POLEMICHE
Edizione di riferimento
Tutte le opere di Giovanni Pascoli, Prose, vol. secondo, a cura di Augusto Vicinelli, Scritti danteschi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1952
Leggo nel Bullettino Atene e Roma, anno I, n. x, nel suo numero inaugurale dunque, un bell’articolo, detto giustamente magistrale nel proemio del Bullettino stesso, del prof. D’Ovidio, sulla «concezione Dantesca della città di Dite». L’articolo è intitolato «Non soltanto lo bello stile tolse da lui». Verissimo: non soltanto lo bello stile; ma quanto altro? Io mi sono occupato, modestamente, in un libro che è per uscir fuori, se già non è uscito (Minerva Oscura, Prolegomeni: la costruzione morale del Poema Dantesco. Livorno, Giusti), e che comparve con poche differenze nel Convito e nella Vita Italiana; mi sono occupato precisamente di quella costruzione morale, alla quale il D’Ovidio crede abbia contribuito molto Virgilio. Molto, anzi, o moltissimo? Non s’intende. Il fine e il concetto de’ miei Prolegomeni non era peraltro di determinare chi avesse a Dante suggerita la detta costruzione, per quanta parte questo o quello, poeta o teologo, antico o recente, vi avesse contribuito; ma di capirla; di comprendere come ella fosse, per trovare poi chi l’avesse suggerita o chi avesse contribuito e per quanta parte. Dura impresa: perché il concetto di Dante non può essere rischiarato se non dalle sue fonti; e le sue fonti non possono essere ben determinate, se non dopo avere ben determinato il suo concetto. Come rompere questo circolo vizioso? Perché il concetto, la vera sentenza di Dante nel costruire il poema, c’è gran pericolo che sia come quella di cui egli parla nel Convivio: «per alcuno vedere non si può s’io non la conto». Io nell’accennato libro ho attaccato il cerchio di ferro da una parte: ho tentato, cioè (e mi pare d’esserci riuscito), di capire la sentenza, e con quali industrie mi ci sia adoperato, ogni lettore può già, o potrà di qui a poco, giudicare: l’egregio prof. D’Ovidio mi pare che abbia fatto il contrario.
Ma... leggo nell’articolo dell’illustre critico: «si pongono i problemi come sciarade, si vogliono sciogliere più o meno astrattamente con qualche bel ritrovato. Si vuol addentrarsi nel mondo del poema, senza aver l’occhio al mondo del poeta: alle sue letture predilette, alle dottrine dei suoi maestri, alle fantasie dei suoi autori, le quali furono come la materia greggia rilavorata dalla fantasia sua». Queste parole io non ho nessuna ragione di crederle dirette a me. Nessuna ragione; né già perché sia taciuto il mio povero nome in tale generica ramanzina (nello stesso fascicolo c’è pure d’altri un cenno di molto spregio per me senza che sia espresso il mio nome!); ma perché la conoscenza, da una parte, dell’acutissimo ingegno del critico e la coscienza, dall’altra, della serietà del mio lavoro, m’impediscono di credere che tale serietà sia appunto disconosciuta da tale ingegno. Ma a ogni modo quelle parole hanno avuto virtù di farmi meditare. Mi sono subito domandato: «Non anche tu hai, per avventura, posto un problema come una sciarada? e l’hai voluto sciogliere più o meno astrattamente con qualche bel ritrovato?» Ed ecco ciò che ho risposto; a me stesso s’intende.
Il problema era questo, per me: Sono nell’Inferno di Dante due schemi penali come parve al Minich e pare a tutti, anche al D’Ovidio? Ho sciolto il problema e ho risposto, che no, non ci sono due schemi penali, ma uno solo, quello dei sette peccati. Il problema non era una sciarada, e la soluzione non fu ottenuta con qualche bel ritrovato, ma con cogliere a volo una designazione di fonte, fatta da Virgilio, cioè da Dante stesso, lo Genesi, e con esaminare diligentemente il valore d’un’espressione «l’anime di color cui vinse l’ira» e col tener conto di certe rispondenze volute, per es. tra Caron e Flegias, tra gl’ignavi e i fangosi, tra i non battezzati e gli eresiarchi, e con l’analisi del concetto teologico di superbia, invidia e ira, e vai dicendo. Tutto, o m’inganno, riesce chiarissimo. Può solo, giunto al fine, alcuno domandare:
1. Come mai i tre peccati spirituali o di malizia, con forza e con frode, frode semplice e composita, ciò sono ira, invidia e superbia, Dante non li nomina così espressamente come gli altri?
