento, il mio diritto di vita e di morte su lui, ne facevano il mio schiavo. Se la sorte, proposta generosamente da me, gli era stata propizia, egli tanto più doveva obbedirmi e tacere. — Non accusare quel disgraziato, — replicava la vecchia signora. — Vi ha uditi una coraggiosa fanciulla; Margherita Cantelli. — Margherita!... E come? come ha potuto?... — Non so, ma certamente era lei. In compagnia di suo padre, voglio credere.... Non hai tu, ad un certo punto del tuo orribile colloquio col signor Aldini, non hai tu sentito un rumore, che veniva da una cameretta vicina?... un rumore d’uscio che si chiudeva?... — Sì, ebbene?... — Quella fanciulla, attratta da un suo capriccio donnesco nel quartierino del suo fidanzato, non volle esser colta là dentro da estranei; si era rifugiata in quella cameretta, presso una porticina di servizio, donde poteva trafugarsi. Prima di uscire per quell’altro passaggio, volle ascoltare, sapere chi fosse il visitatore del suo fidanzato. Curiosità? gelosia? Comunque fosse, ascoltò, udì il vostro patto feroce. Sbigottita, non volle udire più altro; aperse l’uscio segreto e fuggi. Se tu la inseguivi, eri in tempo per vederla, e per riconoscerla. — Raimondo era rimasto muto, certamente pensando alla stranezza del caso. E Livia frattanto pensava: — Ella ha dunque voluto sostituirsi a me.... in ogni cosa? Ma infine, perchè? Non forse per salvare Raimondo? Coraggiosa!... — Ed accolse nell’animo un raggio di speranza. Era Margherita, che aveva così prontamente avvertita la madre di Raimondo, chiamandola in soccorso. Quella madre avrebbe certamente adoperata tutta la sua autorità. E lei, Livia, lei, cagione di tutto il male, non era stata capace di una così buona ispirazione, di un così felice ardimento! Ma il raggio di speranza che era penetrato nell’anima di Livia, impallidì tosto, fu per ispegnersi alle parole di Raimondo. — O madre, madre mia, tutto è vano oramai. La maledizione del cielo si è aggravata su me, dal giorno che ho disobbedito alle tue esortazioni, resistito ai tuoi consigli amorevoli. Ma tu lo vedevi bene.... ed avresti dovuto perdonarmi.... amavo quella donna.... e l’amo ancora, odiandola, con tutte le forze dell’anima. Per me, dunque, è finita. E come vuoi tu ch’io possa vivere? Separandomi da lei? Sarebbe uno scandalo. Voglio morire da gentiluomo, rispettando le donne, anche quando tradiscono. Ho giuocata la mia vita con quell’uomo, nel modo più leale e prudente. Poichè tu sai ciò che la sorte ha deciso preparati. Io non posso più vivere. — Prepàrati! — ripetè la signora Adriana, con accento di profonda amarezza. — Prepàrati! E sei tu che parli così? Quella infame ti ha dunque guastato a tal punto l’anima e il cuore? Prepàrati! Quando mai potrà prepararsi a questa angoscia un cuore di madre? Ho saputo il patto terribile; e perchè l’ho saputo, son corsa a gridarti: no, per una disgraziata, per una impura, traditrice della fede giurata, non si fa ciò. Il tuo amico pentito.... sappilo; quella animosa fanciulla me lo ha giurato con le lagrime agli occhi, venendomi incontro, all’arrivo.... si ucciderà egli pure, se tu manterrai quel patto dissennato. E tu, illuso, credevi di poter condannar lui alla vergogna di vivere, di esser felice, a prezzo della tua morte! Ma già il primo a non voler più la felicità di quell’uomo, sarà il padre di lei, un vecchio onorando, che tu avrai profondamente addolorato, fors’anche accorciandogli il vivere. E speri di evitare gli scandali? Ma tu li aggraverai, uccidendoti. — Mamma! — gemette Raimondo, supplichevole, — Sì, fammi il tenero, con quel cuore di sasso! Ucciderai altri, per intanto; e prima di tutti tua madre. Morirò, sì, maledicendoti, allora. Ma che cos’è questo vostro furor di morte? — gridò la povera donna, animandosi sempre più. — La vita è vostra, forse? Non di chi ve l’ha data? Non delle vostre famiglie? Non del vostro paese e del mondo, che aspettano opere virtuose e nobili esempi da voi? Vigliacchi, che avete solamente il coraggio di sottrarvi ad una piccola pena! Sì, piccola, e vergognosa ancora, come è sempre una forte passione per una creatura che se ne mostra indegna, per una donna che vi ha tradito, per una donna che vi ha disprezzato, per una