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Francesco Pennacchi, Introduzione a Lo specchio di Perfezione di Frate Leone - Mirrored by classicistranieri.com

Francesco Pennacchi

Introduzione

a

Lo Specchio di perfezione - Frate Leone

Edizione di riferimento:

Frate Leone, Lo Specchio di perfezione, Volgarizzato da Francesco Pennacchi e Illustrato da Attilio Razzolini, Soc. Ed. Toscana, Sancasciano Val di Pesa (Firenze) (proprietà artistica riservata)  Stab. Tipo-litografico f.lli Stianti, 1925 .

Lettera di Giovanni Joergensen al traduttore.

Assisi, 3 aprile 1925.

Caro professore e concittadino,

Ella mi ha chiesto una parola di prefazione alla nuova - terza - edizione del suo volgarizzamento dello Speculum. Per dire il vero, non ne vedo la necessità. Tutti noi che da anni ci occupiamo di studi francescani sappiamo il valore della sua traduzione dell’aureo libretto di Frate Leone.

E chi più di Lei poteva essere autorizzato ad intraprendere un così delicato e così difficile lavoro? Nato nella città stessa del Santo, nutrito del più genuino succo delle tradizioni francescane di questa città, vissuto poi nell’austerità degli studi storici, sulle traccie di quegli insigni studiosi che si chiamano Antonio Cristofani e Leto Alessandri, Ella era come predestinato a divenire l’interprete più sincero e più schietto del più schietto e sincero tra i seguaci del fi’ di Bernardone.

Difatti basta dare una semplice occhiata alla sua traduzione, paragonandola con altra recentemente uscita, per convincersi della superiorità della prima sulla seconda. Laddove il suo competitore rimane secco ed arido, traducendo freddamente il testo latino, il suo lavoro possiede una flessibilità musicale e un’ingenua grazia poetica, tutta veramente improntata allo stile del più puro Trecento.

E quando poi si viene al commento del testo, Ella si mostra di gran lunga superiore al suo rivale, e ciò facilmente si spiega quando si pensi ch’Ella da venti, da trent’anni non ha avuto nessun più caro pensiero che quello di studiare, non solo i documenti, ma anche i paesaggi francescani: il monte del Subasio, la valle del Tescio, la pianura che si stende intorno alla Porziuncola, gli oliveti di S. Damiano, i lecceti della forra delle Carceri. Lei parla di S. Francesco e de’ suoi primi discepoli non da straniero e da lontano, ma da conterraneo, e quasi quasi, direi, da contemporaneo.

Questo è il pregio maggiore del suo lavoro.

Mi abbia

suo dev. mo ed aff. mo concittadino

Giovanni Joergensen.

INTRODUZIONE

Quasi fulgide stelle intorno all’astro maggiore del cielo francescano, i primi compagni di S. Francesco, riscaldati dal fuoco ardente dell’amor di Dio e della carità verso il prossimo, in cui bruciava il loro serafico padre, mentre si sforzavano ogni giorno più di emulare le celesti doti di lui, toccarono la perfezione di una sua speciale virtù e si ripartirono quel cumulo di meriti che il loro maestro tutti in sè compendiava. Quale per celeste contemplazione, quale per sottilità d’Intelletto, quale per divoto parlare, e frate Leone per il dono di perfetta purità e semplicità, ebbe merito singolare. San Francesco che, illuminato da Dio e da naturale discernimento, leggeva aperto nel cuore degli uomini, volle sempre al suo fianco i più santi, i più operosi figli suoi; e con questi chiamò a vita e nutricò l’ordine novello; questi mandava per il mondo a dilatare colla parola e confortare coll’esempio la nuova religione; a questi venuto a morte, affidò per testamento la sua donna più cara, la Povertà.

I primi che lo seguirono, e tra essi Bernardo, Pier Cataneo, Egidio, Leone ed Elia, furono i paladini del ciclo francescano, le cui imprese una semplice e robusta letteratura celebrò e la loro santità e operosità eternò con leggende e con poemi: ma Leone ed Elia si acquistarono fama singolare, come quelli che lo stesso ideale, sebbene per opposte vie, intesero di illustrare e conservare: entrambi lottarono e caddero entrambi, ma dopo aver consegnato le loro ragioni ai loro partigiani. Il duello fu lungo ed ebbe varie vicende, ma l’Ordine se ne avvantaggiò perchè in tal modo, senza cullarsi sui primi allori, e senza uscire dallo steccato della Chiesa romana, si trovò costretto a richiamare ai suoi primi principii ed illustrare l’ideale francescano; i zelanti, per dimostrare che erano i veri conservatori della parola della regola; i rilassati, per provare che non la offendevano, anzi, interpetravano lo spirito della regola secondo la mente di S. Francesco e del Vicario di Cristo.

Frate Leone non è annoverato tra i primi dodici che seguirono Francesco; non sappiamo dove, nè quando si unì a lui, ma certo fu nel principio della religione. Giovane, di spiriti ardenti, e già sacerdote, entrò all’ordine, e con quel fervore che anima i giovani e generosi, si diè con tutto lo zelo a seguitare la regola che Innocenzo III aveva approvata, e tanto si avvantaggiò nella via della perfezione che il maestro lo ebbe tra i suoi prediletti. Il suo zelo, non dirò fanatismo, per il puro ideale francescano, ci dimostra che succhiò il primo latte, che fu di quelli che ebbero per prima regola i precetti dell’evangelo e la videro applicata con quella pratica perfezione che si andò svolgendo fino al 1220, quando lo spirito di ribellione, approfittando dell’assenza del santo fondatore, cominciò a impadronirsi dell’ala sinistra dell’esercito del Minori. Trovavasi a Bologna frate Leone, quando Francesco ritornando dalle parti d’Oriente vi capitò, e quel comando quasi crudele che ingiungeva anche ai malati di lasciare la casa dei frati, lo riconfermò nel primitivo rigore e lo ricongiunse in ispirito al Maestro, dalla persona e dagli ideali del quale non si disgiunse mai più.