2. Perché mai tanta sproporzione nell’economia del poema, dandosi ai peccati carnali e alla duplice o quadruplice accidia (nella vita attiva e contemplativa, senza volontà o con volontà mala non seguita da fatti, come a dire col solo appetito irascibile), dandosi a questi quattro peccati 11 canti, anzi soli pochi di essi primi 11 canti; e agli altri tre, spirituali, 23 canti? Anche a queste domande mi pare d’aver date risposte sufficienti; pure se ne possono aggiungere ancora.
Ne accenno qualcuna. Dante viene a dire che sono superbi i traditori, quando esclama:
O sopra tutte mal creata plebe, [3]
come l’invidia egli designa con l’altra esclamazione:
Ecco la fiera con la coda aguzza
che passa i monti e rompe muri ed armi,
ecco colei che tutto il mondo appuzza,[4]
l’ira con quella più chiara:
O cieca cupidigia, o ira folle![5]
E quanto alla sproporzione, essa era di necessità. I rei, nella cui colpa predominò la conversione a un mutevole bene, poco patiscono distinzione di specie e varietà di successi. Consideriamo, per es., i golosi! Ma quelli, la cui reità è dominata dall’aversione da Dio, e si estrinsecò col male del prossimo, sono ben più drammatizzabili.
Nel Purgatorio c’è equilibrio e brevità: ai peccati singoli sono dati, a quale tre, a quale due canti. Perché? Perché in essi peccati è cancellata l’aversione, sì che anche nella superbia, nell’invidia, nell’ira è punita solo la conversione. Sono dunque tutti simili ai primi tre o quattro dell’Inferno, a quelli cioè che occupano di sé spazio così breve della prima cantica. Che se Dante nel Purgatorio non avesse dato i nove primi canti ai contumaci e pigri e gli ultimi sei all’apparizione di Beatrice, e non avesse allungata con le storie, con le voci, con le visioni la trattazione dei tre primi peccati, e con altro il resto, si sarebbe trovato a mal partito dovendo toccare il canto trigesimo terzo. Ma ciò, a ogni modo, non era parte sostanziale del mio assunto. Il quale era, ripeto, di riconoscere se nell’Inferno erano due schemi penali o uno solo e, riconosciuto questo, conoscere la costruzione morale della Comedia. E questa conoscenza doveva darmi la base sicura per le già iniziate indagini delle fonti Dantesche. E tuttavia nel corso del mio studio ho riferito continuamente questo o quel passo di teologo, di filosofo, di poeta, ma a guisa d’argomento, non di fonte. Compiuti detti Prolegomeni e sciolto quel primo problema, gli argomenti che valsero a scioglierlo, diventano o fonti o indizi di fonti. E già ho intrapreso di classificarli e svolgerli e ampliarli, sì che presto spero di pubblicare la prima parte di tale indagine; quella appunto che tratta di «Virgilio e altri scrittori latini in Dante».