donna che avrà ancora la soddisfazione di esser liberata dalla vostra presenza, di ereditare da voi la ricchezza che le avrete lasciata, il rispetto del mondo che le avrete assicurato, come premio del suo tradimento.... Livia, nel colmo dell’angoscia, tendeva verso l’uscio le palme è le labbra supplicanti. No, non è vero, voleva gridare, no, non sarà! E l’avrebbe gridato, se la vergogna del farsi trovar là in ascolto non l’avesse trattenuta. Fremente, tremante, sconvolta, si appoggiò alla parete, per ricuperar le sue forze vacillanti; e pensava, frattanto, vedeva tutto l’orrore della sua condizione, insieme con l’avverarsi possibile degli orrendi pronostici della signora Adriana. Oramai non voleva ascoltare, non poteva udire più altro. Si tolse di là; con uno sforzo supremo misurando il passo e trattenendo il respiro, mosse verso il corridoio e scese la scala. Sul pianerottolo, al chiarore d’un lume sospeso alla parete, giganteggiava un’ombra, che veniva su dalla scala inferiore. N’ebbe terrore, a tutta prima; poi riconobbe il servo Giovanni, il fedele di suo marito. — Giovanni, — gli disse, cedendo ad una subita ispirazione, — il padrone è su con sua madre. Ragionano d’interessi. Nessuno vada lassù a disturbarli; e molto meno donne, avete capito? — Non dubiti, signora; — rispose il colosso. — Mi pianto qui, e non passerà anima viva. — Livia andò allora nella sua camera. Vi rimase a mala pena tre minuti; poi ricomparve sul pianerottolo, più agitata che mai. Giovanni era là, ritto impalato al suo posto di sentinella. — Giovanni, — gli disse la signora, — portate su questa lettera al padrone. È una risposta, che aspetta. — Il servo prese la lettera ed obbedì al comando della padrona, facendo col peso del suo corpo d’atleta un gran rumore su per la scala. Non voleva sentire, il brav’uomo; perciò voleva esser sentito. Infatti, al rumore de’ suoi passi, Raimondo interruppe il suo doloroso colloquio colla mamma; schiuse l’uscio Iella camera ed apparve nel corridoio. — Che c’è? — domandò egli, vedendo Giovanni, che per allora, ahimè, non poteva chiamare “Paron Nane„. — La signora.... — disse il buon servitore, — manda questa lettera. È la risposta che Vossignoria aspetta, mi ha detto. — Raimondo lì per lì non comprese che cosa dovesse egli aspettare. Ma tolse dalle mani del servitore la lettera, lo rimandò ai fatti suoi, e rientrò nella camera di sua madre. Colà giunto strappò la busta, lesse in un batter l’occhio (così breve era il messaggio di Livia!), gittò un grido, e il foglio gli cadde di mano. Lo raccolse la signora Adriana, e lesse a sua volta; “Obbedisci a tua madre, e vivi. Mi levo io da soffrire, e levo tutti di pena. E dire che ti amavo! Non ho amato altri che te. Lo sento e posso dirlo in quest’ora, che Iddio sta per giudicarmi. “La tua povera _Livia_.„ La signora Adriana trasse un profondo sospiro, e seguì il suo Raimondo, che già era fuori, facendo a precipizio la scala. — Giovanni, — gridava egli, incontrandosi sul pianerottolo col servitore di sentinella, — dov’è la signora? — Nelle sue camere, credo. Di là è uscita, per consegnarmi la lettera. — Raimondo corse affannato nelle stanze di Livia. Nel piccolo studio, ov’ella certamente aveva scritto, non c’era; nella camera da letto, nemmeno. Ma era aperta la finestra, e l’aria pungente della sera si cacciava dentro, facendo tremolare la fiamma d’una candela accesa, sulla lastra di marmo d’un cassettone. Atterrito, il poveretto si affacciò al terrazzino, l’ultimo a destra, sulla facciata del palazzo Orseolo, e di lassù gli venne all’orecchio un vocìo confuso, che muoveva dal traghetto vicino. Seguiva un pronto agitarsi di gondole, e tosto un grido che dominava tutte le altre voci: “una donna nel Canale!