classicistranieri.com - Project Gutenberg's I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3, by Ann Radcliffe This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3 Author: Ann Radcliffe Release Date: September 20, 2010 [EBook #33783] Language: Italian *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 3 *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano) I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO DI ANNA RADCLIFFE VOL. III MILANO _Oreste Ferrario_ Sotterranei Galleria Nuova, via Silvio Pellico, 6, scala n. 18 e Santa Margherita [Illustrazione: IL CADAVERE ... la sua faccia, sfigurata dalla morte, era schifosa e coperta di livide ferite. _Cap. XXVI_] CAPITOLO XXII Montoni fece invano le più esatte ricerche sulla strana circostanza che lo aveva allarmato, e non avendo potuto scoprir nulla, dovette credere che qualcuno de' suoi fosse l'autore d'una burla così intempestiva. Le sue contese colla moglie, a proposito della cessione, divenendo più frequenti, pensò confinarla nella sua camera, minacciandola a una maggior severità se persisteva nel rifiuto. Se la signora Montoni fosse stata più ragionevole, avrebbe compreso il pericolo d'irritare, con quella lunga resistenza, un uomo come il marito in cui balia ella trovavasi. Non aveva pure obliato di quale importanza fosse per lei la conservazione del possesso de' suoi beni, che l'avrebbero resa indipendente, caso avesse potuto sottrarsi al dispotismo di Montoni. Ma in quel momento aveva una guida più decisiva della ragione, lo spirito cioè della vendetta, che le faceva opporre la negativa alla minaccia, e l'ostinazione alla prepotenza. Ridotta a non poter uscir dalla camera, sentì finalmente il bisogno ed il pregio della compagnia già sprezzata della nipote, perchè Emilia, dopo Annetta, era la sola persona che le fosse permesso di vedere. La fanciulla s'informava spesso del conte Morano. Annetta ne sapeva pochissimo, se non che il chirurgo credeva impossibile la di lui guarigione. Emilia affliggevasi di essere la causa involontaria della sua morte. Annetta, che osservava la di lei commozione, l'interpretava a modo suo. Un giorno, essa le entrò in camera tutta affannosa e piangente. «Per carità, troviamo il modo di uscire da questo luogo infernale. Sappiate,» diss'ella, «che siamo alla vigilia di qualche brutta scena in questo maledetto castello. Quei signori tengono tutte le notti conciliaboli, ove si pretende che discutano affari importanti: inoltre, cosa significano tutti i preparativi che si fanno sui bastioni e sulle mura? E poi, quanta gente entra tutti i giorni nel castello con cavalli! e sembra che vi debbano restare, perchè il padrone ha ordinato di somministrar loro il bisognevole. Io ho saputo tutto da Lodovico, che mi ha raccomandato di tacere; ma siccome vi amo quanto me stessa, non ho potuto fare a meno di dirlo anche a voi. Ah! qualche giorno ci ammazzeranno tutti per certo. --Non sai tu altro, Annetta? --Come! Non basta tutto questo? --Sì, ma non basta a persuadermi che ci vogliano uccider tutti.» Emilia si astenne dal manifestare i suoi timori per non aumentare la paura della cameriera. Lo stato attuale del castello la sorprendeva e la turbava. Appena Annetta ebbe finito, la lasciò sola, per andare a nuove scoperte. La fanciulla quella sera passò alcune ore tristissime in compagnia della zia. Si disponeva a coricarsi, quando udì un forte colpo alla porta della camera, prodotto dalla caduta di qualche oggetto. Chiamò per sapere cosa fosse, e non le fu risposto. Chiamò una seconda volta senza miglior successo: pensò che qualcuno dei forastieri giunti recentemente nel castello avesse scoperta la sua camera, e vi si recasse con cattive intenzioni. Inquieta, stette attenta, tremando sempre che il rumore si rinnovasse. Si fece invece coraggio; si avvicinò alla porta del corridoio tutta tremante, ed intese un lieve sospiro tanto vicino, che la convinse esservi qualcuno dietro l'uscio. Mentre ascoltava ancora, il medesimo sospiro si fece intendere più distintamente, ed il suo terrore aumentò. Non sapea cosa risolvere, e sentiva sempre sospirare. La sua ansietà divenne sì forte che risolse di aprire la finestra e chiamar gente. Mentre vi si accingeva, le parve udir i passi di qualcuno nella scala segreta, e vincendo ogni altro timore corse verso il corridoio. Premurosa di fuggire, aprì la porta, ed inciampò in un corpo steso al suolo. Mise un grido, e guardando la persona svenuta, riconobbe Annetta. Grandemente sorpresa, fece ogni sforzo per soccorrere l'infelice. Allorchè ebbe ripreso l'uso dei sensi, Emilia l'aiutò ad entrare in camera, e quando potè parlare la ragazza l'assicurò, con una fermezza che scosse fino l'incredulità dell'altra, di aver veduto un'ombra nel corridoio. «Io aveva inteso strane cose sulla camera attigua,» disse Annetta; «ma siccome è vicina alla vostra, madamigella, non voleva dirvele per non ispaventarvi. Tutte le volte ch'io ci passava accanto, correva a tutta possa; e vi accerto inoltre, che spesso mi parve di sentirvi rumore. Ma stasera, camminando nel corridoio, senza pensare a nulla, ecco veggo apparire un lume, e guardando indietro scorgo una gran larva. L'ho veduta, signorina, distintamente, quanto voi in questo momento. Una gran figura entrava nella camera sempre chiusa, di cui, non tien la chiave altri che il padrone, e la porta serrossi immediatamente. --Sarà stato il signor Montoni,» disse Emilia. --Oh! no, non era lui, avendolo lasciato che altercava colla padrona nel suo gabinetto. --Tu mi fai racconti molto strani, Annetta; stamattina mi hai spaventata colla paura d'un assassinio, ed ora vorresti farmi credere... --Non vi dirò più nulla; ma però se non avessi avuta gran paura, non sarei svenuta, come ho fatto. --Era forse la camera dal quadro del velo nero? --No, signora, è quella più vicina alla vostra: come farò a tornare nella mia stanza? Per tutto l'oro del mondo non vorrei più traversare il corridoio.» Emilia, commossa da questo incidente, e dall'idea di dovere esser sola tutta la notte, le rispose che poteva stare con lei. «Oh! no, davvero,» disse Annetta, «io non dormirei ora in questa camera, neppure per mille zecchini.» Emilia, rammentandosi d'aver udito gente sulla scala insistè perchè passasse la notte secolei, e l'ottenne con molta pena, e dopo che la paura di ripassare il corridoio ve l'ebbe persuasa. Il dì dopo, Emilia, traversando la sala per andare sulle mura, intese rumore nel cortile e lo scalpito di molti cavalli. Il tumulto eccitò la sua curiosità. Senza andar più oltre, si affacciò ad una finestra, e vide nel cortile una truppa di cavalieri; aveano divise bizzarre ed armamento completo, sebben variato. Portavano essi una giacchetta corta rigata di nero e scarlatto; si avvolgevano in grandi ferraiuoli, sotto uno dei quali vide pendere dalla cintola pugnali di varia grandezza; osservò quindi che quasi tutti ne eran ben provvisti, e parecchi vi aggiungevano la picca ed il giavellotto; portavano in testa berretti all'italiana ornati di pennacchi neri; essa non si rammentava aver mai visti tanti brutti ceffi riuniti. Nel vederli si credette circondata da banditi, e le si affacciò subito alla mente che Montoni fosse il capo di questi birbanti, e il castello il loro luogo di riunione. Questa strana supposizione però fu passeggiera. Mentre guardava, vide uscire Cavignì, Verrezzi e Bertolini vestiti come gli altri; avevano soltanto i cappelli ornati di grandi pennacchi rossi e neri; quando montarono a cavallo, Verrezzi brillava di gioia; Cavignì pareva allegro, ma il suo contegno era riflessivo, e maneggiava il cavallo con estrema grazia. La sua figura amabile, e che parea quella d'un eroe, non era mai apparsa con tanto vantaggio. Emilia, considerandolo, pensò che somigliava a Valancourt, e per vero dire ne aveva tutto il fuoco e la dignità; ma essa cercava invano la dolcezza della fisonomia, e quella schietta espressione dell'anima che lo caratterizzava. Comparve quindi Montoni, ma senza divisa. Esaminò scrupolosamente i cavalieri, conversò a lungo co' capi, e quando li ebbe salutati, la truppa fece il giro del cortile, e, comandata da Verrezzi, passò sotto la vôlta ed uscì. Emilia si ritirò dalla finestra, e nella certezza di esser più tranquilla, andò sui bastioni: non vide più lavoranti, ed osservò che le fortificazioni parevano ultimate. Mentre passeggiava assorta nelle sue riflessioni, udì camminare sotto le mura del castello, e vide parecchi uomini, il cui esteriore accordavasi colla truppa partita poco prima. Presumendo che la zia fosse alzata, andò ad augurarle il buon giorno, e le raccontò quanto aveva veduto; ma essa non volle, e non potè darle contezza di nulla. La riserva di Montoni verso sua moglie, a tal proposito, non era punto straordinaria. Però, agli occhi di Emilia, aggiunse qualche ombra al mistero, e le fece sospettare un gran pericolo o grandi orrori nel progetto da lui concepito. Annetta tornò ansante, secondo il consueto; la sua padrona le domandò premurosamente cosa vi fosse di nuovo, ed essa le rispose «Ah! signora, nessuno ci capisce nulla. Carlo sa tutto, ma è riservato come il suo padrone. Qualcuno dice che il signor Montoni vuole spaventare il nemico; altri pretendono che voglia prender d'assalto qualche castello, ma ha tanto posto nel suo, che non ha bisogno certo d'andar a carpire quelli degli altri. Lodovico pare che ci veda più di tutti, perchè dice d'indovinare tutti i progetti del padrone. --E che ti ha detto? --Mi ha detto che il padrone.... che il signor Montoni è..... è..... --Che cosa insomma?» disse la signora Montoni impazientandosi. --Che il padrone si è fatto capo d'assassini, e manda a rubare per conto suo. --Sei pazza. Come mai puoi tu credere?... In quella comparve Montoni; Annetta fuggì tutta tremante. Emilia voleva ritirarsi, ma sua zia la trattenne, giacchè il marito l'aveva resa tante volte testimone de' loro diverbi, che non avevane più veruna soggezione. «Che cosa significa tutto questo?» gli chiese la moglie; «chi sono quegli armati partiti testè e perchè faceste fortificare il castello? voglio saperlo. --Evvia, ho ben altro da pensare,» rispose Montoni; «fareste meglio ad obbedirmi. Fatemi la cessione de' vostri beni senza tanti contrasti. --Giammai! Ma quali sono i vostri progetti? Temete un attacco? sarò uccisa in un assedio? --Firmate questa carta, e lo saprete. --Qual nemico viene?» lo interruppe la donna: «siete voi al servizio dello Stato? Son io prigioniera fino all'ora della mia morte? --Potrebbe darsi,» soggiunse Montoni, «se non cedete alla mia domanda; voi non uscirete dal castello se non mi avrete contentato.» La signora gettò grida spaventose, ma li cessò poscia pensando che i discorsi del marito non fossero che artifizi per estorcerle la donazione. E glielo disse poco dopo, aggiungendo che il di lui scopo non era certo tanto glorioso quanto quello di servir lo Stato; che probabilmente erasi fatto capo di banditi, per unirsi ai nemici di Venezia e devastare il paese. Montoni la guardò un momento con aria truce; Emilia tremava, e sua zia, per la prima volta, credè aver detto troppo. «Questa notte stessa,» diss'egli, «sarete trascinata nella torre d'oriente, là forse comprenderete il pericolo d'offender un uomo, il cui potere su voi è illimitato.» La fanciulla si gettò ai suoi piedi, e lo supplicò, piangendo, di perdonare alla zia. Questa, intimorita e sdegnata, ora voleva prorompere in imprecazioni, ora unirsi alle preghiere della nipote. Montoni, interrompendole con una bestemmia orribile, si staccò aspramente da Emilia, che lo teneva pel mantello: cadde essa sul pavimento con tanta violenza, che si fe' male alla fronte, ed egli uscì senza degnarsi di rialzarla. Ella si scosse al pianto della zia, corse a soccorrerla, e trovolla tutta convulsa. Le parlò senza ricevere risposta, ma le convulsioni raddoppiando, fu costretta di andare a chieder soccorso. Traversando la sala, incontrò Montoni, e lo scongiurò di tornare a consolar sua moglie. Allontanossi egli colla massima indifferenza; finalmente, essa trovò il vecchio Carlo che veniva con Annetta. Entrati nel gabinetto, trasportarono la Montoni nella camera attigua. La misero sul letto, ed a gran stento poterono impedire dal farsi male. Annetta tremava e piangeva. Carlo taceva, e sembrava compiangerla. Allorchè le convulsioni furono alquanto cessate, Emilia, vedendo che sua zia aveva bisogno di riposo, disse: «Andate, Carlo, se avremo bisogno di soccorso vi manderò a cercare; ma intanto, se ve se ne presenta l'occasione, parlate al signor Montoni a favore della vostra padrona. --Oimè!» rispose Carlo; «ne ho vedute troppe! ho poco ascendente sul cuore del mio padrone. Ma voi, signorina, abbiate cura di voi stessa; mi pare che non istiate troppo bene.» E partì scuotendo il capo. Emilia continuò a curare la zia, la quale, dopo un lungo sospiro, rinvenne; ma aveva gli occhi smarriti, e riconosceva appena la nipote. La sua prima domanda fu relativa a Montoni. Emilia la pregò di calmarsi e di star in riposo, soggiungendo: «Se volete fargli dire qualcosa, me ne incaricherò io.--No,» rispos'ella languidamente. «Persiste egli ancora a strapparmi dalla mia camera?» La fanciulla rispose che non aveva detto più nulla, e fece ogni sforzo per distrarla; ma la zia non l'ascoltava, e sembrava oppressa dai pensieri. Emilia, lasciandola sotto la custodia della cameriera, corse a cercar Montoni, e lo trovò sulle mura in mezzo ad un gruppo d'uomini di ciera spaventevole. Egli si esprimeva con vivacità. Infine qualche sua espressione fu ripetuta dalla truppa, e quando si separarono, la fanciulla udì le seguenti parole: _Stasera comincia la guardia al tramonto del sole._ «_Al tramonto del sole_,» fu risposto, e si ritirarono. Emilia raggiunse Montoni, sebbene ei paresse volerla scansare, ed ebbe il coraggio di pregare per la zia, e rappresentargliene lo stato ed il pericolo cui sarebbesi esposta la di lei salute in un appartamento troppo freddo. «Soffre per colpa sua,» rispos'egli, «e non merita compassione. Sa benissimo come deve fare per prevenire i mali che la attendono. Obbedisca, firmi, ed io non ci penserò più.» A forza di preghiere, ella ottenne che la zia non sarebbe stata rimossa fino al dì seguente. Montoni le lasciò tutta notte per riflettere. Emilia corse ad annunziarle la dilazione. Essa non rispose, ma parea molto pensierosa. Intanto la sua risoluzione sul punto contestato sembrava cedere in qualche cosa. La nipote le raccomandò, come una misura indispensabile di sicurezza, di sottomettersi. «Voi non sapete quel che mi consigliate,» le rispose la donna. «Rammentatevi che i miei beni vi appartengono dopo la mia morte, se io persisto nel rifiuto. --Io lo ignorava, cara zia; ma questa notizia non m'impedirà certo di consigliarvi un passo dal quale dipende il vostro riposo, e ardisco dire anche la vostra vita. Nessuna considerazione per un sì debole interesse, ve ne scongiuro, non vi faccia esitare un momento a cedergli tutto. --Siete voi sincera, nipote? --E potreste dubitarne?» La signora Montoni parve commossa. «Voi meritate questi beni, cara nipote, e vorrei poterveli conservare: avete una virtù, di cui non vi credeva capace. Ma il signor Valancourt? --Signora,» interruppe Emilia, «cambiamo discorso, di grazia, e non credete che il mio cuore capace di egoismo.» Il dialogo fini così. Emilia rimase presso la zia, nè la lasciò che molto tardi. In quel momento, tutto era tranquillo, e la casa pareva sepolta nel sonno. Traversando le lunghe e deserte gallerie del castello, Emilia ebbe paura senza saper perchè; ma quando, entrando nel corridoio, si rammentò l'avvenimento dell'altra notte, fu assalita da improvviso terrore, e fremè che un oggetto come quello veduto da Annetta non si presentasse innanzi a lei, e che la paura ideale o fondata non producesse il medesimo effetto su i di lei sensi. Non sapeva precisamente di qual camera avesse parlato la donzella, ma non ignorava che dovea passarvi dinanzi. Il suo sguardo inquieto procurava di distinguere nell'oscurità: camminava adagio e con passo incerto. Giunta ad una porta, udì un piccolo rumore; esitò, ma ben presto il suo timore divenne tale, che non ebbe più forza di camminare. D'improvviso, la porta si aprì, una persona, che le sembrò Montoni, apparve, rientrò prontamente nella camera e la chiuse. Al lume ch'era in essa, credette aver distinta una persona vicina al fuoco, in atteggiamento malinconico. Il suo terrore svanì, e fece luogo alla sorpresa: il mistero di Montoni, la scoperta d'un individuo ch'egli visitava a mezzanotte in un appartamento interdetto, e di cui si raccontavano tante cose, eccitò vivamente la di lei curiosità. Mentre stava perplessa desiderando spiare i movimenti di Montoni, ma temendo d'irritarlo se ne fosse vista, la porta si aprì di bel nuovo e si richiuse per la seconda volta. Allora Emilia entrò bel bello nella camera contigua, e depostovi il lume, si nascose in una vôlta oscura del corridoio, per vedere se la persona che usciva fosse veramente Montoni. Dopo alcuni minuti la porta si aprì per la terza volta; la medesima persona ricomparve: era Montoni; egli guardossi intorno, chiuse e se ne andò. Poco dopo si sentì chiudere al di dentro. Essa rientrò nella sua stanza sorpresa al massimo segno. Era già mezzanotte: essendosi avvicinata alla finestra, intese camminare sul terrazzo sottoposto, e vide parecchie persone moversi nell'ombra; la colpì un rumor d'armi, ed una _parola d'ordine_ detta sottovoce: allora si ricordò degli ordini di Montoni, e comprese che per la prima volta montavano la guardia nel castello; quando tutto fu quieto, se ne andò a riposare. CAPITOLO XXIII La mattina seguente, Emilia andò a trovare la zia di buonissim'ora; ella aveva dormito bene, e ricuperati gli spiriti e le forze, ma la di lei risoluzione di resistere al marito era combattuta dal timore. La fanciulla, temendo le conseguenze della sua caparbietà, fece di tutto per persuaderla, ma la signora Montoni, come vedemmo, aveva lo spirito della contraddizione; e quando se le presentavano circostanze disgustose, cercava meno la verità che argomenti da combattere. Una lunga abitudine aveva tanto confermato in lei questa disposizione naturale, che non se ne accorgeva più. Le ragioni di Emilia non fecero che risvegliare il suo orgoglio, anzichè convincerla; e non pensava se non a sottrarsi alla necessità di obbedire sul punto in questione. Se le fosse riuscito di fuggire dal castello, contava già separarsi legalmente, e vivere nell'agiatezza coi beni che le restavano. Emilia lo avrebbe desiderato quanto lei, ma non si lusingava d'un esito favorevole; le dimostrò l'impossibilità di uscire dalla porta, assicurata e guardata con tanta cautela; l'estremo pericolo di confidarsi alla discretezza di un servo, che avrebbe potuto tradirla per malizia o imprudenza; e la vendetta infine di Montoni, se avesse scoperto la trama... Questa lotta di contrari affetti lacerava il cuore della zia, quando entrò d'improvviso il marito, e senza parlare della di lei indisposizione, le dichiarò venir a rammentarle quanto indarno essa tentasse di resistere ai suoi voleri. Le accordò tutto il giorno per acconsentire alla sua domanda, protestandole, in caso di rifiuto, che la sera medesima l'avrebbe rilegata nella torre di levante; aggiunse che molti cavalieri dovendo pranzare quel giorno istesso nel castello, essa farebbe gli onori della tavola colla nipote. La signora Montoni non voleva accettare, ma riflettendo che durante il pranzo, la sua libertà, sebben ristretta, avrebbe potuto favorire i suoi progetti, acconsentì; il marito ritirossi tosto. L'ordine ricevuto penetrava Emilia di maraviglia e timore; fremeva all'idea di trovarsi esposta a tali sguardi, e le parole del conte Morano non erano fatte per calmarla. Le convenne dunque prepararsi per comparire al pranzo, ma si vestì anche più semplicemente del solito, per evitare d'essere distinta. Questa politica non le riuscì, giacchè, quando tornò dalla zia, Montoni, rimproverandole il suo far dimesso, le prescrisse un abbigliamento più ricercato, adoperando a tal uopo gli ornamenti destinati pel di lei matrimonio con Morano. Adornata col miglior gusto e la massima magnificenza, la bellezza di Emilia non aveva mai brillato tanto. La sua unica speranza in quel punto era che Montoni progettasse meno qualche avvenimento straordinario, che il trionfo dell'ostentazione, spiegando agli occhi dei convitati l'opulenza della sua famiglia. Allorchè entrò nella sala, ov'era ammannito un lautissimo pranzo, il castellano ed i suoi ospiti erano già a mensa; essa andava a prender posto presso la zia, ma Montoni le fe' cenno colla mano; due cavalieri si alzarono, e la fecero sedere in mezzo a loro. Il più avanzato in età di costoro era grande, aveva lineamenti caratteristici, naso aquilino, occhi incavati penetrantissimi; il di lui volto era magro e sparuto come dopo una lunga malattia. L'altro, in età di circa quarant'anni, aveva fisonomia diversa; sguardo obliquo, ma volpino, occhi castagni, piccoli ed infossati, volto quasi ovale, irregolare e brutto. Altri otto personaggi sedevano alla medesima tavola, tutti in divisa, ed avevano tutti un'espressione più o meno forte di ferocia, d'astuzia o di libertinaggio. Emilia li guardava timidamente, rammentandosi la truppa veduta il dì precedente, e si credeva circondata da banditi. Il luogo della cena era un'immensa sala antica ed oscura, illuminata da una sola finestra gotica altissima, dalla quale vedevasi il bastione occidentale e gli Appennini. Ella osservò che Montoni trattava con grand'autorità gli ospiti, i quali ricambiavanlo con dignitosa deferenza. Nel tempo del pranzo non si parlò che di guerra e di politica, di Venezia, dei suoi pericoli, del carattere del doge regnante e dei primari senatori. Finito il pranzo, i convitati, alzatisi, bevvero tutti alla salute di Montoni e alla gloria delle sue imprese. Mentre egli accostava la coppa alla bocca, il vino traboccò spumeggiando e ruppe il cristallo in mille pezzi. Ei faceva uso di quella specie di vetri di Venezia, i quali hanno la proprietà di rompersi allorchè ricevono un liquore avvelenato. Sospettando che qualcuno dei convitati avesse attentato alla sua vita, fece chiuder le porte, e mettendo mano alla spada, lanciò occhiate furibonde su tutti indistintamente, gridando: «Qui c'è un traditore! che tutti quelli che sono innocenti mi aiutino a trovare il colpevole.» I cavalieri proruppero in grida d'indegnazione, e sguainarono le spade. La signora Montoni voleva fuggire, ma il marito le impose di restare, aggiungendo qualche altra cosa che non fu intesa a motivo del tumulto e delle grida. Allora tutti i servi comparvero innanzi a lui, e dichiararono la loro ignoranza. La protesta però non poteva essere ammessa, essendo innegabile che soltanto il vino del castellano era stato avvelenato, per cui bisognava che almeno il dispensiere fosse stato connivente. Quest'uomo, con un altro, la cui fisonomia tradiva la convinzione del delitto, o il timore della pena, fu messo in ceppi e trascinato in un tetro carcere; Montoni avrebbe trattato nella stessa guisa tutti gli ospiti se non avesse temute le conseguenze d'un passo sì ardito: si contentò dunque di giurare che non sarebbe uscito neppur uno, prima che fosse dilucidato quest'affare. Ordinò aspramente alla moglie di ritirarsi, e ad Emilia di accompagnarla. Mezz'ora dopo comparve nel di lei gabinetto; Emilia fremè vedendo la sua aria truce, gli occhi sfavillanti di rabbia e le labbra livide. «È inutile tenervi sulla negativa,» gridò egli furente alla moglie, «giacchè ho la prova del vostro delitto: non avete alcuna speranza di perdono se non in una sincera confessione; il vostro complice ha svelato tutto.» Emilia fu colpita dall'atroce accusa. L'agitazione della zia non le permetteva di parlare; la sua faccia passava da un estremo pallore ad un rosso infiammato. «Risparmiate i discorsi inutili,» disse Montoni, vedendola disposta a parlare; «il vostro contegno basta a tradirvi; or sarete condotta nella torre d'oriente. --Quest'accusa,» rispose la moglie, che poteva appena articolar parola, «è un pretesto per la vostra crudeltà; sdegno di rispondervi. --Signore,» disse vivamente Emilia, «questa orribile imputazione è falsa; oso rendermene mallevadrice sulla mia vita. Sì, signore,» soggiunse, «questo non è il momento di usar riguardi. Voi cercate ingannarvi volontariamente, al solo fine di perdere la mia povera zia. --Se vi è cara la vita, tacete.» Emilia, alzando gli occhi al cielo, sclamò: «Non c'è più speranza.» Egli si volse alla moglie, la quale, rimessa dalla sorpresa, ne respingeva i sospetti con veemente asprezza. La rabbia di Montoni aumentava; Emilia, prevedendone le conseguenze, si precipitò ai di lui piedi, abbracciandogli le ginocchia e supplicandolo, piangendo, di calmare il suo furore; ma sordo alle preghiere della nipote e alle giustificazioni della moglie le minacciava fieramente amendue, quando fu chiamato. Uscì chiudendo la porta e portandone seco la chiave. Esse dunque si trovarono prigioniere. La Montoni guardava intorno a sè cercando un mezzo di fuggire. Ma come farlo? Sapeva pur troppo fino a qual punto il castello fosse forte, e con qual vigilanza guardato. Tremava di affidare il suo destino al capriccio d'un servo, di cui conveniva mendicare l'assistenza. Frattanto intesero gran tumulto e confusione nella galleria; alle volte si sentiva il cozzar delle spade. La provocazione di Montoni, la sua impetuosità, la sua violenza, facevano supporre ad Emilia che le armi sole potessero finire l'orribile contesa. La zia aveva esaurite tutte le espressioni dello sdegno, e la nipote tutte le frasi consolanti. Tacevano amendue in quella specie di calma, che succede nella natura al conflitto degli elementi. Le circostanze di cui Emilia era stata testimone le rappresentavano mille confusi timori, e le sue idee succedevansi in tumultuoso disordine; fu scossa dalla sua meditazione sentendo battere alla porta, e riconobbe la voce di Annetta. «Mia cara signora, aprite: ho molte cose da raccontarvi,» diceva sottovoce la povera ragazza.--La porta è chiusa,» rispose la padrona.--Sì, lo vedo, signora, ma per carità apritela.--Il padrone ha portato seco la chiave.--O beata Vergine! che sarà di noi?--Aiutaci ad uscire,» disse la Montoni. «Dov'è Lodovico?--Nella sala grande cogli altri, che combatte valorosamente.--Combatte! e chi sono gli altri?--Il padrone, tutti quei signori, e molti altri.--C'è qualche ferito?» disse Emilia con voce tremante.--Sì, signora, ce n'è qualcuno disteso in terra immerso nel sangue. Gran Dio! fate ch'io possa entrare, signora; ah! eccoli che vengono; mi ammazzano sicuramente.--Fuggi,» disse Emilia, «fuggi; noi non possiamo aprirti.» Annetta ripetè che venivano, e fuggì. «Calmatevi, zia,» disse Emilia, «per pietà, calmatevi; essi vengono forse per liberarci. Chi sa che il signor Montoni non sia già vinto. --Eccoli,» gridò la zia, «li sento venire.» Emilia alzò gli occhi languenti verso la porta, spaventata al maggior segno. Fu messa la chiave nella serratura; la porta si aprì, ed entrò Montoni seguito da tre satelliti. «Eseguite i miei ordini,» disse loro accennando la moglie; essa mise un grido e fu trascinata via sul momento. Emilia cadde priva di sensi sur una sedia: allorchè rinvenne, si vide sola, e guardando per tutta la stanza con occhi smarriti, sembrava interrogare ogni cosa sul destino della zia. Finalmente, si alzò per esaminare, quantunque con poca speranza, se la porta era libera, e la trovò aperta. Si avanzò timidamente nella galleria, incerta ove dovesse andare. Suo primo desiderio fu di ottenere qualche notizia sul destino della zia. Scese nel tinello. A misura che si avanzava, sentiva da lontano voci irate: le facce che incontrava pei numerosi anditi e la confusione che regnava aumentavano il di lei spavento. In fine arrivò nella stanza che cercava, ma non c'era alcuno. Non potendo più reggersi in piedi, si riposò un momento. Riflettè che avrebbe invano cercata la zia nell'immenso laberinto di quel castello, che pareva assediato dai briganti. Pensò dunque a tornare nella sua camera, ma temeva d'incontrarsi in que' feroci, quando un sordo mormorio interruppe il cupo silenzio; il rumore cresceva: distinse qualche voce e sentì passi che s'accostavano. Si alzò per andarsene ma venivano appunto per l'unica via ch'ella potesse seguire: pensò dunque di aspettare che fossero entrati. Udì gemiti, e vide poco dopo comparire un uomo portato da quattro. Atterrita a questo spettacolo, ebbe appena forza bastante per tornare alla sua camera senza poter conoscere chi fosse l'infelice circondato da quella gente, che nella confusione non l'aveano veduta. Il suo affetto per la zia diveniva sempre maggiore; si ricordava che Montoni l'aveva minacciata di chiuderla nella torre di levante, ed era probabile che tal castigo avesse soddisfatto la di lui vendetta. Risolse dunque, nel corso della notte, di cercare una via per recarsi a quella torre. Sapeva bene che non avrebbe potuto efficacemente soccorrere la zia, ma credè che nel suo tristo carcere sarebbe stata sempre una consolazione per lei l'udire la voce della nipote. Alcune ore passarono così nella solitudine e nel silenzio, e parve che Montoni l'avesse obliata del tutto. Appena fu notte, vennero appostate le sentinelle. L'oscurità della camera rianimò il terrore di Emilia. Appoggiata alla finestra, fu assalita da mille idee disgustose. «E che!» diceva ella; «se qualcuno di questi banditi, col favor delle tenebre, s'introducesse nella mia camera, cosa avverrebbe di me?» Poi, ricordando l'abitante misterioso della camera vicina, il suo terrore mutò oggetto. «Non è un prigioniero, benchè resti nascosto in quella stanza; non è Montoni che lo chiuda per di fuori, ma è l'incognito stesso che si prende questa cura.» Facendo tutte queste riflessioni, si ritirò dalla finestra, ed accese il lume. Si affrettò quindi ad assicurare alla meglio l'uscio della scala. Questo lavoro l'occupò sino a mezzanotte. Tutto era quieto, nè si udiva che i passi della sentinella sul bastione. Aprì la porta con cautela, e vedendo e sentendo una perfettissima calma, uscì; ma appena ebbe fatti pochi passi, vide un fioco chiarore sui muri della galleria. Rientrò in camera, e chiuse la porta, immaginandosi che forse Montoni andasse a fare la sua visita all'incognito. Dopo mezz'ora circa uscì di nuovo, e non vedendo nessuno, prese la direzione della scala di tramontana, immaginandosi di poter ivi più facilmente trovare la torre. Si fermava spesso, ascoltando con paura il fischiar del vento, e guardando da lontano attraverso l'oscurità dei lunghi androni. Finalmente giunse alla scala che cercava, la quale metteva in due passaggi diversi. Esitò alcun poco, e scelse quello che conduceva in una vasta galleria. La solitudine di quel luogo la gelò di spavento, e tremava perfino all'eco de' propri passi. D'improvviso le parve sentire una voce, e temendo egualmente d'avanzarsi o di retrocedere, rimase immobile, osando appena alzar gli occhi. Le parve che quella voce proferisse lamenti, e venne confermata in quest'idea da un lungo gemito. Credè potesse essere sua zia, e si avanzò verso quella parte. Nulladimeno, prima di parlare, tremava di confidarsi con qualche indiscreto che potesse denunziarla a Montoni. La persona, qualunque fosse, pareva afflittissima. Mentre titubava, quella voce chiamò Lodovico. Emilia allora riconobbe Annetta, e tutta lieta si accostò per risponderle. «Lodovico!» gridava Annetta piangendo; «Lodovico! --Son io,» disse Emilia, tentando aprir la porta, «Ma come sei tu qui? Chi ti ha rinchiusa? --Lodovico! Lodovico! --Non è Lodovico; sono io, è Emilia.» Annetta cessò di piangere e tacque. «Se tu puoi aprir la porta, entrerò,» disse Emilia; «non temer di nulla. --Lodovico! oh Lodovico!» gridava Annetta. Emilia perdeva la pazienza, e temendo di essere scoperta, voleva andarsene; ma riflettè che la ragazza potrebbe aver qualche notizia sulla zia, o almeno avrebbe potuto indicarle la strada della torre. Ottenne infine una risposta, benchè poco soddisfacente. Annetta non sapeva nulla della