Da questo tempo, fino alla morte di S. Francesco lo troviamo sempre al fianco di lui, e nei momenti più sublimi della vita del Santo vediamo Leone messo a parte di tutte le imprese del fondatore, del legislatore, del poeta. Francesco infatti lo ebbe compagno quando si portò a Roma nel 1221 per ottenere l’approvazione della regola: Leone fu con lui sul Sinai francescano di Monte Colombo quando Francesco vi si ridusse per dare all’Ordine la regola definitiva; e secondo che Cristo gli dettava, frate Leone la scriveva. Quando Francesco vedeva il suo compagno sopraffatto dalle tribolazioni dello spirito, con una lettera piena d’affetto lo invitava a venire sul suo cuore per ricevere consolazione; tornando da Perugia a S. M. degli Angeli esponeva a frate Leone con uno stile degno del cantore delle Creature, l’evangelo francescano e come e dove ricercare la perfetta letizia. Ritrovandosi soli all’eremo delle Carceri senza breviario e non potendo recitare l’ufficio divino, Francesco gl’insegnò come potevasi egualmente dar lode a Dio, proponendogli di rispondere secondo che esso gli avrebbe insegnato: e frate Leone, pur volendo soddisfare all’obbedienza, e non potendo rispondergli se non come piaceva a Dio, frate Francesco dolcemente s’adirò con frate Leone chiamandolo pecorella di Dio, obbediente cioè come pecora alla volontà di colui che le risposte gli suggeriva. Se Bernardo ed Elia e tutti i frati per essi, furono da Francesco morente benedetti, frate Leone ebbe un attestato ben più solenne dell’amore del suo maestro in quella Benedizione che resta tuttavia testimonio eloquente dell’affetto di chi la scrisse, e reliquia la più autentica e preziosa anche per noi, perchè scritta e suggellata dalla sua santa mano[1].

Avvicinandosi per il Santo maestro il tempo delta sua passione e salito col diletto discepolo sulla Verna, lo fece partecipe di tutti i misteri che precedettero e seguirono il mistero sublime delle Sante Stimate; e quando poi era duopo medicargli la piaga del costato, frate Leone ne aveva la pietosa cura.

Ma il tempo della prova si avvicinava, crudele per il maestro, più crudele ancora per Leone, che prevedeva quale sarebbe stato il governo e la riforma dell’ordine dopo l’estrema dipartita del Padre Santo, e le amarezze e le persecuzioni che aspettavano quelli i quail avrebbero tentato la resistenza. Infatti era spirato appena il fondatore, che un turbine si scatenò sull’ordine dei Minori e separò gli spiriti e annebbiò le menti e divise quel tronco, che sebbene rimanesse sempre sulle stesse radici, pure fu scisso prima in due, poi in molte parti. Morto Francesco, Leone ed Elia, non avendo più chi spuntasse le loro armi, vennero a contatto: Leone vede subito realizzati i suoi timori, perchè Elia era divenuto non padre, ma padrone e feudatario dell’ordine dei Minori.

Infatti guidato dall’affetto per il grande amico e padre, consigliato forse dall’ambizione di innalzare al fondatore della religione un monumento degno della grandezza di questo e del’Ordine cui egli presiedeva, sicuro di non offendere l’intenzione di Francesco che vivente aveva predetto che il suo corpo sarebbe stato onorato (Spec. Perf. Cap. 109), disprezzando i gretti ed esagerati criteri di povertà che gli zelanti predicavano e propugnavano, con uno spirito puerile o partigiano, Elia volle innalzare un tempio che desse ai devoti un’idea degna della santità di Francesco e della grandezza a cui l’Ordine era pervenuto.

A Leone questo fatto parve un insulto fatto alla memoria del fondatore dei Minori, allo sposo di Madonna Povertà. Chiama i più fedeli alla riscossa, e accecato dallo zelo, protesta spezzando il vaso delle elemosine, e nulla ottenendo, si racchiude in S. M. degli Angeli e medita un modo più degno, più efficace di opposizione; scrive lo Speculum Perfectionis, in cui, come in limpido specchio, i frati mirando il ritratto del perfetto frate minore, tornassero alla ragione e desistessero dall’offendere la memoria del Poverello e la sua prima ed ultima volontà.