«Oh! oh! oh! E che ce ne importa?» Mi si perdoni. Io non altro voglio se non riferire un esame di coscienza fatto dopo lette quelle severe parole, le quali, sebbene non dirette a me, avevano avuto virtù di farmi meditare. «Si vuol addentrarsi nel mondo del poema, senza aver l’occhio al mondo del poeta». Sentiamo: non forse io volli entrare nel mondo del poema, senza aver l’occhio a quell’altro mondo? Ecco: io credevo e credo che bisognasse e bisogni conoscere prima quello del poema, del poema che è l’opera infinitamente più grande ed espressiva di Dante, per poter passare poi allo studio, veramente scientifico, di quello del poeta. Un esempio. Prima di avere compreso che nella palude pingue era punita, tra l’altro, la negligentia dei
gran regi
che lì staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi,[6]
come si sarebbe potuto affermare sicuramente che il Moralium Dogma era una fonte di Dante? Ma teniamoci all’Eneide, di cui il D’Ovidio studia, da par suo, le derivazioni nella Comedia; e limitiamoci, anche qui, a un esempio o due. Il D’Ovidio dice: «...Cava Dante di dentro il Tartaro il Flegias miserrimus, che a tutte le ombre additava, per verità non si capisce con che frutto, il proprio esempio gridando: Discite iustitiam moniti et non temnere divos, [7] sì da arieggiare alla lontana il geremiaco esordio di maestro Adamo sulla miseria sua. Lo cava di laggiù e ne fa il custode dello Stige». In verità, come non si capisce con che frutto Flegias nell’Encide gridi il suo verso ammonitore, non si capisce nemmeno per che ragione Dante lo trasporti nella Comedia; non si capisce, se non si è inteso prima, come dopo i miei Prolegomeni credo che ognuno intenderà, che in Dite si punisce la malizia o χαχία = iniustitia, e che la palude Stigia è a Dite, ciò che il vestibolo a tutto l’Inferno, e che quindi, con somma accortezza, a Caron di questo più reo tragitto Dante sceglie colui che grida: Discite institiam. Un altro esempio. Solo quando si sia compresa l’equivalenza proporzionale di Stige ad Acheronte, di Flegias a Caron, di Dite a Inferno superiore e di fangosi a ignavi, e si sia stabilito che i fangosi sono punti da quella medesima invidia d’altra sorte che gli ignavi, si potrà aggiungere alle molte e ingegnose derivazioni Virgiliane che ci espone il D’Ovidio, un’altra che io riferisco nel mio libro: la somiglianza di Filippo Argenti con... Palinuro.
Da destram misero et tecum me tolle per undas. [8]
E qui mi fermo, resistendo alla tentazione di provare, ossia d’insistere sulla prova, che la chiusura di Dite, non è «un angelo mandato da Lui (da Dio)» che «basta ad aprirla disdegnosamente con una verghetta, senz’alcuno sforzo», non è un angelo, ma Enea, il protagonista in persona del poema Virgiliano. Le acute osservazioni del D’Ovidio giovano più a Enea che all’angelo. Mi fermo. L’esame di coscienza è terminato. Ho concluso che non ho nulla da rimproverarmi, sul proposito di sciarade e di bei ritrovati. E spero che il profondo e sottile ingegno del D’Ovidio ne converrà, sia pure dissentendo in questa o quella parte, e con lui ne converrà ogni lettore.
Nel giudizio [10] che l’Accademia dei Lincei diede testé della mia Minerva Oscura con benevole parole più proporzionate alla cortesia dei giudici che alla pochezza del giudicato, [11] si legge questa frase: «È ricco anche (il libro del Pascoli) di non pochi semi di verità». Su questa frase m’indugio e medito. Se, dico, codesti semi non sono se non proposizioni vere alle quali, per essere riconosciute vere, non manca se non mostrar le foglioline e affondar le barboline nella mente degli attenti e colti lettori; bene: la frase a me par giusta. Gli studiosi leggano, comprendano, si convincano: lo scrittore mette il seme, né altro può; la terra ce l’ha a mettere il lettore. Quanto al lavorio, si deve fare un po’ per uno. Per uscir di metafora, lo scrittore deve essere chiaro e il lettore attento. Così, ripeto, va bene; e sono pago. E riconosco nella frase un rimprovero di oscurità e anche un invito a togliere alcuna inesattezza od errore a dirittura; e così ora sarchierò e monderò il terreno. Ma se fosse tutt’altra cosa, e si accennasse, con quelle parole, alla piccolezza del chicco rispetto alla grandezza della spiga, o alla minor ventura di chi semina rispetto a quella di chi miete o di chi insacca e di chi ripone; ecco, io non sono più tanto pago, e dico: «il seme della verità è tutta la verità, sia pur piccino come il chicco di senapa»; e dico: «ho seminato io e voglio mietere io, e insaccare e riporre». E se Dante è Dante, il mio chicco di senapa diventa un albero, da venirci gli uccelli del cielo e abitare ne’ suoi rami; e se la Comedia di Dante è, come è, il più divino libro che uomo abbia scritto, la mia messe è di quelle che vincono i granai. Perché in vero io sento d’avere data la verace interpretazione del poema sacro; e questo sentimento mi addolcisce la vita e non mi fa temer più la morte. [12]
Torno dunque alla Minerva Oscura, per esporre più chiaramente ciò che trovai, per aggiungere e correggere dove occorre, per difendere l’opera mia dai critici (quasi sempre benevoli e illuminati) e questo pericolo forse non ci sarà, ma tant’è — da quelli che credono d’essere i padroni del podere che io ho lavorato e seminato, e vengono, sorpassando a ogni modo il loro diritto, a mietere essi.