padrona, e scongiuravala soltanto di dirle cosa fosse stato di Lodovico. Emilia rispose non saperlo, e le domandò come mai si trovasse rinchiusa là entro. «Mi ha messo qui Lodovico. Dopo esser fuggita dal gabinetto della padrona, io correva senza saper dove: lo incontrai nella galleria, ed egli mi ha confinata in questa camera, portando via la chiave, affinchè non mi accadesse alcun male. Mi ha promesso di tornare quando tutto sarà quieto. Ma è già tardi, e non lo veggo venire; chi sa che non l'abbiano ucciso?» Emilia si rammentò allora l'individuo ferito da lei veduto trasportare nella sala, e non dubitò più che non fosse Lodovico, ma nol disse. Impaziente di saper qualcosa della zia, la pregò d'insegnarle la strada della torre. «Oh! non vi andate, signorina, per l'amor di Dio, non mi lasciate qui sola. «Ma, Annetta cara,» rispose Emilia, «non creder già ch'io possa restar qui tutta notte. Insegnami la strada della torre, e domattina mi occuperò della tua liberazione. --Beata Maria!» disse Annetta; «dovrò dunque star qui tutta la notte? Morirò dalla paura e dalla fame, non avendo mangiato nulla dopo il pranzo.» Emilia potè a stento contener le risa a queste espressioni. Infine ne ottenne una specie di direzione verso la torre orientale. Dopo molte ricerche, giunse alla scala della torre, e si fermò un istante per fortificare il suo coraggio col sentimento del dovere. Mentre esaminava quel luogo, vide una porta in faccia alla scala. Incerta se questa la condurrebbe dalla zia, tirò il chiavistello e l'aprì. Si avvide che metteva sul bastione, e l'aria le spense quasi il lume. Le nubi agitate dai venti stentavano a lasciar vedere alcune stelle, raddoppiando gli orrori della notte. Rinchiuse la porta e salì. L'immagine della zia, pugnalata forse per mano istessa del marito, venne a spaventarla; e si pentì d'aver osato recarsi in quel luogo. Ma il dovere trionfò della paura, e continuò a camminare. Tutto era calmo. Finalmente le colpì gli sguardi una striscia di sangue sulla scala; le pareti e tutti i gradini n'erano aspersi. Si fermò sforzandosi di sostenersi, e la sua mano tremante lasciò quasi cadere il lume. Non sentiva nulla; quella torre non pareva abitata da anima viva. Si rimproverò mille volte di essere uscita; temeva sempre di scoprire qualche nuovo oggetto d'orrore; eppure, prossima al termine delle sue ricerche, non sapeva risolversi a perderne il frutto. Riprese coraggio, e giunta alla torre, vide un'altra porta e l'aprì. I fiochi raggi della lampada non le lasciarono vedere che mura umide e nude. Entrando in quella stanza, e nella spaventosa aspettativa di ritrovarvi il cadavere della zia, vide qualcosa in un canto, e colpita da un'orribile convinzione, restò alcun tempo immobile. Animata quindi da una specie di disperazione, si accostò all'oggetto del suo terrore, e riconobbe un vecchio arnese militare, sotto al quale erano ammucchiate armi. Mentre si dirigeva alla scala per uscire, vide un'altra porta chiusa di fuori con un catenaccio, e dinanzi alla quale si vedevano altre orme di sangue: chiamò ad alta voce la zia, ma nessuno rispose. «Essa è morta!» sclamò allora; «l'hanno uccisa; il suo sangue rosseggia questi gradini.» Perdè tutta la forza, depose il lume, e sedette sulla scala. Dopo nuovi inutili sforzi per aprire, scese per tornare alla sua camera. Appena fu nel corridoio, vide Montoni, e spaventata più che mai, si gettò in un angolo per non incontrarlo. Gli sentì chiudere una porta, l'istessa ch'ella avea già notato. Ne ascoltò i passi allontanarsi, e quando l'estrema distanza non le permise più di distinguerlo, entrò in camera e coricossi. Già biancheggiava l'alba e le palpebre d'Emilia non eransi ancora chiuse al sonno; ma alfine la natura spossata diè qualche tregua alle sue pene. CAPITOLO XXIV Emilia restò in camera tutta la mattina, senza ricevere alcun ordine di Montoni, nè vedere altro che gli armati i quali passeggiavano sul bastione. L'inquietudine sul destino della zia la vinse finalmente sull'orrore di parlare a quel barbaro, e decise di recarsi da lui per ottenere il permesso di vederla. L'assenza troppo prolungata di Annetta provava inoltre ch'era accaduta qualche disgrazia a Lodovico, e ch'essa era tuttavia rinchiusa. Emilia risolse dunque d'andar a vedere se ella fosse ancora nella stanza, e d'avvertirne Montoni: suonava il mezzogiorno. I lamenti della meschina si sentivano all'estremità della galleria: deplorava il proprio destino e quello di Lodovico; quando intese Emilia, la supplicò a liberarla subito, perchè moriva di fame. La padroncina le rispose che sarebbe andata immediatamente a chiedere la sua liberazione; allora la paura della fame cedè pel momento a quella del padrone; e quando la fanciulla la lasciò, essa la pregava con calore a non iscoprir l'asilo ove nascondeasi: Emilia si avvicinò alla gran sala, ed il tumulto che udì, gl'individui che incontrò rinnovaronle gli spaventi. Però pareano pacifici: la guardavano con avidità, talvolta le parlavano. Traversando la sala per recarsi nel salotto di cedro, ove teneasi d'ordinario Montoni, scorse sul suolo spade infrante e gocce di sangue: quasi quasi credea vedere un cadavere. Avanzandosi, distinse un mormorio di voci, che la fecero titubare se dovesse o no inoltrarsi. Cercava invano cogli occhi qualche servitore per farsi annunziare, ma non ne compariva alcuno. Gli accenti ch'ella intendea non esprimevano più la collera, e riconobbe la voce di parecchi convitati della sera precedente. Mentre si disponeva a bussare, comparve lo stesso Montoni; sorpreso, lasciò conoscere nella sua fisionomia tutti i vari moti dell'animo. Emilia, tremante, stavasi mutola. Montoni le domandò con severità che cosa avesse inteso del loro colloquio. Essa lo accertò di non essere venuta coll'intenzione di ascoltare i di lui segreti, ma per implorare la sua clemenza per la zia e per Annetta. Montoni parve dubitarne, la fissò con occhio indagatore, e l'inquietudine che provava, non poteva nascere da frivole ragioni. Emilia lo scongiurò di lasciarla andare a visitare sua zia: egli rispose con un sorriso amaro, che confermò i suoi timori, e le fece perdere il coraggio di rinnovargliene la preghiera. «Per Annetta,» diss'egli, «andate a trovar Carlo, che le aprirà. Lo stolto che l'ha rinchiusa non esiste più.» Emilia, fremendo, rispose: «Ma la mia povera zia, signore, per pietà, parlatemi della mia zia... --Se ne ha cura,» soggiunse Montoni: «non ho tempo di rispondere alle vostre vane domande.» E volle lasciarla. Emilia lo trattenne scongiurandolo di farle sapere ove fosse sua moglie; d'improvviso intesero la tromba, ed un rumore confuso di uomini e di cavalli nel cortile. Montoni corse subito fuori. Emilia, nell'incertezza di seguirlo, affacciatasi alla finestra, le parve distinguere i medesimi cavalieri veduti partire pochi giorni prima, e, scorgendo accorrer gente da tutte le parti, stimò bene di rifugiarsi nella sua camera. La maniera e le espressioni di Montoni quando aveva parlato di sua moglie, confermavano in parte i di lei sospetti. Stava assorta in que' cupi pensieri, quando vide entrare il vecchio Carlo. «Cara signorina,» le diss'egli, «non ho potuto prima d'ora occuparmi di voi. Vi porto frutti e vino, chè dovete averne bisogno. --Vi ringrazio, Carlo,» diss'ella; «avete forse ricevuto quest'ordine dal signor Montoni? --No signora,» rispose il vecchio; «sua _eccellenza_ ha troppe occupazioni.» La fanciulla rinnovò le sue domande sul destino della zia: ma mentre la trascinavano via, Carlo era dall'altra parte del castello, e da quel momento non ne sapeva più nulla. Mentr'egli così diceva, Emilia lo guardava attenta, e non poteva comprendere se parlasse per ignoranza, o dissimulazione o timore di offendere il padrone. Le rispose laconicamente sulla zuffa della sera prima, accertandola nel tempo stesso che gli alterchi erano finiti, e che il castellano credeva essersi ingannato sospettando degli ospiti. «Il combattimento non ebbe altra origine,» soggiunse Carlo, «ma mi lusingo di non rivedere mai più un simile spettacolo in questo castello sebbene vi si preparino cose strane.» Essa lo pregò di spiegarsi. «Ah! signora,» diss'egli, «non posso tradire il segreto, nè esprimere tutti i miei pensieri in proposito; ma il tempo svelerà tutto.» Essa lo pregò di aprire ad Annetta, indicandogli la stanza ove la meschina si trovava rinchiusa; Carlo le promise di soddisfarla; mentre partiva, gli domandò chi fossero i nuovi arrivati: la sua congettura si verificò: era Verrezzi colla sua truppa. Scorse più di un'ora prima che Annetta comparisse. In fine arrivò piangendo e lamentandosi. «Chi l'avrebbe mai preveduto, signorina? Oh! caso terribile! Oh! povero Lodovico! --L'hanno proprio ucciso?» le chiese commossa Emilia. --No; ma fu ferito gravemente. Ecco perchè non poteva venire ad aprirmi; ma ora comincia a star meglio. --Cara Annetta, mi rallegro molto nel sentire ch'egli esiste.» Appena la giovine fu alquanto calmata, Emilia la mandò a far ricerche sulla zia, ma non potè averne notizia alcuna. I due giorni susseguenti passarono senza verun caso notevole, e senza ch'ella potesse saper nulla della zia. La sera del secondo giorno, in preda al suo dolore, ed assalita da funeste imagini, per iscacciarle, si affacciò alla finestra, considerando i tanti astri fulgidissimi e scintillanti nell'azzurro empireo, che tutti seguono una determinata via senza confondersi nello spazio. Si rammentò quante volte col diletto padre ne avesse osservato il corso. Queste riflessioni finirono a destare in lei quasi egualmente dolore e sorpresa. Pensò ai tristi eventi succeduti alle prime dolcezze della vita, alle ultime scosse, alla sua presente situazione in terra straniera, in un castello isolato, circondata da tutti i vizi, esposta a tutte le violenze, e le pareva d'essere illusa da un sogno prodotto dall'immaginazione alterata, nè poteva persuadersi che tanti mali non fossero ideali. Pianse al pensiero di quanto avrebbero sofferto i di lei genitori, se avessero potuto prevedere le sventure che l'attendevano. Alzò gli occhi al cielo, e vide il medesimo pianeta osservato in Linguadoca la notte precedente alla morte del padre; desso trovavasi al di sopra delle torri orientali. Si rammentò i discorsi relativi allo stato dell'anime, e la melodia intesa, e della quale la sua tenerezza, a dispetto della ragione, aveva ammesso il senso superstizioso. All'improvviso, i suoni d'una dolce armonia parvero traversar l'aere; rabbrividì, ascoltò qualche minuto in una penosa aspettativa, sforzandosi di raccogliere le idee e ricorrere alla ragione. Ma la ragione umana non ha impero sui fantasmi dell'immaginazione, più che i sensi non abbian mezzi per giudicare la forma dei corpi luminosi, che brillano e tosto si estinguono nell'oscurità della notte. La sorpresa di lei a quella musica sì dolce e deliziosa, era per lo meno scusabile, essendo già molto tempo che non udiva la menoma melodia. Il suono acuto del piffero e della tromba era la sola musica che si conoscesse nel castello di Udolfo. Allorchè si fu un poco rimessa, cercò assicurarsi da qual parte venisse il suono. Le parve che partisse dal basso del castello, ma non potè precisarlo. Il timore e la sorpresa cedettero tosto al piacere di un'armonia, che il silenzio notturno rendeva ancor più interessante. La musica cessò, e le idee di Emilia errarono a lungo su questa strana circostanza; era singolare udir musica dopo mezzanotte, allorchè tutti dovevano essere al riposo, e in un castello ove da tanti anni non erasi inteso nulla che vi somigliasse. I lunghi patimenti avevanla resa sensibile al terrore, e suscettibile di superstizione. Le parve che suo padre avesse potuto parlarle con quella musica, per ispirarle consolazione e fiducia sul soggetto ond'era allora occupata. La ragione le suggerì però questa congettura esser ridicola, e la respinse; ma, per un'inconseguenza naturale della fantasia riscaldata, si abbandonò alle idee più bizzarre: rammentò il caso singolare che aveva posto Montoni in possesso del castello; considerò la maniera misteriosa della scomparsa dell'antica proprietaria; non si era mai più saputo nulla di lei, ed il suo spirito fu colpito da paura. Non eravi nessun rapporto apparente tra quell'avvenimento e la melodia, eppure credè che queste due cose fossero legate da qualche vincolo segreto. Finalmente si ritirò dalla finestra, ma le tremavano le gambe nell'accostarsi al letto. Il lume stava per estinguersi, ed ella fremeva di dover restare al buio in quella vasta camera; ma vergognandosi tosto della sua debolezza, andò a letto pensando al nuovo incidente, e risoluta di aspettare la notte successiva all'ora istessa per ispiare il ritorno della musica. CAPITOLO XXV Annetta venne da lei la mattina senza fiato. «Oh! signorina,» le disse con tronche parole, «quante cose ho da raccontarvi! Ho scoperto chi è il prigioniero, ma non era il prigioniero; è quello chiuso in quella camera, di cui vi ho parlato, ed io l'aveva preso per un'ombra! --Chi era quel prigioniero?» chiese Emilia, ripensando al caso della notte scorsa. --V'ingannate, signora, non era prigioniero niente affatto. --Chi è dunque? --Beata Vergine! come son rimasta! L'ho incontrato poco fa sul bastione qui sotto! Ah! signora Emilia, questo luogo è proprio strano. Se ci vivessimo mill'anni, non finirei mai di stupirmi. Ma, come vi diceva, l'ho incontrato sul bastione, e certo pensava a tutt'altro che a lui. --Queste ciarle sono insopportabili; di grazia, Annetta, non abusare della mia pazienza. --Sì, signorina, indovinate? chi era mo; è una persona che voi conoscete benissimo. --Non posso indovinarlo,» rispose Emilia con impazienza. --Ebbene, vi metterò sulla strada. Un uomo grande, col viso lungo, che cammina con gravità, che porta un gran pennacchio sul cappello, che abbassa gli occhi quando gli si parla, e guarda la gente di sotto le ciglia negre e folte! Voi l'avete veduto mille volte a Venezia; era amico intimo del padrone. Ed ora, quando ci penso, di che aveva egli paura in questo vecchio castello selvaggio per chiudervisi con tanta precauzione? Ma adesso prende il largo, ed io l'ho trovato poco fa sul bastione. Tremava nel vederlo; mi ha fatto sempre paura; ma non voleva che se ne accorgesse. Allorchè mi è passato vicino, gli ho fatto una riverenza, e gli ho detto: Siate il ben venuto al castello, signor Orsino. --Ah! dunque era Orsino? --Sì, signora; egli stesso, colui che ha fatto ammazzare quel signore veneziano. --Gran Dio!» sclamò Emilia; «egli è venuto a Udolfo! Ha fatto benissimo a star nascosto. --Ma che bisogno c'è di tante precauzioni? Chi potrebbe mai immaginarsi di trovarlo qui? --È verissimo,» disse Emilia, ed avrebbe forse concluso che la musica notturna veniva da Orsino, se non fosse stata certa non aver egli nè gusto, nè talento per quell'arte. Non volendo aumentare le paure di Annetta parlando di ciò che cagionava la sua, le domandò se fossevi alcuno nel castello che sapesse suonar qualche istrumento. «Oh, sì, signorina, Benedetto suona bene il tamburo, Lancellotto è bravo per la tromba, e anche Lodovico suona bene la tromba. Ma ora è ammalato. Mi ricordo che una volta... --Non avresti tu intesa una musica,» disse Emilia interrompendola, «dopo il nostro arrivo in questo luogo, e segnatamente la notte scorsa? --No, signora; non ho inteso mai altra musica, fuor quella dei tamburi e delle trombe. E quanto alla notte passata, non ho fatto altro che sognare l'ombra della mia defunta padrona. --La tua defunta padrona?» disse la fanciulla tremando; «tu sai dunque qualcosa? Dimmi tutto quello che sai, per carità. --Ma, signorina, voi non ignorate che nessuno sa cosa sia accaduto di lei: è dunque chiaro che ha preso l'istessa strada dell'antica padrona del castello, della quale nessuno ha saputo più nulla.» Emilia, profondamente afflitta, congedò la cameriera, i cui discorsi avevano rianimato i terribili di lei sospetti sul destino della zia, ciò che la decise a fare un secondo sforzo per ottenere qualche certezza in proposito, dirigendosi un'altra volta a Montoni. Annetta tornò di lì a poche ore, e disse ad Emilia che il portinaio del castello desiderava parlarle avendo un segreto da rivelarle. Quest'ambasciata la sorprese, e le fece dubitare di qualche insidia; già esitava ad acconsentire; ma una breve riflessione gliene dimostrò l'improbabilità, e arrossì della sua debolezza. «Digli che venga nel corridoio,» rispos'ella, «e gli parlerò.» Annetta partì, e tornò poco dopo dicendo: «Bernardino non ardisce venire nel corridoio, temendo di essere veduto. Si allontanerebbe troppo dal suo posto, e non può farlo per adesso. Ma se volete compiacervi di venire a trovarlo al portone, passeremo per una strada segreta ch'egli mi ha insegnata, senza traversare il cortile, e vi racconterà cose che vi sorprenderanno assaissimo.» Emilia, non approvando quel progetto, negò positivamente di andare. «Digli,» soggiunse, «che se ha da farmi qualche confidenza, l'ascolterò nel corridoio quando avrà il tempo di venirci.» Annetta andò a portar la risposta, ed al suo ritorno disse ad Emilia: «Non ho concluso nulla, signorina; Bernardino non può in verun modo lasciare la porta in questo momento; ma se stasera, appena farà notte, volete venire sul bastione orientale, egli potrà forse allontanarsi un minuto e svelarvi il suo segreto.» Emilia, sorpresa ed allarmata al tempo stesso dal mistero che colui esigeva, esitava sul partito da prendere; ma considerando che forse l'avvertirebbe di qualche disgrazia, od avrebbe da darle notizie della zia; risolse di accettare l'invito. «Dopo il tramonto del sole,» disse, «io sarò in fondo al bastione orientale; ma allora sarà appostata la sentinella; come farà Bernardino a non esser veduto? --È appunto ciò che gli ho detto, ed esso mi ha risposto aver la chiave della porta di comunicazione fra il cortile e il bastione, per la quale egli si propone di passare; che quanto alle sentinelle, non ne mettono alcuna in fondo al bastione, perchè le mura altissime e la torre di levante bastano da quella parte per guardare il castello, e che quando sarà oscuro, non potrà esser veduto all'altra estremità. --Ebbene,» disse Emilia, «sentirò ciò che vuol dirmi, e ti prego di accompagnarmi stasera sul bastione: intanto di' a Bernardino di esser puntuale all'ora indicata, giacchè potrei ancor io esser veduta dal signor Montoni. Dov'è egli? Vorrei parlargli. --È nel salotto di cedro, a parlamento con altri signori. Io credo che voglia dare un banchetto per riparare il disordine dell'altra notte: in cucina sono tutti occupatissimi.» La padroncina le domandò se aspettavano nuovi ospiti. Annetta non lo credeva. «Povero Lodovico!» diss'ella; «sarebbe allegro come gli altri se fosse ristabilito! Il caso però non è disperato: il conte Morano era più ferito di lui, e intanto è guarito e se n'è tornato a Venezia. --Come facesti a saperlo? --Me l'han detto ier sera, signorina; mi sono scordata di contarvelo.» Emilia la pregò di avvertirla quando Montoni fosse solo. Annetta andò a portar la risposta a Bernardino, che l'aspettava impaziente. Il castellano intanto fu così occupato per tutto il giorno, che Emilia non ebbe l'occasione di calmare i suoi timori sul destino della zia. Volse i suoi pensieri all'ambasciata del portinaio: si perdeva in mille congetture, e man mano che si avvicinava l'ora del misterioso colloquio, cresceva la sua impazienza. Il sole finalmente tramontò: sentì appostare le sentinelle, ed appena giunse Annetta, che doveva accompagnarla, scesero insieme. Emilia temeva d'incontrar Montoni, o qualcuno de' suoi. «Rassicuratevi,» disse Annetta, «sono ancora tutti a tavola, e Bernardino lo sa.» Giunte al primo terrazzo, la sentinella, gridò: _Chi va là?_ Emilia rispose, e s'incamminarono al bastione orientale, ove furono fermate da un'altra sentinella, e dopo una seconda risposta, poterono continuare. Emilia non amava esporsi così tardi alla discrezione di quella gente, impazientissima di ritirarsi, accelerò il passo per raggiunger Bernardino, ma non trovandolo si appoggiò pensierosa al parapetto. Il bosco e la valle eran sepolti nell'oscurità, un lieve venticello agitava solo la cima degli alberi, e tratto tratto si udivano voci nell'interno del vasto edifizio. «Cosa sono queste voci?» disse Emilia tremante. --Quelle del padrone e de' suoi ospiti che gozzovigliano,» rispose Annetta. --Gran Dio! com'è mai possibile che un uomo sia così allegro quando forma l'infelicità del suo simile!... E la fanciulla guardò con raccapriccio la torre di levante presso cui si trovava: vide una fioca luce attraverso la ferriata della stanza inferiore: una persona vi passava col lume in mano; tale circostanza non rianimò le sue speranze a proposito della signora Montoni, poichè, avendola cercata colà appunto, non vi aveva trovato che una vecchia divisa e delle armi. Nulladimeno si decise a tentar di aprire la torre al di fuori, appena Bernardino si fosse partito da lei. Passava il tempo, e costui non compariva. Emilia, inquieta, esitò se dovesse aspettarlo ancora; avrebbe mandata Annetta a cercarlo, se non avesse temuto di restar sola. Mentre ragionava colla seguace della tardanza, lo videro comparire. Emilia si affrettò a domandargli che cosa voleva dirle, pregandolo di non perder tempo, poichè l'aria notturna l'incomodava. «Licenziate la cameriera, signorina,» le disse Bernardino con voce sepolcrale, che la fece fremere, «il mio segreto non posso rivelarlo che a voi sola.» Emilia esitò, ma finì a pregare Annetta di allontanarsi alcuni passi; indi gli disse: «Ora, amico mio, son sola, cosa volete dirmi?» Egli tacque un momento, come per riflettere poi, rispose: «Io perderei certo il mio impiego se lo sapesse il padrone. Promettetemi, signorina, che non paleserete a chicchessia sillaba di ciò che son per dirvi. Chi si è fidato di me in quest'affare me ne farebbe pagare il fio se venisse a capire ch'io l'avessi tradito. Ma mi sono interessato per voi, e voglio dirvi tutto.» Emilia lo ringraziò accertandolo della sua segretezza, e lo pregò di continuare. «Annetta mi ha detto nel tinello, quanto voi state in pena per la signora Montoni, e quanto desiderate essere informata del suo destino. --È vero, se lo sapete ditemi tosto ciò che ha di più terribile; son parata a tutto. --Io posso dirvelo, ma vi veggo così afflitta, che non so come cominciare. --Son parata a tutto, amico,» ripetè Emilia con voce ferma ed imponente, «e preferisco la più terribile certezza a questo dubbio crudele. --Se è così, vi dirò tutto. Già sapete che il padrone e sua moglie non andavano d'accordo; non tocca a me conoscerne il motivo, ma credo che ne saprete il risultato. --Bene,» disse Emilia, «e così? --Il padrone, a quanto pare, ha avuto ultimamente un forte alterco con lei: io vidi tutto, intesi tutto, e più di quel che possono supporre; ma ciò non riguardandomi, io non diceva nulla. Pochi giorni sono egli mi mandò a chiamare e mi disse: Bernardino, tu sei un brav'uomo, e credo potermi fidare di te... Lo assicurai della mia fedeltà. Allora, per quanto mi ricordo, mi disse: Ho bisogno che tu mi serva in un'affare importante. Mi ordinò ciò che doveva fare; ma di questo non dirò nulla, chè concerne soltanto la padrona. --Cielo! che faceste? qual furia poteva indurvi ambidue ad un atto così detestabile? --Fu una furia,» rispose Bernardino con voce cupa, e tacquero entrambi. Emilia non aveva coraggio di domandarne davvantaggio. Bernardino pareva temere di spiegarsi più particolarmente; alfine soggiunse: «È inutile riandare il passato. Il padrone fu troppo crudele, sì, ma voleva essere obbedito. Se io mi fossi ricusato, ne avrebbe trovato un altro meno scrupoloso di me. --L'avete uccisa?» balbettò Emilia; «io dunque parlo con un sicario?» Bernardino tacque, e la fanciulla mosse un passo per lasciarlo. --Restate, signorina,» ei le disse; «voi meritereste di lasciarvelo credere, giacchè me ne stimaste capace. --Se siete innocente, ditelo tosto» soggiunse Emilia quasi moribonda; «non ho forza bastante per ascoltarvi maggior tempo. --Or bene, la signora Montoni è viva per me solo; essa è mia prigioniera: sua eccellenza l'ha confinata nella camera di sopra del portone, e me ne affidò la custodia. Voleva dirvi che avreste potuto parlarle; ma ora...» Emilia, sollevata a tai parole da inesprimibile angoscia, scongiurollo di farle vedere la zia. Egli vi acconsentì senza farsi pregar molto, e le disse che la notte seguente, allorchè Montoni fosse a letto, se voleva recarsi alla porta del castello, potrebbe forse introdurla dalla prigioniera. In mezzo alla riconoscenza che le ispirava siffatto favore, parve alla fanciulla di scorgere ne' di lui sguardi una certa soddisfazione maligna, mentre pronunziava quest'ultime parole. Sulle prime scacciò tale idea, lo ringraziò di nuovo, e raccomandò la zia alla di lui pietà, assicurandolo che l'avrebbe ricompensato, e sarebbe esatta all'appuntamento indicato; quindi gli augurò buona sera, ed andossene. Passò qualche ora prima che la gioia, eccitata in lei dal racconto di Bernardino, le permettesse di giudicare con precisione dei pericoli che minacciavano ancora la zia e lei stessa. Quando la sua agitazione si calmò, riflettè che la zia era prigioniera d'un uomo, il quale poteva sacrificarla alla vendetta o all'avarizia sua. Allorchè pensava all'atroce fisonomia del portinaio, credeva che il suo decreto di morte fosse già firmato; immaginando colui capace di consumare qualunque atto barbaro. Queste idee le rammentarono l'accento col quale le aveva promesso di farle vedere la prigioniera. Le venne mille volte in idea che la zia potesse esser già morta, e che lo scellerato era forse incaricato d'immolare anche lei all'avarizia di Montoni, il quale di tal guisa sarebbe entrato in possesso dei suoi beni in Linguadoca, che avevan formato il tema d'una sì odiosa contestazione. L'enormità di questo doppio delitto gliene fece alla fine respingere la probabilità; ma non perdè tutti i timori, nè tutti i dubbi ispiratile dalle maniere di Bernardino. La notte era già molto avanzata, ed ella si afflisse quasi di non sentir la musica, della quale aspettava il ritorno con sentimento più forte della curiosità. Distinse lunga pezza le risa smoderate di Montoni e de' suoi convitati, le canzoni lubriche, e sentì finire ben tardi i loro rumorosi discorsi. Susseguì un profondo silenzio interrotto soltanto dai passi di quelli che si ritiravano ne' rispettivi alloggi. Emilia, ricordandosi che la sera precedente aveva intesa la musica press'a poco all'istess'ora, aprì pian piano la finestra, stando in attenzione della soave armonia. Il pianeta da lei osservato al primo sentire della musica, non si vedeva ancora, e cedendo ad una impressione superstiziosa, guardava attenta la parte del cielo in cui doveva apparire, aspettando la melodia nello stesso momento. Alfine esso comparve, rifulgendo sopra le torri orientali. Emilia tese l'orecchio, ma indarno. Le ore scorsero in ansiosa aspettativa; nessun suono turbò la calma solenne della natura. Ella rimase alla finestra finchè l'alba non cominciò a biancheggiare le vette de' monti, e persuasa allora che la musica non si sarebbe altrimenti sentita, se ne andò a letto. CAPITOLO XXVI Emilia restò sorpresa il dì seguente udendo che Annetta sapeva la detenzione della zia nella camera sopra il portone d'ingresso del castello, e non ignorava neppure il progetto di visita notturna; che Bernardino avesse potuto confidare alla cameriera un mistero così importante era poco probabile, ma intanto le mandava un messaggio relativo al loro colloquio, invitandola a trovarsi sola, un'ora dopo mezzanotte, sul bastione, e aggiungendo che avrebbe agito secondo la promessa. Emilia fremè a tale proposta, e fu assalita da mille timori simili a quelli che l'avevano agitata la notte. Non sapea qual partito prendere: figuravasi spesso che Bernardino l'avesse ingannata; che forse aveva già assassinata la zia; ch'era in quel momento il sicario di Montoni, il quale voleva sacrificarla all'esecuzione dei suoi progetti. Il sospetto che la infelice donna non vivesse più, si riunì ai suoi timori personali. Infatti, lo zio sapeva che, in caso di morte della moglie senza avergli fatta la cessione de' suoi beni, li avrebbe ereditati Emilia; ned era improbabile ch'egli pensasse a sbarazzarsi anche di lei per entrar in tranquillo possesso di quelle tanto agognate sostanze. Alfine, il desiderio di liberarsi da tante crudeli incertezze, la decisero a non mancare al convegno. «Ma come potrò io,» diss'ella, «traversar il bastione così tardi? Le sentinelle mi fermeranno, e il signor Montoni lo saprà. --Bernardino ha pensato a tutto,» rispose Annetta; «ei mi ha dato questa chiave, incaricandomi d'avvertirvi ch'essa apre una porta in fondo alla galleria a vôlta, che conduce al bastione di levante; così non temerete d'incontrare gli uomini di guardia. Mi ha incaricato di dirvi inoltre che vi fa andare sul terrazzo sola per condurvi al luogo convenuto, onde non aprire la sala grande, il cui cancello cigola.» Questa spiegazione così naturale calmò Emilia. «Ma perchè vuole egli ch'io vada sola? --Perchè? glie l'ho domandato appunto. Perchè, gli dissi, non potrei venire anch'io? che male ci sarebbe? Ma mi ha risposto di no. Io volli persistere: fu inflessibile. Mi figuro però che saprete chi andate a vedere. --Te lo ha forse detto Bernardino? --No, signora, non mi ha detto nulla.» Per tutto il resto del dì, Emilia fu in preda a continue incertezze. Udì suonare la mezzanotte e titubava ancora. La pietà per la zia vinse alfine ogni ripugnanza: pregò Annetta di seguirla fino alla porta della galleria, e quivi aspettare il suo ritorno. Giunta colà, aprì, tremando, la porta, ed entrata sola e senza lume sul bastione, avanzossi guardinga ed attenta verso il luogo convenuto, cercando Bernardino attraverso le tenebre. Raccapricciò al suono di una voce rauca che parlava vicino a lei, e riconobbe tosto il portinaio, il quale l'aspettava appoggiato al parapetto. E' le rimproverò la sua tardanza, dicendole aver mancato più di mezz'ora. Le disse di seguirlo, ed accostossi al luogo ond'era entrato sul terrazzo. Quando la porta fu aperta, la tetra oscurità dell'andito, illuminato da una sola fiaccola che ardeva infissa nel suolo, la fece fremere; ricusò di entrarvi, a meno che non permettesse ad Annetta di accompagnarla. Bernardino si oppose, ma unì destramente al rifiuto tante particolarità proprie ad eccitare la curiosa pietà di Emilia per la zia, che riuscì a persuaderla a seguirlo fino al portone. Egli prese la torcia e andò avanti. In fondo all'andito aprì un'altra porta, e scesi pochi gradini si trovarono in una cappella diroccata. La fanciulla si rammentò alcuni discorsi di Annetta su tal proposito. Contemplava con terrore quelle mura senza vôlta e coperte di musco; quelle finestre gotiche dove l'ellera e la brionia supplivano da lunga pezza ai vetri, ed i cui festoni frammischiavansi ai capitelli infranti. Bernardino urtò in una pietra e proruppe in una bestemmia orribile, resa più tremenda dall'eco lugubre. Il cuore di lei si agghiacciò, ma continuò a seguirlo, ed egli voltò a destra. «Per di qui, signorina,» le disse, scendendo una scala che pareva addurre a profondi sotterranei. Emilia si fermò domandandogli con voce tremante ove pretendesse condurla. «Al portone,» rispose Bernardino. --Non possiamo andarci per la cappella? --No, signora, essa ci condurrebbe nel secondo cortile, ch'io voglio scansare.» Emilia esitava ancora, temendo egualmente di andare innanzi, e d'irritare colui ricusando di seguirlo. «Venite, signorina,» diss'egli, giunto già in fondo alla scala, «spicciatevi: io non posso star qui tutta notte; non vi aspetto più.» Sì dicendo, andò innanzi, portando sempre la fiaccola. Emilia, temendo di restar nelle tenebre, lo seguì con ripugnanza. Giunsero in un sotterraneo, ove l'aria umida e grossa, i folti vapori oscuravan talmente la fiaccola, che Bernardino, per paura non gli si spegnesse, si fermò un momento ad attizzarla; nell'intervallo, Emilia osservò vicino a lei un doppio cancello di ferro, e, più lontano, alcuni mucchi di terra che parevano circondare una fossa