Ed ecco frate pecorella, ritornato frate Leone, mettersi alla difesa dell’ideale del suo maestro, e della coscienza dei più rigidi e perseguitati zelanti, suoi compagni fedeli. Come far argine alla rilassatezza invadente, senza l’appoggio dei più? Come opporsi all’opera ambiziosa, superba, nefasta di Elia che, argomentandolo dai preparativi, aveva in animo d’innalzare sulle spoglie mortali dello sposo delta Povertà il più magnifico, il più ricco, e perciò il più indegno mausoleo che vantasse la cristianità? Alla forza prepotente, tirannica di Elia, qual riparo farà il povero, ostinato ed esagerato Leone? Cacciato, inseguito dal randello di Elia, lo vediamo scender rapido la china del colle, entrare nella rocca della Povertà, nella chiesuola di Porziuncola e vestite le armi della preghiera, chiudersi nella sua celluzza, prendere in mano la penna per denunziare ai fratelli il traditore, l’apostata, il tiranno dell’Ordine. E comincia la sua requisitoria ricordando, come era naturale, il caposaldo, la pietra fondamentale di loro Religione, la regola che Cristo stesso aveva dettato di parola in parola, e insieme ricordando come fino d’allora i ministri, con quello stesso Elia alla testa, si erano ribellati, avevan protestato, avevan lacerato l’originale della regola, e non vi volle meno della viva voce di Cristo per ridurli a soggezione. Ma Leone non era soddisfatto di sì breve, sebbene energica protesta: ogni volta che metteva il piè fuori del suo tugurio vedeva sempre più elevarsi e dilatarsi e perfezionarsi quella mole scandalosa che rapida sorgeva sul fianco occidentale del colle di Assisi; e allora ebbe l’idea di fabbricare anche esso sopra quella prima pietra un monumento al padre suo, non opera di pietra e d’oro, ma un edificio di santità, fondato sulle colonne delle perfettissime virtù del maestro; un edificio spirituale in cui, come in purissimo specchio tutti mirassero la sua dottrina, la sua santità, gli esempi di virtù altissima che aveva operato per addivenire Specchio e modello del Frate minore. In tre o quattro mesi lo Specchio di Perfezione fu compilato, perche l’11 Maggio 1228, già un frate tedesco ne aveva fatto un esemplare: rapidità, fecondità, abilità prodigiosa fu spiegata da Leone, che sebbene sacerdote, non aveva fino a quel tempo rivelate tali facoltà letterarie.

Lo Speculum Perfectionis venuto in possesso dei zelanti era da questi letto e copiato, e portato nelle famiglie più lontane dell’Ordine per ridestare il primitivo fervore, per mettere un argine alle intemperanze di Elia. Ma questi non se ne dà per inteso: viene esonerato dalla carica suprema e Giovanni Parenti (30 maggio 1227) diviene suo superiore; ed Elia, come tutti i grandi che sanno cedere a tempo per raccogliere più salde le forze al momento opportuno, non si oppone, non fa chiasso, segue imperturbato ad innalzare il mausoleo dell’amico e insieme la cittadella che ha designata per suo quartier generale e da cui dominerà gli avversari e saprà accattivarsi, se non l’affetto, almeno il rispetto e la gratitudine della corte di Roma, dei suoi seguaci e del popolo d’Assisi.

Elia non si vendicò del colpo inflittogli dai suoi nemici, perchè nè soggezione nè timore aveva del suo successore, uomo debole di spirito, sebbene forte di santità, che chiuse gli occhi sugli atti che Elia da vero signore indipendente concludeva in proprio nome a favore e gloria dell’ordine: e lo stesso Parenti, anzi che mostrarsi pari alla fiducia riposta in lui dai suoi elettori, accattò previlegi molti e importanti per la gloria spirituale e temporale della sua religione. Questa condotta non incontrava certo il favore dei zelanti e spuntava insieme gli sdegni contro Elia preparando a maraviglia il terreno per la sua rivincita.

Anche l’opera di Leone soffrì per questo stato di cose: considerando ormai abbattuto per sempre il pericoloso rivale, non avrà certo desistito dalla sua propaganda, ma questa non l’avrà seguitata con quello spirito che nel 1227 gli suggeriva lo zelo della religione e la paura d’un superiore tiranno. E quando nel 1232 Elia, che aveva già condotta a buon termine la sua fabbrica e chiamati in arme i suoi aderenti attorno alla cittadella che veniva costruendo, ripresenta la sua candidatura e costringe il Parenti a rimettergli il supremo comando, le ire dei zelanti sopraffatti dal terrore poterono essere facilmente domate, e se Elia avesse potuto dominare il suo carattere, la causa de’ suoi nemici era perduta per sempre.

Frate Leone si ridesta, colla voce e con gli scritti conforta i suoi fedeli, li esorta, li agguerrisce contro il comune nemico: anche i ministri provinciali stanchi del dispotismo di Elia, si unirono in una lega di opposizione e di resistenza e finalmente nel capitolo di Pentecoste del 1239 da Gregorio IX egli venne deposto e fu eletto in sua vece Alberto da Pisa. Questa caduta non fu determinata dai zelatori, ma dai provinciali e dai frati letterati che raccolsero nelle loro mani il potere. Quando Frate Leone fu liberato dal pericolo di Elia, vide che un altro e non minore pericolo sovrastava all’Ordine: la scienza prendeva il sopravvento sullo spirito, eppure dovette acconciarvisi, perchè così voleva la nuova generazione, così volevano i tempi e sopra tutti la Chiesa.