Dante si ritrova in una selva. Era smarrito. Non sa ridire come v’entrasse; perché quando abbandonò la via diritta, era pien di sonno. Giunge a pie’ d’un colle: lo vede illuminato dal sole. Dopo un po’ di riposo, si mette in via per una piaggia diserta e fa per salire. Quasi subito gli si attraversa una lonza, della quale spera, dopo molte esitazioni, d’aver vittoria; ma gli vengono incontro due bestie, prima un leone, poi una lupa, affamate, che gli fanno perdere la speranza di giungere in vetta al colle. Ridiscende, anzi rovina. E allora gli apparisce Virgilio che gli propone, come a lui conveniente, altro viaggio invece di quel corto andare.
Virgilio è mandato da Beatrice. Nel cielo una Donna Gentile ebbe pietà di Dante, quando esso era impedito dalle tre fiere, specialmente dall’ultima. La Donna Gentile raccomandò Dante a Lucia; Lucia, di cui Dante era fedele o servo, si rivolse a Beatrice, di cui Dante era amico; e Beatrice viene nel Limbo a Virgilio, e Virgilio sale a Dante, e gli propone, come ho detto, altro viaggio.
Qual è questo rispetto al corto andare del bel colle? Indaghiamolo, e apprendiamo quale è il proprio concepimento e la ragione e il fine del poema sacro. [13]
Si legge nel Convivio: «È dunque da sapere, che siccome quelli che mai non fosse stato in una città, non saprebbe tenere le vie ganza insegnamento di colui che l’ha usate; così l’adolescente ch’entra nella selva erronea di questa vita non saprebbe tenere il buon cammino, se dalli suoi maggiori non gli fosse mostrato». [14] Le parole selva erronea si sogliono riportare quasi sempre da sole nei comenti di Dante; e così selva erronea si fa uguale a selva selvaggia. E c’è in questo un poco di fretta, perché in verità nel Convivio è paragonata a una selva la vita; mentre la Comedia dice che nella selva Dante si ritrova per avere smarrita la via:
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita...
I’ non so ben ridir com’io v’entrai. [15]
Ma per quanto l’equazione, selva erronea uguale a selva oscura, non sia perfetta, tuttavia tra i due luoghi è grande rispondenza. È vero che, secondo la Comedia, Dante non si sarebbe ritrovato nella selva se non avesse, pien di sonno, abbandonata la verace via, [16] mentre, secondo il Convivio, l’adolescente ci si ritrova a ogni modo per il fatto stesso d’essere nato e di crescere; ma è ancora certo che nei due luoghi si parla di smarrimento per il quale Dante entra in una selva e l’adolescente, nella selva stessa, travia, poniamo, in modo da non poterne uscir più, o così presto, a salvazione. E l’analogia è pur grande dove si tocca dell’età dello smarrito o traviato. Nel Convivio è, in vero, l’adolescente che può smarrire il buon cammino; nella Comedia Dante si ritrova smarrito nella selva, quando?
Nel mezzo del cammin di nostra vita;[17]
cioè a metà della seconda delle quattro etadi in cui la umana vita si parte, a metà della gioventude, al colmo del nostro arco che è nelli trentacinque. [18] A trentacinque anni ci si ritrova; ma quando c’entrò? Lo dice, con parole proprie, Beatrice.