„ Non volle udirne di più; passato veloce tra sua madre, che era lì esterrefatta sull’uscio, e il fedel servitore che prese tosto a seguirlo, corse in anticamera, aperse l’uscio e guizzò per la scala fino alla gradinata che metteva sull’acqua e chiamò a gran voce una gondola, che tosto accorse per portarlo verso il traghetto. Alla luce dei fanali vide allora un corpo di donna che alcuni gondolieri avevano poc’anzi afferrato, quasi pescato a fior d’acqua, e che traevano a riva, chiamando gente in aiuto. — Il signor Zuliani! il signor Zuliani! È la sua signora, che si è gettata in acqua. — Caduta; — tuonò in accento di correzione una voce, al cui suono il signor Zuliani si volse, riconoscendo il suo fedel servitore, che lo aveva seguito ed era entrato con lui, senza che egli pur ne avvertisse la presenza, nella medesima barca. — Giovanni, un medico! Prendi il primo che trovi; poi va a cercare il dottor Teodoro. — Sarebbero venute opportune le cure dei medici? La povera donna era fuori dei sensi, come morta, e grondante sangue dal capo. Intanto, chiamato da alcuni pietosi, accorreva un medico dalla farmacia più vicina; vide il caso, che gli parve disperato, e ordinò che per intanto la signora fosse al più presto levata di là, dove non c’era modo, tra per la calca e per la scarsità della luce, di fare un’esplorazione convenevole. Tutti volevano aiutare, a sollevar la giacente: Giovanni si fece avanti a spintoni, e alzandola di soppeso tra le erculee braccia, mosse veloce verso l’uscio da tergo del palazzo Orseolo, che fu tosto richiuso com’egli fu passato, insieme col padrone, col medico e due o tre più solleciti aiutatori. Accorrevano intanto sulla scala le persone di servizio, gridando, gemendo, ma soprattutto chiedendo notizie. — Caduta! che disgrazia! caduta! — ripeteva il portatore del prezioso fardello. E giunto nell’anticamera, si faceva spalancare l’uscio delle stanze interne, dove entrando veloce andò a deporre la infelice padrona sul letto del signor Zuliani. Perchè là, e non due camere più oltre, sul letto della signora? Il perchè era presto detto; la camera del signor Raimondo era più vicina all’anticamera: premeva al buon servitore di non isballottare più a lungo quella povera carne semiviva. Ciò fatto, e lasciando il dottore al suo pietoso uffizio, come il signor Zuliani alla sua desolazione, Giovanni prese in disparte uno dei volenterosi aiutatori che si erano introdotti in casa. Era una sua conoscenza, e se ne poteva fidare. — Bortolo, — gli disse, — fa un’ottima cosa, anzi due. Va in Calle larga San Marco, e cerca il dottor Teodoro Del Vago: o alla farmacia Mantovani, o in casa sua, che è a due passi dalla farmacia. Poi passa al _Cappello Nero_ e chiedi del signor Antonio Brizzi, segretario del banco Zuliani. Se non c’è, ti diranno dov’è andato. E l’uno e l’altro vengano al palazzo Orseolo. — Una moneta da due lire, tolta generosamente dal peculio privato di “Paron Nane,„ scivolava intanto nelle mani di quell’altro, che promise di fare le due commissioni a puntino, e per intanto fu lesto a infilare la scala. “Paron Nane„ non aveva ancora finito di darsi attorno. Fatto un giro a destra, come per andare a chiudere usci e finestre nelle stanze vicine, entrò in quella della padrona. Non c’era nessuno, e la candela accesa seguitava a consumarsi sul cassettone, sotto lo sventolìo della fiamma al riscontro dell’aria. Egli spense prudentemente la bugia traditora, e nel buio della stanza si affacciò al terrazzino. Sporse il capo infuori, come dianzi aveva fatto il padrone. Non c’era nessuno, là sotto, tra il muro del palazzo e i pali del Canale; la ressa delle barche era tutta al traghetto, un cinquanta passi lontano; quella dei curiosi era divisa fra la riva del traghetto e le strade a tergo del palazzo. Si vociava, laggiù, e il rumor delle voci piacque a “Paron Nane„ che per suo gusto lo avrebbe voluto anche più forte. Ed egli, allora, allargando le palme poderose sul davanzale del terrazzino, fece in buon punto, e in tre tempi, da vecchio soldato, quello che gli era passato per la mente di fare. Nella camera di Raimondo, frattanto, dopo aver liberata la povera signora dalle sue vesti inzuppate, il medico faceva le sue esplorazioni. La ferita del capo non pareva che dovesse essere gravissima; la capigliatura abbondante aveva ammorzata la violenza del colpo; forse anche era da credere che, cadendo col capo all’ingiù, la vetta del cranio fosse scivolata per sua fortuna sulla testa tondeggiante d’un palo. La giacente, per altro, non era rinvenuta ancora; poteva temersi d’una commozione cerebrale, come anche d’una commozione viscerale; onde il medico prudente non si arrischiava di dare un responso. Ma