Siamo al 1244, quando nel capitolo generale di Genova il Generate Crescenzio impose a tutti i frati di raccontare le meraviglie e i miracoli di S. Francesco, per compilare una più completa e quasi ufficiale leggenda del Santo. Frate Leone, che era stato il depositario delle maraviglie dal Santo operate, era in obbligo di fornire tutti quei particolari che ad altri fossero stati sconosciuti, o poco noti. Non si fida del suo cuore e chiama seco, narra la Leggenda, Rufino ed Angelo: si raccolgono nell’eremo di Greccio e scrivono, o meglio Leone scrive, quanto essi sapevano, quanto avevano raccolto da quei che S. Francesco, o i primi compagni di lui avevano conosciuto. Intesero essi con questo scritto compilare una vera e propria leggenda? Che cosa di nuovo raccontarono? Chi fu lo scrittore? Non era nel loro compito di scrivere una leggenda, ma di raccogliere fatti nuovi non conosciuti; quindi l’opera loro doveva riuscire priva di unità, di metodo storico e frammentaria. Se Leone ne fu l’autore, la versatilità della sua penna è prodigiosa, nè posso spiegarmi, perchè mettendo insieme dei fatti sparsi ai quali doveva altri dare una più nobile veste, avesse usato uno stile più elevato di quello tanto piano, chiaro e simpatico con cui aveva scritto l’opera sua principale lo Speculum Perfectionis.

Nè qui cessa la maraviglia: frate Leone, non mai stanco dell’opera sua, quando nel 1258 frate Ginepro morì, e frate Egidio nel 1261 passò di questa vita, volle raccogliere in due leggende la vita di questi singolari campioni della rigida osservanza, a edificazione della nuova generazione amante delta santità ma avida di scienza, quasi a conferma di quanto S. Bonaventura rispondeva un giorno ad Egidio: Se una vecchierella saprà amar Dio meglio di me, sarà avanti a me nella via della santità. E in questi lavori tornò alla sua prima maniera e alla cara semplicità di stile che aveva adoperato nello Specchio di Perfezione e in molti altri capitoli e racconti che i Cronisti del sec. xiv gli hanno attribuito.

All’infuori di tante più o meno probabili ipotesi messe in campo per attribuirgli la paternità feconda dello Speculum Perfectionis, della Leggenda dei Tre Compagni, delle vite di Ginepro e di Egidio, e di molte altre opere minori, non abbiamo ancora dati storici e argomenti indiscutibili, su cui fondare la sua fama di scrittore.

La lingua, lo stile, la forma delle opere suddette, senza toccare gli argomenti intrinseci, mi persuadono che esse furono fattura di diversi, più o meno abili raffazzonatori, e collettori di tradizioni, di scripta verba, di cedulae e rotuli scritti da Leone per riscaldare gli spiriti dei suoi seguaci, per ricordarne la santa vita e degna di essere imitata: e questi zelanti compilatori, per dar maggior credito alle loro leggende, le fecero conoscere sotto il nome del Padre degli Spirituali, come fu di quella dei Tre Compagni, senza badar troppo se in tutte le sue parti frate Leone l’avrebbe approvata, non che sottoscritta. Di Leone scrittore altra notizia sicura non ci pervenne all’infuori degli scripta verba, delle cedulae, dei rotuli, che apparentemente. perduti, forse leggiamo e possediamo in qualcuna delle leggende attribuitegli, per opera di qualche umile Senofonte che raccolse in un corpo i detti memorabili uditi dalla viva voce del Socrate francescano suo maestro.

Quale fu la patria di frate Leone? Il Papini scrisse: Fu di Viterbo fra Leone (vedi Buzzi nella storia di detta città, sostenuto da fra Giordano nel Policronico Cap. 249). Almeno fu del Contado, come piace ad altri, che gli danno per patria il villaggio di Cologna. Ma perchè giurare sull’autorità di un oscuro scrittore del sec. xvii quando leggiamo nello Speculum Perfectionis: Ascendit in quendam montem (b. Franciscus) cum fratre Leone de Assisio; e nella Cronaca XXIV Gen. abbiamo ancora cum fratre Leone de Assisio? Non aggiungo parole a questi argomenti: s’ingegnino pure il Papini, il Buzzi, il Melchiorri e qualche scrittore più recente ancora, a sostenere lo strampalato fra Giordano, ma prima procurino almeno di dimostrare interpolate o false quelle prove di scrittori i quali forse conobbero Leone stesso, se pure quelle testimonianze egli non le scrisse di sua mano.

Una mattina della metà diNovembre del 1271, in una delle rustiche capanne che circondavano la chiesuola di Porziuncola, un povero frate affranto da lungo corruccio più che dagli anni, disteso sopra una lacera stuoia, stava agonizzando: simile ad un atleta caduto sull’arena, sembrava che non la morte imminente ma il dolore dell’insuccesso facesse strazio del suo spirito.

L’occhio ancor vivido e fiero si fissava, attraverso la finestra, verso il monumento ove riposavano le ossa del padre suo, quando uno stormo di allodole venne a posarsi sopra l’umile celletta. Lo sguardo del moribondo si rasserenò, volse sopra i presenti un’occhiata di soddisfazione, e quasi intonasse l’invito del suo maestro a sorella Morte, composte le membra ormai irrigidite, permise all’anima di allontanarsi dal corpo. Così frate Leone rendeva a Dio lo spirito travagliato; allora incominciò a gustare quella pace che invano da tanti anni andava cercando. E anche il corpo che colla morte tutto oblia andò a cercar riposo presso la tomba del padre e dell’amico, all’ombra di quel mausoleo che di tanto sdegno aveva acceso l’animo del Padre degli zelanti della Povertà.

Assisi, giugno 1925.

FRANCESCO PENNACCHI.

 

Nota

________________________

[1] La pergamena con la Benedizione vergata dalla mano del Santo, si venera tutt’oggi nella sacristia della Basilica Francescana d’Assisi.