da morti. Simile spettacolo in cotal luogo l'avrebbe colpita violentemente in ogni altro tempo, ma allora credè quella fosse la tomba della zia, e che il perfido Bernardino conducesse anche lei alla morte. Il luogo oscuro e terribile ove ritrovavansi giustificava quasi il suo pensiero, che sembrava adattato al delitto, e vi si poteva commettere impunemente un assassinio. Vinta dal terrore, non sapeva che risolvere, pensando come vana fosse la fuga, impedita dalla tenebria e dal lungo cammino, non che dalla sua debolezza. Pallida ed inquieta, aspettava che Bernardino avesse attizzata la fiaccola, e siccome la sua vista ricorreva sempre alla fossa, non potè a meno di chiedergli per chi fosse preparata. L'uomo volse vêr lei gli sguardi senza rispondere. Ella ripetè la domanda; colui, scuotendo la face, andò oltre, nè aperse bocca. La fanciulla camminò tremando sino ad un'altra scala, salita la quale trovaronsi nel primo cortile. Nel traversarlo, la fiamma lasciava vedere le alte e nere muraglie tappezzate di lunghe erbe sporgenti dalle commessure, e coronate da torricelle contrastanti colle enorme torri del portone. In quel quadro risaltava la tarchiata figura di Bernardino. Costui era avvolto in un lungo mantello scuro, sotto del quale appena si scuoprivano i suoi coturni, o sandali, e la punta della lunga sciabola che portava costantemente al fianco. Aveva in testa un berretto basso di velluto nero ornato d'una piccola piuma. I lineamenti duri esprimevano un umore burbero, astuto ed impaziente. La vista del cortile rianimò l'abbattuta Emilia, e nell'avvicinarsi al portone cominciò a sperare di essersi ingannata nelle sue paurose congetture; guardando inquieta la prima finestra sopra la vôlta, e vedendola scura, domandò se fosse quello il luogo ove trovavasi rinchiusa la sua zia. Essa parlava adagio, e Bernardino non parve intenderla perchè non le rispose. Entrarono nell'edifizio, e trovaronsi ai piè della scala d'una delle torri. «La signora Montoni dorme lassù,» disse Bernardino. --Dorme!» rispose Emilia salendo. --Dorme in quella camera lassù,» soggiunse l'uomo. Il vento che soffiava per quelle profonde cavità accrebbe la fiamma della torcia, la quale rischiarò vie meglio l'atroce figura di Bernardino, le vetuste pareti, la scala a chiocciola annerita dal tempo, e gli avanzi di vecchie armature che parean il trofeo d'antiche vittorie. Giunti al pianerottolo, la guida mise una chiave nella serratura d'una stanza, «Potete entrar qui,» le disse, «ed aspettarmi: intanto vado a dire alla padrona che siete arrivata. --È una precauzione inutile, chè mia zia mi vedrà volentieri. --Non ne sono ben sicuro,» soggiunse Bernardino additando la camera. «Entrate, signorina, che io vado ad avvertirla.» Emilia, sorpresa ed offesa in certo qual modo, non ardì resistere; ma siccome colui portava via la fiaccola, lo pregò di non lasciarla al buio. Ei si guardò intorno, e veduta una lucerna in sulla scala, l'accese e la diede alla fanciulla, la quale entrò, ed egli chiuse la porta al di fuori; ascoltò attenta, e le parve che, in vece di salire, scendesse la scala, ma il vento impetuoso che soffiava sotto il portone, non le permetteva di distinguere alcun suono; infine, non udendo verun movimento nella camera superiore aveva detto il custode che stava la Montoni, stette viepiù perplessa. Poco dopo, in un intervallo di calma, le parve sentir scendere Bernardino nel cortile, e di ascoltarne perfino la voce. Tutti i primieri timori tornarono a colpirla più forte, persuasa non fosse più errore dell'immaginazione, ma un avvertimento del destino che doveva subire: non dubitò che la sua zia non fosse stata immolata, e forse in quella medesima stanza ove aveano tratto anche lei pel medesimo oggetto. Il contegno e le parole di Bernardino a proposito della zia confermavano le sue idee lugubri. Stava attenta, e non sentiva verun rumore nè sulla scala, nè nella stanza superiore; accostatasi alla finestra munita di ferree sbarre, udì alcune voci tra il soffio del vento, ed al lume di una torcia che pareva essere sotto la vôlta, vide sul suolo l'ombra di parecchi uomini, tra cui una colossale, che riconobbe per quella del feroce custode. Appena il di lei spirito si fu calmato, prese il lume per vedere se le fosse possibile di fuggire. La stanza era spaziosa, nè aveva altre aperture che la finestra e la porta per la quale era entrata: non c'erano mobili, all'infuori di un seggiolone di bronzo fisso in mezzo alla stanza, e sul quale pendeva una grossa catena di ferro, infissa alla vôlta. Lo guardò a lungo con orrore e sorpresa; osservò vari cerchi pure di ferro per chiudervi le gambe, ed altri simili anelli sui bracciuoli della sedia. Si convinse che quell'odiosa macchina era un istrumento di tortura, e che più d'un infelice, incatenato colà, doveva esservi morto di fame. Se le rizzarono i capelli al pensiero di trovarsi in siffatto luogo, e precipitossi all'altra estremità per cercarvi uno sgabello; ma non vide che una tenda oscura, la quale copriva intieramente parte della stanza. Attonita, stette a considerarla con ispavento: desiderava e temeva di sollevarla per vedere ciò che ricoprisse: due volte fu trattenuta dalla rimembranza dello spettacolo orribile che la sua mano temeraria aveva scoperto nell'appartamento chiuso; ma pensando che forse nascondeva il cadavere della zia assassinata, spinta dalla disperazione, l'alzò. Dietro trovavasi un cadavere steso sopra un lettuccio basso e lordo di sangue; la sua faccia, sfigurata dalla morte, era schifosa e coperta di livide ferite. Emilia lo contemplò con occhio avido e smarrito: ma il lume le cadde di mano; e cadde ella stessa svenuta a' piè dell'orribile oggetto. Allorchè riebbe i sensi, si trovò nelle braccia di Bernardino, e circondata da gente che la trasportava fuori: si accorse di che si trattava; ma l'estrema debolezza non le permise di alzar la voce, nè di fare moto alcuno, e scese la scala. Si fermarono sotto la vôlta: uno di coloro, togliendo la torcia a Bernardino, aprì una porta laterale, ed uscendo sulla piattaforma, lasciò distinguere gran quantità di gente a cavallo. Sia che l'aria aperta l'avesse un poco rianimata, o che quegli strani oggetti la restituissero al sentimento del pericolo, la fanciulla gettò alcune strida e fece vani sforzi per isciogliersi da quei briganti. Bernardino intanto chiedeva la torcia, alcune voci lontane rispondevano, parecchie persone si avvicinavano, e un lume comparve nel cortile; Emilia fu trascinata fuor della porta: ella vide lo stesso uomo che teneva la torcia del portinaio, occupato a far lume ad un altro, il quale sellava un cavallo in fretta, circondato da altri cavalieri dal truce aspetto. «Perchè perdere tanto tempo?» disse Bernardino, bestemmiando ed avvicinandosi; «spicciatevi, fate presto, perdio! --La sella è quasi pronta,» rispose l'uomo che l'affibbiava, e Bernardino bestemmiò di nuovo per siffatta trascuraggine. Emilia, che gridava aiuto con voce fioca, fu trascinata verso i cavalli, ed i briganti disputarono fra loro su quale dovessero farla montare. In quella uscì molta gente con lumi, ed Emilia conobbe distintamente, fra tutte le altre, la voce strillante di Annetta: scorse quindi Montoni e Cavignì seguiti da soldati. Non li vedeva più allora con paura, ma con isperanza, e non pensava più ai pericoli del castello, dal quale poco prima desiderava tanto fuggire. Dopo una breve zuffa, Montoni ed i suoi sconfissero i nemici, i quali, in minor numero, e poco interessati forse nell'impresa ond'erano incaricati, fuggirono di galoppo. Bernardino sparve fra le tenebre, ed Emilia fu ricondotta nel castello. Ripassando dal cortile, la memoria di quanto aveva veduto nella stanza del portone rinnovò in lei i terrori primieri; e quando udì ricadere la saracinesca che la rinchiudeva ancora in quelle mura formidabili, fremè, ed obliando quasi il nuovo pericolo cui era sfuggita, non poteva comprendere come la vita e la libertà non si trovassero al di là di quelle barriere. Montoni ordinò ad Emilia d'aspettarlo nella sala di cedro. Vi andò poco dopo, e l'interrogò con severità sul misterioso avvenimento. Sebbene lo riguardasse allora come l'assassino di sua zia, e potesse appena soddisfare alle sue domande, pure le di lei risposte poterono convincerlo non avere essa avuto volontariamente alcuna parte nella trama, e la congedò appena vide comparire la sua gente, che aveva fatto radunare per iscoprire i complici. Emilia stette un pezzo agitata prima di poter riflettere sull'occorso. Il cadavere veduto dietro alla tenda stavale sempre innanzi agli occhi, e ruppe in dirotto pianto. Annetta gliene chiese il motivo, ma essa non volle confidarglielo, per timore di irritare Montoni. Costretta a concentrare in sè tutto l'orrore di quel segreto, la di lei ragione fu per soccombere all'insopportabile peso. Quando Annetta le parlava, essa non l'udiva, o rispondeva fuor di proposito; sospirava, ma non versava lagrime. Spaventata dalla di lei situazione, Annetta corse ad informarne Montoni: egli aveva allora congedati i servi, senza avere scoperto nulla. Il commovente racconto che gli fece la cameriera sullo stato di Emilia, lo indusse a recarsi da lei. Al suono della sua voce, la fanciulla alzò gli occhi, un raggio di luce parve ravvivarne gli spiriti: si alzò per ritirarsi lentamente in fondo alla camera. Montoni le parlò con dolcezza: essa lo guardava con aria curiosa e spaventata, rispondendo sempre di sì a tutte le sue domande. Il di lei spirito pareva aver ricevuto una sola impressione, quella della paura. Annetta non poteva spiegar questo disordine, e Montoni, dopo inutili sforzi per farla parlare, ordinò alla donzella di restar là tutta notte, e d informarlo il giorno di poi del suo stato. Partito che fu, Emilia si ravvicinò, e domandò chi fosse colui ch'era venuto ad inquietarla, Annetta le rispose ch'era il signor Montoni, ed essa, ripetendo replicatamente questo nome, si lasciò condurre al letto, e l'esaminò con occhio smarrito; volgendosi quindi tremando alla seguace, la scongiurò a non lasciarla, dicendo che dopo la morte di suo padre era stata abbandonata da tutti. Annetta ebbe la prudenza di non interromperla, e quando, dopo aver pianto molto, la vide infine cedere al sonno, l'affezionata ragazza, obliando ogni paura, restò sola ad assistere Emilia tutta notte. CAPITOLO XXVII Il riposo restituì le forze alla fanciulla. Svegliandosi vide con sorpresa Annetta addormentata su d'una sedia vicina e tentò di rammentarsi le circostanze della sera uscitele talmente dalla memoria, che non gliene restava traccia: fissava tuttavia gli occhi sopra la cameriera, quando questa si destò. «Ah, cara padroncina mi riconoscete?» sclamò essa. --Se ti riconosco! Sicuramente; tu sei Annetta; ma come ti trovi qui? --Oh! voi siete stata malissimo, in verità, ed io credeva... --È singolare,» disse Emilia, procurando rammentarsi il passato; «ma parmi essere stata funestata da un sogno orribile! Dio buono!» soggiunse raccapricciando; «certo non poteva essere che un sogno.» E fissava sguardi spaventati su Annetta, la quale, volendo tranquillarla, le rispose: «Non era un sogno, no, ma ora tutto è finito. --Essa fu dunque uccisa?» disse Emilia tremante. Annetta mise un grido; essa ignorava la circostanza che ricordavasi la fanciulla, ed attribuiva la frase al delirio. Quand'ebbe chiaramente spiegato ciò che aveva voluto dirle, Emilia si rammentò il tentativo per rapirla, e domandò se l'autore del progetto era stato scoperto. L'altra le rispose di no, sebbene fosse facile indovinarlo, e disse che doveva a lei la sua liberazione. «È così, signora Emilia,» continuò Annetta; «io era decisa ad essere più accorta di Bernardino, il quale non aveva voluto confidarmi il suo segreto; ma io mi era piccata di scuoprirlo. Invigilava sulla terrazza; ed appena egli ebbe aperta la porta, uscii per cercar di seguirvi, persuasissima che non si progettava nulla di buono con tanto mistero. Assicuratami che non aveva chiusa la porta internamente, l'aprii, e vi tenni dietro da lontano, aiutata dal chiaror della fiaccola, fin sotto la vôlta della cappella. Io ebbi paura di andare avanti, avendo sentito raccontare cose strane di quel luogo, ma temeva parimenti ritornarmene sola; e mentre Bernardino attizzava la torcia, vinsi ogni timore, vi seguii fino al cortile, e quando saliste la scala, scivolai pian piano sotto il portone, ove intesi un calpestìo di cavalli al di fuori, e vari uomini che bestemmiavano contro Bernardino, perchè tardava a condurvi; ma colà fui quasi sorpresa: il custode scese, ed io ebbi appena il tempo di schivarlo. Aveva sentito abbastanza per sapere di che si trattava, nè dubitai più che c'entrasse il conte Morano in quel progetto, benchè fosse partito. Corsi indietro al buio, obliando tutte le paure; eppure non farei un'altra volta lo stesso tragitto per tutto l'oro del mondo. Fortunatamente il signor Cavignì ed il padrone erano ancora alzati; in un batter d'occhio radunammo gente, e abbiam fatti fuggire i briganti.» L'ancella aveva cessato di parlare, e Emilia parea ascoltare ancora. Finalmente, rompendo il silenzio, disse: «Credo sia meglio andarlo a trovare io stessa. Dov'è?» Annetta domandò di chi parlasse. «Del signor Montoni; ho bisogno di vederlo.» Annetta, rammentandosi allora l'ordine ricevuto la sera, si alzò immantinente, dicendo che incaricavasi d'andarlo a cercare. I sospetti della buona ragazza sul conte erano fondatissimi; e Montoni, non dubitandone anch'esso, cominciò a presumere che il veleno mescolato col vino vi fosse stato messo per ordine di Morano. Le proteste di pentimento da questi fatte ad Emilia allorchè fu ferito, erano sincere quando le fece, ma erasi ingannato anche lui. Aveva creduto disapprovare i suoi progetti, e si affliggeva soltanto del funesto loro risultato; quando però fu guarito, le sue speranze si rianimarono, e si trovò disposto ad intraprendere nuovi tentativi. Il portinaio del castello, lo stesso ond'erasi già servito, accettò volentieri un secondo regalo, e quand'ebbero concertato il ratto di Emilia, il conte partì pubblicamente dall'abituro ov'era stato a curarsi, e si ritirò colla sua gente a qualche miglio di distanza. Le ciarle sconsiderate di Annetta avendo somministrato a Bernardino un mezzo quasi sicuro per ingannare Emilia, il conte nella notte convenuta mandò tutti i suoi servi alla porta del castello, restando esso all'abituro per aspettarvi la fanciulla, cui si proponeva di condurre a Venezia. Abbiamo già veduto in qual modo andò a vuoto il suo progetto; ma le violente e diverse passioni dalle quali fu agitata l'anima gelosa di lui, son difficili ad esprimere. Annetta fece l'ambasciata a Montoni e gli domandò un colloquio per la nipote: egli rispose che fra un'ora sarebbe stato nel salotto di cedro. Emilia non sapeva qual esito dovesse aspettarsi dall'abboccamento, e fremeva d'orrore alla sola idea della sua presenza; voleva parlargli del funesto destino della zia, e supplicarlo d'una grazia che ardiva appena sperare, di ritornare cioè in patria, giacchè la zia non esisteva più. Mentre, combattuta da mille timori, rifletteva sulla prossima conferenza, e sulle probabili conseguenze che potea derivargliene, Montoni le fece dire non poterla vedere se non il giorno dopo: Emilia non seppe che cosa pensare di tal ritardo. Annetta le disse, che Verrezzi e la sua truppa tornavano per certo alla guerra: il cortile esser pieno di cavalli, ed avere saputo che il resto della banda era aspettato per prendere tutti insieme un'altra direzione. Quando fu notte, Emilia si rammentò la musica misteriosa già udita; vi attaccava tuttavia una specie d'interesse, sperando provarne qualche sollievo. L'influenza della superstizione diventava ogni giorno più attiva sulla di lei fantasia infiacchita; congedò Annetta, e risolse di restar sola per aspettare la musica. Andò diverse volte alla finestra invano; le parve avere intesa una voce, e dopo un profondo silenzio, si credè nuovamente delusa nella sua aspettativa. Così passò il tempo fino a mezzanotte, ed allora tutti i rumori lontani che si facevano sentire nell'abitato, cessarono quasi nello stesso momento, e il sonno parve regnar dappertutto. Tornò alla finestra, e fu scossa da suoni straordinari: non era un'armonia, ma il basso lamento d'una persona desolata. Atterrita, stette ad ascoltare: i flebili lamenti eran cessati: si chinò fuori della finestra per iscoprire qualche lume: una perfetta oscurità avvolgeva le camere sottoposte, ma credè vedere a poca distanza, sul bastione, moversi qualche oggetto. Il debole chiarore delle stelle non le permetteva di distinguer bene: s'immaginò fosse una sentinella, e celò il lume per osservare meglio senza essere veduta. Il medesimo oggetto ricomparve quasi sotto la finestra: essa distinse una figura umana; ma il silenzio con cui si avanzava le fe' credere non fosse una sentinella; la figura si accostò: Emilia voleva ritirarsi, ma la curiosità la spingeva a restare, ed in quell'incertezza l'incognito si pose in faccia a lei e restò immobile. Il profondo silenzio, la misteriosa ombra la colpirono talmente, che stava per ritrarsi, allorchè vide la figura muoversi lungo il parapetto e sparire. Emilia pensò qualche tempo a questa strana circostanza, non dubitando di aver veduto un'apparizione soprannaturale. Allorchè fu più tranquilla, si ricordò ciò che le avean detto delle temerarie imprese di Montoni, e le venne in idea d'aver visto uno di quegl'infelici spogliati dai banditi, divenuto loro prigioniero, e ch'egli fosse l'autore della musica misteriosa. Riflettendo però che un prigioniero non poteva passeggiare così senza guardia, respinse tale idea. Credè in seguito che Morano avesse trovato il mezzo d'introdursi nel castello, ma se le presentarono tosto le difficoltà ed i pericoli di siffatta impresa, tanto più che se gli fosse riuscito di giunger fin lì, non sarebbesi contentato di stare muto a mezzanotte sotto la finestra, giacchè conosceva perfettamente la scala segreta, e non avrebbe per certo fatto quei lamenti da lei intesi. Giunse perfino a supporre, fosse qualcuno che volesse impadronirsi del castello; ma i suoi dolorosi sospiri distruggevano anche questa congettura. Allora risolse di vegliare la notte successiva per cercar di dilucidare il mistero, decisa ad interrogare la figura se si fosse di nuovo mostrata. CAPITOLO XXVIII Il giorno di poi Montoni mandò ad Emilia una seconda scusa, che la sorprese non poco. Verso sera, il distaccamento che aveva fatta la prima scorreria nelle montagne, tornò al castello: dalla sua camera remota, Emilia sentì le frenetiche grida ed i canti di vittoria. Annetta venne poco dopo ad avvertirla che coloro si rallegravano alla vista d'un immenso bottino. Tal circostanza la confermò nell'idea, che Montoni fosse realmente un capo di masnadieri, e si fosse prefisso di ristabilire la sua opulenza assaltando i viaggiatori. In verità, quand'essa rifletteva alla posizione di quel castello fortissimo, quasi inaccessibile, isolato in mezzo a quei monti selvaggi e solilari, lontano da città, borghi e villaggi, sul passaggio dei più ricchi viaggiatori; le pareva che tal situazione fosse adattatissima per progetti di rapina, e non dubitò che Montoni non fosse realmente un capo di assassini. Il di lui carattere sfrenato, audace, crudele e intraprendente, conveniva molto ad una simile professione; amava il tumulto, e la vita burrascosa; era insensibile a pietà e timore; il suo coraggio somigliava alla ferocia animale: non era quel nobile impulso che eccita il generoso contro l'oppressore a pro dell'oppresso; ma una semplice disposizione fisica che non permette all'anima di sentire il timore, perchè non sente null'altro. La supposizione di Emilia, quantunque plausibile, non era però abbastanza esatta: essa ignorava la situazione dell'Italia, e l'interesse rispettivo di tante contrade belligeranti. Siccome i redditi di parecchi Stati non bastavano a mantenere eserciti, neppure nel breve periodo in cui il genio turbolento dei governi e dei popoli permetteva di godere i benefizi della pace, si formò a quell'epoca un ordine di uomini ignoti nel nostro secolo, e mal dipinti nella storia di quello. Fra i soldati licenziati alla fine di ciascuna guerra, un piccolissimo numero soltanto tornava alle arti poco lucrative della pace e del riposo. Gli altri, talvolta passavano al servizio de' potentati in guerra; tal altra formavansi in bande di briganti, e padroni di qualche forte, il loro carattere disperato, la debolezza dei governi, e la certezza che al primo segnale sarebbero corsi sotto le bandiere, li metteva al coperto da ogni persecuzione civile. Si attaccavano spesso alla fortuna d'un capo popolare, che li conduceva al servizio di qualche Stato, e trafficava il prezzo del loro coraggio. Quest'uso fe' dar loro l'epiteto di _condottieri_, nome formidabile in Italia per un periodo assai lungo. Ne vien fissato il fine al principio del secolo decimosettimo; ma sarebbe quasi impossibile indicarne con precisione l'origine. Quando non erano assoldati, il capo d'ordinario risiedeva nel suo castello; e là, o ne' luoghi circonvicini, godevano tutti dell'ozio e del riposo. Talvolta soddisfavano i bisogni a spese dei villaggi, ma tal altra la loro prodigalità, allorchè dividevano il bottino, ricompensava ad usura delle loro sevizie, ed i loro ospiti prendevano alla lunga qualche tinta del carattere bellicoso. Montoni, spinto dalle grosse perdite al giuoco, aveva finito col farsi anch'egli capo d'una di queste bande; Orsino ed altri si riunirono a lui, e l'avanzo de' loro averi avea servito a formare un fondo per l'impresa. Appena fu notte, Emilia tornò alla finestra, decisa di osservare più esattamente la figura, caso mai ricomparisse. Intanto perdevasi in mille congetture. Sentivasi spinta quasi irresistibilmente a cercar di favellarle; ma ne la tratteneva il terrore. «Se fosse una persona,» pensava, «che avesse progetti su questo castello, la mia curiosità potrebbe forse divenirmi fatale; eppure que' lamenti, quella musica da me intesi son certo suoi, nè posson venire da un nemico.» La luna tramontò, l'oscurità divenne profonda; ella intese suonare la mezzanotte senza vedere nè sentir nulla, e cominciò a formar qualche dubbio sulla realtà della precedente visione, per cui, stanca di aspettare invano, se ne andò a letto. Montoni non pensò neppure il giorno seguente a farla chiamare pel richiesto abboccamento. Più interessata che mai di vederlo, gli fece domandare, per mezzo di Annetta, a qual ora potesse riceverla; egli le assegnò le undici ore. Emilia fu puntuale, si armò di coraggio per sopportar la vista dell'assassino di sua zia, e lo trovò nel salotto di cedro circondato da tutti i suoi ospiti, alcuni dei quali si volsero appena l'ebbero veduta, facendo un'esclamazione di sorpresa. Emilia, vedendo che Montoni non le badava, voleva ritirarsi, allorchè esso la richiamò indietro. «Vorrei parlarvi da sola, signore, se ne aveste il tempo. --Sono in compagnia di buoni amici pei quali non ho segreti; parlate dunque liberamente,» rispose Montoni. Emilia senza aprir bocca, s'incamminò verso la porta, ed allora Montoni si alzò e la condusse in un gabinetto, chiudendone l'uscio dispettosamente. Essa sollevò gli occhi sulla di lui fisonomia barbara, e pensando che contemplava l'assassino della zia, compresa d'orrore, perdette la memoria dello scopo della sua visita, e non osò più nominare la signora Montoni. Questi finalmente le domandò con impazienza ciò che volesse da lui, «Non posso perder tempo in bagattelle,» diss'egli, «avendo affari di molta importanza.» Emilia gli disse allora che, desiderando tornarsene in Francia, veniva a domandargliene il permesso. La guardò con sorpresa, chiedendole il motivo di tale richiesta. Emilia esitò, tremò, impallidì, e sentì scemarsi d'animo. Egli vide la sua commozione con indifferenza, e ruppe il silenzio per dirle che gli premeva di tornare nel salotto; Emilia facendosi forza, ripetè allora la domanda, e Montoni le diede un'assoluta negativa. Resa allora ardita: «Non posso più, signore,» diss'ella, «restar qui convenientemente, e potrei chiedervi con qual diritto volete impedirmi di partire. --Per volontà mia,» rispose egli incamminandosi verso la porta, «ciò vi basti.» Emilia, vedendo che simile decisione non ammetteva appello, non tentò di sostenere i suoi diritti, e fe' solo un debole sforzo per dimostrarne la giustizia. «Fin quando viveva mia zia,» diss'ella con voce tremante «la mia residenza qui potea esser decente, ma or ch'essa non è più, mi si deve concedere di partire. La mia presenza, o signore non può tornarvi gradita, e un più lungo soggiorno qui non servirebbe che ad affliggermi. --Chi vi ha detto che la signora Montoni sia morta?» diss'egli fissandola con occhio indagatore. Ella esitò; nessuno aveaglielo detto, ed essa non ardiva confessargli come avesse veduto nella stanza del portone l'orribile spettacolo che glielo aveva fatto credere. --Chi ve lo ha detto?» ripetè Montoni con impaziente severità. --Lo so pur troppo per mia sventura; per pietà, non parlatemene più.» E sentivasi venir meno. --Se volete vederla,» disse Montoni, «lo potete; essa è nella torre d'oriente.» E la lasciò senza aspettare risposta. Parecchi dei cavalieri, che non avevano mai veduta Emilia, cominciarono a motteggiarlo su tale scoperta, ma Montoni avendo accolte siffatte celie con serio contegno, e' cambiarono discorso. Emilia, intanto, confusa dell'ultime di lui parole, non pensò che a rivedere l'infelice zia, a ciò spronata dall'imperioso dovere. Appena vide Annetta, la pregò di accompagnarla e l'ottenne con grande difficoltà. Uscite dal corridoio, giunsero appiè della scala insanguinata; Annetta non volle andare più innanzi. Emilia salì sola; ma quando rivide le strisce di sangue, si sentì mancare, e fermossi. Alcuni minuti di pausa la rinfrancarono. Giunta sul pianerottolo, temè di trovar la porta chiusa; ma s'ingannava: la porta s'aprì facilmente, introducendola in una camera oscura e deserta. La considerò paurosa: si avanzò lentamente, ed udì una voce fioca. Incapace di parlare o di fare alcun moto, ristette: la voce si fece sentire nuovamente, e parendole allora di riconoscere quella della zia, si fece coraggio, si avvicinò ad un letto che scorse in fondo alla vastissima camera, ne aprì le cortine, e vi trovò una figura smunta e pallida; rabbrividì, e presale la mano che somigliava a quella di uno scheletro, e guardandola attenta, riconobbe madama Montoni, ma sì sfigurata, che i suoi lineamenti attuali le rammentavano appena ciò ch'era stata. Essa viveva ancora, ed aprendo gli occhi, li volse alla nipote. «Dove siete stata tanto tempo?» le chiese col medesimo suono di voce; «credeva che mi aveste abbandonata. --Vivete voi,» parlò alfine Emilia, «o siete un'ombra? --Vivo, ma sento che sto per morire.» Emilia procurò di consolarla, e le domandò chi l'avesse ridotta in quello stato. Facendola trasportare colà per l'inverosimile sospetto ch'ella avesse attentato alla sua vita, Montoni erasi fatto giurare dai suoi agenti il più profondo segreto. Due erano i motivi di questo rigore: privarla delle consolazioni di Emilia, e procacciarsi l'occasione di farla morire senza strepito, se qualche circostanza venisse a confermare i suoi sospetti. La perfetta cognizione dell'odio che aveva meritato dalla moglie l'aveva indotto naturalmente ad accusarla dell'attentato. Non aveva altre ragioni per supporla rea, e lo credeva ancora. L'abbandonò in quella torre alla più dura prigionia, ove, senza rimorsi e senza pietà, la lasciò languire in preda ad una febbre ardente, che l'aveva infine ridotta sull'orlo del sepolcro. Le striscie di sangue vedute da Emilia sulla scala, provenivano da una ferita toccata, nella zuffa, da uno dei satelliti che la trasportavano, e sfasciatasi nel camminare. Per quella notte accontentaronsi coloro di chiuder bene la prigioniera, non pensando a farle la guardia. Ecco perchè, alla prima ricerca, Emilia trovò la torre deserta e silenziosa. Allorchè tentò d'aprire la porta della stanza, sua zia dormiva. Se però il terrore non le avesse impedito di chiamarla di nuovo, l'avrebbe alfine svegliata, e sarebbesi così risparmiati tanti affanni. Il cadavere osservato nella camera del portone, era quello del ferito da lei veduto trasportare nella sala dove aveva cercato un asilo, spirato sul tettuccio pochi dì appresso, e che doveva esser sepolto la mattina seguente nella fossa scavata sotto la cappella per dov'era passata con Bernardino. Emilia, dopo mille interrogazioni, lasciò la zia un istante per andar in cerca di Montoni. Il vivo interesse che sentiva per lei le fece obliare il risentimento a cui l'esporrebbero le sue rimostranze, e la poca apparenza di ottenere quanto voleva chiedergli. «Vostra moglie è moribonda, signore,» gli diss'ella appena lo vide; «il vostro corruccio non vorrà perseguitarla certo fino agli ultimi momenti. Permettete dunque che sia trasportata nelle sue stanze, e se le apprestino i soccorsi necessari. --A che gioverà questo, s'ella muore?» disse Montoni con indifferenza. --Gioverà, signore, a risparmiarvi qualcuno dei rimorsi che vi lacereranno allorchè sarete nella di lei situazione.» L'audace risposta non lo scosse guari; resistè lunga pezza alle preghiere ed alle lagrime; al fine la pietà, che aveva assunto le espressive forme di Emilia, riuscì a commovere quel cuore di macigno. Si volse vergognandosi di un buon sentimento, e a volt'a volta inflessibile ed intenerito, acconsentì a lasciarla riporre nel suo letto, e assistere la nipote temendo insieme che il soccorso non fosse troppo tardo, e che Montoni non si ritrattasse, Emilia lo ringraziò appena, s'affrettò a preparare il letto della zia, aiutata da Annetta e le portò un ristorativo, che la ponesse in grado di reggere al trasporto. Appena giunta nelle sue stanze, Montoni revocò l'ordine; ma Emilia, lieta di avere agito con tanta sollecitudine, corse a trovarlo, gli rappresentò che un nuovo tragitto diverrebbe fatale, ed ottenne che la lasciasse dov'era. Per tutto il dì, essa non abbandonò la zia, se non per prepararle il cibo necessario. La signora Montoni lo prendeva per compiacenza, convinta di dover morire fra poco. La fanciulla la curava con tenera inquietudine: ormai non trattavasi più d'una zia imperiosa, ma della sorella di un padre adorato, la cui situazione faceva pietà. Giunta la notte, voleva passarla presso di lei, ma ella vi si oppose assolutamente, esigendo che andasse a riposarsi, e contentandosi della compagnia di Annetta. Il riposo per verità era necessario a Emilia, dopo le scosse e il moto di quella giornata, ma non volle lasciar la zia prima di mezzanotte, epoca riguardata dai medici come critica. Allora, dopo aver ben raccomandato ad Annetta di assisterla con cura e di andare ad avvisarla al minimo sintomo di pericolo, le augurò la buona notte e ritirossi. Aveva il cuore straziato dallo stato orribile della zia, di cui ardiva appena sperare la guarigione. Vedeva sè stessa chiusa in un antico castello isolato, lontana d'ogni ausilio, e nelle mani di un uomo capace di tutto che avrebbe potuto dettargli l'interesse e l'orgoglio. Occupata da queste tristi riflessioni, Emilia non andò a letto, e si appoggiò al davanzale della finestra aperta. I boschi e le montagne, fiocamente illuminati dall'astro notturno, formavano un contrasto penoso collo stato del suo spirito; ma il lieve stormir delle frondi ed il sonno della natura finirono ad addolcire gradatamente il tumulto degli affetti, e sollevarle il cuore al punto di farla piangere. Restò così in quella posizione senza avere altra idea che il sentimento vago delle disgrazie che l'opprimevano; quando alfine scostò il fazzoletto dagli occhi, vide sul bastione, in faccia a lei, immobile e muta, la figura già osservata: l'esaminò attentamente tremando, ma non potè parlarle com'eraselo proposto. La luna rifulgeva, e l'agitazione del suo spirito era forse l'unico ostacolo che le impedisse di chiaramente distinguere quella figura, la quale non facendo movimento alcuno, pareva inanimata. Raccolse allora le idee smarrite e voleva ritirarsi, quando la figura