a poco a poco, frizioni ed aspersioni recarono frutto; l’inferma incominciava a riaversi, dandone segno con un rammarichio sommesso, e poscia con gemiti. Sopraggiunse indi a poco il medico di casa, e si unì tosto colla esperienza dell’arte sua alla operosità del primo venuto, approvando, anzi, tutto ciò che aveva incominciato a fare il collega. E non adulava per convenienza professionale, il dottore Del Vago; quel collega trovato per caso era veramente dei buoni. Eccellenti ambedue; ma il povero Raimondo era disperato, vedendoli ambedue così pieni di ansietà e così reluttanti a dargli speranze, a dirgli almeno ciò che pensavano. E fece un gesto di rabbiosa impazienza, quando vennero a dirgli che un signore, capitato allora, chiedeva di parlare con lui. — Chi è! che cosa vuole? — Uno della questura; — rispose il servo. — E pare, a giudicarlo dall’aspetto, un pezzo grosso. — Ditegli che non sono in istato di ricevere. Abbia compassione; ripassi domani. — Se mi permette.... — entrò a dire Giovanni. — Lo faccia passare. Sarà venuto per sapere come è avvenuta la disgrazia. Gliela spiego io. — Ma.... che cosa vorresti spiegare?... — disse Raimondo, turbato. — Mi lasci fare, signor padrone; si fidi di me. — Raimondo lo lasciò fare, e lo seguì in anticamera, dove riconobbe il visitatore. Pel bisogno di prendere informazioni bastava un delegato; trattandosi della famiglia Zuliani era venuto il signor questore in persona. Raimondo lo accolse come meglio potè; ma non sapeva che dirgli, tanto era sconvolto. Venne uno dei dottori, e sommariamente descrisse all’egregio ufficiale lo stato dell’inferma; la quale era ritornata in sè, finalmente, lasciando loro aprir l’animo ad un fil di speranza; filo leggero, per altro, ancor troppo leggero. Il signor questore si profuse in condoglianze, com’era il caso davvero. Ma come era andato il fatto doloroso? La domanda era naturalissima; nè egli, nè altri in quell’ora e in quella condizione poteva astenersi dal farla. Gli spiegò il buon servo Giovanni ogni cosa, conducendo il degno personaggio, insieme col signor Raimondo, nella camera della signora, e di là fino alla soglia del terrazzino. — Badi, illustrissimo; — gli disse, trattenendolo a quel punto; — non si affacci, per carità. Vede che cos’è stato? — Il terrazzino reggeva ancora dal piede e dai fianchi; ma il parapetto era andato. — Vedo, vedo; — disse il signor questore, ritraendosi. — La povera signora s’è appoggiata al davanzale; il parapetto ha ceduto.... — Proprio così, com’Ella saviamente osserva; — soggiunse quell’altro. — La signora aveva l’uso ogni sera di affacciarsi di lì, guardando sul Canale, mentre faceva prender aria alla camera. Maledette anticaglie! L’ho sempre detto, io, che un giorno o l’altro questi parapetti avrebbero fatto qualche brutto scherzo. Dio sa da quanto tempo le staffe di ferro si erano corrose, e i pezzi di marmo stavano ritti per miracolo. — Il parapetto parlava chiaro: diceva nella sua medesima assenza come fosse andata la cosa. E il signor questore, rinnovate le sue condoglianze, si accomiatò dal signor Zuliani, esortandolo ad esser forte, a sperare. Prima di seguitare il dottore, che già si era mosso per ritornare presso l’inferma, Raimondo andò verso il suo servitore che stava chiudendo le imposte della finestra malaugurata. — Che è ciò? — gli chiese, accennando il terrazzino. — Giovanni diede anzitutto una guardata sospettosa intorno, poi ammiccò al padrone, mostrandogli le sue braccia nerborute, e facendo l’atto di scrollare davanti a sè qualche cosa. — La gente non avrà da malignare; — disse egli poscia, a mo’ di commento. Il signor Zuliani capì, e gli strinse la mano. In tutt’altra occasione gli avrebbe battuta la palma sulla spalla chiamandolo “Paron Nane„. Ma non era quello il momento. Capitò in quel mezzo il signor Brizzi, ed ebbe, insieme con le altre, la notizia del parapetto caduto. Ci credette egli, che sapeva già tante cose di quelle due tristi giornate? Sì e no; ma pensando da uomo accorto che non fosse savio nè utile scandagliare il fondo delle cose. Egli, prima di accorrere presso il suo principale, aveva avvertiti i signori Cantelli, che gli erano più vicini, e che certamente, trattandosi