Indice Biblioteca

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Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 08 febbraio 2011

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Francesco Pennacchi

Introduzione

a

Lo Specchio di perfezione - Frate Leone

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Frate Leone, Lo Specchio di perfezione, Volgarizzato da Francesco Pennacchi e Illustrato da Attilio Razzolini, Soc. Ed. Toscana, Sancasciano Val di Pesa (Firenze) (proprietà artistica riservata)  Stab. Tipo-litografico f.lli Stianti, 1925 .

Lettera di Giovanni Joergensen al traduttore.

Assisi, 3 aprile 1925.

Caro professore e concittadino,

Ella mi ha chiesto una parola di prefazione alla nuova - terza - edizione del suo volgarizzamento dello Speculum. Per dire il vero, non ne vedo la necessità. Tutti noi che da anni ci occupiamo di studi francescani sappiamo il valore della sua traduzione dell’aureo libretto di Frate Leone.

E chi più di Lei poteva essere autorizzato ad intraprendere un così delicato e così difficile lavoro? Nato nella città stessa del Santo, nutrito del più genuino succo delle tradizioni francescane di questa città, vissuto poi nell’austerità degli studi storici, sulle traccie di quegli insigni studiosi che si chiamano Antonio Cristofani e Leto Alessandri, Ella era come predestinato a divenire l’interprete più sincero e più schietto del più schietto e sincero tra i seguaci del fi’ di Bernardone.

Difatti basta dare una semplice occhiata alla sua traduzione, paragonandola con altra recentemente uscita, per convincersi della superiorità della prima sulla seconda. Laddove il suo competitore rimane secco ed arido, traducendo freddamente il testo latino, il suo lavoro possiede una flessibilità musicale e un’ingenua grazia poetica, tutta veramente improntata allo stile del più puro Trecento.

E quando poi si viene al commento del testo, Ella si mostra di gran lunga superiore al suo rivale, e ciò facilmente si spiega quando si pensi ch’Ella da venti, da trent’anni non ha avuto nessun più caro pensiero che quello di studiare, non solo i documenti, ma anche i paesaggi francescani: il monte del Subasio, la valle del Tescio, la pianura che si stende intorno alla Porziuncola, gli oliveti di S. Damiano, i lecceti della forra delle Carceri. Lei parla di S. Francesco e de’ suoi primi discepoli non da straniero e da lontano, ma da conterraneo, e quasi quasi, direi, da contemporaneo.

Questo è il pregio maggiore del suo lavoro.

Mi abbia

suo dev. mo ed aff. mo concittadino

Giovanni Joergensen.

INTRODUZIONE

Quasi fulgide stelle intorno all’astro maggiore del cielo francescano, i primi compagni di S. Francesco, riscaldati dal fuoco ardente dell’amor di Dio e della carità verso il prossimo, in cui bruciava il loro serafico padre, mentre si sforzavano ogni giorno più di emulare le celesti doti di lui, toccarono la perfezione di una sua speciale virtù e si ripartirono quel cumulo di meriti che il loro maestro tutti in sè compendiava. Quale per celeste contemplazione, quale per sottilità d’Intelletto, quale per divoto parlare, e frate Leone per il dono di perfetta purità e semplicità, ebbe merito singolare. San Francesco che, illuminato da Dio e da naturale discernimento, leggeva aperto nel cuore degli uomini, volle sempre al suo fianco i più santi, i più operosi figli suoi; e con questi chiamò a vita e nutricò l’ordine novello; questi mandava per il mondo a dilatare colla parola e confortare coll’esempio la nuova religione; a questi venuto a morte, affidò per testamento la sua donna più cara, la Povertà.

I primi che lo seguirono, e tra essi Bernardo, Pier Cataneo, Egidio, Leone ed Elia, furono i paladini del ciclo francescano, le cui imprese una semplice e robusta letteratura celebrò e la loro santità e operosità eternò con leggende e con poemi: ma Leone ed Elia si acquistarono fama singolare, come quelli che lo stesso ideale, sebbene per opposte vie, intesero di illustrare e conservare: entrambi lottarono e caddero entrambi, ma dopo aver consegnato le loro ragioni ai loro partigiani. Il duello fu lungo ed ebbe varie vicende, ma l’Ordine se ne avvantaggiò perchè in tal modo, senza cullarsi sui primi allori, e senza uscire dallo steccato della Chiesa romana, si trovò costretto a richiamare ai suoi primi principii ed illustrare l’ideale francescano; i zelanti, per dimostrare che erano i veri conservatori della parola della regola; i rilassati, per provare che non la offendevano, anzi, interpetravano lo spirito della regola secondo la mente di S. Francesco e del Vicario di Cristo.

Frate Leone non è annoverato tra i primi dodici che seguirono Francesco; non sappiamo dove, nè quando si unì a lui, ma certo fu nel principio della religione. Giovane, di spiriti ardenti, e già sacerdote, entrò all’ordine, e con quel fervore che anima i giovani e generosi, si diè con tutto lo zelo a seguitare la regola che Innocenzo III aveva approvata, e tanto si avvantaggiò nella via della perfezione che il maestro lo ebbe tra i suoi prediletti. Il suo zelo, non dirò fanatismo, per il puro ideale francescano, ci dimostra che succhiò il primo latte, che fu di quelli che ebbero per prima regola i precetti dell’evangelo e la videro applicata con quella pratica perfezione che si andò svolgendo fino al 1220, quando lo spirito di ribellione, approfittando dell’assenza del santo fondatore, cominciò a impadronirsi dell’ala sinistra dell’esercito del Minori. Trovavasi a Bologna frate Leone, quando Francesco ritornando dalle parti d’Oriente vi capitò, e quel comando quasi crudele che ingiungeva anche ai malati di lasciare la casa dei frati, lo riconfermò nel primitivo rigore e lo ricongiunse in ispirito al Maestro, dalla persona e dagli ideali del quale non si disgiunse mai più.