parve allungar una mano come per salutarla, e mentre ella stava immobile per la sorpresa e la paura, il gesto fu ripetuto. Tentò parlare, ma le spirarono le parole sul labbro, e nel ritirarsi dalla finestra per prender la lampada, udì un sordo gemito; ascoltò senza osar di riaffacciarsi, e ne udì un altro. «Gran Dio!» sclamò essa; «che significa ciò?» Ascoltò di nuovo, ma non intese più nulla. Dopo un lungo intervallo, riavutasi, tornò alla finestra, e rivide la figura. Ne ricevè un nuovo saluto, e intese nuovi sospiri. «Questo gemito è certamente umano! Voglio parlare,» diss'ella. «Chi va là?» gridò poi sottovoce; chi passeggia a quest'ora? La figura alzò la testa, e s'incamminò verso il parapetto. Emilia la seguì cogli occhi, e la vide sparire al chiaro della luna. La sentinella allora si avanzò a passi lenti sotto la finestra, ove fermatasi, la chiamò per nome, e le domandò rispettosamente se avesse veduto passar qualche cosa. Essa rispose parerle aver veduto un'ombra. La sentinella non disse altro; e tornò indietro; ma siccome quell'uomo era di guardia, Emilia sapeva che non poteva abbandonare il suo posto, e ne aspettò il ritorno. Poco dopo lo sentì gridare ad alta voce. Un'altra voce lontana rispose. Uscirono soldati dal corpo di guardia, e tutto il distaccamento traversò il bastione. Emilia domandò cosa fosse; ma i soldati passarono senza darle retta. Intanto essa si perdeva in mille congetture. Se fosse stata più vana, avrebbe potuto supporre che qualche abitante del castello passeggiasse sotto la sua finestra colla speranza di rimirarla e dichiararle i suoi sentimenti; ma tale idea non le venne, e quando ciò fosse stato, l'avrebbe abbandonata come improbabile, poichè quella persona, che avrebbe potuto favellarle, era stata muta, e quando ella stessa aveva detta una parola, la figura erasi allontanata d'improvviso. Mentre riflettea così passarono due soldati sul bastione, e parlando fra loro, fecero comprendere ad Emilia, che un loro compagno era caduto tramortito. Poco dopo vide avanzarsi tre altri soldati lentamente, ed una voce fioca; quando furono sotto la finestra, potè distinguere che chi parlava era sostenuto da' compagni. Essa li chiamò per domandar che cosa fosse accaduto; le fu risposto che il camerata di guardia, Roberto, era caduto in deliquio, e che il grido da lui fatto svenendo, aveva dato un falso allarme. «Va egli soggetto a questi deliqui?» chiese la giovane. --Sì, signorina, sì,» replicò Roberto: «ma quand'anco nol fossi, ciò ch'io vidi avrebbe spaventato anche il papa. --E che cosa vedeste? --Non posso dire nè cosa fosse, nè che cosa vidi, nè com'è scomparso,» rispose il soldato, rabbrividendo ancora dallo spavento. «Quando vi lasciai, signorina, poteste vedermi andar sul terrazzo; ma non iscorsi nulla fin quando mi trovai sul bastione orientale. Splendea la luna, e vidi come un'ombra fuggire poco lungi a me dinanzi; sostai all'angolo della torre dove avea vista quella figura: era sparita; guardai sotto l'antico arco: nulla. D'improvviso udii rumore, ma non era un gemito, un grido, un accento, qualcosa insomma che avessi inteso in vita mia. L'udii una sol volta, ma bastò; non so più che mi avvenne sino all'istante in cui mi trovai circondato da' compagni. --Venite, amici,» disse Sebastiano, «torniamo al nostro posto. Buona notte, signorina. --Buona notte,» rispose Emilia, chiudendo la finestra, e ritirandosi per riflettere su quella strana circostanza che coincideva coi fatti delle altre notti; essa cercò trarne qualche risultato più certo d'una congettura; ma la sua immaginazione era tuttavia troppo riscaldata, il criterio troppo offuscato, ed i terrori della superstizione signoreggiavano ancora le sue idee. CAPITOLO XXIX Emilia recossi di buonissima ora dalla zia, e la trovò quasi nel medesimo stato: aveva dormito pochissimo, e la febbre non era cessata. Sorrise alla nipote, e parve rianimarsi alla di lei vista: parlò poco, e non nominò mai Montoni. Poco dopo entrò egli stesso; sua moglie ne fu molto agitata e non disse verbo; ma allorchè Emilia si alzò dalla sedia accanto al suo letto, la pregò con voce fioca di non abbandonarla. Montoni non veniva per consolar la moglie, cui sapeva esser moribonda, o per ottenerne il perdono; veniva unicamente per tentare l'ultimo sforzo ad estorcere la sua firma, affinchè dopo la di lei morte potesse restar padrone di tutti i suoi beni, che toccavano ad Emilia. Fu una scena atroce, nella quale l'uno dimostrò un'impudente barbarie, l'altra una pertinacia che sopravviveva per fino alle forze fisiche. Emilia dichiarò mille volte che preferiva rinunziare a tutti i suoi diritti, anzichè vedere gli ultimi momenti della infelice zia amareggiati da quel crudele diverbio. Montoni nondimeno non uscì fin quando sua moglie, spossata dall'affannosa contesa, perdè alfine l'uso dei sensi, Emilia credette di vedersela spirar in braccio; pure ricuperò la favella, e dopo aver preso un cordiale, intertenne a lungo la nipote con precisione e chiarezza a proposito dei suoi beni di Francia. Insegnolle dove fossero alcune carte importanti sottratte alle ricerche del marito, e le ordinò espressamente di non privarsene mai. Dopo questo colloquio, la Montoni si assopì, e sonnecchiò fino a sera: destatasi, le parve di star meglio, ma Emilia non la lasciò se non molto tempo dopo mezzanotte, e quando le fu ordinato assolutamente; essa obbedì volontieri, chè la malata appariva alquanto sollevata. Era allora la seconda guardia e l'ora in cui la figura era già comparsa. La fanciulla udì cambiar le sentinelle, e quando tutto tornò quieto, affacciossi alla finestra, e celò la lampada per non essere scorta. La luna proiettava una luce fioca ed incerta; folti vapori l'oscuravano, immergendola talvolta nelle tenebre. In un di questi intervalli, notò una fiammella aleggiar sul terrazzo; mentre la fissava, essa svanì. Un bagliore le fece alzare il capo; i lampi guizzavano tra una negra nube, diffondendo una luce funesta e fugace sui boschi della valle e sugli edifizi circostanti. Tornando a chinar gli occhi, rivide la fiammella: essa parea in movimento. Poco stante udì rumor di passi: la vampa mostravasi e spariva volt'a volta. D'improvviso, al baglior d'un lampo, scorse qualcuno sul terrazzo. Tutte le ansietà di prima rinnovaronsi; la persona inoltrò, e la fiammella, che parea scherzare, appariva e svaniva ad intervalli. Emilia, desiderando finirla co' suoi dubbi, allorchè vide la luce proprio sotto la finestra, chiese con voce languente chi fosse. «Amici: sono Antonio, il soldato di guardia,» fu risposto. --Che cos'è quella fiammella? vedete come splende e poi scompare! --Stanotte essa è comparsa sulla punta della mia lancia, mentr'era in pattuglia; ma non so cosa significhi. --È strano,» disse Emilia. --Il mio camerata,» proseguì il soldato, «anch'egli ha una consimile fiammella sulla punta della picca, e dice aver già osservato il medesimo prodigio. --E come lo spiega egli? --Accerta essere un segno di cattivo augurio, e null'altro. Ah! ma debbo recarmi al mio posto. Buona notte, signorina.» E s'allontanò. Ella rinchiuse la finestra, e buttossi sul letto. La tempesta intanto, che minacciava all'orizzonte, era scoppiata con indicibile violenza; il rimbombo orrendo del tuono le impediva il sonno. Scorso qualche tempo, le parve udire una voce in mezzo al fracasso spaventoso degli elementi scatenati; alzossi per accertarsene, ed accostatasi all'uscio, riconobbe Annetta, la quale, quando le fu aperto, gridò: «Essa muore, signorina, la mia padrona muore.» La fanciulla sussultò e corse dalla zia; quando entrò, la signora Montoni pareva svenuta: era quieta e insensibile. Emilia, con un coraggio che non cedeva al dolore allorchè il dovere richiedeva la sua attività, non risparmiò alcun mezzo per richiamarla alla vita, ma l'ultimo sforzo era già fatto, la misera avea finito di patire. Quando Emilia conobbe l'inutilità delle sue premure, interrogò la tremante Annetta, e seppe che la zia, caduta in una specie di sopore subito dopo la partenza di lei, era rimasta in quello stato fino all'istante dell'agonia. Dopo una breve riflessione decise di non informar Montoni dell'infausto caso se non alla mattina, pensando che colui sarebbe prorotto in qualche disumana espressione, ch'ella non avrebbe potuto soffrire. In compagnia della sola Annetta, incoraggita dal suo esempio, vegliò tutta notte presso alla defunta, recitando l'uffizio dei morti. CAPITOLO XXX Allorchè Montoni fu informato della morte di sua moglie, considerando ch'era spirata senza fargli la cessione tanto necessaria al compimento dei suoi desiderii, nulla valse ad arrestare l'espressione del suo risentimento. Emilia evitò con cura la di lui presenza, e pel corso di trentasei ore non abbandonò mai il cadavere della zia. Profondamente angosciata dal triste di lei destino, ne obliava tutti i difetti, le ingiustizie e la durezza, sol rammentandosene i patimenti. Montoni non disturbò le di lei preghiere: egli scansava la camera dov'era il cadavere della moglie, e perfino quella parte del castello, come se avesse temuto il contagio della morte. Pareva non avesse dato alcun ordine relativo ai funerali; cosicchè Emilia temette che fosse un insulto alla memoria di sua zia; ma uscì dall'incertezza, quando, la sera del secondo giorno, Annetta venne ad informarla che la defunta verrebbe sepolta la notte stessa. Figurandosi che Montoni non vi avrebbe assistito, era lacerata dall'idea che il cadavere della povera zia andrebbe alla sepoltura senza che un parente od un amico le rendesse gli ultimi doveri: decise perciò di andarvi in persona; senza questo motivo, avrebbe tremato di accompagnare il corteo, composto di gente che avevano tutto il contegno e la figura di assassini, sotto l'orrida vôlta della cappella, ed a mezzanotte, all'ora cioè del silenzio e del mistero, scelta da Montoni per abbandonare all'oblìo le ceneri di una sposa, della quale la sua barbara condotta aveva per lo meno accelerato la fine. Secondata da Annetta, ella dispose la salma per la sepoltura. A mezzanotte, comparvero gli uomini che dovevano trasportarla alla tomba. Emilia potè contenere a stento l'agitazione vedendo quelle orride figure: due di essi, senza proferir parola, presero il cadavere sulle spalle, ed il terzo precedendoli con una fiaccola, discesero tutti uniti nel sotterraneo della cappella. Dovevano traversare i due cortili della parte orientale del castello, ch'era quasi tutta rovinata. Il silenzio e l'oscurità de' luoghi poco poterono sullo spirito di Emilia, occupata d'idee assai più lugubri. Giunti al limitare del sotterraneo, essa sostò, sovrappresa da una commozione inesprimibile di dolore e di spavento, e si volse per appoggiarsi ad Annetta, muta e tremante al par di lei. Dopo qualche pausa, inoltrò, e scorse, fra le arcate, gli uomini che deponevano la bara sull'orlo d'una fossa. Ivi trovavansi un altro servo di Montoni ed un sacerdote di cui non s'avvide se non quando cominciò le preci. Allora alzò gli occhi, e scorse la faccia venerabile d'un religioso, che con voce bassa e solenne recitò l'uffizio dei morti. Nell'istante in cui il cadavere venne calato nel sepolcro, il quadro era tale, che il più abile pennello non avrebbe sdegnato dipingere. I lineamenti feroci, le fogge bizzarre di quegli scherani, inclinati colle faci sulla fossa, l'aspetto venerabile del frate, avvolto in lunghe vesti di lana bianca, il cui cappuccio, calato indietro, faceva risaltare un viso pallido, adombrato di pochi capelli bianchi, onde la luce delle torce lasciava vedere l'afflizione addolcita dalla pietà; l'attitudine interessante di Emilia appoggiata ad Annetta colla faccia semicoperta d'un velo nero, la dolcezza e beltà della fisonomia, e il suo intenso dolore, che non le permetteva di piangere, mentre affidava alla terra l'ultima parente che avesse; i riflessi tremolanti di luce sotto le vôlte, l'ineguaglianza del terreno, ov'erano stati recentemente sepolti altri corpi, la lugubre oscurità del luogo, tante circostanze riunite, avrebbero trascinato l'immaginazione dello spettatore a qualche caso forse più orribile del funerale dell'insensata ed infelice signora Montoni. Terminata la funzione, il frate guardò Emilia con attenzione e sorpresa; pareva volesse parlarle, ma la presenza dei masnadieri lo trattenne. Nell'uscire dalla cappella si permisero indegni motteggi sulla cerimonia e sullo stato di lui con grand'orrore d'Emilia. Li sofferse in silenzio, limitandosi a chiedere di essere ricondotto sano e salvo al suo convento, dal quale era venuto dietro richiesta espressa del castellano, a ciò indotto dalle istanze della nipote. Giunti nel secondo cortile, il frate impartì alla fanciulla la sua benedizione, fissandola con occhio pietoso, poi s'incamminò verso il portone. Le due donne ritiraronsi alle proprie stanze. Emilia passò parecchi giorni in assoluta solitudine, nel terrore per sè e nel rammarico della perdita di sua zia. Si determinò infine a tentare un nuovo sforzo per ottener da Montoni che la lasciasse andare in Francia. Non sapeva formare veruna congettura sui motivi che potea avere d'impedirglielo; era troppo persuasa ch'ei volea tenerla seco, ed il suo primo rifiuto le lasciava poca speranza. L'orrore inspiratole dalla di lui presenza, le faceva differire di giorno in giorno il colloquio. Un messaggio però dello stesso Montoni la tolse da tale incertezza; egli desiderava vederla all'ora che indicava. Fu quasi per lusingarsi, che, essendo morta la zia, egli acconsentirebbe a rinunziar alla sua usurpata autorità; ma rammentandosi poi che i beni tanto contrastati erano divenuti attualmente suoi, temè che Montoni volesse usare qualche stratagemma per farseli cedere, e non la tenesse fin allora prigioniera. Quest'idea, invece di abbatterla, rianimò tutte le potenze dell'anima sua, e le infuse nuovo coraggio. Avrebbe rinunziato a tutto per assicurare il riposo della zia, ma risolse che veruna persecuzione personale avrebbe il potere di farla recedere da' suoi diritti. Era interessatissima a conservare l'eredità a riguardo specialmente di Valancourt, col quale lusingavasi così di passare una vita felice. A questa idea sentì quant'ei le fosse caro, e si figurava anticipatamente il momento in cui la di lei generosa amicizia avrebbe potuto dirgli che gli recava in dote tutti quei beni; si figurava vedere il sorriso che animerebbe i suoi lineamenti, e gli sguardi affettuosi che esprimerebbero tutta la sua gioia e riconoscenza. Credette in quel momento di poter affrontare tutti i mali che l'infernale malizia di Montoni le avrebbe preparato. Si ricordò allora, per la prima volta dopo la morte della zia, ch'essa aveva carte relative a questi beni, e risolse di farne ricerca appena avesse parlato con Montoni. Con questa idea andò a trovarlo all'ora prescritta: era in compagnia di Orsino e d'un altro uffiziale, e pareva esaminare con diligenza molte carte deposte sur un tavolino. «Vi ho fatta chiamare,» diss'egli alzando la testa, «perchè desidero siate testimone di un affare che debbo ultimare col mio amico Orsino. Tutto ciò che si vuol da voi, è che firmiate questa, carta.» La prese, ne lesse borbottando alcune righe, la depose sul tavolo, e le diede una penna. Stava per firmare, quando le venne d'improvviso in mente il disegno di lui; le cadde la penna di mano, e negò di firmare senza leggere il contenuto: Montoni affettò sorridere, e ripresa la carta, finse rileggere un'altra volta come aveva già fatto. Emilia, fremendo del pericolo e dell'eccesso di credulità che l'avea quasi tradita, ricusò positivamente di firmare. Montoni continuò alcun poco i motteggi; ma quando, dalla perseveranza di lei, comprese che aveva indovinato il suo progetto, cambiò linguaggio e le ordinò di seguirlo. Appena furono soli, le disse che aveva voluto, per lei e per sè medesimo, prevenire un diverbio inutile in un affare, in cui la sua volontà formava la giustizia, e sarebbe diventata una legge; che preferiva persuaderla anzichè costringerla, e che in conseguenza adempisse al suo dovere. «Io, come marito della defunta signora Cheron,» soggiunse egli, «divento l'erede di tutto ciò che ella possedeva; i beni, che non ha voluto donarmi mentre viveva, non devono ora passare in altre mani. Vorrei, pel vostro interesse, disingannarvi dell'idea ridicola ch'essa vi diede alla mia presenza, che i suoi beni cioè sarebbero vostri, se moriva senza cedermeli. Penso che voi siate troppo ragionevole per provocare il mio giusto risentimento; non soglio adulare, e voi potete riguardare i miei elogi come sinceri. Voi possedete un criterio superiore al vostro sesso; e non avete veruna di quelle debolezze che distinguono in generale il carattere delle donne, l'avarizia cioè e il desiderio di dominare.» Montoni si fermò; Emilia non rispose. «Giudicando come faccio,» ripigliò egli, «io non posso credere vorrete mettere in campo una contesa inutile. Non credo neppure che pensiate acquistare o possedere una proprietà, sulla quale la giustizia non vi accorda nessun diritto. Scegliete dunque l'alternativa che vi propongo. Se vi formerete un'esatta opinione del soggetto che trattiamo, sarete in breve ricondotta in Francia. Se poi foste tanto sciagurata da persistere nell'errore, in cui v'indusse vostra zia, resterete mia prigioniera, finchè apriate gli occhi.» Emilia rispose con calma: «Io non sono così poco istruita delle leggi relative a tale soggetto, per lasciarmi ingannare da un'asserzione qualunque; la legge mi accorda il possesso dei beni in questione, e la mia mano non tradirà i miei diritti. --Mi sono ingannato, a quanto pare, nell'opinione che m'era concepita di voi,» disse Montoni severamente; «voi parlate con arditezza e presunzione su d'un argomento che non intendete. Voglio bene, per una volta, perdonare l'ostinazione dell'ignoranza; la debolezza del vostro sesso, dalla quale non sembrate esente, esige anche questa indulgenza. Ma se persistete, avrete a temer tutto dalla mia giustizia. --Dalla vostra giustizia, signore,» rispose Emilia, «non ho nulla da temere, bensì tutto da sperare.» Montoni guardolla con impazienza, e parve meditare su ciò che doveva dirle. «Vedo che siete debole tanto da credere ad una ridicola asserzione. Me ne spiace per voi; quanto a me, poco me n'importa; la vostra credulità troverà il suo castigo nelle conseguenze, ed io compiango la debolezza di spirito che vi espone alle pene che mi costringete di prepararvi. --Voi troverete, signore,» rispose Emilia con dolcezza e dignità, «la forza del mio spirito eguale alla giustizia della mia causa; e posso soffrire con coraggio quando resisto alla tirannia. --Parlate come una eroina,» disse Montoni con disprezzo; «vedremo se saprete soffrire egualmente.» Emilia non rispose, e partì. Rammentandosi che resisteva così per l'interesse di Valancourt, sorrise compiacendosi di pensare ai minacciati maltrattamenti. Andò a cercare il posto indicatole dalla zia, come deposito delle carte relative ai suoi beni, e ve le trovò; ma non conoscendo un luogo più sicuro per conservarle, ve le ripose senza esame, temendo di essere sorpresa. Mentre, ritornata nella solitudine, rifletteva alle parole di Montoni e ai pericoli nei quali incorreva, opponendosi alla sua volontà, udì scrosci di risa sul bastione; andò alla finestra, e vide con sorpresa tre donne, vestite alla Veneziana, che passeggiavano con alcuni signori. Allorchè passarono sotto la finestra, una delle forestiere alzò la testa. Emilia riconobbe in lei quella signora Livona, le cui affabili maniere l'avevano tanto sedotta il giorno dopo il suo arrivo a Venezia, e che in quel giorno istesso era stata ammessa alla tavola di Montoni: tale scoperta le cagionò una gioia mista a qualche incertezza; era per lei un soggetto di soddisfazione il vedere una persona tanto amabile quanto sembrava la signora Livona, nel luogo istesso da essa abitato. Nondimeno, il di lei arrivo al castello in simile circostanza, il suo abbigliamento, che indicava non esservi stata costretta, glie ne fece sospettare i principii ed il carattere; ma l'idea spiaceva tanto ad Emilia, già vinta dalle maniere seducenti della bella Veneziana, che preferì non pensare che alle sue grazie, e bandì quasi intieramente qualunque altra riflessione. Quando Annetta entrò, le fece diverse interrogazioni sull'arrivo delle forastiere, e trovò avere colei più premura di rispondere, ch'essa d'interrogare. «Son venute da Venezia,» disse la cameriera, «con due signori, ed io fui contentissima di vedere qualche altra faccia cristiana in quest'orrido soggiorno. Ma che pretendono esse venendo qui? Bisogna esser pazzi davvero per venire in questo luogo, oppure ci sono venute liberamente, giacchè sono allegre. --Saranno forse state fatte prigioniere,» soggiunse Emilia. --Prigioniere! oh! no, signorina: no, nol sono. Mi ricordo bene di averne veduta una a Venezia; è venuta due o tre volte in casa nostra. Si diceva perfino, sebbene io non l'abbia mai creduto, che il padrone l'amasse perdutamente.» Emilia pregò Annetta d'informarsi dettagliatamente di tutto ciò che concerneva quelle signore, e, cambiando quindi discorso, parlò della Francia, facendole travedere la speranza di tornarvi in breve. La ragazza uscì per raccogliere informazioni, ed Emilia cercò obliare le sue inquietudini, pascendosi delle fantastiche immaginazioni create da' poeti. Verso sera, non volendo esporsi, sulle mura, agli avidi sguardi dei soci di Montoni, andò a passeggiare nella galleria contigua alla sua camera. Giugnendo in fondo ad essa udì ripetuti scrosci di risa. Erano i trasporti dello stravizio, e non gli slanci moderati d'una dolce ed onesta letizia. Parevan venire dalla porta del quartiere di Montoni. Un tal baccano in quel momento in cui l'infelice zia era appena spirata, l'indispettì al sommo, e vi riconobbe la conseguenza della mala condotta di Montoni. Ascoltando, credette riconoscere alcune voci donnesche; tale scoperta la confermò nei sospetti concepiti sulla signora Livona e le sue compagne: era evidente ch'elleno non trovavansi per forza nel castello. Emilia si vedeva così negli alpestri recessi degli Appennini, circondata da uomini che riguardava come briganti, ed in mezzo ad un teatro di vizi, che la faceva inorridire. L'immagine di Valancourt perdè ogni influenza, ed il timore le fece cambiare i suoi progetti, riflettendo a tutti gli orrori che Montoni preparava contro di lei; tremando della vendetta, alla quale esso avrebbe potuto abbandonarsi senza rimorsi, si decise quasi a cedergli i beni contrastati, se vi persisteva ancora, e riscattare così la sicurezza e la libertà; ma, poco di poi, la memoria dell'amante tornava a lacerarle l'anima e ripiombarla nelle angosce del dubbio. Continuò a passeggiare finchè l'ombre della sera ebbero invase le arcate. La fanciulla nonpertanto, non volendo tornar alla sua camera isolata prima del ritorno d'Annetta, passeggiava tuttora per la galleria. Passando dinanzi all'appartamento dove avea una volta osato alzar il velo del quadro, le tornò in mente quell'orrido spettacolo, e sentendosi raccapricciare, sollecitossi, di andarsene dalla galleria mentre aveane ancor la forza. D'improvviso sentì rumor di passi dietro lei. Poteva essere Annetta, ma, voltando gli occhi con timore, scorse tra l'oscurità una gran figura che la seguiva, e poco dopo si trovò stretta tra le braccia d'una persona ed udì una voce bisbigliare all'orecchio. Quando si fu alquanto riavuta dalla sorpresa, domandò chi mai si facesse lecito di trattenerla così? «Son io,» rispose la voce; «non temete.» Emilia osservò la figura che parlava, ma la fioca luce della finestra gotica non le permise di distinguere chi fosse. «Chiunque voi siate,» diss'ella con voce tremula, «per amor di Dio, lasciatemi. --Vezzosa Emilia,» soggiunse colui, «perchè sequestrarvi così in questo luogo tetro, mentre giù dabbasso regna tanta allegria? Seguitemi nel salotto di cedro: voi ne formerete il migliore ornamento, e non vi spiacerà il cambio.» Emilia sdegnò rispondere, ma procurò di sciogliersi. «Promettetemi che verrete, ed io vi lascerò subito; ma accordatemene prima la ricompensa. --Chi siete voi?» domandò Emilia con isdegno e spavento, e cercando fuggire; «chi siete voi che avete la crudeltà d'insultarmi così? --Perchè chiamarmi crudele?» rispose colui. «Vorrei togliervi da questa orribile solitudine, e condurvi in una brillante società. Non mi conoscete?» Emilia si ricordò allora confusamente ch'era uno dei forestieri che circondavano Montoni la mattina in cui andò a trovarlo. «Vi ringrazio della buona intenzione,» replicò essa senza mostrar d'intenderlo, «ma tutto ciò che desidero per ora è che mi lasciate andare. --Vezzosa Emilia,» soggiunse egli, «abbandonate questo gusto per la solitudine. Seguitemi alla conversazione, e venite ad eclissare tutte le bellezze che la compongono; voi sola meritate l'amor mio.» E volle baciarle la mano; ma la forza dello sdegno le somministrò quella di sciogliersi, e fuggendo nella sua camera, ne chiuse l'uscio prima che vi giungesse colui, e si abbandonò spossata sur una sedia. Sentiva la di lui voce e i tentativi che faceva per aprire, senza aver la forza di chieder soccorso. Alfine si avvide che erasi allontanato, ma pensò alla porta della scala segreta, d'onde avrebbe potuto facilmente penetrare, e si occupò subito ad assicurarla alla meglio. Le pareva che Montoni eseguisse già i suoi progetti di vendetta, privandola della sua protezione, e si pentiva quasi di averlo temerariamente provocato. Credeva oramai impossibile di ritenere i suoi beni. Per conservare la vita e forse l'onore, fece il proponimento che, se fosse sfuggita agli orrori della prossima notte, farebbe la cessione la mattina seguente, purchè Montoni le permettesse di partire da Udolfo. Preso questo partito, si tranquillò: rimase così per qualche ora in assoluta oscurità; Annetta non giungeva, ed essa principiò a temere per lei; ma non osando arrischiarsi ad uscire, dovè restare nell'incertezza sul motivo di questa assenza. Si avvicinava spesso alla scala per ascoltare se saliva qualcuno, e non sentendo verun rumore, determinata però a vegliare tutta la notte, si gettò vestita sul tristo giaciglio e lo bagnò delle sue innocenti lacrime. Pensava alla perdita de' parenti, pensava a Valancourt lontano da lei. Li chiamava per nome, e la calma profonda, interrotta soltanto dai suoi lamenti, ne aumentava le tetre meditazioni. In tale stato, udì d'improvviso gli accordi di una musica lontana; ascoltò, e riconoscendo tosto l'istrumento già inteso a mezzanotte, andò ad aprire pian piano la finestra. Il suono pareva venir dalle stanze sottoposte. Poco dopo l'interessante melodia fu accompagnata da una voce, ma così espressiva, da non poter supporre che cantasse mali immaginari. Credette conoscere già quegli accenti si teneri e straordinari; ma rammentavasene appena come di cosa molto lontana. Quella musica le penetrò il cuore, nella sua angoscia attuale, come armonia celeste che consola e incoraggisce. Ma chi potrebbe descrivere la sua commozione allorchè udì cantare, col gusto e la semplicità del vero sentimento, un'arietta popolare del paese natio; una di quelle ariette imparate nell'infanzia, e tanto spesso fattele ripetere dal padre? A quel canto ben noto, fin allora non mai inteso fuori della sua cara patria, il cuore le si dilatò alla rimembranza del passato. Le vaghe e placide solitudini della Guascogna, la tenerezza e la bontà de' genitori, la semplicità e felicità de' primi anni, tutto affacciossele all'imaginazione, formando un quadro così grazioso, brillante e fortemente opposto alle scene, ai caratteri ed ai pericoli ond'era circondata attualmente, che il suo spirito non ebbe più forza di riandare il passato e non sentì più che il peso degli affanni. D'improvviso, la musica cambiò, e la fanciulla, attonita, riconobbe l'istessa aria già intesa alla sua peschiera. Allora le si presentò un'idea colla rapidità del lampo, e secolei una catena di speranze la elettrizzò; poteva appena respirare, e vacillava tra la speranza e il timore: pronunziò dolcemente il nome di Valancourt. Era possibile che il giovane fosse vicino a lei, e ricordandosi d'avergli udito dire più volte che la peschiera, ove aveva sentito quella canzone, e trovato i versi scritti per lei, era la sua passeggiata favorita anche prima che si conoscessero, fu persuasa che fosse la di lui voce. A misura che le sue riflessioni si consolidavano, la gioia, il timore e la tenerezza lottavano in lei: affacciossi alla finestra per ascoltar meglio quegli accenti, che valessero a confermare o distruggere la sua speranza, non avendo Valancourt mai cantato alla di lei presenza; la voce e l'istrumento tacquero di li a poco, ed essa ponderò un momento se doveva arrischiarsi a parlare. Non volendo, se era Valancourt, commettere l'imprudenza di nominarlo, e troppo interessata al tempo istesso per trascurar l'occasione di chiarirsi, gridò dalla finestra: «E' una canzone di Guascogna?» Inquieta, attenta, aspettò una risposta, ma indarno. Ripetè la domanda, ma non udì altro strepito tranne i fischi del vento traverso i merli delle mura. Cercò consolarsi persuadendosi che l'incognito si fosse allontanato prima ch'ella gli parlasse. Se Valancourt avesse sentita e riconosciuta la sua voce, avrebbe per certo risposto. Riflettè quindi che forse la prudenza l'aveva obbligato a tacere. «Se egli è nel castello,» diceva essa, «dev'esservi come prigioniero; per cui avrà temuto di rispondermi in tanta vicinanza delle sentinelle.» Perplessa, inquieta, rimase alla finestra sino all'alba, poi se ne tornò a letto, ma non potè chiuder occhio; la gioia, la, tenerezza, il dubbio, il timore occuparono tutte le ore del sonno, ore che non le parvero tanto lunghe come quella volta. Sperava veder tornare Annetta, e ricever da lei una certezza qualunque, che ponesse fine ai suoi tormenti attuali. CAPITOLO XXXI Annetta venne a trovarla di buon'ora. «Sono stata molto inquieta non vedendoti tornar più ieri sera,» le disse Emilia. «Che cosa ti è mai accaduto? --Ah! signorina, chi avrebbe mai osato ier sera traversare i lunghi corridoi della casa in mezzo a tutta quella gente ubbriaca? Immaginatevi che hanno gozzovigliato tutta notte insieme alle signore venute recentemente. Che baccano, Dio Signore!... che chiasso!... Lodovico, temendo per me, mi ha chiusa in camera con Caterina. --Oh che orrore!...» sclamò Emilia; «ma dimmi: sapresti tu, per caso, se vi sono prigionieri nel castello, e se son rinchiusi in queste vicinanze? --Io non era dabbasso, quando tornò la prima truppa dalla scorreria, e l'ultima non è ancora tornata: laonde ignoro se vi siano prigionieri; ma l'aspettano stasera o domani, ed allora saprò qualcosa di certo.» Emilia le domandò se i servi avessero parlato di prigionieri. «Ah! signorina,» disse Annetta ridendo, «ora mi accorgo che pensate al signor Valancourt. Voi lo credete sicuramente venuto colle truppe che si dicono arrivate di Francia per far la guerra in queste contrade. Credete che, incontratosi ne' nostri, sia stato fatto prigioniero. O Signore! come ne sarei contentissima se ciò fosse. --Ne saresti contenta?» disse Emilia con accento di doloroso rimprovero. --Sì, signorina, e perchè no? Non sareste voi contenta di rivedere il signor Valancourt? Non conosco un cavaliere più stimabile; ho proprio per lui una gran considerazione. --Ed in prova,» rispose Emilia, «tu desideri vederlo prigioniero.» --Non già di vederlo prigioniero, ma sarei lietissima di rivederlo. Anche l'altra notte me ne sognai... Ma a proposito, mi scordava di raccontarvi ciò che mi fu detto relativamente a quelle pretese dame, arrivate ad Udolfo. Una di esse è la signora Livona, che il padrone presentò a vostra zia a Venezia: adesso ella è la sua amante, ed allora, ardisco dirlo, era press'a poco la medesima cosa. Lodovico mi disse (ma per carità, signorina, non ne parlate) che sua eccellenza non l'aveva presentata se non per salvar le apparenze. Si cominciava già a mormorarne; ma quando videro che la padrona la riceveva in casa, tutte quelle dicerie si credettero calunnie. Le altre due sono le amanti de' signori Bertolini e Verrezzi. Il signor Montoni le ha invitate tutte, e ieri ha dato un magnifico pranzo: vi erano vini d'ogni sorta; le risa, i canti ed i brindisi echeggiavano. Quando furono briachi, si sparsero pel castello; fu allora che Lodovico m'impedì di venir qui. La è stata una vera indecenza! così poco tempo dopo la morte della povera padrona! che cosa avrebbe mai ella detto, se avesse potuto intendere quello schiamazzo?» Emilia volse la testa per nascondere l'emozione, e pregò Annetta di fare esatte ricerche a proposito dei prigionieri che potessero trovarsi nel castello, scongiurandola di usar prudenza, e non proferir mai nè il suo nome, nè quello di Valancourt. «Ora che ci penso, signorina,» disse Annetta, «credo che prigionieri ve ne siano. Ho sentito ieri in anticamera un soldato che parlava di riscatto: diceva che sua eccellenza facea benissimo a prender la gente, e ch'era quello il miglior bottino a motivo dei riscatti. Il suo camerata mormorava, dicendo ciò essere vantaggioso pel capitano, ma non pei soldati.