d’una sventura come quella, così grave per il signor Zuliani, non dovevano essere lasciati in disparte. Quando il signor Anselmo e Margherita giunsero al palazzo Orseolo, i due dottori erano ancora presso l’inferma; sicuri oramai che la commozione cerebrale si dovesse escludere; non altrettanto sicuri quanto alla commozione viscerale. E l’uno e l’altro, ad ogni modo, avrebbero passata la notte in casa Zuliani. Raimondo vide i due ultimi visitatori, a lui tanto cari. Gittò le braccia al collo del signor Anselmo e diede in un pianto dirotto. — Coraggio! — gli disse Margherita, anche essa più morta che viva! Coraggio! Il povero Zuliani non sapeva più che cosa fosse oramai. — Ah! — mormorò egli, oppresso, sfinito dall’angoscia. — Il mio cuore è spezzato. — XX. Lontano, lontano! No, non era spezzato; era colmo, rigurgitante di amore; di un amore sepolto, compresso, che risorgeva più violento di prima. Ebbro di amore e di dolore, Raimondo Zuliani stette per molti giorni sospeso tra morte e vita, perchè tra morte e vita si dibatteva quella povera carne sofferente. Quando ella incominciò a riaversi, a riprender conoscenza del mondo circostante, vide Raimondo al suo capezzale. Stette cogli occhi lungamente immoti, involgendolo d’uno sguardo intenso; poi richiuse le palpebre mentre le guance si tingevano d’un lieve rossore. — Perchè non lasciarmi morire? — diss’ella, con un filo di voce. — No, no, non voglio che tu parli così; — proruppe Raimondo, con accento di tenerezza, chinando il volto su lei, fino o toccarle con le labbra la fronte. — È necessario che tu viva, m’intendi? è necessario. La mamma se tu la vedessi, com’è rimasta abbattuta!... La mamma.... ti perdonerà. — Raimondo non parlava di sè; egli aveva già perdonato fin dalla sera fatale; o, per dire più veramente, un’altra esistenza era incominciata in lui, come in lei, rinnovandoli entrambi. La signora Adriana, lontana in quell’ora dal letto dell’inferma, aveva ben veduto il mutamento del suo Raimondo: lo aveva veduto, e compativa e taceva. Un po’ debole d’animo, il suo caro figliuolo! Così poteva giudicarlo altri, non lei. E forse era tale; ma per contro era forte la passione riaccesa nel suo cuore dall’ultimo addio e dall’atto disperato di Livia. Di vincere la signora Adriana si prese cura la signorina Margherita, che da più giorni incalzava Raimondo con sempre nuovi argomenti, vedendo omai la probabilità di far breccia. E come trepidò egli, aspettando da Margherita la risposta di sua madre! E come si sentì sollevato, quando Margherita venne a dirgli che la signora Adriana intendeva tutto, e di gran cuore avrebbe perdonato alla nuora! — La mamma perdona? — gridò egli, raggiante di allegrezza. — A questo patto soltanto io potevo accettare di vivere. — Margherita abbracciò quell’uomo, che mai come allora si sarebbe potuto chiamare il buon genio di lei, l’arbitro del suo destino, l’autore della sua felicità. — Ella rende la vita anche a me; — diceva ella al signor Zuliani; — e la rende ad un poveretto, che non le sarebbe sopravvissuto davvero! — Lo crede? — Ne sono certissima. Glielo dimostri la mia gratitudine. — Raimondo stette un istante pensoso. — Mi resta un dubbio; — diss’egli. — E non lo esprimo già per chiedere a Lei una parola che consoli il mio amor proprio. Non ne ho più, di questo, nè d’altri sentimenti egualmente miseri e sciocchi. Ma penso che avevamo giuocate le nostre vite, e che se fosse stato egli il perdente, si sarebbe ucciso senza fallo. — Sì, per l’intenzione non c’è dubbio; — rispose prontamente Margherita; — ma nel fatto, egli non avrebbe potuto. — Perchè? — Perchè Lei, generoso, non glielo avrebbe permesso. — Vero; — concesse Raimondo. — Ma si sarebbe egli arreso? — Sicuramente; e per due ragioni. Guardi come son ricca, al suo paragone! — replicò Margherita, ridendo. — La prima è questa, ch’egli si sarebbe arreso.... per me. La seconda è quest’altra, che egli sentiva di esserle schiavo e non avrebbe potuto ricusarsi alla sua volontà. Le paiono convincenti? Credo di sì. Vuole assicurarsi che son sue, e non mie? Lo mandi a chiamare; io tacerò ed Ella le udrà ripetere punto per punto da lui. — No, no, non occorre; debbo credere a Lei; — rispose Raimondo. — E