Da questo tempo, fino alla morte di S. Francesco lo troviamo sempre al fianco di lui, e nei momenti più sublimi della vita del Santo vediamo Leone messo a parte di tutte le imprese del fondatore, del legislatore, del poeta. Francesco infatti lo ebbe compagno quando si portò a Roma nel 1221 per ottenere l’approvazione della regola: Leone fu con lui sul Sinai francescano di Monte Colombo quando Francesco vi si ridusse per dare all’Ordine la regola definitiva; e secondo che Cristo gli dettava, frate Leone la scriveva. Quando Francesco vedeva il suo compagno sopraffatto dalle tribolazioni dello spirito, con una lettera piena d’affetto lo invitava a venire sul suo cuore per ricevere consolazione; tornando da Perugia a S. M. degli Angeli esponeva a frate Leone con uno stile degno del cantore delle Creature, l’evangelo francescano e come e dove ricercare la perfetta letizia. Ritrovandosi soli all’eremo delle Carceri senza breviario e non potendo recitare l’ufficio divino, Francesco gl’insegnò come potevasi egualmente dar lode a Dio, proponendogli di rispondere secondo che esso gli avrebbe insegnato: e frate Leone, pur volendo soddisfare all’obbedienza, e non potendo rispondergli se non come piaceva a Dio, frate Francesco dolcemente s’adirò con frate Leone chiamandolo pecorella di Dio, obbediente cioè come pecora alla volontà di colui che le risposte gli suggeriva. Se Bernardo ed Elia e tutti i frati per essi, furono da Francesco morente benedetti, frate Leone ebbe un attestato ben più solenne dell’amore del suo maestro in quella Benedizione che resta tuttavia testimonio eloquente dell’affetto di chi la scrisse, e reliquia la più autentica e preziosa anche per noi, perchè scritta e suggellata dalla sua santa mano[1].

Avvicinandosi per il Santo maestro il tempo delta sua passione e salito col diletto discepolo sulla Verna, lo fece partecipe di tutti i misteri che precedettero e seguirono il mistero sublime delle Sante Stimate; e quando poi era duopo medicargli la piaga del costato, frate Leone ne aveva la pietosa cura.

Ma il tempo della prova si avvicinava, crudele per il maestro, più crudele ancora per Leone, che prevedeva quale sarebbe stato il governo e la riforma dell’ordine dopo l’estrema dipartita del Padre Santo, e le amarezze e le persecuzioni che aspettavano quelli i quail avrebbero tentato la resistenza. Infatti era spirato appena il fondatore, che un turbine si scatenò sull’ordine dei Minori e separò gli spiriti e annebbiò le menti e divise quel tronco, che sebbene rimanesse sempre sulle stesse radici, pure fu scisso prima in due, poi in molte parti. Morto Francesco, Leone ed Elia, non avendo più chi spuntasse le loro armi, vennero a contatto: Leone vede subito realizzati i suoi timori, perchè Elia era divenuto non padre, ma padrone e feudatario dell’ordine dei Minori.

Infatti guidato dall’affetto per il grande amico e padre, consigliato forse dall’ambizione di innalzare al fondatore della religione un monumento degno della grandezza di questo e del’Ordine cui egli presiedeva, sicuro di non offendere l’intenzione di Francesco che vivente aveva predetto che il suo corpo sarebbe stato onorato (Spec. Perf. Cap. 109), disprezzando i gretti ed esagerati criteri di povertà che gli zelanti predicavano e propugnavano, con uno spirito puerile o partigiano, Elia volle innalzare un tempio che desse ai devoti un’idea degna della santità di Francesco e della grandezza a cui l’Ordine era pervenuto.

A Leone questo fatto parve un insulto fatto alla memoria del fondatore dei Minori, allo sposo di Madonna Povertà. Chiama i più fedeli alla riscossa, e accecato dallo zelo, protesta spezzando il vaso delle elemosine, e nulla ottenendo, si racchiude in S. M. degli Angeli e medita un modo più degno, più efficace di opposizione; scrive lo Speculum Perfectionis, in cui, come in limpido specchio, i frati mirando il ritratto del perfetto frate minore, tornassero alla ragione e desistessero dall’offendere la memoria del Poverello e la sua prima ed ultima volontà.