--Noi altri, diceva quel brutto ceffo, non guadagniamo nulla nei riscatti.» Questa notizia accrebbe l'impazienza di Emilia, la quale mandò Annetta alla scoperta. La risoluzione presa dalla fanciulla di cedere ogni cosa a Montoni, soggiacque in quel momento a nuove riflessioni. La possibilità che Valancourt fosse vicino a lei, rianimò il suo coraggio, e risolse d'affrontare oltraggi e minacce, almeno fin quando potesse assicurarsi se il giovane fosse realmente nel castello. Stava appunto pensandovi, allorchè Montoni mandò a cercarla. Egli era solo. «Vi ho fatta chiamare,» le disse, «per sentire se vi decideste infine a smettere le vostre ridicole pretese sui beni di Linguadoca. Mi limiterò per ora a darvi un consiglio, benchè potessi imporre ordini. Se realmente siete stata in errore, se realmente avete creduto che quei beni vi appartenessero, non persistete almeno in questo errore che potrebbe diventarvi fatale. Non provocate la mia collera, e firmate questa carta. --Se non ho nessun diritto, signore,» rispose Emilia, «qual bisogno avete voi della mia rinuncia? Se i beni son vostri, potete possederli in tutta sicurezza senza mia intervenzione e senza il mio consenso. --Non argomenterò più,» disse Montoni vibrandole un'occhiata, che la fece tremare. «Avrei dovuto vedere che è inutile ragionare coi ragazzi. La memoria di quanto sofferse vostra zia in conseguenza della sua folle ostinazione, vi serva ormai di lezione... Firmate questa carta.» Emilia restò alquanto indecisa; fremette alla rimembranza e alle minacce che le si ponevano sott'occhio; ma l'immagine di Valancourt, che l'aveva animata per tanto tempo, ch'era forse vicino a lei, unita alla forte indignazione fino da' primi anni concepita per l'ingiustizia, le somministrò in quel momento un imprudente, ma nobile coraggio. «Firmate questa carta,» ripetè Montoni con maggiore impazienza. --No, mai,» rispose Emilia; «il vostro procedere mi proverebbe l'ingiustizia delle vostre pretese, s'io avessi ignorati i miei diritti.» Montoni impallidì dal furore; gli tremavano le labbra, ed i suoi occhi fiammeggianti fecero quasi pentire Emilia dell'ardita sua risposta. «Tremate della mia prossima vendetta,» sclamò egli, con un'orrenda bestemmia; «voi non avrete nè i beni di Linguadoca, nè quelli di Guascogna. Osaste mettere in dubbio i miei diritti; ora osate dubitare del mio potere. Ho pronto un gastigo cui non vi aspettate; esso è terribile. Stanotte, sì, stanotte istessa... --Stanotte!» ripetè una voce. Montoni restò interdetto e si volse, poi, sembrando raccogliersi, disse piano: «Avete veduto ultimamente un esempio terribile d'ostinazione e di follìa; ma parmi non sia bastato a spaventarvi. Potrei citarvene altri, e farvi tremare solo nel raccontarveli.» Fu interrotto da un gemito che pareva venire di sotto la stanza. Guardossi intorno: i di lui sguardi sfavillavano di rabbia e d'impazienza; un'ombra di timore parve nulladimeno alterarne la fisonomia. Emilia sedette vicino alla porta, perchè i diversi movimenti provati avevano, per così dire, annichilate le sue forze; Montoni fece una breve pausa, poi ripigliò con voce più bassa, ma più severa: «Vi ho detto che potrei citarvi altri esempi del mio potere e del mio carattere. Se voi lo concepiste, non ardireste sfidarlo. Potrei provarvi che allorquando ho preso una risoluzione... Ma parlo ad una bambina; ve lo ripeto, gli esempi terribili che potrei citarvi non vi servirebbero a nulla; e quand'anco il pentimento finisse la vostra opposizione, non mi placherebbe. Sarò vendicato; mi farò giustizia.» Un altro gemito succedè al discorso di Montoni. «Uscite,» diss'egli, senza parer di badare allo strano incidente. Fuori di stato d'implorar la sua pietà, Emilia alzossi per uscire, ma non potendo reggersi in piedi, e soccombendo al terrore, ricadde sulla sedia. «Toglietevi dalla mia presenza,» continuò Montoni; «questa finzione di timore convien male ad un'eroina che osò affrontare tutto il mio sdegno. --Non avete udito nulla, signore?» disse Emilia tremando. --Odo la mia voce soltanto,» rispose Montoni severamente. --Null'altro?» soggiunse la fanciulla, esprimendosi con difficoltà. «Ancora... non sentite nulla adesso? --Obbedite,» ripetè Montoni. «Io poi saprò scoprire l'autore di questi scherzi indecenti.» Emilia si alzò a stento, ed uscì. Montoni la seguì, ma invece di chiamare, come l'altra volta, i servi per far ricerche nel salotto, andò sulle mura. La fanciulla da una finestra del corridoio vide scendere dai monti un distaccamento delle truppe di Montoni. Non vi badò se non per riflettere agli infelici prigionieri che conducevano forse al castello. Giunta alfine in camera, si abbandonò sopra una sedia, oppressa da' nuovi affanni che peggioravano la di lei situazione. Non potea nè pentirsi, nè lodarsi della sua condotta: sol ricordavasi d'essere in potere d'un uomo il quale non conosceva altra regola se non la propria volontà. Fu scossa da tristi pensieri udendo un misto di voci e di nitriti nei cortili. Le si offerse un'improvvisa speranza di qualche fortunato cambiamento; ma, pensando alle truppe vedute dalla finestra, credè fossero le stesse, di cui Annetta le aveva detto che si aspettava il ritorno. Poco dopo udì molte voci nelle sale. Il rumore dei cavalli cessò, e fu seguito da perfetto silenzio. Emilia ascoltò attenta, cercando di conoscere i passi d'Annetta nel corridoio; tutto era quiete. D'improvviso, il castello parve immerso nella massima confusione. Era un camminare a precipizio, un andare e venire nelle sale, nelle gallerie e nei cortili, e discorsi veementi sul bastione. Corsa alla finestra, vide Montoni e gli altri officiali appoggiati al parapetto, od occupati ne' trinceramenti, mentre i soldati disponevano i cannoni. Il nuovo spettacolo la sbalordì. Finalmente giunse Annetta, ma non sapea nulla di Valancourt. «Mi danno ad intendere tutti,» diss'ella, «di non saper nulla dei prigionieri; ma qui ci sono di belle novità! La truppa è tornata ai galoppo, ed a rischio di restare schiacciati, e' facevano a gara per entrare sotto la vôlta. Hanno portato la notizia che un partito di nemici, com'ei dicono, tengon loro dietro per attaccare il castello. Cielo! che spavento! --Dio buono, vi ringrazio,» disse Emilia con fervore. «Ora mi resta qualche speranza. --Che dite mai, signorina? vorreste voi cadere nelle mani dei nemici? --Non possiamo star peggio di qui,» rispose Emilia. --Ascoltate, ascoltate, tutto il castello è sossopra. Si caricano i cannoni, si esaminano le porte e le mura, battono, picchiano, turano, vanno e vengono come se il nemico fosse sul punto di dare la scalata. Ma che cosa sarà di me, di voi, di Lodovico? Oh! se io sento sparare il cannone, morrò di paura. Se potessi trovare aperto il portone per mezzo minuto, farei presto a fuggirmene via di qua, nè mi rivedrebbero più. --Se lo potessi trovare aperto anch'io un solo istante, sarei salva.» E in brevi parole narrò alla cameriera la sostanza del suo colloquio con Montoni, quindi soggiunse: «Corri subito da Lodovico; digli ciò che ho da temere, e ciò che ho sofferto: pregalo di trovare un mezzo di fuggire senza dilazione, e di ciò mi fido intieramente nella sua prudenza. Se vuole incaricarsi della nostra liberazione, sarà ben ricompensato. Non posso parlargli io stessa: saremmo osservati e s'impedirebbe la nostra fuga. Ma fa presto, Annetta, e procura di agire con circospezione. Ti aspetterò qui.» La buona ragazza, la cui anima sensibile era stata penetrata da quel racconto, era allora tanto premurosa di obbedire, quanto la padroncina di adoprarla, ed uscì immediatamente. Riflettendo Emilia ai motivi dell'assalto inaspettato, ne concluse che Montoni avesse devastato il paese, e che gli abitanti venissero ad attaccarlo per vendicarsi. Montoni, senza essere precisamente, come Emilia lo supponeva, un capo di ladri, aveva impiegato le sue truppe a spedizioni audaci e atroci a un tempo. Non solo avevano esse spogliato all'occorrenza tutti i viaggiatori inermi, ma saccheggiate ben anco tutte le abitazioni situate in mezzo ai monti. In queste spedizioni, i capi non si facevano mai vedere: i soldati, in parte travestiti, erano presi talvolta per malandrini ordinari, altre volte per bande forastiere, che a quell'epoca innondavano l'Italia. Avevano dunque saccheggiate case, e portati via tesori immensi; ma avendo assalito un castello con ausiliari della loro specie, n'erano stati respinti, inseguiti dagli alleati degli avversari. Le truppe di Montoni si ritirarono precipitosamente verso Udolfo, ma furono incalzate così da vicino nelle gole, che giunte appena sulle alture circostanti al forte, videro il nemico nella valle, distante poco più d'una lega. Allora affrettarono il passo per avvertir Montoni di prepararsi alla difesa; ed era il loro repentino arrivo che aveva piombato il castello in tanta confusione. Mentre Emilia aspettava ansiosa il ritorno della fida ancella, vide dalla finestra un corpo di milizie scendere dalle alture. Annetta era uscita da poco; doveva eseguire una missione delicata e pericolosa, eppure era già tormentata dall'impazienza. Stava in orecchio, apriva la porta, e le movea incontro sino in fondo al corridoio. Finalmente udì camminare, e vide, non Annetta, ma il vecchio Carlo. Fu assalita da nuovi timori. Egli le disse che il padrone lo mandava per avvertirla di prepararsi a partire immediatamente, chè il castello stava per essere assediato, aggiungendo che si preparavano le mule, per condurla, sotto buona scorta, in luogo di sicurezza. «Di sicurezza!» sclamò Emilia senza riflettere. «Il signor Montoni ha dunque tanta considerazione per me?» Carlo non rispose. La fanciulla fu alternativamente combattuta da mille contrari affetti: sembravale impossibile che Montoni prendesse misure per la di lei sicurezza. Era tanto strano il farla uscire dal castello, ch'essa non attribuiva questa condotta se non al disegno di eseguir qualche nuovo progetto di vendetta, come ne l'avea minacciata; poco dopo rallegravasi all'idea di partire da que' tristi luoghi; ma poscia, pensando alla probabilità che Valancourt fosse ivi prigioniero, se ne accorava vivamente. Carlo le rammentò che non c'era tempo da perdere, il nemico essendo in vista. Emilia lo pregò di dirle in qual luogo dovessero condurla. Egli esitò, ma essa ripetè la domanda, ed allora rispose: «Credo che dobbiate andare in Toscana.» --In Toscana!» sclamò la fanciulla; «e perchè in quel paese?» Carlo disse di non saper altro, se non che sarebbe stata condotta sui confini toscani, in una casuccia alle falde degli Appennini, distante qualche giornata di cammino. Emilia lo congedò. Preparava tremante una piccola valigia, quando comparve Annetta. «Oh! signorina, non c'è più scampo; Lodovico assicura che il nuovo portinaio è ancor più vigilante di Bernardino. Il povero giovane è disperato per me, e dice che morirò di spavento alla prima cannonata.» Si mise a piangere, e sentendo che Emilia partiva, la pregò di condurla seco. «Ben volentieri,» rispose questa, «se il signor Montoni vi acconsente.» Annetta non le rispose, e corse a cercar il castellano, ch'era sulle mura circondato dagli uffiziali. Pregò, pianse e si strappò i capegli, ma tutto fu inutile, e Montoni la scacciò duramente con una ripulsa. Nella sua disperazione, tornò presso Emilia, la quale augurò male da quel rifiuto. Vennero tosto ad avvertirla di scendere nel gran cortile, ove le guide e le mule l'attendevano. Essa tentò indarno di consolare Annetta, che, struggendosi in pianto, ripeteva ognora, che non avrebbe più riveduta la sua cara padroncina. Questa pensava fra sè, che i suoi timori potevano esser pur troppo fondati, pure cercò di calmarla, e le disse addio con apparente tranquillità. Annetta l'accompagnò nel cortile, la vide montare su d'una mula, e partire colle guide, poi rientrò nella sua stanza per piangere liberamente. Emilia intanto, nell'uscire, osservava il castello, il quale non era più immerso in tetro silenzio, come quando eravi entrata; dappertutto era uno strepito d'armi, un affaccendarsi ai preparativi di difesa. Quando fu uscita dal portone, quando s'ebbe lasciato indietro quella formidabile saracinesca, que' tetri bastioni, sentì una gioia improvvisa, come di schiavo che ricuperi la sua libertà. Questo sentimento non le permetteva di riflettere ai nuovi pericoli che potevano minacciarla: i monti infestati da saccomani, un viaggio cominciato con guide, la cui sola fisonomia valeva ad incuterle spavento. Sulle prime però gioì, trovandosi fuori di quelle mura, dov'era entrata con sì tristi presagi. Rammentavasi di quali presentimenti superstiziosi fosse stata côlta allora, e sorrideva dell'impressione ricevutane dal suo cuore. Osservava con tai sentimenti le torri del castello, e pensando che lo straniero, cui credea ivi detenuto poteva essere Valancourt, la sua gioia fu di lieve durata. Riunì tutte le circostanze relative all'incognito, fin dalla notte in cui avevagli sentito cantare una canzone del suo paese. Se le era rammentate spesso, senza trarne alcuna convinzione, e credeva soltanto che Valancourt potesse esser prigioniero in Udolfo. Era probabile che, cammin facendo, raccogliesse da' suoi conduttori notizie più dettagliate; ma temendo d'interrogarli troppo presto, per paura che una diffidenza reciproca non li impedisse di spiegarsi in presenza l'uno dell'altro, aspettò l'occasione favorevole per intertenerli separatamente. Poco dopo, udirono in lontananza il suono di una tromba. Le due guide si fermarono guardando indietro. Il bosco foltissimo, ond'eran circondati, non lasciava veder nulla. Uno di essi salì sopra un poggio per osservare se il nemico si avanzasse, giacchè la tromba senza dubbio apparteneva alla sua vanguardia. Mentre l'altro intanto restava solo con Emilia, ella si arrischiò d'interrogarlo a proposito del supposto Valancourt. Ugo, tale era il nome di colui, rispose che il castello racchiudeva parecchi prigionieri, ma che non rammentandosene nè la figura, nè il tempo dell'arrivo, non poteva darle informazioni precise. Gli domandò quali prigionieri fossero stati fatti dall'epoca che indicò cioè da quando aveva intesa la musica per la prima volta. «Sono stato fuori colla truppa per tutta la settimana,» rispose Ugo, «e non so nulla di quel che è accaduto nel castello.» Bertrando, l'altra guida, tornò ad informar il compagno di quanto avea veduto, ed Emilia non domandò più nulla. I viaggiatori uscirono dal bosco, e scesero in una valle per una direzione contraria a quella che doveva prendere il nemico. Emilia vide intieramente il castello, e contemplò colle lacrime agli occhi quelle mura ov'era forse chiuso Valancourt. Cominciarono a sentire le cannonate; desse elettrizzavano Ugo, il quale ardeva d'impazienza di trovarsi a combattere, maledicendo Montoni che lo mandava così lontano. I sentimenti del suo compagno parevano molto diversi, e più adattati alla crudeltà, che ai piaceri della guerra. Emilia faceva frequenti interrogazioni sul luogo del suo destino; ma non potè saper altro, se non che andava in Toscana; e tutte le volte che ne parlava, parevale scoprire nella faccia di quei due uomini un'espressione di malizia e fierezza che la faceva tremare. Viaggiarono alcune ore in profonda solitudine; verso sera s'ingolfarono fra precipizi ombreggiati da cipressi, pini ed abeti; era un deserto così aspro e selvaggio, che se la malinconia avesse dovuto scegliersi un asilo, quello sarebbe stato il suo favorito soggiorno. Le guide decisero di riposar quivi. «La sera si avanza,» disse Ugo, «e andando più oltre saremmo esposti ad esser divorati dai lupi.» Questo fu un cattivo annunzio per Emilia, trovandosi ad ora così tarda in quei luoghi selvaggi, alla discrezione di coloro. Gli orribili sospetti concepiti sui disegni di Montoni se le presentarono con maggior forza; fece di tutto per impedir la sosta, e domandò con inquietudine quanto cammino restasse da fare. «Molte miglia ancora,» disse Bertrando; «se non volete mangiare, buona padrona, ma noi vogliamo cenare, chè ne abbiamo bisogno. Il sole è già tramontato: fermiamoci sotto questa rupe.» Il suo camerata acconsentì, fecero scendere Emilia dalla mula, e sedutisi tutti sull'erba, si misero a mangiare alcuni cibi tratti da una valigia. L'incertezza aveva talmente aumentata l'ansietà di Emilia a proposito del prigioniero, che non potendo discorrere col solo Bertrando, lo interrogò alla presenza di Ugo; indarno: ei disse non saperne nulla affatto. Ciarlando di varie cose, vennero a discorrere di Orsino e del motivo per cui era fuggito da Venezia. Qual non fu il raccapriccio d'Emilia allorchè Bertrando narrò la storia d'un altro assassinio fatto commettere per conto del cavaliere, ed in cui il bravo avea sostenuta una parte principale! A tale scoperta, mille terribili supposizioni l'assalsero: essa credeva restar vittima della cupidigia di Montoni, il quale avesse deciso di disfarsi di lei in silenzio, e per mezzo di quegli scherani, per appropriarsi in pace i di lei beni. Il sole era tramontato tra folte nubi, ed Emilia arrischiò tremando di rammentare alle guide che cominciava a farsi tardi, ma essi erano troppo occupati dei loro discorsi per badare a lei. Dopo aver finito di cenare, ripresero la strada della valle in silenzio. Emilia continuava a pensare alla propria situazione, ed alle ragioni che poteva aver Montoni per trattarla così. Era indubitato ch'egli aveva cattive mire su di lei. Se non la faceva perire per appropriarsi istantaneamente i di lei beni, non facevala nascondere per un certo tempo, se non per riservarla a progetti più tristi, degni della sua cupidigia, e meglio adatti alla sua vendetta. Rammentandosi dell'insulto fattole nella galleria, la sua orribile supposizione acquistò maggior forza. A qual fine però l'allontanava dal castello, ove probabilmente erano già stati commessi con segretezza tanti delitti? Il di lei spavento divenne allora sì eccessivo, che proruppe in dirotto pianto. Pensava nel tempo stesso al diletto padre, ed a ciò che avrebbe sofferto se avesse potuto prevedere le strane e penose di lei avventure. Con qual cura si sarebbe guardato dall'affidare la sua figlia orfana ad una donna tanto debole come la signora Montoni! La sua posizione attuale sembravale così romanzesca, che, rammentandosi la calma e serenità de' primi anni, si credeva quasi vittima di qualche sogno spaventoso, o di un'immaginazione delirante. La riservatezza impostale dalla presenza delle guide, cambiò il suo terrore in cupa disperazione. La prospettiva spaventevole di ciò che poteva accaderle in seguito la rendeva quasi indifferente ai pericoli che la circondavano. La notte era già tanto avanzata, che i viaggiatori vedevano appena la strada. Dopo molte ore di penoso cammino, interrotto ben anco da una violenta burrasca, si trovarono fuori di quei boschi. Ad Emilia parve d'esser rinata, riflettendo che se quei due uomini avessero avuto ordine d'ucciderla, l'avrebbero certo eseguito nell'orrido deserto dond'erano usciti, e dove mai se ne sarebbe potuto trovare la traccia. Rianimata da questa riflessione, e dalla tranquillità delle sue guide, discese tacendo per un sentiero fatto solo per gli armenti, contemplando con interesse la sottoposta valle coronata a levante e a settentrione dagli Appennini; a ponente ed a mezzogiorno, la vista si estendeva per le belle pianure della Toscana. «Il mare è là,» disse Bertrando, quasi avesse indovinato che Emilia esaminava quegli oggetti cui il chiaro di luna le permetteva di scorgere; «desso sta ad occidente, benchè non possiamo distinguerlo.» Emilia trovò subito una differenza di clima, molto più temperato di quello de' luoghi alpestri, poco prima attraversati. Il paese ora contrastava tanto colla grandezza spaventosa di quelli, ov'era stata confinata, e co' costumi di coloro che vi abitavano, che Emilia si credè trasportata nella sua cara valle di Guascogna. Stupiva come Montoni l'avesse mandata in quel delizioso paese, e non potea credere fosse stato scelto da lui per servir di teatro ad un delitto. La fanciulla si arrischiò a chiedere se il luogo di loro destinazione fosse ancora molto distante. Ugo le rispose che non n'erano lontani. «A quel bosco di castagni in fondo alla valle,» diss'egli, «vicino al ruscello, dove specchiasi la luna. Non vedo l'ora di riposarmi là con un fiasco di vino buono ed una fetta di prosciutto.» Emilia esultò udendo che il suo viaggio stava per finire. In pochi momenti giunsero all'ingresso del bosco. Videro da lontano un lume: avanzaronsi costeggiando il ruscello, ed arrivarono in breve ad una capanna. Bertrando battè forte. Un uomo si affacciò ad una finestrella, ed avendolo riconosciuto, scese immediatamente ad aprir la porta. L'abitazione era rustica, ma decente; costui ordinò alla moglie di portar qualche rinfresco ai viaggiatori, ed intanto parlò in disparte con Bertrando: Emilia l'osservò; era un contadino grande, ma non robusto, pallido, e di sguardi penetranti. Il di lui esteriore non annunziava un carattere capace d'ispirar fiducia, e non aveva modi che potessero conciliargli la benevolenza. Ugo s'impazientiva, chiedeva da cena, e prendeva anche un fare autorevole, che non sembrava ammettere replica. «Vi aspettava un'ora fa,» disse il contadino, «avendo già ricevuto una lettera del signor Montoni. --Fate presto, per carità, abbiamo fame; e sopratutto portate tanto vino.» Il contadino ammannì loro immediatamente lardo, vino, fichi, pane ed uva squisita. Dopo che Emilia si fu alquanto rifocillata, la moglie del contadino le indicò la sua camera. La fanciulla le fece alcune interrogazioni intorno a Montoni: Dorina, così chiamavasi la donna, rispose con molta riservatezza, pretendendo ignorare le intenzioni di sua eccellenza. Convinta allora che non avrebbe ricevuto alcuno schiarimento sul nuovo suo destino, la licenziò, e coricossi; ma le scene maravigliose accadute, tutte quelle che prevedeva, si presentarono a un tempo alla di lei inquieta immaginazione, e concorsero col sentimento della nuova situazione a privarla d'ogni sonno. CAPITOLO XXXII Quando, allo spuntar del giorno, Emilia aprì la finestra, restò sorpresa contemplando le bellezze che la circondavano. La casa era ombreggiata da castagni, misti a cipressi e larici. A settentrione e a levante gli Appennini, coperti di boschi, formavano un anfiteatro superbo e maestoso. Le loro falde verdeggiavano di vigne e di oliveti. Le ville elegantissime della nobiltà toscana, sparse qua e là sui colli, formavano una vista sorprendente. L'uva pendeva a festoni dai rami dei pioppi e dei gelsi. Prati immensi costeggiavano il ruscello che scendeva dalle montagne; a ponente ed a mezzogiorno, si scorgeva il mare a gran distanza. La casa era esposta a mezzogiorno, e circondata da fichi, gelsomini e viti dai rubicondi grappoli, che pendevano intorno alle finestre: il praticello innanzi alla casa era smaltato di fiori e d'erbe odorifere. Quel luogo era per Emilia un boschetto incantato, la cui vaghezza comunicò successivamente al di lei spirito la calma, che non aveva gustata da tanto tempo. Fu chiamata all'ora della colazione dalla figlia del contadino, fanciulla di fisonomia interessante, dell'età di circa diciassette anni. Emilia vide con piacere che parea animata dalle più pure affezioni della natura: tutti quelli che la circondavano, annunziavano più o meno cattive disposizioni: crudeltà, malizia, ferocia e doppiezza; quest'ultimo carattere distingueva specialmente la fisonomia di Dorina e di suo marito. Maddalena parlava poco, ma con voce soave ed un'aria modesta e compiacente che interessarono Emilia. Le donne fecero colazione in casa mentre Ugo, Bertrando ed il loro ospite mangiavano sul prato prosciutto e formaggio, inaffiati di vini toscani. Appena ebbero finito, Ugo andò in fretta a cercare la sua mula. Emilia seppe allora ch'egli doveva tornare ad Udolfo, mentre Bertrando sarebbe rimasto alla capanna. Quando Ugo fu partito, Emilia propose una passeggiata nel bosco; ma essendole stato detto che non poteva uscire se non in compagnia di Bertrando stimò meglio ritirarsi nella sua stanza. Preferendo la solitudine alla società di quello scellerato e de' suoi ospiti, Emilia pranzò in camera, e Maddalena ebbe il permesso di servirla. La di lei conversazione ingenua le fece conoscere che i contadini abitavano da molto tempo in quella casa, la quale era un regalo di Montoni in ricompensa d'un servizio resogli da Marco, stretto parente del vecchio Carlo. «Sono così tanti anni, signora,» disse Maddalena, «ch'io ne so pochissimo; ma sicuramente mio padre deve aver fatto del gran bene a sua eccellenza, perchè la mamma ha detto spessissimo, che questa casa era il menomo regalo che potesse fargli.» Emilia ascoltava con pena questo racconto, che dava un colore poco favorevole al carattere di Marco. Un servizio che Montoni ricompensava così, non poteva essere che delittuoso; e si convinceva sempre più di non essere stata mandata in quel luogo se non per un colpo disperato. «Sapete voi quanto tempo sarà,» disse Emilia, pensando all'epoca in cui la signora Laurentini era sparita dal castello, «sapete voi quanto tempo sia che vostro padre ha reso al signor Montoni il servizio di cui mi parlate? --Fu un po' prima che venisse ad abitare in questa casa; saranno circa diciotto anni.» Era l'epoca in cui si diceva presso a poco che fosse sparita la signora Laurentini. Venne in mente ad Emilia che Marco avesse potuto servir Montoni in quell'affare misterioso, secondando forse un omicidio. L'orribile pensiero la piombò in angosciose riflessioni. Restò sola fino a sera, vide tramontare il sole, ed al momento del crepuscolo le sue idee furono tutte occupate di Valancourt. Riunì le circostanze relative alla musica notturna, e tutto ciò che appoggiava le sue congetture sulla di lui prigionia nel castello, e si confermò nell'opinione di averne udita la voce. Stanca d'affannarsi, si gettò finalmente sul letto, e cedè al sonno. Un colpo battuto all'uscio non tardò a svegliarla. L'immagine di Bertrando con uno stile alla mano, si presentò alla di lei immaginazione alterata. Domandò chi fosse. «Son io, signorina, aprite, non abbiate timore, sono la Lena. --Che cosa vi adduce sì tardi?» disse Emilia facendola entrare. --Zitto, signora, per l'amor del cielo, non facciamo rumore. Se ci sentissero, non me la perdonerebbero. Mio padre, mia madre e Bertrando dormono,» soggiuns'ella chiudendo la porta. «Siccome voi non avete cenato, vi ho portato uva, fichi, pane ed un bicchier di vino.» Emilia la ringraziò, ma le fece conoscere che si esponeva al risentimento di Dorina, quando si fosse accorta della mancanza dei frutti. «Riprendeteli, Lena,» le disse, «io soffrirò meno a non mangiare, che se sapessi doveste domani esserne sgridata da vostra madre. --Oh! signora! non v'è pericolo,» soggiunse la Lena; «mia madre non può accorgersi di nulla, poichè è la mia parte di cena; mi fareste dispiacere ricusando.» Emilia fu talmente intenerita della generosità della buona fanciulla, che le vennero le lagrime agli occhi. «Non v'affliggete,» le disse la Lena; «mia madre è un po' viva, ma le passa presto. Non vi accorate dunque. Ella mi sgrida spesso, ma io ho imparato a soffrirla; e se mi riesce di scappare nel bosco, quando ha finito, mi scordo di tutto.» Emilia sorrise, malgrado le sue lagrime, disse a Lena che aveva un ottimo cuore, ed accettò il dono. Desiderava molto sapere se Bertrando, Dorina e Marco avessero parlato di Montoni e dei suoi ordini in presenza di Maddalena; ma non volle sedurre l'innocente fanciulla, facendole tradire i discorsi de' suoi genitori. Quando se ne andò, Emilia la pregò di venire a trovarla più spesso che poteva, senza però mancare ai doveri di figlia; Lena lo promise, ed augurolle la buona notte. Emilia per alcuni giorni non uscì mai di camera, e la Lena veniva a trovarla solo nel tempo de' pasti. La sua dolce fisonomia e le sue maniere interessanti consolavano la solitaria nostra eroina. In quest'intervallo il di lei spirito, non avendo ricevuta alcuna nuova scossa di dolore o di timore, potè giovarsi del divertimento della lettura. Ritrovò alcuni abbozzi, carta e matite, e si sentì disposta a ricrearsi disegnando qualche parte della magnifica prospettiva che aveva sott'occhio. La sera d'un dì che faceva gran caldo, Emilia volle provarsi a fare una passeggiata, benchè Bertrando dovesse accompagnarla. Prese la Lena ed uscì seguita dallo scherano, che la lasciò padrona di scegliere la strada. Il tempo era sereno e fresco: Emilia ammirava con entusiasmo quella bella contrada. Il sole all'occaso dorava ancora la cima degli alberi e le vette più alte. Emilia seguì il corso del ruscello lungo gli alberi che lo costeggiavano. Sulla riva opposta alcune bianche pecorelle spiccavano fra il verde. D'improvviso, udì un coro di voci. Si ferma, ascolta attenta, ma teme di farsi vedere. Fu la prima volta che riguardò Bertrando come il suo protettore; ei la seguiva davvicino discorrendo con un pastore. Rassicurata da questa certezza, si avanza dietro una collinetta; la musica cessò, e di lì a poco sentì una voce di donna che cantava sola. Emilia, raddoppiando il passo, girò dietro la collina, e vide un praticello coronato da alberi altissimi. Vi osservò due gruppi di contadini che stavano intorno ad una giovinetta, la quale cantava, tenendo in mano una ghirlanda di fiori. Finita la canzone, alcune pastorelle si avvicinarono ad Emilia ed alla Lena, le fecero sedere in mezzo a loro, e le presentarono uva e fichi. Quella placida scena campestre la commosse oltremodo, e quando tornò a casa, si sentì lo spirito più calmato. Dopo quella sera passeggiò spesso in compagnia della Lena, ma sempre colla scorta di Bertrando. La tranquillità in cui viveva, le faceva credere che non si avessero cattivi disegni su di lei; e senza l'idea probabile che Valancourt in quel momento fosse prigioniero nel castello, avrebbe preferito di restare colà fino all'epoca del suo ritorno in patria. Riflettendo però ai motivi che potevano aver deciso Montoni a farla passare in Toscana, la sua inquietudine non diminuiva, non essendo persuasa che il solo interesse della di lei sicurezza l'avesse deciso a condursi in questa guisa. Emilia passò qualche tempo nella capanna prima di ricordarsi che, nella precipitosa partenza, aveva lasciato ad Udolfo le carte della zia relative ai beni della Linguadoca. Ciò le fece pena, ma poi sperò che il nascondiglio sarebbe sfuggito alle ricerche di Montoni. CAPITOLO XXXIII Torniamo un momento a Venezia, dove il conte Morano geme sotto il peso di nuove sciagure. Appena giunto quivi, era stato arrestato per ordine del Senato, e messo in una segreta così rigorosa, che tutti gli sforzi degli amici non riuscirono a saperne notizia. Egli non avea potuto indovinare a qual nemico dovesse la sua prigionia, a meno che non fosse Montoni, sul quale appunto fissavansi i suoi sospetti. Essi erano non solo probabili, ma anche fondati. Nella faccenda della coppa avvelenata, Montoni avea sospettato Morano; ma, non potendo acquistar il grado di prova necessaria alla convinzione del delitto, ebbe ricorso ad altri modi di vendetta. Da una persona fidata fece gettare