faccia ognuno la sua strada; — soggiunse, precorrendo colla difesa un altro assalto, di cui sentiva già la minaccia in aria; — e gli dica, quando lo vedrà.... che gli ho perdonato. — Ma la vita di Raimondo Zuliani, rinnovata per l’amore, era finita per le consuetudini antiche. Risanata la sua Livia, il signor Zuliani rimase a Venezia un mese ancora; il tempo necessario per fare con lei qualche apparizione agli usati ritrovi, seccandosi alle condoglianze, seccandosi alle congratulazioni, non vedendo l’ora di sottrarsi alle une ed alle altre. Non meno di lui n’era seccata la signora; ma forse, per quelle medesime ragioni di prudenza che avevano mosso Raimondo in tutto il corso di quel dramma domestico, non poteva dispiacerle troppo di farsi vedere alla gente, rifiorita di salute e di bellezza, lieta e sorridente, tra un marito sempre devoto ed una suocera apertamente amorevole. Per quelle stesse ragioni fece buon viso alla contessa Galier, troppo tenera amica, che omai vedeva volentieri come il fumo negli occhi; e senza uno sforzo così grande che per verità non era il caso, trattandosi di gentili cavalieri, accolse per due o tre mercoledì alla fila i Lunardi, i Gregoretti, i Ruggeri, i Telemachi, i maestri di musica, tutta la sua piccola corte, a cui fece perfino la grazia di mostrarsi una sera a teatro tutta sfavillante di gioia e di gioie, con quel suo diadema della farfalla adamantina che sfuggiva alle fauci del serpe insidioso, tutto smeraldi, crisòliti e rubini. Pochi giorni dopo quella comparsa trionfale, la bella signora Zuliani spariva. Moglie e marito partivano da Venezia, per fare un viaggetto a Parigi, a Londra, e fors’anco altrove, se non si fossero seccati. Ma non si erano seccati di certo, perchè il viaggetto durò mesi parecchi, e le garrule Procuratie ebbero tempo a dimenticarsi dei due viaggiatori. I quali posarono finalmente, ma per istabilirsi lontano, chi disse in Isvizzera, chi sul lago di Como, chi in Liguria, chi perfino a Madera, e naturalmente per consiglio dei medici; savio consiglio, giustificato abbastanza da una complessione troppo delicata, e dalla scossa troppo violenta di un caso disgraziato, che tutti dovevano ricordar per un pezzo. Caso disgraziato, davvero, e non effetto di un disperato proposito. Così fu creduto da tutti, poichè con la sua stessa rovina parlava il parapetto di un terrazzino sul Canal Grande. Una trovata veramente felice era stata quella di “Paron Nane„. Ed era stata anche una buona azione; perciò rimase ignorata. Se si fosse risaputa, di sicuro gli archeologi l’avrebbero dichiarata cattiva. Che si canzona? Mandare in pezzi quel gentil parapetto dai tre pilastrini istoriati, dai due rosoni traforati con tanta maestria di scalpello elegante! Quel terrazzino era un capolavoro di scultura quattrocentesca, innestato sopra un’architettura di tre secoli più antica. Per verità, restavano ancora i suoi gemelli delle altre finestre; e non sarebbero mancati, alla più trista, i suoi somiglianti sulla facciata di un altro edifizio, che era il palazzo Contarini Fasan, manifestamente adornato dall’ingegno di un medesimo artefice. Ma non era quella una buona ragione per consolarsi della rovina di quel prezioso cimelio. Casca oggi, casca domani, il bello, il vero bello, che è solamente l’antico, se ne va a pezzettini, e ci siam visti. Un’altra rovina, mezza, se non intiera, fu quella del banco Zuliani, che, per l’assenza prolungata del suo titolare, fu costretto a restringere di molto la cerchia delle sue operazioni. Era rimasto alle mani dell’ottimo signor Brizzi; finalmente prese nome da lui, e vive ancora di vita modesta ma sicura, se non gloriosa, non abbandonato del tutto dai capitali del signor Raimondo Zuliani, nè dalla benevolenza del banco Cantelli. Anche la signorina Margherita aveva lasciato presto Venezia, poichè il governo, predestinato a non indovinarne mai una, non aveva esauditi i fervidissimi voti della signora Eleonora, e la corvetta, armata di tutto punto, era partita proprio sul finir di gennaio, portandosi via lo sposo Federigo e il suo vistoso corredo per ogni clima e per ogni temperatura del globo. Filippo Aldini aveva naturalmente seguiti i signori Cantelli a Milano; un mese