Ed ecco frate pecorella, ritornato frate Leone, mettersi alla difesa dell’ideale del suo maestro, e della coscienza dei più rigidi e perseguitati zelanti, suoi compagni fedeli. Come far argine alla rilassatezza invadente, senza l’appoggio dei più? Come opporsi all’opera ambiziosa, superba, nefasta di Elia che, argomentandolo dai preparativi, aveva in animo d’innalzare sulle spoglie mortali dello sposo delta Povertà il più magnifico, il più ricco, e perciò il più indegno mausoleo che vantasse la cristianità? Alla forza prepotente, tirannica di Elia, qual riparo farà il povero, ostinato ed esagerato Leone? Cacciato, inseguito dal randello di Elia, lo vediamo scender rapido la china del colle, entrare nella rocca della Povertà, nella chiesuola di Porziuncola e vestite le armi della preghiera, chiudersi nella sua celluzza, prendere in mano la penna per denunziare ai fratelli il traditore, l’apostata, il tiranno dell’Ordine. E comincia la sua requisitoria ricordando, come era naturale, il caposaldo, la pietra fondamentale di loro Religione, la regola che Cristo stesso aveva dettato di parola in parola, e insieme ricordando come fino d’allora i ministri, con quello stesso Elia alla testa, si erano ribellati, avevan protestato, avevan lacerato l’originale della regola, e non vi volle meno della viva voce di Cristo per ridurli a soggezione. Ma Leone non era soddisfatto di sì breve, sebbene energica protesta: ogni volta che metteva il piè fuori del suo tugurio vedeva sempre più elevarsi e dilatarsi e perfezionarsi quella mole scandalosa che rapida sorgeva sul fianco occidentale del colle di Assisi; e allora ebbe l’idea di fabbricare anche esso sopra quella prima pietra un monumento al padre suo, non opera di pietra e d’oro, ma un edificio di santità, fondato sulle colonne delle perfettissime virtù del maestro; un edificio spirituale in cui, come in purissimo specchio tutti mirassero la sua dottrina, la sua santità, gli esempi di virtù altissima che aveva operato per addivenire Specchio e modello del Frate minore. In tre o quattro mesi lo Specchio di Perfezione fu compilato, perche l’11 Maggio 1228, già un frate tedesco ne aveva fatto un esemplare: rapidità, fecondità, abilità prodigiosa fu spiegata da Leone, che sebbene sacerdote, non aveva fino a quel tempo rivelate tali facoltà letterarie.

Lo Speculum Perfectionis venuto in possesso dei zelanti era da questi letto e copiato, e portato nelle famiglie più lontane dell’Ordine per ridestare il primitivo fervore, per mettere un argine alle intemperanze di Elia. Ma questi non se ne dà per inteso: viene esonerato dalla carica suprema e Giovanni Parenti (30 maggio 1227) diviene suo superiore; ed Elia, come tutti i grandi che sanno cedere a tempo per raccogliere più salde le forze al momento opportuno, non si oppone, non fa chiasso, segue imperturbato ad innalzare il mausoleo dell’amico e insieme la cittadella che ha designata per suo quartier generale e da cui dominerà gli avversari e saprà accattivarsi, se non l’affetto, almeno il rispetto e la gratitudine della corte di Roma, dei suoi seguaci e del popolo d’Assisi.

Elia non si vendicò del colpo inflittogli dai suoi nemici, perchè nè soggezione nè timore aveva del suo successore, uomo debole di spirito, sebbene forte di santità, che chiuse gli occhi sugli atti che Elia da vero signore indipendente concludeva in proprio nome a favore e gloria dell’ordine: e lo stesso Parenti, anzi che mostrarsi pari alla fiducia riposta in lui dai suoi elettori, accattò previlegi molti e importanti per la gloria spirituale e temporale della sua religione. Questa condotta non incontrava certo il favore dei zelanti e spuntava insieme gli sdegni contro Elia preparando a maraviglia il terreno per la sua rivincita.

Anche l’opera di Leone soffrì per questo stato di cose: considerando ormai abbattuto per sempre il pericoloso rivale, non avrà certo desistito dalla sua propaganda, ma questa non l’avrà seguitata con quello spirito che nel 1227 gli suggeriva lo zelo della religione e la paura d’un superiore tiranno. E quando nel 1232 Elia, che aveva già condotta a buon termine la sua fabbrica e chiamati in arme i suoi aderenti attorno alla cittadella che veniva costruendo, ripresenta la sua candidatura e costringe il Parenti a rimettergli il supremo comando, le ire dei zelanti sopraffatti dal terrore poterono essere facilmente domate, e se Elia avesse potuto dominare il suo carattere, la causa de’ suoi nemici era perduta per sempre.

Frate Leone si ridesta, colla voce e con gli scritti conforta i suoi fedeli, li esorta, li agguerrisce contro il comune nemico: anche i ministri provinciali stanchi del dispotismo di Elia, si unirono in una lega di opposizione e di resistenza e finalmente nel capitolo di Pentecoste del 1239 da Gregorio IX egli venne deposto e fu eletto in sua vece Alberto da Pisa. Questa caduta non fu determinata dai zelatori, ma dai provinciali e dai frati letterati che raccolsero nelle loro mani il potere. Quando Frate Leone fu liberato dal pericolo di Elia, vide che un altro e non minore pericolo sovrastava all’Ordine: la scienza prendeva il sopravvento sullo spirito, eppure dovette acconciarvisi, perchè così voleva la nuova generazione, così volevano i tempi e sopra tutti la Chiesa.