una lettera d'accusa nella _bocca del leone_, destinata a ricevere le denunzie segrete contro i cospiratori politici. Il conte erasi attirato il rancore de' principali senatori; i modi altieri, la smodata ambizione faceanlo odiar dagli altri; non dovea dunque aspettarsi alcuna pietà da parte de' suoi nemici. Montoni intanto faceva fronte ad altri pericoli. Il suo castello era assediato da gente risoluta a vincere. La forza della piazza resistè al violento attacco, la guarnigione si difese strenuamente e la mancanza di viveri costrinse gli assalitori a sgomberare. Quando Montoni si vide di nuovo pacifico possessore d'Udolfo, impaziente di aver ancora Emilia in mano, mandò a cercarla. Costretta a partire, la fanciulla, diè un tenero addio alla dolce Lena. Risalendo l'Appennino, fissò un luogo sguardo di rammarico sulla deliziosa contrada che abbandonava; ma il dolore che risentiva a dover tornare al teatro de' suoi patimenti, fu addolcito dalla probabile speranza di ritrovarvi Valancourt, benchè prigioniero. Giunti a sera inoltrata, e senza tristi incontri, presso al castello, poterono scorgere al chiaro di luna i danni patiti dalle mura durante l'assedio. Anche i boschi avean sofferto: alberi atterrati, schiantati, spogli di frondi, bruciati, indicavano i furori della guerra. Profondo silenzio era susseguito al tumulto delle armi. Alla porta, un soldato munito di lampada venne a riconoscere i viaggiatori, e li introdusse nel cortile. Emilia fu colta quasi da disperazione udendo rinchiudersi alle spalle quelle formidabili imposte che parevano separarla per sempre dal mondo. Traversato il secondo cortile, trovaronsi alla porta del vestibolo; il soldato augurò loro la buona notte e tornò al suo posto. Intanto Emilia pensava al modo di ritirarsi nella sua antica stanza senza esser veduta, per paura d'incontrare sì tardi o Montoni o qualcuno della sua compagnia. L'allegria che regnava nel castello era allora talmente clamorosa, che Ugo batteva alla porta senza poter farsi intendere dalla servitù. Questa circostanza aumentò i timori di Emilia, e le lasciò il tempo di riflettere. Avrebbe forse potuto giugnere allo scalone, ma non poteva andare alla sua camera senza lume. Bertrando aveva appena una torcia, ed ella sapeva benissimo che i servi accompagnavano col lume solo fino alla porta, perchè il lampione sospeso alla vôlta illuminava sufficentemente il vestibolo. Carlo aprì alfine la porta: Emilia lo pregò di mandar subito Annetta con un lume nella galleria grande dove andava ad aspettarla, e, salita la scala, sedette sull'ultimo gradino. Il buio della galleria la dissuase dall'entrarvi. Mentre stava attenta per sentire se venisse Annetta, sentì Montoni ed i suoi compagni, che, parlando tumultuosamente con gente ebbra, si dirigevano a passi barcollanti verso la scala. Obliando la paura, entrò colle braccia avanti nella galleria, sempre attenta alle voci che udiva dabbasso, e tra le quali distinse quelle di Bertolini e Verrezzi. Dalle poche parole che potè intendere, capì che si parlava di lei: ciascuno reclamava qualche antica promessa di Montoni. Dopo aver alcun poco altercato, sentì venir su gente, e si slanciò nella galleria colla rapidità del lampo. Percorse così alla ventura parecchi di que' vetusti anditi; finalmente riescì in uno d'essi in fondo al quale le parve vedere un filo di luce. Mentre dirigevasi colà, scorse venirle incontro Verrezzi barcollante. Per cansarlo, si gettò in una porta che trovò a sinistra, sperando di non essere stata veduta; poco dopo, socchiuse l'uscio per cercar d'andarsene, quando un lume spuntò in fondo a quel corridoio, e riconobbe Annetta; le corse incontro, e questa, vedendola, le si buttò al collo con un grido. Emilia potè farle comprendere il suo pericolo, e recaronsi ambedue nella camera di Annetta alquanto distante. Alcun timore però non valse a farla tacere. «Oh! mia cara padrona,» diceva essa camminando, «quanta paura ho avuto! Ah! ho creduto di morire mille volte, e non sapeva se sarei sopravvissuta al fragor dei cannoni per potervi rivedere. Non ho mai provato in vita mia un contento maggiore quanto adesso che vi ritrovo. --Zitto!» diceva Emilia; «siamo inseguite!» Ma era l'eco de' loro passi. «No,» disse Annetta, «hanno chiusa una porta. --Facciamo silenzio per carità, e non parliamo più, finchè non siamo giunte alla tua camera.» Vi arrivarono finalmente senza sinistri incontri. La cameriera aprì, e Emilia si mise a sedere sul letto per riposarsi alquanto. La sua prima domanda fa se Valancourt era prigioniero. Annetta le rispose non poter dirglielo con precisione, ma esser certa ch'eranvi molti prigionieri nel castello. Poscia cominciò a sua guisa a fare la descrizione dell'assedio, o piuttosto il dettaglio di tutte le paure sofferte durante l'attacco. «Ma,» soggiuns'ella, «quando intesi sulle mura i gridi di vittoria, credei che noi fossimo stati presi, e mi tenni perduta; in vece avevamo scacciati i nemici. Andai nella galleria settentrionale, e vidi un gran numero di fuggitivi sulle montagne. Del resto poi si può dire che i bastioni sono in rovina. Facea spavento il vedere nel bosco sottoposto tanti morti, ammucchiati l'un sopra l'altro!... Durante l'assedio, il signor Montoni correa qua, là, era da per tutto, a quanto mi disse Lodovico. Per me, egli non mi lasciava veder nulla. Mi chiudeva in una stanza nel centro del castello, mi portava da mangiare, e veniva a trovarmi più spesso che poteva. Debbo confessare che, senza Lodovico, sarei morta, sicuramente. --E come vanno le cose dopo l'assedio? --V'è un fracasso terribile,» rispose Annetta; «i signori non fanno altro che mangiare, bere e giuocare. Stanno a tavola tutta notte e giuocano tra loro le belle e ricche cose, che hanno preso quando andavano al saccheggio od a qualcosa di simile. Hanno alterchi vivissimi sulla perdita e sul guadagno; il signor Verrezzi perde sempre, a quanto si dice: Orsino guadagna, e sono sempre in lite. Tutte quelle belle signore sono ancora qui, e vi confesso che mi fanno ribrezzo quando le incontro. --Sicuramente,» disse Emilia sussultando, «odo rumore, ascolta. --Oibò! è il vento. Lo sento spesso quando soffia più forte del solito, e scuote le porte della galleria. Ma perchè non volete coricarvi? credo non vorrete restar così tutta notte.» Emilia si stese sul letto pregandola di lasciare il lume acceso. Annetta si coricò accanto a lei; ma la fanciulla non poteva dormire, e le pareva sempre d'intendere qualche rumore. Mentre Annetta cercava persuaderla ch'era il vento, udirono rumor di passi vicino all'uscio. La cameriera voleva scendere dal letto, ma Emilia la trattenne; si bussò leggermente, e si chiamò Annetta sottovoce. «Per l'amor del cielo, non rispondere,» disse Emilia, «sta quieta. Faremmo bene a spegnere il lume, che potrebbe tradirci. --Madonna!» sclamò la cameriera; «non resterei al buio adesso per tutto l'oro del mondo.» Mentre parlava fu ripetuto più forte il nome di Annetta. «Ah! è Lodovico,» gridò essa allora, e si alzava per aprir la porta; ma Emilia ne la impedì volendo prima assicurarsi se era solo. Annetta gli parlò qualche tempo, ed egli le disse che, avendola lasciata uscire per andare a trovar la padroncina, veniva a rinchiuderla di nuovo. Questa temendo di essere sorpresa se continuavano a parlare in quel modo, acconsentì a lasciarlo entrare. La fisonomia franca e buona del giovane rassicurò Emilia, la quale implorò il di lui soccorso, se Verrezzi lo avesse reso necessario. Lodovico promise di passar la notte in una camera attigua per difenderla da qualunque insulto, e, acceso un lume, se ne andò al suo posto. Emilia avrebbe desiderato riposare, ma troppi interessi occupavano la sua mente: si vedeva in un luogo divenuto soggiorno del vizio e della violenza, fuori della protezione delle leggi, in potere d'un uomo instancabile nella persecuzione e nella vendetta; e riconobbe che resistere più a lungo alla di lui prepotenza sarebbe stata follia. Abbandonò pertanto la speranza di vivere agiatamente con Valancourt, e decise di ceder tutto a Montoni la mattina seguente, purchè le permettesse di tornarsene tosto in Francia. Queste riflessioni la tennero svegliata tutta notte. Appena fu giorno, Emilia ebbe un lungo colloquio con Lodovico, il quale le raccontò varie circostanze relative al castello, e le diè alcune notizie sui progetti di Montoni, che accrebbero i suoi fondati timori. Gli dimostrò gran sorpresa perchè, sembrando così commosso dalla di lei trista situazione in quel castello non pensasse d'andarsene. Ei l'assicurò non essere sua intenzione di restarvi, ed allora essa rischiò a domandargli se volesse assecondare la sua fuga. Lodovico l'accertò ch'era dispostissimo a tentarla, ma le rappresentò tutte le difficoltà dell'impresa, giacchè la di lui perdita sarebbe stata certa, se Montoni li raggiungesse prima d'esser fuori de' monti. Promise nulladimeno di cercarne con premura l'occasione, e di occuparsi d'un piano di fuga. Emilia gli confidò allora il nome di Valancourt, pregandolo d'informarsi se fosse nel numero dei prigionieri. La debole speranza che le rinacque da questo colloquio, dissuase Emilia dal trattare immediatamente con Montoni; risolse, s'era possibile, di ritardare a parlargli fin quando avesse saputo qualcosa da Lodovico, e di non far la cessione se non quando le fosse riuscito impossibile ogni mezzo di fuggire. Mentre fantasticava così, Montoni rinvenuto dall'ubbriachezza, la mandò a chiamare; essa obbedì, e lo trovò solo, «Ho saputo,» diss'egli, «che non passaste la notte nella vostra camera; dove siete stata?» Emilia gli dettagliò le circostanze che ne l'aveano impedita, e le chiese la sua protezione per l'avvenire. «Voi conoscete i patti della mia protezione,» diss'egli; «se realmente ne fate caso, procurate di meritarvela.» Quella dichiarazione precisa, che non l'avrebbe protetta se non condizionatamente, durante la sua cattività nel castello, convinse Emilia della necessità di arrendersi; ma prima gli domandò se le avrebbe permesso di partire immediatamente dopo aver firmata la cessione; egli le ne fece solenne promessa, e le presentò la carta, colla quale essa gli trasferiva tutti i suoi diritti. Fu per qualche tempo incapace di firmare, avendo il cuore lacerato da opposti affetti; stava per rinunziare alla felicità della sua vita, e alla speranza che l'avea sostenuta in un sì lungo corso di avversità. Montoni le ripetè i patti della sua obbedienza, osservandole che tutti i momenti erano preziosi. Essa prese la penna e firmò la cessione. Appena ebbe finito, lo pregò di ordinare la sua partenza e di lasciarle condur seco Annetta. Montoni allora si mise a ridere. «Era necessario ingannarvi,» diss'egli; «era l'unico mezzo per farvi agire ragionevolmente: voi partirete ma non adesso. Bisogna prima ch'io prenda possesso di quei beni; quando ciò sarà fatto, potrete tornarvene in Francia.» La fredda scelleratezza colla quale ei violava il solenne impegno da lui preso, ridusse Emilia alla disperazione, conoscendo che il suo sacrifizio non le avrebbe giovato a nulla, e sarebbe rimasta prigioniera: non sapeva trovar parole per esprimere i suoi sentimenti, e capiva bene che ogni osservazione sarebbe stata infruttuosa; guardò Montoni con aria supplichevole, ma egli volse il capo, e la pregò di ritirarsi. Incapace di fare neppure un passo, ella si abbandonò sopra una sedia, sospirando affannosamente senza poter piangere, nè parlare. «Perchè abbandonarvi a questo inopportuno dolore?» le disse Montoni; «sforzatevi di sopportare coraggiosamente ciò che ora non potete evitare. Non avete da lagnarvi di verun affanno reale; abbiate pazienza, e sarete rimandata in Francia. Intanto tornate alla vostra stanza. --Non oso, signore,» rispose Emilia, «andare in un luogo ove può introdursi il signor Verrezzi.--Non vi ho io promesso di proteggervi?» disse Montoni.--Promesso!» ribattè Emilia titubando.--La mia promessa dunque non basta?» riprese egli severamente.--Rammentatevi della vostra prima promessa,» disse Emilia tremando, «e giudicherete voi stesso qual caso io debba fare delle altre.--Guardatevi dal farmi ritrattare le mie parole. Ritiratevi, voi non avete nulla da temere nel vostro appartamento.» Emilia ritirossi a passi lenti, e quando fu giunta nella sua camera, esaminò attentamente se vi fosse nascosto qualcuno, chiuse la porta, e si mise a sedere vicino alla finestra. La misera avrebbe forse perduta la ragione, se non avesse lottato fortemente contro il peso delle sue sciagure. Invano sforzavasi di credere che Montoni l'avrebbe realmente rimandata in Francia, tostochè si fosse assicurato de' suoi beni, e che intanto l'avrebbe guarentita dagl'insulti. La sua speranza principale però era riposta in Lodovico; nè dubitava del suo zelo, malgrado la poca fiducia di lui stesso nella progettata evasione. Questa trista giornata la trascorse come tante altre nella propria camera. Calò la notte, ed Emilia sarebbesi ritirata nella stanza di Annetta se un interesse più forte non l'avesse trattenuta: voleva attendere all'ora consueta il ritorno della musica, la quale, se non potea assicurarla positivamente della presenza di Valancourt nel castello, valea a confermarla nella sua idea e procurarle una consolazione sì necessaria nel suo attuale abbattimento. La notte era burrascosa: il vento soffiava veemente; le ore passarono: Emilia udì appostar le sentinelle. Di lì a poco, una fioca melodia traversò l'aere; riconobbe il suono di un liuto accompagnato da' queruli accenti d'un uomo. Essa ascoltava sperando e temendo; ritrovò la dolcezza armoniosa della voce e del liuto, che già conosceva. Convinta che la musica partiva da una delle stanze sottoposte, si sporse in fuori per iscoprire alcun lume, ma indarno. Chiamò anche sottovoce, ma il vento impedì senza dubbio di udirla; la musica continuava. D'improvviso, udì battere all'uscio della camera, ed avendo riconosciuto la voce di Annetta, le aprì, invitandola ad avvicinarsi pian piano alla finestra per ascoltare. «Gran Dio!» sclamò Annetta; «io conosco questa canzone: essa è francese, ed una delle ariette favorite del mio caro paese... È un nostro compatriota che canta e dev'essere il signor Valancourt.--Piano, Annetta,» disse Emilia, «non parlar sì forte; potremmo essere intese.--Da chi? dal cavaliere?--No, ma qualcuno potrebbe tradirci. Perchè credi tu sia Valancourt quello che canta? Ma zitto: la voce diventa più forte. La riconosci?--Signorina,» rispose Annetta, «io non ho mai udito cantare il cavaliere.» Ad Emilia spiacque assai che l'unico motivo di Annetta per credere ch'era Valancourt, fosse che il cantore era Francese. Poco dopo udì la romanza intesa alla peschiera, e il di lei nome fu ripetuto così spesso, che Annetta gridò ad alta voce: «Signor Valancourt! signor Valancourt!» Emilia tentò trattenerla, ma essa gridava sempre più forte; la musica cessò, e nessuno rispose. «Non importa, signora Emilia,» disse la ragazza; «è il cavaliere senz'altro, ed io voglio parlargli.--No, no, Annetta; voglio parlargli io stessa. Se è lui, riconoscerà la mia voce, e risponderà. Chi è,» gridò ella, «che canta così tardi?» Susseguì un lungo silenzio. Ripetè la domanda, ed intese fievoli accenti, i quali parevano venir sì da lontano, che non potè distinguer nessuna parola. Allora credè che l'incognito fosse Valancourt senz'altro, giacchè aveva risposto alla sua voce, e lusingandosi che l'avesse riconosciuta, si abbandonò a trasporti di gioia. Annetta intanto continuava a chiamare. Emilia, temendo allora di esser tradita nelle sue ricerche, la fece tacere, riservandosi ad interrogare Lodovico la mattina seguente. Stettero ambedue qualche tempo alla finestra, ma tutto rimase tranquillo. Emilia, giubilante, camminava a gran passi per la camera, chiamando sottovoce Valancourt, e tornava quindi alla finestra, dove non udiva altro che il mormorio del vento tra le frondi. Annetta mostravasi impaziente quanto lei; ma la prudenza le decise infine a chiudere la finestra, ed andarsene a letto. CAPITOLO XXXIV Passarono alcuni giorni nell'incertezza. Lodovico aveva potuto sapere solamente che c'era un prigioniero nel luogo indicato da Emilia, un Francese, stato preso in una scaramuccia. Nell'intervallo, Emilia sfuggì alle persecuzioni di Verrezzi e Bertolini, confinandosi nella sua camera. Talvolta passeggiava la sera nel corridoio. Montoni pareva rispettar l'ultima sua promessa, sebbene avesse violata la prima; ed ella non poteva attribuire il suo riposo che al favore della di lui protezione. Erane allora così persuasa, che non desiderava partire dal castello se non dopo aver ottenuto qualche certezza a proposito di Valancourt. L'aspettava adunque, senza che ciò le costasse verun sacrifizio, non essendosi presentata fin allora nessuna occasione propizia di fuggire. Finalmente, Lodovico venne ad avvertirla che sperava di vedere il prigioniero, dovendo questi avere per guardia la notte seguente un soldato di cui erasi fatto amico. La di lui speranza non fu vana, giacchè potè entrare nella prigione col pretesto di portargli acqua. La prudenza però gl'impose di non confidare alla sentinella il vero motivo di quella visita, che fu molto breve. Emilia stette impaziente ad aspettarne il risultato; infine vide ricomparire il giovano con Annetta. «Il prigioniero, signorina,» diss'egli, «non ha voluto confidarmi il suo nome. Quando pronunziai il vostro, si mostrò meno sorpreso di quel ch'io m'immaginassi. --Come sta egli? Dev'essere molto abbattuto dopo una sì lunga prigionia...--Oh no! mi parve che stesse bene, quantunque non glie l'abbia domandato.--Non vi ha consegnato nulla per me?» disse Emilia.--Mi ha dato questo, dicendo che vi avrebbe scritto se avesse avuto l'occorrente. Prendete.» E le consegnò una miniatura. Emilia riconobbe il suo proprio ritratto, lo stesso che aveva perduto sua madre in modo così singolare alla peschiera della valle. Pianse allora di gioia e tenerezza, e Lodovico continuò: «Mi ha scongiurato a procurargli un abboccamento con voi. Gli rappresentai quanto mi paresse difficile farvi acconsentire il suo custode; mi rispose ciò esser più facile che non immaginassi, e che se ne gli avessi portata la vostra risposta, si sarebbe spiegato meglio.--Quando potrete rivedere il cavaliere, ditegli che acconsento a vederlo.--Ma quando, signora, in qual luogo?--Ciò dipenderà dalle circostanze; desse fisseranno l'ora ed il luogo.» Il giovane le augurò la buona notte, e se ne andò. Passò una settimana prima che Lodovico potesse rientrare nella prigione. Nell'intervallo, comunicò ad Emilia rapporti spaventosi di quanto accadeva nel castello: il di lei nome era spesso pronunziato ne' discorsi di Bertolini e Verrezzi, e diveniva sempre soggetto di alterchi. Montoni aveva perduto al giuoco somme enormi con Verrezzi, e c'era tutta la probabilità che gliela destinasse in isposa per isdebitarsi, ad onta dell'opposizione di Bertolini. A tai notizie, la meschina scongiurava Lodovico a riveder tosto il prigioniero, ed a favorire la loro fuga. Finalmente Lodovico le disse d'aver riveduto il cavaliere, il quale avealo indotto a fidar nel carceriere, di cui aveva già esperimentata la condiscendenza, e che avevagli promesso di uscire per mezz'ora la notte seguente, quando Montoni ed i suoi compagni stessero gozzovigliando. «È una bella cosa per certo,» soggiunse il giovane; «ma Sebastiano sa bene che non corre alcun rischio, lasciando uscire il prigioniero, poichè se potrà scappare dalle porte di ferro sarà molto destro. Il cavaliere mi manda da voi, o signora, per supplicarvi in nome suo di permettergli che vi veda stanotte, quando pur fosse per un momento solo, non potendo più vivere sotto il medesimo tetto senza vedervi; circa all'ora, non può precisarla, giacchè dipende dalle circostanze, come voi diceste, e vi prega di scegliere il luogo che crederete il più sicuro.» Emilia era sì agitata dalla prossima speranza di rivedere Valancourt, che passarono alcuni minuti prima di poter rispondere. Finalmente, non seppe indicare un luogo più sicuro del corridoio. Fu dunque stabilito che il cavaliere sarebbe venuto quella notte nel corridoio, e che Lodovico avrebbe pensato a scegliere l'ora. Emilia, come può credersi, passò quest'intervallo in un tumulto di speranza, di gioia e d'ansiosa impazienza. Dopo il suo arrivo al castello non aveva mai osservato con tanto piacere il tramonto del sole. Contava le ore, e le parea che il tempo non passasse mai. Finalmente suonò mezzanotte. Aprì la porta del corridoio per ascoltare se vi fosse rumore nel castello, e udì solo l'eco delle risa smoderate che partivano dalla sala grande. S'immaginò che Montoni ed i suoi ospiti fossero a tavola. «Essi sono occupati per tutta la notte,» disse fra sè, «e Valancourt sarà presto qui.» Chiuse la porta, e passeggiò per la camera coll'agitazione dell'impazienza. Si affacciava alla finestra, lusingandosi di sentir suonare il liuto; ma tutto era silenzio, e la sua emozione cresceva. Annetta, che aveva fatto restare in sua compagnia, ciarlava secondo il solito; ma Emilia non intendeva sillaba de' suoi discorsi. Tornando alla finestra, sentì alfine la solita voce cantare accompagnata dal liuto. Non potè astenersi dal piangere per la tenerezza. Finita la romanza, Emilia la considerò come un segnale che le indicasse l'uscita di Valancourt. Poco dopo udì camminare nel corridoio, aprì la porta, corse incontro all'amante, e si trovò fra le braccia d'un uomo che non aveva mai veduto. La faccia ed il suono della voce dell'incognito la disingannarono sul momento, e svenne. Allorchè risensò, trovossi sostenuta da quest'uomo, il quale la considerava con viva espressione di tenerezza e d'inquietudine. Non ebbe la forza per interrogare, nè per rispondere: proruppe in dirotto pianto, e si sciolse dalle di lui braccia. L'incognito impallidì. Sorpreso, guardava Lodovico come per domandargli qualche schiarimento; ma Annetta gli spiegò il mistero che non intendeva neppur Lodovico. «Signore,» gridò ella singhiozzando, «voi non siete l'altro cavaliere. Noi aspettavamo il signor Valancourt, e non siete voi quello. Ah! Lodovico, come avete potuto ingannarci così? la mia povera padrona se ne risentirà per molto tempo.» L'incognito, il quale pareva agitatissimo, voleva parlare, ma gli spirarono le parole sul labbro, e battendosi colla mano la fronte, come preso da improvvisa disperazione, si ritirò dalla parte opposta del corridoio. Annetta si terse le lagrime, e disse a Lodovico: «Può darsi che l'altro cavaliere, cioè il signor Valancourt, sia tuttora dabbasso.» Emilia alzò la testa. «No,» replicò Lodovico, «il signor Valancourt non c'è stato mai, se questo cavaliere non è lui. Se aveste avuta la bontà di confidarmi il vostro nome, signore,» diss'egli all'incognito, «quest'equivoco non avrebbe avuto luogo.--È verissimo,» rispos'egli in cattivo italiano; «ma m'importava molto che Montoni lo ignorasse. Signora,» soggiunse quindi, volgendosi in francese a Emilia, «permettetemi due parole. Soffrite che spieghi a voi sola il mio nome e le circostanze che m'indussero nell'errore. Io sono vostro compatriotta, e ci troviamo ambidue in una terra straniera.» Emilia procurò di calmarsi, ed esitava ad accordargli la sua domanda; in fine, pregò Lodovico di andar ad aspettarla in fondo al corridoio, trattenne Annetta, e disse all'incognito che quella fanciulla intendendo pochissimo l'italiano, ei poteva favellarle in questa lingua. Si ritirarono in un angolo, e l'incognito le disse, dopo un lungo sospiro: «Signora, la mia famiglia non dev'esservi ignota. Io mi chiamo Dupont; i miei parenti vivevano a qualche distanza dal vostro castello della valle, ed io ebbi la fortuna d'incontrarvi qualche volta, visitando il vicinato. Non vi offenderò certo ripetendovi quanto sapeste interessarmi, quanto mi compiaceva di errare nei luoghi che voi frequentavate, quante volte ho visitato la vostra peschiera favorita, e quanto gemeva allora delle circostanze che m'impedivano di dichiararvi la mia passione! Non vi spiegherò come potei cedere alla tentazione, ed in qual modo divenni possessore d'un tesoro inestimabile per me, che affidai, pochi giorni sono, al vostro messaggero, con una speranza ben diversa da quella che or mi resta. Non mi estenderò di più. Lasciate ch'io implori il vostro perdono, e circa a quel ritratto che restituii così male a proposito, la vostra generosità ne scuserà il furto, e vorrà rendermelo. Il mio delitto stesso è divenuto il mio castigo; e quel ritratto che involai alimentò una passione che dev'essere sempre il mio tormento.» Emilia, interrompendolo, disse: «Lascio alla vostra coscienza, o signore, il decidere se, dopo tutto quant'è accaduto a proposito del signor Valancourt, io debba rendervi il ritratto. Non sarebbe un'azione generosa: dovete convenirne voi stesso, e mi permetterete di aggiungere che mi fareste un'ingiuria insistendo per ottenerlo. Mi trovo onorata della favorevole opinione che concepiste di me; ma... l'equivoco di questa sera mi dispensa dal dirvi di più. --Sì, signora, oimè! sì,» replicò Dupont; «accordatemi almeno di farvi conoscere il mio disinteresse, se non il mio amore. Accettate i servigi d'un amico, il quale, benchè prigioniero, giura di fare ogni tentativo per togliervi da quest'orribile soggiorno, e non mi negate la ricompensa d'aver tentato almeno di meritare la vostra gratitudine. --Voi la meritate già, signore,» disse Emilia, «ed il voto che esprimete merita tutti i miei ringraziamenti. Scusatemi se vi rammento il pericolo a cui siamo esposti, prolungando questo abboccamento. Sarà per me una gran consolazione, sia che i vostri tentativi vadano a vuoto, od abbiano un esito felice, di avere un generoso compatriotta disposto a proteggermi.» Dupont prese la mano di Emilia, che voleva ritirarla, e se l'appressò rispettosamente alle labbra. «Permettetemi,» le disse, «di sospirare vivamente per la vostra felicità, e lodarmi d'una passione che m'è impossibile di vincere.» In quel punto Emilia udì rumore nella sua camera, e voltandosi da quella parte, vide un uomo il quale, precipitandosi nel corridoio brandendo uno stile, gridò: «v'insegnerò io a vincere questa passione!» E corse incontro a Dupont ch'era inerme. Questi scansò il colpo, si gettò su colui, nel quale Emilia riconobbe Verrezzi e lo disarmò. Durante la lotta, Emilia e Annetta corsero a chiamar Lodovico, ma era sparito. Tornando indietro, il rumore della lotta le fece sovvenire del pericolo. Annetta andò a cercar Lodovico; la fanciulla s'affrettò dove Dupont e Verrezzi erano sempre alle prese, e li scongiurò a separarsi. Il primo finalmente gettò in terra l'avversario e ve lo lasciò sbalordito dalla caduta. Emilia lo pregò di fuggire, prima che comparisse Montoni, o qualcun altro: ei ricusò di lasciarla così senza difesa, e mentr'ella, più spaventata per lui che per sè medesima, raddoppiava le sue premurose istanze, udirono salire la scala segreta. «Siete perduto,» diss'ella; «è la gente di Montoni.» Dupont non rispose, e sostenendo Emilia, che stentava a reggersi, aspettò di piè fermo gli avversari. Poco dopo entrò Lodovico solo, e gettando un'occhiata dappertutto: «Seguitemi,» disse loro, «se vi è cara la vita; non abbiamo un momento da perdere.» Emilia domandò cosa fosse accaduto, e dove convenisse andare. «Non ho tempo di dirvelo,» rispose Lodovico. «Fuggite, fuggite.» Essa lo seguì all'istante, sostenuta da Dupont. Scesero la scala, e mentre traversavano un andito segreto, si ricordò di Annetta, e chiese dove fosse, «Ci aspetta,» le rispose Lodovico sottovoce. «Poco fa furono aperte le porte per un distaccamento che arriva, e temo che vengano chiuse nuovamente, prima che noi vi giungiamo.» Emilia tremava sempre più dopo aver saputo che la sua fuga dipendeva da un solo istante. Dupont le dava braccio, e procurava, camminando, di rianimare il suo coraggio. Lodovico aprì un'altra porta, dietro la quale trovarono Annetta, e scesero alcuni gradini. Il giovane disse che quel passaggio conduceva al secondo cortile, e comunicava col primo. A misura che si avanzavano, un tumulto confuso, che pareva venire dal secondo cortile, spaventò Emilia. «Non temete, signora,» disse Lodovico, «la nostra sola speranza è riposta in questo tumulto: mentre la gente del castello è occupata di quelli che giungono, potremo forse uscir dalle porte inosservati. Ma zitto,» soggiunse avvicinandosi ad una porticella che metteva sul primo cortile; «restate qui un momento: io vado a vedere se le porte sono aperte, e se c'è qualcuno per via. Vi prego, signore, di spegnere il lume se mi sentirete parlare,» aggiunse consegnando la lampada a Dupont, «ed in tal caso restate in silenzio.» Uscì, e chiuse la porta. «Noi saremo in breve fuori di queste mura,» disse Dupont a Emilia; «fatevi coraggio, e tutto andrà bene.» Poco dopo udirono Lodovico parlar forte, e distinsero anche un'altra voce. Dupont spense subito il lume. «Gran Dio! È troppo tardi,» esclamò Emilia; «che sarà di noi?» Ascoltarono attenti, e si accorsero che Lodovico parlava colla sentinella. Il cane di Emilia, che l'aveva seguita, cominciò a latrare. Dupont lo prese in braccio per farlo tacere, e sentirono che il giovane diceva alla sentinella: «Intanto farò io la guardia per voi.