dopo. Margherita Cantelli diventava la contessa Margherita Aldini. È felice, ora, interamente felice col suo Filippo, e passa la maggior parte dell’anno nella quiete desiderata di Parma. Babbo e mamma non tralasciano occasioni per andare da lei e far visite lunghe; ed ella e Filippo fanno spesso le loro corse a Milano, segnatamente d’inverno, quando è più intensa la vita dei teatri, e le prime rappresentazioni della Scala attraggono l’artistica curiosità della giovine e bella contessa. Ma essa ai teatri non vuole andare senza Filippo; Filippo ha da esserle sempre al fianco. Ne è forse gelosa? No, tanto è sicura di lui; ma trova piacevole al sommo tenerselo vicino, averlo così _digne et in æternum_ marito ed amante; e se la cosa fa scandalo, perchè fuori di moda, a lei non importa. La moda, in questa materia delicata, se la fa lei; non la impone a nessuno, e non si lascia imporre quella degli altri. Ma ne è così lieto il suo Filippo! il suo Filippo, che è perfino arrivato al punto di amar la musica teatrale, l’assordante, l’indigesta, la noiosa, e quant’altre varietà se ne spacciano sul mercato dei suoni. La contessa aspetta ora il fratello, che in tre anni di assenza dovrebbe aver finito il suo giro del globo. Lo aspetta a Parma, naturalmente, e nell’antico palazzo degli Aldini, che Filippo ha ricomprato e rinnovato. Così potesse lei comprar Torrechiara, per farci una serie di restauri, degni di Pier Maria De’ Bossi, e di Bianca Pellegrini d’Arluno! Ma già più volte è andata lassù, oltre Langhirano, a visitare la ròcca, intrattenendosi lungamente nella camera d’oro, davanti a quelle file di cuori fiammanti accoppiati, cerchiati di tre corone d’oro per coppia, e accostati dalle due chiare leggende latine dei due nobili amanti del Quattrocento. Ed anche più volte, risalendo il corso della Parma, la cara donna ha visitato il bosco di Corniglio, tutto castagni secolari, che con le lunghe braccia distese danno benedizione di ombra e di pace ad una tacita casa d’antichi; poi quella conca di smeraldo che è la fresca valletta dei Lagadelli, degno soggiorno a poeti, forse più degno a filosofi; donde, per un sentiero sassoso tra i faggi lucenti, s’è inerpicata alla dolce solitudine del Lago Santo, custodita da vigili scolte di abeti; e più su, con breve e facile ascesa tra cespi di baccole, fino alla vetta prominente dell’Orsaro. — Bel nome, quello! Fiero quest’altro, e mi piace egualmente! — diss’ella un giorno lassù. Da questa pace sublime luccica a noi qualche cenno di umano consorzio; ma lontano, per buona sorte, lontano, lontano; e qui le anime si ritemprano, e i cuori amano meglio. Ci hai pensato mai, Lippo? Si è scesi un po’ tutti, a prima o dopo, dai monti, per dirozzarci al piano, per educarci, e, se Dio vuole, per intendere il bello. Ma poi, chi più intende il bello e il brutto, e soprattutto il mediocre della vita di laggiù, si ritira passo passo, ritorna alle origini, si rifugia sui monti. — Hai ragione; e ci vive; — rispose Filippo. — Ma per viverci, e sentirsi vivere, ci vuol Margherita.... l’intelligenza, la bontà, la bellezza e la grazia. — _Fine_. ———— OPERE di A. G. BARRILI. _Capitan Dodéro_ (1865). 12.ª ediz. L. 1 — _Santa Cecilia_ (1866). 10.ª ediz. L. 1 — _Il libro nero_ (1868). 4.ª ediz. L. 2 — _I Rossi e i Neri_ (1870). 5.ª ediz. (2 vol.) L. 2 — _Le confessioni di Fra Gualberto_ (1873). 13.ª ediz. L. 1 — _Val d’olivi_ (1873). 18.ª edizione L. 1 — _Semiramide_, racconto babilonese (1873). 8.ª ediz. L. 1 — _La notte del commendatore_ (1875). 2.ª ediz. L. 4 — _Castel Gavone_ (1875). 10.ª ediz. L. 1 — _Come un sogno_ (1875). 23.ª ediz. L. 1 — _Cuor di ferro e cuor d’oro_ (1877). 18.ª ediz. (2 vol.) L. 2 — _Tizio Caio Sempronio_ (1877). 2.ª ediz. L. 3 50 _L’olmo e l’edera_ (1877). 18.ª ediz. L. 1 — _Diana degli Embriaci_ (1877). 2.ª ediz. L. 3 — _La conquista d’Alessandro_ (1879). 2.ª ediz. L. 4 — _Il tesoro di Golconda_ (1879). 12.ª ediz. L. 1 — _Il merlo bianco_ (1879). 2.ª ediz. L. 3 50 — Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz. L. 5 — _La donna di picche_ (1880). 6.ª ediz. L. 1 — _L’undecimo comandamento_ (1881). 10.ª ediz. L. 1 — _Il ritratto del Diavolo_ (1882). 3.ª ediz. L. 3 — _Il biancospino_ (1882). 