Siamo al 1244, quando nel capitolo generale di Genova il Generate Crescenzio impose a tutti i frati di raccontare le meraviglie e i miracoli di S. Francesco, per compilare una più completa e quasi ufficiale leggenda del Santo. Frate Leone, che era stato il depositario delle maraviglie dal Santo operate, era in obbligo di fornire tutti quei particolari che ad altri fossero stati sconosciuti, o poco noti. Non si fida del suo cuore e chiama seco, narra la Leggenda, Rufino ed Angelo: si raccolgono nell’eremo di Greccio e scrivono, o meglio Leone scrive, quanto essi sapevano, quanto avevano raccolto da quei che S. Francesco, o i primi compagni di lui avevano conosciuto. Intesero essi con questo scritto compilare una vera e propria leggenda? Che cosa di nuovo raccontarono? Chi fu lo scrittore? Non era nel loro compito di scrivere una leggenda, ma di raccogliere fatti nuovi non conosciuti; quindi l’opera loro doveva riuscire priva di unità, di metodo storico e frammentaria. Se Leone ne fu l’autore, la versatilità della sua penna è prodigiosa, nè posso spiegarmi, perchè mettendo insieme dei fatti sparsi ai quali doveva altri dare una più nobile veste, avesse usato uno stile più elevato di quello tanto piano, chiaro e simpatico con cui aveva scritto l’opera sua principale lo Speculum Perfectionis.

Nè qui cessa la maraviglia: frate Leone, non mai stanco dell’opera sua, quando nel 1258 frate Ginepro morì, e frate Egidio nel 1261 passò di questa vita, volle raccogliere in due leggende la vita di questi singolari campioni della rigida osservanza, a edificazione della nuova generazione amante delta santità ma avida di scienza, quasi a conferma di quanto S. Bonaventura rispondeva un giorno ad Egidio: Se una vecchierella saprà amar Dio meglio di me, sarà avanti a me nella via della santità. E in questi lavori tornò alla sua prima maniera e alla cara semplicità di stile che aveva adoperato nello Specchio di Perfezione e in molti altri capitoli e racconti che i Cronisti del sec. xiv gli hanno attribuito.

All’infuori di tante più o meno probabili ipotesi messe in campo per attribuirgli la paternità feconda dello Speculum Perfectionis, della Leggenda dei Tre Compagni, delle vite di Ginepro e di Egidio, e di molte altre opere minori, non abbiamo ancora dati storici e argomenti indiscutibili, su cui fondare la sua fama di scrittore.

La lingua, lo stile, la forma delle opere suddette, senza toccare gli argomenti intrinseci, mi persuadono che esse furono fattura di diversi, più o meno abili raffazzonatori, e collettori di tradizioni, di scripta verba, di cedulae e rotuli scritti da Leone per riscaldare gli spiriti dei suoi seguaci, per ricordarne la santa vita e degna di essere imitata: e questi zelanti compilatori, per dar maggior credito alle loro leggende, le fecero conoscere sotto il nome del Padre degli Spirituali, come fu di quella dei Tre Compagni, senza badar troppo se in tutte le sue parti frate Leone l’avrebbe approvata, non che sottoscritta. Di Leone scrittore altra notizia sicura non ci pervenne all’infuori degli scripta verba, delle cedulae, dei rotuli, che apparentemente. perduti, forse leggiamo e possediamo in qualcuna delle leggende attribuitegli, per opera di qualche umile Senofonte che raccolse in un corpo i detti memorabili uditi dalla viva voce del Socrate francescano suo maestro.

Quale fu la patria di frate Leone? Il Papini scrisse: Fu di Viterbo fra Leone (vedi Buzzi nella storia di detta città, sostenuto da fra Giordano nel Policronico Cap. 249). Almeno fu del Contado, come piace ad altri, che gli danno per patria il villaggio di Cologna. Ma perchè giurare sull’autorità di un oscuro scrittore del sec. xvii quando leggiamo nello Speculum Perfectionis: Ascendit in quendam montem (b. Franciscus) cum fratre Leone de Assisio; e nella Cronaca XXIV Gen. abbiamo ancora cum fratre Leone de Assisio? Non aggiungo parole a questi argomenti: s’ingegnino pure il Papini, il Buzzi, il Melchiorri e qualche scrittore più recente ancora, a sostenere lo strampalato fra Giordano, ma prima procurino almeno di dimostrare interpolate o false quelle prove di scrittori i quali forse conobbero Leone stesso, se pure quelle testimonianze egli non le scrisse di sua mano.

Una mattina della metà diNovembre del 1271, in una delle rustiche capanne che circondavano la chiesuola di Porziuncola, un povero frate affranto da lungo corruccio più che dagli anni, disteso sopra una lacera stuoia, stava agonizzando: simile ad un atleta caduto sull’arena, sembrava che non la morte imminente ma il dolore dell’insuccesso facesse strazio del suo spirito.

L’occhio ancor vivido e fiero si fissava, attraverso la finestra, verso il monumento ove riposavano le ossa del padre suo, quando uno stormo di allodole venne a posarsi sopra l’umile celletta. Lo sguardo del moribondo si rasserenò, volse sopra i presenti un’occhiata di soddisfazione, e quasi intonasse l’invito del suo maestro a sorella Morte, composte le membra ormai irrigidite, permise all’anima di allontanarsi dal corpo. Così frate Leone rendeva a Dio lo spirito travagliato; allora incominciò a gustare quella pace che invano da tanti anni andava cercando. E anche il corpo che colla morte tutto oblia andò a cercar riposo presso la tomba del padre e dell’amico, all’ombra di quel mausoleo che di tanto sdegno aveva acceso l’animo del Padre degli zelanti della Povertà.

Assisi, giugno 1925.

FRANCESCO PENNACCHI.

 

Nota

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[1] La pergamena con la Benedizione vergata dalla mano del Santo, si venera tutt’oggi nella sacristia della Basilica Francescana d’Assisi.

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Ultimo aggiornamento: 08 febbraio 2011