--Aspettiamo un momento,» replicò la sentinella, «e non avrete questo incomodo. I cavalli devono esser mandati alle stalle vicine, si chiuderanno le porte, e potrò assentarmi per un minuto--Oibò! Per me non è un incomodo, caro camerata,» disse Lodovico; «farete a me lo stesso servizio un'altra volta. Andate, andate ad assaggiare quel vino, altrimenti la truppa arrivata lo berrà tutto, e non ve ne rimarrà più.» Il soldato esitò, e chiamò nel secondo cortile, per sapere se i cavalli dovevano esser condotti fuori, e se potevano chiudersi le porte. Erano tutti troppo occupati per rispondergli, quand'anco l'avessero inteso. «Sì, sì,» disse Lodovico, «non son così gonzi, si dividono tutto fra loro. Se aspettate quando partono i cavalli, troverete il vino bevuto tutto. Io ne ebbi la mia parte, ma giacchè non ne volete, andrò io in vece vostra. --Alto là, camerata,» soggiunse la sentinella, «prendete il mio posto per pochi minuti, che torno subito.» E andossene correndo. Lodovico, vedendosi in libertà, si affrettò di aprire la porta dell'andito. Emilia soccombea quasi all'ansietà cagionatagli dal lungo colloquio. Egli disse loro che il cortile era libero: lo seguirono senza perder tempo, e menarono seco due cavalli che trovarono isolati. Usciti senza ostacolo dalle formidabili porte, corsero ai boschi. Emilia, Dupont e Annetta erano a piedi; Lodovico sopra un cavallo, conduceva l'altro. Giunti nella selva, le due fanciulle salirono in groppa coi loro protettori. Lodovico serviva di guida, e fuggirono tanto presto quanto lo permetteva una strada rovinata, ed il fioco chiaror di luna traverso gli alberi. Emilia era così stordita dall'inattesa partenza, che osava credere appena di essere sveglia: dubitava però molto che l'avventura potesse andar a finir bene, ed il dubbio era pur troppo ragionevole. Prima di uscire dal bosco udirono alte grida, e videro molti lumi nelle vicinanze del castello. Dupont spronò il cavallo, e con molta pena lo costrinse a correr più presto. «Povera bestia,» disse Lodovico, «dev'essere ben stanca, essendo stata fuori tutto il giorno. Ma signore, andiamo da questa parte, perchè i lumi vengono per di qua.» E spronati i cavalli, si misero a galoppare. Dopo una lunga corsa, guardarono indietro: i lumi erano tanto lontani, che a mala pena potevano distinguersi; le grida avean fatto luogo a profondo silenzio. I viaggiatori allora moderarono il passo, e tennero consiglio sulla direzione da prendere. Decisero di andare in Toscana per guadagnare il Mediterraneo, e cercar d'imbarcarsi prontamente per la Francia. Dupont aveva progettato di accompagnarvi Emilia, se avesse potuto sapere che il suo reggimento vi fosse tornato. Erano allora sulla strada già percorsa da Emilia con Ugo e Bertrando. Lodovico, il solo di essi che conoscesse i tortuosi sentieri di que' monti, assicurò che a poca distanza ne avrebbero trovato uno pel quale sarebbesi potuto scender facilmente in Toscana, e che alle falde degli Appennini c'era una piccola città, dove avrebbero potuto procacciarsi le cose necessarie pel viaggio. Emilia pensava a Valancourt ed alla Francia con gioia; ma intanto essa sola era l'oggetto delle riflessioni malinconiche di Dupont. L'affanno però ch'ei provava pel suo equivoco, veniva addolcito dal piacere di vederla, Annetta pensava alla lor fuga sorprendente, e al susurro che avrebber fatto Montoni ed i suoi. Tornata in patria, voleva sposare il suo liberatore per gratitudine e per inclinazione. Lodovico, per parte sua, si compiaceva di avere strappato Annetta ed Emilia al pericolo che le minacciava, lieto di fuggire egli stesso da quella gente che gli faceva orrore. Aveva resa la libertà a Dupont, e sperava di viver felice coll'oggetto del suo amore. Occupati dai loro pensieri, i viaggiatori restarono in silenzio per più di un'ora, meno qualche domanda che faceva tratto tratto Dupont sulla direzione della strada, o qualche esclamazione di Annetta sugli oggetti che il crepuscolo lasciava vedere imperfettamente. Infine scorsero lumi alle falde di un monte, e Lodovico non dubitò più non fosse la desiata città. Soddisfatti di questa certezza, i suoi compagni si abbandonarono di nuovo ai loro pensieri; Annetta fu quindi la prima a parlare. «Dio buono,» diss'ella, «dove troveremo noi denaro? So che nè la mia padrona, nè io non abbiamo un soldo. Il signor Montoni ci provvedeva egli!» L'osservazione produsse un esame che terminò in un imbarazzo seriissimo. Dupont era stato spogliato di quasi tutti i suoi denari allorchè cadde prigioniero; il resto l'aveva regalato alla sentinella, che avevagli permesso di uscire dal carcere. Lodovico, che da molto tempo non poteva ottenere il pagamento del suo salario, aveva appena di che supplire al primo rinfresco nella città in cui dovean giungere. La loro povertà li affliggeva tanto più, perchè poteva trattenerli in cammino, e, sebbene in una città, temevano sempre il potere di Montoni. I viaggiatori adunque non ebbero altro partito che quello di andare avanti a tentar la fortuna. Passarono per luoghi deserti; finalmente udirono da lontano i campanelli di un armento, e poco dopo il belato delle pecore, e riconobbero le tracce di qualche abitazione umana. I lumi veduti da Lodovico erano spariti da molto tempo, nascosti dagli alti monti. Rianimati da questa speranza, accelerarono il passo, e scopersero alfine una delle valli pastorali degli Appennini, fatta per dare l'idea della felice Arcadia. La sua freschezza e bella semplicità contrastavano maestosamente colle nevose montagne circostanti. L'alba faceva biancheggiare l'orizzonte. A poca distanza, e sul fianco di un colle, i viaggiatori distinsero la città che cercavano, e vi giunsero in breve. Con molta difficoltà poterono trovarvi un asilo momentaneo. Emilia domandò di non fermarsi più del tempo strettamente necessario per rinfrescare i cavalli; la di lei vista eccitava sorpresa, essendo senza cappello, ed avendo appena avuto il tempo di prendere un velo. Le rincresceva perciò la mancanza di denaro, che non permettevale di procacciarsi quest'articolo essenziale. Lodovico esaminò la sua borsa, e trovò che non bastava neppur a pagare il rinfresco. Dupont si arrischiò di confidarsi all'oste, che gli pareva umano ed onesto; gli narrò la loro posizione, pregandolo d'aiutarli a continuare il viaggio. Colui promise di far tutto il possibile, tanto più essendo essi prigionieri fuggiti dalle mani di Montoni, cui egli aveva ragioni personali per odiare: acconsentì a somministrar loro i cavalli freschi per partire immediatamente, ma non era ricco abbastanza per fornirli anche di denaro. Stavano lamentandosi, lorchè Lodovico, dopo aver condotto i cavalli in istalla, ritornò tutto allegro, e le mise tosto a parte della sua gioia: nel levare la sella ad un cavallo, vi avea trovata una borsa piena di monete d'oro, porzione senza dubbio del bottino fatto dai condottieri. Tornavano essi dal saccheggio allorchè Lodovico era fuggito, ed il cavallo essendo uscito dal secondo cortile, ove stava a bere il suo padrone, aveva portato via il tesoro, sul quale per certo contava quel birbante. Dupont trovò questa somma sufficientissima per ricondurli tutti in Francia, e risolse allora di accompagnarvi Emilia. Si fidava di Lodovico quanto poteva permetterglielo una conoscenza sì breve, eppure non reggeva all'idea di confidargli Emilia per un sì lungo viaggio. D'altronde, non aveva forse il coraggio di privarsi del pericoloso piacere di vederla. Tennero consiglio sulla direzione da prendere. Lodovico avendo assicurato che Livorno era il porto più vicino ed accreditato, decisero d'incamminarvisi. Emilia comprò un cappello e qualche altro piccolo oggetto indispensabile. I viaggiatori cambiarono i cavalli stanchi con altri migliori, e si rimisero lietamente in cammino al sorger del sole. Dopo qualche ora di viaggio attraverso un paese pittoresco, cominciarono a scendere nella valle dell'Arno. Emilia contemplò tutte le bellezze di quei luoghi pastorali e montuosi, unite al lusso delle ville dei nobili fiorentini, e alle ricchezze di una svariata coltura. Verso mezzogiorno scoprirono Firenze, le cui torri s'innalzavano superbe sullo splendido orizzonte. Il caldo era eccessivo, e la comitiva cercò riposo all'ombra. Fermatisi sotto alcuni alberi, i cui folti rami li difendevano dai raggi del sole, fecero una refezione frugale, contemplando il magnifico paese con entusiasmo. Emilia e Dupont ridiventarono a poco a poco taciturni e pensierosi, Annetta era giuliva, e non si stancava mai di ciarlare, Lodovico era molto allegro, senza obliare però i riguardi dovuti ai suoi compagni di viaggio. Finito il pasto, Dupont persuase Emilia a procurare di gustar un'ora di sonno, mentre Lodovico avrebbe vegliato. Le due fanciulle, stanche dal viaggio, si addormentarono. Quando Emilia svegliossi, trovò la sentinella addormentata al suo posto, e Dupont desto, ma immerso ne' suoi tristi pensieri. Il sole era ancora troppo alto per continuare il viaggio, e giustizia volea che Lodovico, stanco dalle tante fatiche, potesse finire in pace il suo sonno. Emilia profittò di questo momento onde sapere per qual caso Dupont fosse caduto prigioniero di Montoni. Lusingato dall'interesse che dimostravagli questa domanda, e dell'occasione che gli somministrava di parlare di sè medesimo, Dupont la soddisfece immediatamente. «Io venni in Italia, signora, al servizio del mio paese. Una mischia ne' monti colle bande di Montoni mise in rotta il mio distaccamento, e fui preso con alcuni altri. Quando seppi d'essere prigioniero di Montoni, questo nome mi colpì. Mi rammentai che vostra zia aveva sposato un Italiano di tal nome, e che voi li avevate seguiti in Italia. Non potei però sapere con certezza, se non molto dopo, che costui era quello stesso, e che voi abitavate sotto il medesimo tetto con me. Non vi stancherò dipingendovi la mia emozione allorchè seppi questa nuova, la quale mi fu data da una sentinella che potei sedurre fino al punto di accordarmi qualche ricreazione, una delle quali m'interessava assai, ed era pericolosissima per lui. Ma non fu possibile indurlo ad incaricarsi d'una lettera, e di farmi conoscere a voi. Temeva di essere scoperto, e provare tutta la vendetta di Montoni. Mi somministrò però l'occasione di vedervi parecchie volte. Ciò vi sorprende, ma vi spiegherò meglio. La mia salute soffriva molto per mancanza d'aria e d'esercizio, e potei finalmente ottenere, dalla pietà o dall'avarizia sua, di passeggiare la notte sul bastione.» Emilia divenne attenta, e Dupont continuò: «Accordandomi questo permesso, la mia guardia sapeva bene ch'io non poteva fuggire. Il castello era custodito con vigilanza, ed il bastione sorgea sopra una rupe perpendicolare. M'insegnò egualmente una porta nascosta nella parete della stanza, ov'io era detenuto, ed imparai ad aprirla. Questa porta metteva in un andito stretto praticato nella grossezza del muro, che girava per tutto il castello, e veniva a riuscire all'angolo del bastione orientale. Ho saputo in seguito che ve ne sono altri consimili nelle muraglie enormi di quel prodigioso edifizio, destinati senza dubbio a facilitare la fuga in tempo di guerra. Per tal mezzo adunque io andava la notte sul bastione, e vi passeggiava con cautela onde non essere scoperto. Le sentinelle erano molto lontane, perchè le alte mura da quella parte supplivano ai soldati. In una di queste passeggiate notturne, osservai un lume alla finestra d'una stanza superiore alla mia prigione: mi venne in idea che quella fosse la vostra camera, e, sperando di vedervi, mi fermai in faccia alla finestra.» Emilia, rammentandosi allora la figura veduta sul bastione, che l'aveva tenuta in tanta perplessità, esclamò: «Eravate dunque voi, signor Dupont, che mi cagionaste un terrore così ridicolo? La mia fantasia era tanto indebolita dai lunghi patimenti, che il più lieve incidente bastava a farmi tremare.» Dupont le manifestò il suo rammarico d'averla spaventata, poi soggiunse: «Appoggiato al parapetto in faccia alla vostra finestra, il pensiero della vostra situazione malinconica e della mia mi strappò alcuni gemiti involontari che vi attrassero alla finestra, almeno così supposi. Vidi una persona, e credetti foste voi. Non vi dirò nulla della mia emozione in quel momento. Voleva parlare ma la prudenza mi trattenne, e l'avanzarsi della sentinella mi obbligò a fuggire. «Passarono alcuni giorni prima ch'io potessi tentare una seconda passeggiata, poichè non poteva uscire se non quando era di guardia il milite da me guadagnato coi doni. Intanto mi persuasi della realtà delle mie congetture sulla situazione della vostra camera. Appena potei uscire, tornai sotto la vostra finestra, e vi vidi senza ardir di parlarvi. Vi salutai colla mano, e voi spariste. Obliando la mia prudenza, esalai un lungo sospiro. Voi tornaste e diceste qualcosa. Intesi la vostra voce, e stava per abbandonare ogni riguardo, quando udii venire una sentinella, e mi ritirai prontamente; ma quel soldato mi aveva veduto. Egli mi seguì, e mi avrebbe raggiunto, senza un ridicolo stratagemma che formò in quel momento la mia salvezza. Conoscendo la superstizione di quella gente, gettai un grido lugubre, sperando che avrebbe cessato d'inseguirmi, e fortunatamente riuscii. Quell'uomo pativa di mal caduco: il timore ch'io gl'incussi lo fece cadere a terra tramortito, ed io m'involai prontamente. Il sentimento del pericolo incorso, e che il raddoppiamento delle guardie, per questo motivo, rendeva maggiore, mi dissuase dal tornar a passeggiare sul bastione. Nel silenzio delle notti però mi divertiva con un vecchio liuto procuratomi dal mio custode, e talvolta cantava, ve lo confesso, sperando d'essere inteso da voi. Infatti poche sere fa, parvemi udire una voce che mi chiamasse, ma non volli rispondere per timore della sentinella. Ditemi, in grazia, signora, eravate voi? --Sì,» rispose Emilia, con un sospiro involontario, «avevate ragione.» Dupont, osservando la penosa sensazione che tal soggetto le cagionava, cambiò discorso. «In una delle mie gite nell'andito di cui vi ho parlato, intesi,» diss'egli, «un colloquio singolare che veniva da una stanza contigua al medesimo. Il muro era in quel luogo così sottile, che potei udire distintamente tutti i discorsi che si facevano. Montoni stava colà coi compagni. Egli cominciò il racconto dell'istoria straordinaria dell'antica padrona del castello. Descrisse circostanze strane; la sua coscienza però deve sapere fino a qual punto fossero credibili. Ma voi dovete conoscere, signorina, le notizie vaghe che si fanno circolare sul destino misterioso di quella dama. --Le conosco, signore,» diss'Emilia, «e mi accorgo che voi non ci credete. --Io ne dubitava,» replicò Dupont, «prima dell'epoca di cui vi parlo; ma il racconto di Montoni aggravò i miei sospetti, e restai quasi persuaso ch'ei fosse un assassino. Tremai per voi. Aveva udito pronunziare il vostro nome dai convitati in modo inquietante, e sapendo che gli uomini i più empi sogliono essere i più superstiziosi, mi decisi a spaventarli, per distoglierli dal nuovo delitto ch'io temeva. Ascoltai attentamente Montoni, e nel luogo più interessante del racconto, ripetei più volte le sue ultime parole. --Non avevate timore di essere scoperto?» chiese Emilia. --No,» rispose Dupont, «sapendo, che se Montoni avesse conosciuto il segreto dell'andito non mi avrebbe rinchiuso in quella stanza. La compagnia, per qualche momento, non badò alla mia voce, ma finalmente l'allarme fu sì grande, che fuggirono tutti. Montoni ordinò ai servi di fare attive ricerche, ed io tornai alla mia prigione.» Dupont ed Emilia continuarono a discorrere di Montoni, della Francia, e del piano del loro viaggio. Ella gli disse che aveva intenzione di ritirarsi in un convento della Linguadoca; pensava di scrivere a Quesnel, per informarlo della sua condotta, ed aspettare la scadenza dell'affitto del suo castello della valle, per andare a stabilirvisi. Dupont la persuase che i beni, dei quali Montoni aveva voluto spogliarla, non erano perduti per sempre, e si rallegrò che fosse fuggita dalle mani di quel barbaro, il quale senza dubbio l'avrebbe tenuta prigioniera per tutta la vita. La probabilità di rivendicare i beni della zia, non tanto per sè medesima quanto per Valancourt, le fecero provare un senso di gioia ond'era stata priva per molto tempo. Verso il declinar del sole, Dupont svegliò Lodovico per continuare il loro viaggio. Giunsero in Firenze a notte avanzata, ed avrebbero voluto rimanervi qualche giorno per rimirare le bellezze di quella famosa metropoli, ma l'impazienza di ritornare in patria li fece rinunziare a tal idea; ed il giorno seguente, di buonissim'ora, avviaronsi alla volta di Pisa, cui traversarono fermandosi appena il tempo necessario per rinfrescare i cavalli, e giunsero a Livorno verso la sera del giorno dipoi. La vista di quella florida città piena di persone di tante diverse nazioni, ed i loro svariati abbigliamenti, rammentarono ad Emilia le mascherate di Venezia in tempo del carnevale; ma non vi regnava il brio e l'allegria dei Veneziani, essendo tutta gente occupata nel commercio. Dupont corse al porto, e seppe che un bastimento doveva far vela in breve per Marsiglia, dove avrebbero potuto trovare facilmente un imbarco per traversare il golfo di Lione e giungere a Narbona. Il convento, nel quale Emilia voleva ritirarsi era situato a poca distanza da questa città. La fanciulla fu dunque lietissima nel sentire che il suo viaggio per la Francia non avrebbe sofferto verun ostacolo. Non temendo più d'essere inseguita, e sperando rivedere in breve la sua cara patria ed il paese abitato da Valancourt, si trovò talmente sollevata, che, dopo la morte di suo padre, non aveva passati mai momenti così tranquilli. Dupont fu informato a Livorno che il suo reggimento era tornato in Francia: questa notizia lo colmò di gioia, giacchè in caso diverso non avrebbe potuto accompagnarvi Emilia senza esporsi ai rimproveri, e fors'anco al castigo del suo colonnello. Seppe reprimere la sua passione fino al punto di non parlarne più alla fanciulla, obbligandola così a stimarlo ed a compiangerlo, se non poteva amarlo. CAPITOLO XXXV Torniamo ora in Linguadoca, ed occupiamoci del Conte di Villefort, lo stesso che aveva ereditato i beni del marchese di Villeroy, in vicinanza del monastero di Santa Chiara. Rammentiamoci che quel castello era disabitato, allorquando Emilia si trovò in quelle vicinanze con suo padre, e che Sant'Aubert parve assai commosso, allorchè seppe di trovarsi così vicino al castello di Blangy. Il buon Voisin aveva fatti discorsi molto allarmanti per la curiosità d'Emilia a proposito di quel luogo. Nel 1584, anno in cui Sant'Aubert morì, Francesco di Beauveau, conte di Villefort, prese possesso dell'immensa tenuta chiamata Blangy, situata in Linguadoca, sulle sponde del mare. Queste terre per parecchi secoli avevano appartenuto alla sua famiglia, e gli ritornavano per la morte del marchese di Villeroy suo parente, uomo di carattere austero e di maniere riservatissime. Questa circostanza, unita ai doveri della sua professione, che lo chiamavano spesso alla guerra, aveva impedita ogni specie d'intrinsichezza tra lui ed il conte di Villefort. Si conoscevano poco, ed il conte non seppe la sua morte se non quando ricevè il testamento che lo faceva padrone di Blangy. Non andò a visitare i suoi nuovi possessi se non un anno dopo, e vi passò tutto l'autunno. Si rammentava spesso Blangy co' vivi colori che presta l'immaginazione alla rimembranza dei diletti giovanili. Ne' suoi primi anni, aveva conosciuta la marchesa, e visitato quel soggiorno nell'età in cui i piaceri restano sensibilmente impressi. L'intervallo scorso in appresso fra il tumulto degli affari, che troppo spesso corrompono il cuore e guastano la fantasia, non aveva però mai cancellato dalla sua memoria i giorni felici passati in Linguadoca. Il defunto marchese aveva abbandonato il castello da molti anni, ed il suo vecchio agente l'aveva lasciato cadere in rovina. Il conte prese dunque il partito di passarvi l'autunno per farlo restaurare. Le preghiere e le lagrime ben anco della contessa, che sapeva piangere all'ocorrenza, non ebbero il potere di fargli cambiar risoluzione. Essa dovette dunque acconciarsi a permettere ciò che non poteva impedire, e a partir da Parigi. La sua bellezza la facea ammirare, ma il di lei spirito era poco adatto ad ispirare stima. L'ombra misteriosa dei boschi, la grandezza selvaggia dei monti, e la solitudine imponente delle sale gotiche, delle lunghe gallerie, non le offrivano che una trista prospettiva. Procurava di farsi coraggio pensando ai racconti statile fatti sulla bella vendemmia di Linguadoca, ma ivi non si conoscevano le contraddanze di Parigi, e le feste campestri dei contadini non potevano lusingare un cuore, dal quale il lusso e la vanità avean bandito da tanto tempo il gusto della semplicità e le buone inclinazioni. Il conte aveva due figli del primo letto, e volle che venissero con lui. Enrico, in età di venti anni, era già al servizio militare; Bianca, che non ne aveva ancora diciotto, era sempre nel convento, dove l'avean messa all'epoca delle seconde nozze del padre. La contessa non aveva talenti bastanti per dare una buona educazione alla figliastra, nè il coraggio per intraprenderla, e perciò aveva consigliato il marito ad allontanarla; temendo quindi che una bellezza nascente venisse ad eclissare la sua, aveva impiegato in seguito tutta l'arte per prolungare la reclusione della fanciulla. La notizia ch'essa usciva di monastero fu per lei di gran mortificazione, la quale però mitigossi considerando che, se Bianca usciva dal chiostro, l'oscurità della provincia avrebbe sepolte le sue grazie per qualche tempo. Il giorno della partenza, la carrozza del conte si fermò al convento. Il cuore della giovinetta palpitava di piacere alle idee di novità e libertà che le s'offrivano. A misura che si avvicinava l'epoca del viaggio, la sua impazienza crebbe al punto di contar perfino i minuti che le mancavano a finir quella notte. Appena spuntata l'alba, Bianca era balzata dal letto per salutare quel bel giorno, in cui sarebbe stata liberata dai vincoli del chiostro, per andar a godere la libertà in un mondo, ove il piacere sorride sempre, la bontà non si altera mai, e regna col piacere senza verun ostacolo. Quando intese suonare il campanello, corse al parlatorio, udì il rumore delle ruote e vide fermarsi nel cortile la carrozza di suo padre: ebbra di gioia, correva pei corridoi annunziando alle amiche la sua imminente partenza. Una monaca venne a cercarla per ordine della superiora, che scese alla porta onde ricevere la contessa, la quale parve a Bianca un angelo sceso per condurla al tempio della felicità. La contessa però, nel vederla, non fu animata dagl'istessi sentimenti. Bianca non era mai parsa tanto amabile, ed il sorriso dell'allegrezza dava a tutta la sua fisonomia la beltà dell'innocenza felice. Dopo un breve colloquio, la contessa si congedò: era il momento che Bianca attendeva con impazienza, come l'istante in cui stava per cominciare la sua felicità; ma non potè astenersi dal versar lacrime, abbracciando le sue compagne che piangevano egualmente nel dirle addio. La badessa, così grave, così imponente, la vide partire con un dispiacere, di cui non si sarebbe creduta capace un'ora prima. Bianca uscì dunque piangendo da quel soggiorno, ch'erasi immaginata di abbandonar ridendo. La presenza del padre, le distrazioni del viaggio assorbirono presto le sue idee, e dispersero quell'ombra di sensibilità. Poco attenta ai discorsi della contessa e di madamigella Bearn sua amica che l'accompagnava; ella perdeasi in soavi meditazioni; vedeva le nubi tacite solcar l'azzurro firmamento velando il sole, ed oscurando così tratti di paese con bella alternativa di ombre e di luce. Quel viaggio fu per Bianca un seguito di piaceri; la natura, ai suoi occhi, variava ogni momento, mostrandole le più belle ed incantevoli vedute. Verso la sera del settimo giorno, i viaggiatori scorsero in lontananza il castello di Blangy. La sua pittoresca situazione impressionò molto la fanciulla. A misura che si avvicinavano, ammirava la gotica struttura, le superbe torri, la porta immensa dell'antico edificio; essa credeva quasi d'avvicinarsi ad uno di que' castelli celebrati nell'istorie antiche, dove i cavalieri vedevano dai merli un campione col suo seguito, vestito di negra armatura, venire a strappar la dama de' suoi pensieri dall'oppressione d'un orgoglioso rivale. Essa aveva letto questa novella nella libreria del monastero, ripiena di cronache antiche. Le carrozze si fermarono ad una porta che metteva nel recinto del castello, e che allora era chiusa. La grossa campana che serviva ad annunziar gli stranieri era da lunga pezza caduta; un servo salì sur un muro rovinato, per avvertire l'agente dell'arrivo del padrone. Bianca, appoggiata allo sportello, considerava con emozione i luoghi circostanti. Il sole era tramontato, il crepuscolo avvolgeva i monti; il mare lontano ripercotea ancora all'orizzonte una striscia di luce. Udivasi il fragor monotono dell'onde che venivano a frangersi sul lido. Ciascuno della compagnia pensava ai diversi oggetti che più l'interessavano. La contessa sospirava i piaceri di Parigi, vedendo con pena ciò ch'ella chiamava orridi boschi e selvaggia solitudine; penetrata dall'unica idea di dover essere sequestrata in quell'antico castello, si doleva di tutto. I sentimenti d'Enrico erano eguali; pensava sospirando alle delizie della capitale e ad una vaghissima dama ch'egli amava; ma il paese, ed un genere di vita diverso, avevano per lui l'incantesimo della novità ed il suo rincrescimento era mitigato dalle ridenti illusioni della gioventù. Le porte s'apersero alfine; la carrozza penetrò lentamente tra folti castagni che impedivan la vista. Era il viale di cui già s'erano internati Sant'Aubert ed Emilia nella speranza di trovare un asilo vicino. «Che brutti luoghi!» sclamò la contessa; «certo, voi non contate, signore, restare tutto l'autunno in questa barbara solitudine. Bisognerebbe aver portata una bottiglia d'acqua di Lete, affinchè almeno la rimembranza d'un paese meno sgradevole non aumentasse la tristezza di questo. --Io mi regolerò secondo le circostanze,» rispose il conte; «questa barbara solitudine era l'abitazione de' miei antenati.» Il custode del castello insieme ai servi stati mandati anticipatamente da Parigi, ricevettero il padrone all'ingresso del portico. Bianca riconobbe che l'edifizio non era intieramente di stile gotico. La sala immensa in cui entrarono non era però di gusto moderno. Un finestrone lasciava vedere un piano inclinato di verzura, formato dalla cima degli alberi sul pendìo del colle, ove sorgea il castello. Si scorgevano al di là le onde del Mediterraneo perdersi, a mezzogiorno od a levante, nell'orizzonte. Bianca, nel traversar la sala, si fermò ad osservare un sì bel colpo d'occhio, ma ne fu presto riscossa dalla contessa la quale, malcontenta di tutto, impaziente di rifocillarsi e di riposare, si affrettò di giungere ad un salotto, adorno di mobili antichissimi, ma riccamente guarniti di velluto e di frange d'oro. Mentre la contessa aspettava qualche rinfresco, il conte, in compagnia d'Enrico, visitavano l'interno del castello. Bianca rimase testimone, suo malgrado, del cattivo umore e del malcontento della matrigna. «Quanto tempo passaste voi in questo tristo soggiorno?» chiese la contessa alla moglie del custode, quando venne ad offrirle il suo omaggio. --Saranno trent'anni, signora, al dì di san Lorenzo. --Come avete fatto a starvi così tanto e quasi sola? Mi fu detto però che il castello è rimasto chiuso per qualche tempo. --Sì, signora, qualche mese dopo che il defunto signor marchese mio padrone fu partito per la guerra; sono più di venti anni che mio marito ed io siamo al di lui servizio. Questa casa è così grande e deserta, che in capo a qualche tempo andammo ad abitare vicino al villaggio, e venivamo solo tratto tratto a visitare il castello. Allorchè il mio padrone finì le sue campagne, avendo preso in avversione questo soggiorno, non ci tornò più, e non volle che abbandonassimo la nostra dimora. Ma ohimè! Quanto è cambiato il castello da quell'epoca! La mia povera padrona vi abitava col massimo piacere, e mi ricorderò sempre di quel giorno che arrivò qui dopo essersi sposata! Com'era bella! Da allora il castello venne sempre negletto, ed io non passerò più giorni così felici.» La contessa parve quasi offesa dai discorsi ingenui di quella buona donna sui tempi passati, e Dorotea soggiunse: «Il castello però sarà nuovamente abitato; ma io non vi starei sola per tutto l'oro del mondo.» L'arrivo del conte fece cessare le ciarle della vecchia. Egli le disse che aveva visitato buona parte del castello, il quale aveva bisogno di molti risarcimenti prima di essere abitabile. «Me ne spiace,» disse la contessa. --E perchè, signora? --Perchè questo luogo corrisponderà male a tante premure.» Il conte non replicò, e voltossi bruscamente verso una finestra. La cameriera della contessa entrò; questa chiese di essere accompagnata nel suo appartamento, e si ritirò unitamente alla signora Bearn. Bianca, profittando della poca luce diurna che restava ancora, andò a far nuove scoperte. Dopo aver percorso vari appartamenti, si trovò in una vasta galleria adorna d'antichissimi quadri e di statue rappresentanti, a quanto le parve, i suoi antenati. Cominciava ad annottare, e si affacciò ad una finestra, ove contemplò con interesse la vista imponente di quei luoghi meravigliosi, udendo il sordo e lontano mormorio del mare, ed abbandonandosi così all'entusiasmo di quella scena affatto nuova per lei. --Ho io dunque vissuto tanto tempo in questo mondo, diceva fra sè medesima, senza aver veduto questo stupendo spettacolo, senza aver gustate queste delizie! La più umile villana dei beni di mio padre, avrà veduto fin dall'infanzia il bel colpo d'occhio della natura, e percorse liberamente queste posizioni pittoresche, ed io, nel fondo d'un chiostro, rimasi priva di queste meraviglie, che devono incantare la vista e rapire tutti i cuori! Com'è mai possibile che quelle povere monache, quei poveri frati possano provare un violento fervore, se non vedono nè sorgere, nè tramontare il sole? Io non ho mai conosciuto ciò ch'è veramente la devozione fino a stasera. Fino a questa sera io non aveva mai veduto il sole lasciare il nostro emisfero. Domani io lo vedrò sorgere per la prima volta. Com'è possibile di vivere a Parigi, non vedendo che case oscure e vie fangose, quando alla campagna si può vedere la vôlta azzurra del cielo e il verde smalto della terra?