9.ª ediz. L. 1 — _L’anello di Salomone_ (1883). 3.ª ediz. L. 3 50 _O tutto o nulla_ (1883). 2.ª ediz. L. 3 50 _Fior di Mughetto_ (1883). 4.ª ediz. L. 3 50 _Dalla Rupe_ (1884). 3.ª ediz. L. 3 50 _Il conte Rosso_ (1884). 3.ª ediz. L. 3 50 _Amori alla macchia_ (1884). 3.ª ediz. L. 3 50 _Monsù Tomè_ (1885). 3.ª ediz. L. 3 50 _Il lettore della principessa_ (1885). 3.ª ediz. L. 4 — — Edizione illustrata (1891) L. 5 — _Victor Hugo_, discorso (1885) L. 2 50 _Casa Polidori_ (1886). 2.ª ediz. L. 4 — _La Montanara_ (1886). 7.ª ediz. L. 2 — — Edizione illustrata (1893) L. 5 — _Uomini e bestie_ (1886). 2.ª ediz. L. 3 50 _Arrigo il Savio_ (1886). 2.ª ediz. L. 3 50 _La spada di fuoco_ (1887). 2.ª ediz. L. 4 — _Il giudizio di Dio_ (1887) L. 4 — _Il Dantino_ (1888). 3.ª ediz. L. 3 50 _La signora Àutari_ (1888). 3.ª ediz. L. 3 50 _La Sirena_ (1889) 5.ª ediz. L. 1 — _Scudi e corone_ (1890). 2.ª ediz. L. 4 — _Amori antichi_ (1890). 2.ª ediz. L. 4 — _Rosa di Gerico_ (1891). 3.ª ediz. L. 1 — _La bella Graziana_ (1892). 2.ª ediz. L. 3 50 — Edizione illustrata (1893) L. 3 50 _Le due Beatrici_ (1892). 5.ª ediz. L. 1 — _Terra Vergine_ (1892). 5.ª ediz. L. 1 — _I figli del cielo_ (1893) 5.ª ediz. L. 1 — _La Castellana_ (1894). 2.ª ediz. L. 3 50 _Fior d’oro_ (1895). 4.ª ediz. L. 1 — _Il Prato Maledetto_ (1895) L. 3 50 _Galatea_ (1896). 4.ª ediz. L. 1 — _Diamante nero_ (1897). 3.ª ediz. L. 1 — _Sorrisi di gioventù_ (1898). 2.ª ediz. L. 3 — _Raggio di Dio_ (1899). 2.ª ediz. L. 1 — _Il Ponte del Paradiso_ (1904) L. 3 50 _Lutezia_ (1878). 2.ª ediz. L. 2 — _Con Garibaldi, alle porte di Roma_, ricordi (1895) L. 4 — _Zio Cesare_, commedia in cinque atti (1888) L. 1 20 Prezzo del presente volume: Lire 3,50. *RECENTISSIME PUBBLICAZIONI* *La figlia di Iorio*, tragedia pastorale di *GABRIELE* *D’ANNUNZIO*. Edizione legata in pelle, stile Cinquecento, con taglio dorato in testa ed elegante busta per conservare il volume. L. 10 —. Della edizione non legata, in carta vergata, ornata da A. de Karolis, è uscito l’*11.º migliaio*. L. 4 — *Grandezza e decadenza di Roma*, di *GUGLIELMO FERRERO*. Vol III. *Da Cesare ad Augusto*. In-16 di 608 pagine. L. 5 — Vol. I. *La conquista dell’Impero*. In-16 di 504 pag. L. 5 — Vol. II. *Giulio Cesare*. In-16 di 570 pagine. L. 5 — *Maternità*, nuove poesie di *ADA NEGRI*. In formato bijou su carta di lusso. *5.º migliaio*. L. 4 — *Anna Perenna*, novelle di *ANTONIO BELTRAMELLI*. L. 3 50 *L’Anima Nova* (_Idealità e aspirazioni odierne_), di *GUSTAVO SEMMOLA*. L. 3 50 *Il più lungo scandalo del secolo XIX* (_Carolina di_ _Brunswick principessa di Galles_), di *GRAZIANO PAOLO* *CLERICI*. 420 pag. con documenti inediti ed illustraz. L. 5 — *Linneo — Darwin — Agassiz nella vita intima* di *PAOLO LIOY*. — Con ritratti ed illustrazioni. L. 3 — *Il Paese delle Stravaganze* — _Associazioni straordinarie Anglo-Sassoni_ — di *ACHILLE TANFANI*. Un vol. in-16 di 350 pagine. L. 3 50 *Osservazioni di un Musicista Nord-Americano*, di *LUIGI LOMBARD*. L. 2 50 *Le Malattie della Volontà*, di *TOMMASO RIBOT*. Traduzione autorizzata di _Sofia Behr._ L. 2 — *L’Estremo Oriente e le sue lotte*, di *ENRICO CATELLANI*. Un volume in-16 di 490 pagine, con 6 carte geografiche. L. 5 — *L’Akasuki davanti a Port-Arthur*. _Dal giornale di guerra del_ _suo Comandante il_ *Capitano NURITAKA*. L. 1 — ———— Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (balia/balìa, bavero/bàvero, ròcche/rôcche e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale): 23 — invecchiare con esse le famiglie [famimiglie] 65 — dalla semenza di Adamo, e Preadamitici [Preadamatici] 70 — Filippo si lasciava [ci lasciava] trascinare 130 — sarebbe sempre nerissima agli [egli] occhi 211 — sarebbe stato un sollievo [sollevo] 257 — era molto [molte] felice in quell’ora 266 — a lui sarebbe per [pur] troppe ragioni mancato 305 — mancherebbe altro che [che che] ci andassi *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL PONTE DEL PARADISO *** A Word from Project Gutenberg We will update this book if we find any errors. This book can be found under: http://www.gutenberg.org/ebooks/38360 Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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