-- Questo soliloquio venne interrotto da un lieve rumor di passi, ed avendo Bianca domandato chi fosse, udì rispondersi: «Son io, Dorotea, che vengo a chiudere le finestre.» Il tuono di voce però col quale pronunziò queste parole sorprese alquanto Bianca. «Mi sembrate spaventata;» le disse; «chi vi ha fatto paura? --No, no, non sono spaventata, signorina,» rispose Dorotea titubando. «Io son vecchia e poco ci vuole per turbarmi. Son lieta però che il signor conte sia venuto ad abitare in questo castello, il quale è stato deserto per tanti anni; ora somiglierà un poco al tempo in cui viveva la mia povera padrona.» Bianca le domandò da quanto tempo fosse morta la marchesa. «Ne è già passato tanto ch'io mi sono stancata di contar gli anni. Il castello da quell'epoca mi è sempre parso in lutto, e son certa che i vassalli l'hanno sempre in cuore. Ma voi vi siete smarrita, signorina. Volete tornare nell'altra parte della casa?» La fanciulla domandò da quanto tempo fosse fabbricato il quartiere in cui si ritrovavano. «Poco dopo il matrimonio del mio padrone,» rispose Dorotea. «Il castello era bastantemente grande senza questo accrescimento. Vi sono nell'antico edifizio molti appartamenti, di cui si è mai servito. È un'abitazione principesca; ma il mio padrone la trovava trista, come lo è infatti.» Bianca le disse di condurla nel quartiere abitato; Dorotea la fece passare per un cortile, aprì la gran sala, e vi trovò la signora Bearn. «Dove siete stata fino ad ora?» le disse questa. «Cominciava a credere che vi fosse accaduta qualche avventura sorprendente, e che il gigante di questo castello incantato, o lo spirito che vi comparisce, vi avessero gettata da un trabocchetto in qualche sotterraneo per non lasciarvi uscire mai più. --No,» rispose Bianca ridendo; «voi sembrate tanto amante delle avventure, che io ve le regalo tutte. --Ebbene! v'acconsento, purchè un giorno possa raccontarle. --Mia cara signora Bearn,» disse Enrico entrando nella sala, «gli spiriti odierni non sarebbero tanto scortesi per cercar di farvi tacere. I nostri spettri son troppo inciviliti per condannare una signora ad un purgatorio più crudele del loro, qualunque esso sia.» La Bearn si mise a ridere; entrò Villefort, e fu servita la cena. Il conte parlò pochissimo, parve astratto e fece spesso l'osservazione che dall'epoca in cui non l'aveva veduto, il castello era molto cambiato. «Sono scorsi molti anni,» diss'egli, «i siti sono i medesimi, ma mi fanno un'impressione ben diversa da quella ch'io provava altre volte. --Questo luogo vi è parso forse per l'addietro più piacevole che adesso?» disse Bianca; «mi pare impossibile.» Il conte la guardò con sorriso malinconico. «Era per l'addietro tanto delizioso a' miei occhi, quanto lo è ora ai vostri. Il paese non è cambiato, ma ho cambiato io col tempo. L'illusione del mio spirito godeva alla vista della natura; ora essa è perduta! Se nel corso della vostra vita, cara Bianca, voi tornerete in questi luoghi, dopo esserne stata assente per molti anni, vi rammenterete forse i sentimenti di vostro padre, ed allora li comprenderete.» Bianca tacque, afflitta da tali parole, e rivolse le sue idee all'epoca di cui parlava il conte. Considerando che chi le parlava allora probabilmente non esisterebbe più, chinò gli occhi, e sentendoli pregni di lagrime, prese la mano del padre, gli sorrise con tenerezza, e andò alla finestra per nascondere l'emozione. La stanchezza del viaggio obbligò la compagnia a separarsi di buon' ora. Bianca, traversando una lunga galleria, si ritirò nel suo appartamento, luogo spazioso, colle finestre alte, il cui aspetto lugubre non era acconcio ad indennizzare della posizione quasi isolata in cui si trovava. I mobili n'erano antichi, il letto di damasco turchino, guarnito di frange d'argento. Tutto era per la giovine Bianca oggetto di curiosità. Prese il lume della donna che l'accompagnava per esaminare le pitture del soffitto, e riconobbe un fatto dell'assedio di Troia. Si divertì un poco a rilevare le assurdità della composizione, ma quando riflettè che l'artista che l'aveva eseguita, ed il poeta d'onde aveva ricavato il soggetto non erano più che fredda cenere, fu colta dalla malinconia. Diede ordine di essere svegliata prima del sorger del sole, rimandò la cameriera e volendo dissipare quell'ombra di tristezza, aprì una finestra, e si rianimò alla vista della natura. La terra, l'aria ed il mare, tutto era tranquillo. Il cielo era sereno: qualche leggero vapore ondeggiava lentamente nelle più alte regioni, aumentando lo splendore delle stelle, che scintillavano come tanti soli. I pensieri di Bianca s'innalzarono involontariamente al grande Autore di quegli oggetti sublimi. Fece una preghiera più fervida di quelle non avesse mai fatto sotto le tristi vôlte del chiostro; poi a mezzanotte si coricò, e non ebbe che sogni felici. Dolce sonno, conosciuto soltanto dalla salute, dall'animo contento e dall'innocenza! CAPITOLO XXXVI Bianca dormì assai più dell'ora indicata con tanta impazienza: la sua cameriera, stanca dal viaggio, la destò solo per l'ora della colazione. Questo dispiacere fu tosto dimenticato, quando, aprendo la finestra, vide da una parte l'ampio mare colorito dai raggi del mattino, le candide vele delle barche ed i remi che fendevano le onde; dall'altra, i boschi, la loro freschezza, le vaste pianure, e le azzurre montagne che tingevansi dello splendore del giorno. Respirando quell'aria pura, le sue guance si colorirono di porpora, e facendo la sua preghiera: «Chi ha mai potuto inventare i conventi?» diss'ella; «chi ha potuto pel primo persuadere ai mortali di recarvisi, e col pretesto della religione, allontanarli da tutti gli oggetti che l'ispirano? L'omaggio d'un cuore riconoscente è quello che ci chiede Iddio; e quando veggonsi le sue opere, non si è grati? Non ho mai sentita tanta divozione, in tutte le ore noiose, trascorse in convento, come nei pochi minuti che ho passati qui. Io guardo intorno e adoro Iddio dal fondo del cuore.» Sì dicendo si ritrasse dalla finestra, e traversando la galleria, entrò nella sala da pranzo, ove trovò il padre. Il fulgido sole aveva dissipato la sua tristezza; il riso ne sfiorava le labbra: parlò alla figlia con serenità, ed il cuore di lei corrispose a quella dolce disposizione. Comparvero poco dopo Enrico, la contessa e madamigella Bearn, e tutta la compagnia parve risentir l'influenza dell'ora e del luogo. Si separarono dopo colazione. Il conte si ritirò nel suo gabinetto coll'intendente. Enrico corse alla riva per esaminare un battello, di cui dovevano servirsi l'istessa sera, e vi fece adattare una piccola tenda. La contessa e madamigella Bearn andarono a vedere un appartamento moderno costruito con eleganza. Le finestre guardavano sopra un terrazzo in faccia al mare, evitando così la vista de' _selvaggi_ Pirenei. Bianca intanto si divertiva a vedere le parti dell'edifizio che non conosceva ancora. La più antica attirò tosto la di lei curiosità. Salì lo scalone, e traversando un'immensa galleria, entrò in una fila di stanze, dalle pareti ornate d'arazzi, o coperte di cedro intarsiato a colori; i mobili sembravano della medesima data del castello; gli ampi camini offrivano la fredda immagine dell'abbandono: tutte quelle stanze portavano tanto bene l'impronta della solitudine e della desolazione, che coloro, i cui ritratti vi erano appesi, ne parevano stati gli ultimi abitatori. Uscendo di là, si trovò in un'altra galleria, una delle cui estremità riusciva ad una scala, e l'altra ad una porta chiusa. Scesa la scala, si ritrovò in una stanzetta della torre di ponente. Tre finestre presentavano tre punti di vista diversi e sublimi: al nord la Linguadoca; a ponente i Pirenei, le cui cime coronavano il paese; al mezzogiorno, il Mediterraneo e parte della costa del Rossiglione. Uscì dalla torre, e scendendo per una scala strettissima, si ritrovò in un andito oscuro, ove si smarrì. Non potendo ritrovare il suo cammino, e l'impazienza facendo luogo al timore, gridò aiuto. Udì camminare all'estremità dell'andito e vide brillare un lume tenuto da una persona la quale aprì una porticina con cautela. Non osando inoltrarsi, Bianca l'osservava tacendo, ma allorchè vide che la porta si rinchiudeva, chiamò nuovamente, corse a quella volta, e riconobbe la vecchia Dorotea. «Ah! siete voi, cara padroncina?» diss'ella «come mai poteste venire in questo luogo?» Se Bianca fosse stata meno occupata dalla sua paura, avrebbe probabilmente osservato la forte espressione di terrore e sorpresa che alterava la fisonomia di Dorotea, la quale la fece passare per un numero infinito di stanze, che, parevano disabitate da un secolo. Giunte finalmente alla residenza della custode, Dorotea la pregò di sedere e rinfrescarsi. Bianca, accettando l'invito, parlò della bella torre scoperta, e mostrò il desiderio di appropriarsela. Sia che Dorotea fosse meno sensibile alle grandi bellezze della natura, o che l'abitudine glie le avesse reso meno interessanti, non incoraggì l'entusiasmo di Bianca, la quale, domandò ove conducesse la porta chiusa in fondo alla galleria. L'altra rispose che comunicava con una fila di stanze nelle quali nessuno era entrato da molti anni. «La nostra defunta padrona è morta colà, ed io non ho più avuto il coraggio di penetrarvi.» Bianca, curiosa di veder quel luogo, si astenne dal farne domanda a Dorotea, vedendole gli occhi molli di pianto: poco dopo andò ad abbigliarsi per il pranzo. Tutta la società si riunì di buon umore, tranne la contessa, il cui spirito, assolutamente vuoto, oppresso dall'ozio, non poteva nè renderla felice, nè contribuire all'altrui contentezza. L'allegria provata da Bianca nel riunirsi alla sua famiglia, si moderò allorquando fu sulla riva del mare, e guardò con paura quella gran distesa di acque. Da lontano l'avea osservata con entusiasmo; ma stentò a vincere il timore e seguire il padre in battello. Contemplava tacendo il vasto orizzonte, che circoscriveva solo la vista del mare, una sublime emozione lottava in lei contro il sentimento del pericolo. Un lieve zeffiro increspava la superficie dell'acque, sfiorando le vele ed agitando le frondi delle foreste che coronavano la costa per molte miglia. A qualche distanza esisteva in que' boschi un casino stato in altri tempi l'asilo dei piaceri, e per la sua posizione sempre interessante e pittoresco. Il conte vi aveva fatto portare il caffè ed i rinfreschi. I rematori si diressero a quella parte, costeggiando le sinuosità della riva, oltre il vasto selvoso promontorio e la circonferenza di una baia, mentre in un secondo battello alcuni suonatori facevano echeggiar i circostanti dirupi di belle melodie. Bianca non temeva più; una deliziosa tranquillità si era impossessata di lei, e la faceva tacere. Era troppo felice per rammentarsi il monastero, e la noia ivi provata per tanto tempo. Dopo un'ora di navigazione, presero terra e salirono per uno stretto sentiero sparso di fiorite zolle. A poca distanza, e sulla punta di un'eminenza, si vedova il casino ombreggiato dagli alberi. Benchè preparato in tutta fretta, esso era bastantemente decente. Mentre la compagnia prendeva i rinfreschi e mangiava le frutta, i musicanti interrompevano la quiete deliziosa di quel luogo isolato. Il casino giunse perfino ad interessar la contessa, la quale, forse pel piacere di parlare di cose appartenenti al lusso, si diffuse a lungo sulla necessità di abbellirlo. Dopo una passeggiata molto lunga, la famiglia tornò ad imbarcarsi. La bellezza della sera l'indusse a prolungare la gita ed avanzarsi nella baia. Una calma perfetta era succeduta al vento, che fin allora aveva spinto il battello, ed i marinai diedero mano ai remi. Bianca si compiaceva nel veder remare; osservava i cerchi concentrici formati nell'acqua dai colpi, ed il tremolìo che imprimevano nel quadro del paese senza sfigurarne l'armonia. Al disopra dell'oscurità del bosco distinse un gruppo di torricelle tuttavia illuminate dai raggi del sole, ed in un intervallo di silenzio della musica udì un coro di voci. «Che voci son queste?» disse il conte, ascoltando attentamente; ma il canto cessò,--È l'inno del vespro,» disse Bianca, «io l'ho inteso in convento.--Noi siamo dunque vicini ad un monastero?» disse il conte; ed il battello avendo spuntato un capo molto alto, videro il convento di Santa Chiara in fondo ad una piccola baia: il bosco che lo circondava, lasciava vedere parte dell'edificio, la porta maggiore, la finestra gotica dell'atrio, il chiostro ed un lato della cappella; un arco maestoso che univa anticamente la casa ad un'altra porzione degli edifizi, allora demolita, restava come una rovina venerabile staccata da tutto l'edifizio. Tutto era in profondo silenzio, e Bianca osservava con ammirazione quell'arco maestoso, il cui effetto cresceva colle masse di luce e d'ombra, che spandeva il tramonto coperto di nubi. In quella l'imponente inno de' vespri ricominciò, accompagnato dal grave suono dell'organo; poi il coro andò affievolendosi gradatamente, e si spense quindi affatto. Mentre erano tutti intenti ad ascoltare con religioso raccoglimento, videro uscire dal chiostro una processione di monache vestite di nero con un velo bianco in testa, passare pel bosco, e girare intorno al monastero. La contessa fu la prima a rompere il silenzio. «Quest'inno e queste religiose sono d'una tristezza che mi opprime,» diss'ella; «comincia a farsi tardi; ritorniamo al castello, e sarà già notte prima che noi vi siamo arrivati.» Il conte alzò gli occhi, e si accorse che una tempesta minacciosa anticipava l'oscurità. Gli uccelli marini s'aggiravano sull'onde, vi bagnavan le penne, e fuggivan verso qualche asilo lontano; i marinai facevan forza di remi, ma il tuono romoreggiante da lontano, e la pioggia, che già principiava a cadere, determinarono il conte a cercar ricovero nel monastero. Il battello cambiò direzione, ed a misura che la tempesta si avvicinava a ponente, l'aria diveniva più oscura, e i frequenti lampi infiammavano la sommità degli alberi ed i comignoli del convento. L'apparenza de' cieli allarmò la contessa e la Bearn, le cui strida ed i pianti inquietarono il conte ed i rematori. Bianca si teneva in silenzio, ora agitata dal timore, ora dall'ammirazione: osservava la grandezza delle nubi, il loro effetto sulla scena, ed ascoltava gli scrosci della folgore che scuotevano l'aere. Il battello si fermò in faccia al monastero. Il conte mandò un servo ad annunziare il suo arrivo alla superiora e chiederle asilo. Benchè l'ordine di Santa Chiara fosse fino da quell'epoca poco austero, le donne sole potevano essere ricevute nel santo recinto. Il servitore riportò una risposta che spirava al tempo stesso l'ospitalità e l'orgoglio, ma un orgoglio nascosto sotto il velo della sommissione. Sbarcarono, e traversato velocemente il prato a motivo della pioggia dirotta, furono ricevuti dalla superiora che prima stese la mano ed impartì la benedizione. Passarono in una sala, ove trovavansi alcune religiose tutte vestite di nero e velate di bianco. Il velo della badessa però era semialzato, e lasciava scorgere una dolce dignità temperata da cortese sorriso. Ella condusse la contessa, la Bearn e Bianca in un salotto, ed il conte con Enrico restarono nel parlatorio. La badessa domandò i rinfreschi, ed intanto discorse colla contessa. Bianca, avvicinandosi ad una finestra, potè considerare i progressi della burrasca; le onde del mare, che pochi momenti prima parevano ancora addormentate, si gonfiavano enormemente, infrangendosi senza interruzione contro la costa. Un colore sulfureo circondava le nubi, che si addensavano a ponente, mentre i lampi illumiminavano da lontano le rive della Linguadoca: tutto il resto era avvolto nelle tenebre. In qualche intervallo, un lampo dorava le ali d'un uccello marino che volava nelle più alte regioni, o si posava sulle vele d'una nave in balìa dei marosi. Bianca osservò per qualche tempo il pericolo di quel bastimento, sospirando sul destino dell'equipaggio e dei passaggeri. Infine, l'oscurità divenne completa. Il bastimento si distingueva appena, e Bianca fu costretta a chiuder la finestra per l'impeto del vento. La badessa, avendo esauriti colla contessa tutti i complimenti di civiltà, ebbe campo di rivolgersi a Bianca. La loro conversazione venne presto interrotta dal suono della campana che invitava le monache alla preghiera, giacchè la burrasca andava sempre crescendo. I servi del conte erano iti al castello per far venire le carrozze, le quali giunsero sul finir della preghiera. La tempesta essendo meno violenta, il conte tornò al castello colla sua famiglia. Bianca fu sorpresa di vedere quanto si fosse ingannata sulla distanza del monastero per le sinuosità della spiaggia. La contessa, appena arrivata, si ritirò nel suo appartamento. Il conte, Enrico e Bianca andarono nel salotto, ma appena vi furono giunti, udirono, un colpo di cannone. Il conte riconobbe il segnale d'un bastimento in pericolo che chiedeva soccorso; aprì una finestra, ma il mare avvolto nelle tenebre ed il fracasso della tempesta non lasciavan distinguer nulla. Bianca si ricordò della nave già veduta, e ne avvertì tremando suo padre. Di lì a poco udirono un'altra cannonata, e poterono scorgere al chiarore d'un lampo una barca agitata dai flutti spumosi, con una sola vela, e che, ora scomparendo nell'abbisso, ora sollevandosi sino alle nubi, cercava di guadagnar la costa. Bianca si attaccò al collo del padre con uno sguardo doloroso in cui si dipingevano lo spavento e la compassione. Non eravi bisogno di questo mezzo per intenerire il conte: egli guardava il mare con espressione di pietà, ma vedendo che i battelli non potrebbero resistere alla burrasca, proibì di arrischiarsi a perdita sicura, e fece portare molte torce accese sulle punte degli scogli, a mo' di faro. Enrico uscì per andar a dirigere i servi, e Bianca col padre restò alla finestra, di dove si scorgeva al lume dei baleni il misero bastimento. Ad ogni cannonata rispondevano i servi alzando ed agitando le torce, e al debole chiarore dei lampi Bianca credè vedere nuovamente la nave molto vicino alla riva. Allora si videro i domestici del conte correre da tutte le parti avanzarsi sulla punta degli scogli, chinarsi sporgendo le torce; altri, dei quali non si distingueva la direzione che al movimento dei lumi, scendevano per sentieri pericolosi fin sulla spiaggia, chiamando ad alte grida i marinai, di cui sentivano i fischi e le fioche voci, che per intervalli si confondevano col fracasso della burrasca. Quei gridi inaspettati che partivano dagli scogli, accrescevano il terrore di Bianca ad un grado insopportabile; ma il di lei tenero interesse fu in breve sollevato, quando Enrico arrivò, correndo, a dar la notizia che il bastimento aveva gettato l'àncora nel fondo della baia, ma in sì miserando stato, che sarebbesi forse sommerso prima che l'equipaggio fosse sbarcato. Il conte fece tosto partire tulle le barche, annunziando agli stranieri che li avrebbe ricevuti nel castello. Tra essi eranvi Emilia Sant'Aubert, Dupont, Lodovico ed Annetta, i quali imbarcatisi a Livorno, e giunti a Marsiglia, traversavano il golfo di Lione quando vennero assaliti dalla tempesta. Furono tutti ricevuti dal conte con grande affabilità. Emilia avrebbe voluto andare al convento di Santa Chiara quell'istessa sera, ma egli non volle permetterglielo. Il conte ritrovò in Dupont un'antica conoscenza, e si fecero i più cordiali complimenti. Emilia fu ricevuta colla più cortese ospitalità, e la cena fu servita. L'affabilità naturale di Bianca, e la gioia cui esprimeva per la salvezza dei forestieri, che aveva sì sinceramente compianti, rianimarono a poco a poco gli spiriti di Emilia. Dupont, sciolto dal timore provato per lei e per sè medesimo, sentiva la differenza della propria situazione. Uscendo da un mare procelloso, in procinto d'inghiottirli, si ritrovava in una bella casa, ove regnavano l'abbondanza ed il gusto, e nella quale riceveva cortesissima accoglienza. Annetta intanto raccontava alla servitù i pericoli sofferti, felicitandosi della propria salvezza e di quella di Lodovico. In una parola, risvegliò il brio e l'allegrezza in tutta quella gente. Lodovico era lieto come lei, ma sapeva contenersi, e procurava inutilmente di farla tacere. In fine, le risa smoderate furono intese persino dall'appartamento della contessa, che mandò a sentire cosa fosse quel chiasso, raccomandando il silenzio. Emilia si ritirò di buon'ora per cercare quel riposo, onde avea tanto bisogno; ma stette un pezzo senza poter dormire, perchè il di lei ritorno in patria le ridestava interessanti memorie. I casi occorsi, i patimenti sofferti dopo la sua partenza, le si affacciarono con forza, non cedendo che all'immagine di Valancourt. Sapere ch'essa abitava la medesima terra, dopo sì lunga separazione, era per lei una fonte di gioia. Passava quindi all'inquietudine e all'ansietà, quando considerava lo spazio del tempo scorso dall'ultima lettera ricevuta, e tutti gli avvenimenti che, in cotesto intervallo, avrebber potuto cospirare contro il suo riposo e la sua felicità; ma l'idea che Valancourt non esistesse più, o che, se viveva, l'avesse dimenticata, era sì terribile pel suo cuore, che non potè sopportarla. Risolse d'informarlo subito il giorno dopo del suo arrivo in Francia con una lettera. La speranza finalmente di sapere in breve ch'egli stava bene, ch'era poco lontano da lei, ed in ispecie che l'amava ancora, calmò la di lei agitazione: il suo spirito si racchetò, chiuse gli occhi, e addormentossi. CAPITOLO XXXVII Bianca aveva preso tanto interesse per Emilia, che quando seppe ch'essa voleva andar ad abitare il convento vicino, pregò il padre d'impegnarla a prolungare il suo soggiorno nel castello «Voi comprendete benissimo,» soggiunse, «quanto sarei contenta di avere una tal compagna. Ora non ho verun'amica, colla quale io possa leggere o passeggiare. La signora Bearn è amica soltanto della mamma.» Il conte sorrise di quell'ingenua semplicità, che faceva cedere la figlia alle prime impressioni. Si propose di dimostrargliene il pericolo a suo tempo; ma in quel punto applaudì, col suo silenzio, a quella cordialità che la portava a fidarsi istantaneamente d'una sconosciuta. Aveva osservato Emilia con attenzione, e gli era piaciuta, per quanto poteva comportarlo una sì breve conoscenza. Il modo con cui Dupont aveagli parlato di lei, l'aveva confermato nella sua idea; ma vigilantissimo sulle relazioni della figlia, e intendendo come Emilia fosse conosciuta al convento di Santa Chiara, risolse di recarsi a visitare l'abbadessa, e se le di lei informazioni avessero corrisposto ai suoi desiderii, voleva invitare Emilia a passar qualche giorno in casa sua. Aveva in vista, sotto questo rapporto, più il piacere della figlia, che il desiderio di far cosa grata all'orfana, ma nulladimeno prendeva per lei un sincero interesse. Il dì dopo, Emilia era troppo stanca, e non potè scendere cogli altri a far colazione. Dupont fu pregato dal conte, come antico conoscente, di prolungare il suo soggiorno nel castello. Egli vi acconsentì volentieri, tanto più che questa circostanza lo tratteneva presso Emilia. Non poteva in fondo al cuore alimentare la speranza ch'ella corrispondesse giammai alla sua passione ma non aveva coraggio di procurar di vincerla. Allorchè Emilia fu alquanto riposata, andò a passeggiare colla novella amica, e fu sensibilissima alle bellezze di quei punti di vista. Nel vedere il campanile del monastero, annunziò a Bianca esser quello il luogo in cui voleva andare a risiedere. «Ahi» rispose questa sorpresa; «io sono appena uscita di convento, e voi vi ci volete rinchiudere! Se sapeste quanto piacere io provo nel passeggiar qui con libertà, e nel vedere il cielo, i campi ed i boschi intorno a me, credo che abbandonereste quest'idea.» Emilia sorrise dell'eloquenza, colla quale ella si esprimeva, dicendole come non avesse l'intenzione di chiudersi in monastero per tutta la vita. Rientrando in casa, Bianca la condusse alla sua torre favorita, e nelle antiche stanze già da lei visitate. Emilia si divertì ad esaminare la distribuzione, a considerare il genere e la magnificenza dei mobili ed a paragonarli con quelli del castello di Udolfo, ch'erano però più antichi e straordinari. Considerò anche Dorotea che le accompagnava, e parea quasi tanto antica, quanto gli oggetti che la circondavano. Parve che la vecchia guardasse Emilia con interesse, ed anzi l'osservava con tanta attenzione, che appena intendeva quanto le dicevano. Emilia, affacciatasi ad una finestra, volse gli sguardi sulla campagna, e vide con sorpresa molti oggetti, di cui conservava ancora la memoria: i campi, i boschi ed il ruscello che aveva traversati con Voisin una sera, dopo la morte di Sant'Aubert, nel tornare dal convento alla casa di quel buon vecchio. Riconobbe Blangy essere il castello che aveva scansato allora, e sul quale Voisin aveva tenuto discorsi così strani. Sorpresa di tale scoperta, ed intimorita senza saperne il motivo, restò qualche tempo in silenzio, e rammentossi l'emozione di suo padre al trovarsi vicino a quella dimora. Anche la musica da lei sentita, e sulla quale Voisin le aveva fatto un racconto così ridicolo, le tornò allora in mente. Curiosa di saperne davvantaggio, domandò a Dorotea se si sentisse ancora musica a mezzanotte, e se ne conoscesse l'autore. «Sì, signorina,» rispose la vecchia, «si sente tuttavia quella musica, ma non se ne conosce l'autore, ed io credo che non si saprà mai. Avvi qualcuno che indovina cos'è. --Davvero!» sclamò Emilia; «e perchè non seguitano a far ricerche? --Ah! signorina, abbiamo cercato anche troppo; ma chi può seguire uno spirito?» Emilia sorrise, e rammentandosi quanto avesse recentemente sofferto per la superstizione, risolse di resistervi, benchè sentisse suo malgrado un certo timore mescolarsi alla curiosità. Bianca, che fin allora aveva ascoltato in silenzio, domandò cosa fosse questa musica, e da quanto tempo la si sentisse. «Sempre, dopo la morte della nostra padrona,» rispose Dorotea. «Ma ciò non c'entra con quel che voleva dirvi. --Diteci, ve ne prego, diteci tutto,» rispose Bianca. «Ho preso molto interesse a quel che mi hanno raccontato suor Concetta e suor Teresa in convento sulle apparizioni. --Voi non avete mai saputo, o signorina, per qual motivo fummo costretti di uscire dal castello per andar ad abitare in quella casuccia?» continuò Dorotea. --No, al certo,» rispose Bianca impaziente. --Nè la ragione, per la quale il signor marchese...» Qui titubò, e cambiò discorso; ma la curiosità di Bianca era destata; ella sollecitò la vecchia a continuar il suo racconto, ma non potè indurvela. Era dunque evidente ch'essa s'allarmava della sua imprudenza. «So bene,» disse Emilia sorridendo, «che tutte le case antiche sono frequentate dagli spiriti. Vengo da un teatro di prodigi, ma disgraziatamente, dopo che ne uscii, n'ebbi la spiegazione.» Bianca taceva, e Dorotea stava seria e sospirava. Emilia, rammentando lo spettacolo veduto in una camera di Udolfo, e, per una bizzarra relazione, le parole allarmanti lette accidentalmente in una delle carte bruciate per cieca obbedienza agli ordini paterni, fremeva al significato che sembrava avessero, quasi quanto all'orribile oggetto da lei scoperto sotto il velo funesto. Bianca intanto, non potendo indurre Dorotea a spiegarsi di più, la pregò, passando vicino alla porta chiusa, di farle vedere tutti gli appartamenti. «Cara signorina,» rispose la custode, «vi ho già dette le mie ragioni per non aprire quella stanza. Non vi sono più entrata dopo la morte della mia cara padrona: quella camera mi affliggerebbe troppo: per carità dispensatemene. --Sì, certo,» rispose Bianca, «se tal è il vostro vero motivo. --Pur troppo è l'unico,» disse la vecchia. «Noi l'amavamo tanto, ed io la piangerò sempre. Il tempo vola sì rapido! Sono molti anni ch'è morta, eppur mi ricordo, come se fosse oggi, di tutto quel che accadde allora. Molte cose nuove mi sfuggirono dalla memoria; ma le antiche le vedo come in uno specchio.» Poi, avanzandosi nella galleria, e guardando Emilia, soggiunse: «Questa signorina mi rammenta la signora marchesa: mi ricordo ch'era fresca come lei ed aveva il medesimo sorriso. Povera donna! Com'era allegra quando fece il suo ingresso qui! --Che! forse non lo fu anche in seguito?» disse Bianca. Dorotea scosse la testa. Emilia l'osservava, e sentivasi penetrata da vivo interesse. «Se ciò non vi affligge,» disse Bianca, «fateci la grazia di raccontare qualcosa della marchesa. --Signora,» rispose Dorotea, «se voi ne sapeste quanto me, le trovereste troppo penose, e ve ne pentireste. Vorrei cancellarne l'idea sulla mia memoria, ma è impossibile... Io vedo sempre la mia cara padrona al suo letto di morte, vedo i suoi sguardi e mi rammento i suoi discorsi. Dio! che scena terribile! --Che le accade dunque di sì terribile? --Ah! la morte non è dunque abbastanza terribile?» La vecchia non rispose ad alcuna delle interrogazioni di Bianca. Emilia, osservando che le spuntavano le lacrime, cessò d'importunarla, e procurò di attirare l'attenzione della sua giovine amica su qualche punto del giardino. Il conte, la contessa e Dupont vi stavano passeggiando, ed esse li raggiunsero. Quando il conte vide Emilia, le andò incontro, e la presentò alla contessa in un modo così gentile, che le rammentò l'affabilità del proprio genitore. Prima di aver finito i suoi ringraziamenti per l'ospitalità ricevuta, ed espresso il desiderio di recarsi tosto al convento, fu interrotta da un invito pressantissimo di prolungare il di lei soggiorno nel castello. Il conte e la contessa ne la pregarono con tanta sincerità, che malgrado il desiderio che aveva di rivedere le amiche del monastero, e sospirare nuovamente sulla tomba dell'amato padre, acconsentì di restare per qualche giorno. Scrisse intanto alla badessa per informarla del suo arrivo, e pregarla di riceverla nel convento come educanda. Scrisse parimente a Quesnel ed a Valancourt, e siccome non sapeva ove indirizzare precisamente quest'ultima lettera, la diresse in Guascogna al fratello del cavaliere. Verso sera, Bianca e Dupont accompagnarono Emilia alla casa di Voisin; nell'avvicinarsene, provò una specie di piacere misto ad amarezza. Il tempo aveva calmato il suo dolore, ma la perdita fatta non poteva cessare di esserle sensibile; si abbandonò con dolce tristezza alle memorie che le rammentava quel luogo. Voisin viveva ancora, e sembrava godere, come in passato, della placida sera di una vita senza rimorso. Era seduto innanzi alla porta della sua casa, compiacendosi della vista dei nipotini, che scherzavano intorno a lui, e di cui ora il suo riso, ora le sue parole eccitavano l'emulazione. Riconobbe subito Emilia, e mostrò gran gioia nel rivederla, annunciandole che, dopo la sua partenza, la di lui famiglia non aveva sofferto affanni o perdite funeste. Emilia non ebbe coraggio di entrare nella camera ov'era morto Sant'Aubert, e dopo un'ora di conversazione, tornò al castello. Nei primi giorni che soggiornò a Blangy, osservò con pena la malinconia profonda, che assorbiva troppo spesso Dupont. Emilia compiangeva l'acciecamento che lo tratteneva vicino a lei, e risolse di ritirarsi al convento appena potesse farlo. L'abbattimento dell'amico non tardò ad inquietare il conte, e Dupont gli confidò finalmente il segreto del suo amore senza speranza. Villefort si limitò a compiangerlo, ma decise fra sè di non trascurare veruna occasione per favorirlo. Allorchè conobbe la pericolosa situazione di Dupont, si oppose debolmente al desiderio da lui esternato di partire da Blangy l'indomani; gli fece però promettere di venire a passarvi qualche tempo, quando il suo cuore fosse stato più tranquillo. Emilia, che pur non potendo incoraggiare il suo amore, ne stimava le buone qualità, ed era gratissima ai di lui servigi, provò grand'emozione quando lo vide partire per la Guascogna. Si separò da lei con tal espressione di dolore, che il conte s'interessò vie più per l'amico. Pochi giorni dopo, anche Emilia partì dal castello, avendo però dovuto promettere al conte ed alla contessa di venire spesso a trovarli. La badessa la ricevè colla materna bontà di cui le aveva già data prova, e le monache con nuovi segni d'amicizia. Quel convento, a lei sì noto, risvegliò le sue tristi idee; ringraziava il Supremo Motore di averla fatta sfuggire a tanti pericoli, sentiva il prezzo dei beni che le restavano, e sebbene bagnasse sovente la tomba di suo padre delle sue lacrime, non sentiva più però la medesima amarezza. Qualche tempo dopo il suo arrivo nel monastero, Emilia ricevè una lettera dello zio Quesnel in risposta alla sua, e alle domande su' suoi beni, che egli aveva preteso amministrare nella di lei assenza. Erasi specialmente informata sull'affitto del castello della valle, che desiderava abitare, se le sue sostanze glie lo permettevano. La risposta di Quesnel fu secca e fredda come se l'aspettava; non esprimeva nè interesse per i di lei patimenti, nè piacere perchè ne fosse sfuggita. Quesnel non perdè l'occasione per rimproverarle il suo rifiuto alle nozze del conte Morano, cui cercava rappresentare come ricco e uomo d'onore; declamava con veemenza con quell'istesso Montoni, al quale fin allora, erasi riconosciuto tanto inferiore; era laconico circa gl'interessi pecuniari di Emilia, avvertendola però che l'affitto del castello della valle spirava fra poco; non l'invitava ad andare da lui, ed aggiungeva che, nello stato meschino della sua sostanza, avrebbe fatto benissimo a restare per qualche tempo a Santa Chiara. Non rispondeva nulla alle di lei domande sulla sorte della povera Teresa, la vecchia serva del padre suo. In un poscritto, Quesnel, parlando di Motteville, nelle cui mani Sant'Aubert aveva posto la maggior parte del suo patrimonio, le annunziava che i di lui affari stavano per accomodarsi, e ch'essa ne ritirerebbe più di quel che avrebbe potuto aspettarsi. La lettera conteneva parimente una cambiale a vista per riscuotere una modica somma da un mercante di Narbona. La tranquillità del monastero, la libertà statale accordata di passeggiare sul lido e pei boschi circonvicini, tranquillarono a poco a poco lo spirito di Emilia, la quale però sentivasi inquieta a proposito di Valancourt, ed impaziente di riceverne una risposta. FINE DEL TERZO VOLUME Milano 1875--Tip. Ditta Wilmant. NOTA DEL TRASCRITTORE La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in inglese è disponibile su Project Gutenberg: The mysteries of Udolpho (http://www.gutenberg.org/etext/3268). Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato. I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo originale]: P. 9 - vide uscire Cavignì, Verrezzi [Verezzi] e Bertolini " 20 - spaventata al maggior [maggiar] segno. " 35 - quanto voi state in [in in] pena " 38 - mi ha dato questa chiave, incaricandomi [incarincandomi] " 48 - violente [violenti] e diverse passioni " 50 - se [se se] si fosse di nuovo mostrata " 113 - quest'articolo essenziale [esenziale]. " 142 - le parole allarmanti lette accidentalmente [accidentalmante] Grafie alternative mantenute: balia / balìa colta / côlta follia / follìa End of classicistranieri.com - The Project Gutenberg EBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3, by Ann Radcliffe *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 3 *** ***** This file should be named 33783-8.txt or 33783-8.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/3/3/7/8/33783/ Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation web page at http://www.pglaf.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Its 501(c)(3) letter is posted at http://pglaf.org/fundraising. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S. Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email business@pglaf.org. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's web site and official page at http://pglaf.org For additional contact information: Dr. Gregory B. Newby Chief Executive and Director gbnewby@pglaf.org Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide spread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit http://pglaf.org While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: http://pglaf.org/donate Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works. Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For thirty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our Web site which has the main PG search facility: http://www.gutenberg.org This Web site includes information about Project Gutenberg-tm, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.