Questi fu tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch’ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova...
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
mostrando gli occhi giovinetti a lui,
meco il menava in dritta parte volto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade, e mutai vita,
questi si volse a me, e diessi altrui...
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false
che nulla promession rendono intera. [19]
Volse dunque i passi suoi per via non vera, ossia abbandonò la verace via, come presso a poco tutti convengono, al tempo della morte di Beatrice, cioè nell’anno 1290, quando Beatrice era sulla soglia della seconda delle quattro etadi, e Dante vi era appena entrato, in quella proporzione di quando ella apparve a lui: «quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi alla fine del mio nono anno ». [20] Or come puerizia Dante chiama (« ond’io nella mia puerizia molte fiate l’andai cercando» etc.) la sua età d’allora, dopo che Beatrice gli apparve, mentre un luogo controverso del Convivio [21] sembra limitare la puerizia a otto anni; mentre a ogni modo le prime parole della Vita Nuova (« in quella parte del libro della mia memoria, dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere ») sembrano collocare la puerizia avanti i nove anni; così noi pos-siamo affermare che adolescenza fosse nel pensier di Dante l’età nella quale egli abbandonò la via verace, secondo le parole di Beatrice:
Sì tosto come in su la foglia fui
di mia seconda etade ...
... volse i passi suoi per via non vera. [22]
Come era puerizia, insomma, l’età di Dante alla fine del suo nono anno, così era adolescenza alla fine del suo anno vigesimo quinto.
Ma poi tutto parla di adolescenza nei luoghi che si riferiscono allo smarrimento. Dante afferma d’essere stato pien di sonno nel punto che si smarrì. Non è questa sonnolenza un ricordo del concetto Platonico per il quale l’anima è attonita e trasognata sulle prime dal flusso e riflusso della materia? Dante questo concetto lo conosceva, poiché egli parla dei tempi in cui «l’anima nostra intende al crescere e allo abbellire del corpo, onde molte e grandi trasmutazioni sono nella persona »; nell’adolescenza, cioè. [23] E poi Beatrice afferma di lui:
...volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false
che nulla promession rendono intera. [24]
E Dante conferma di sé:
le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi. [25]
Or quali sono queste false imagini di bene, queste presenti cose che hanno un falso piacere? Queste sirene e queste pargolette e queste vanità di cui riparla Beatrice? [26] Sono, mi pare, molto simili alle blande dilettazioni di cui è parole nel de Monarchia: « le volontà dei mortali, per cagione de’ lusinghevoli diletti dell’adolescenza (propter blandas adolescentiae delectationes) hanno bisogno di chi a bene gli dirizzi (indigeant directivo)». [27] Il qual pensiero è pur molto simile a quello citato dal Convivio: «L’adolescente ch’entra nella selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere il buon cammino, se dalli suoi maggiori non gli fosse mostrato». [28] Là è l’imperatore che dirige, qui i maggiori; ma per il resto le due sentenze si compiono: l’adolescenza travia per le blande dilettazioni che sono proprie di lei. Il che è largamente e chiaramente dimostrato in quest’altro passo del Convivio: «Siccome peregrino che va per una via per la quale mai non fu, che ogni casa che da lungi vede, crede sia l’albergo... così l’anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza gli occhi al termine del suo sommo bene (Dante nella sua vita nuova era, dagli occhi giovinetti di Beatrice, menato in diritta parte volto,[29] e poi qualunque cosa vede, che paia avere in sé alcun bene, crede che sia esso (il che in Dante, finché fu sostenuto da quel volto, non succedeva). E perché la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere sperta, né dottrinata (Dante non poteva avere questa scusa, essendoci per lui quelli occhi giovinetti), piccioli beni le paiono grandi (imagini di ben... che nulla promession rendono intera), e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvoli desiderare massimamente un pomo; e poi più oltre procedendo, desiderare uno uccellino; e poi più oltre desiderare bello vestimento, e poi il cavallo, e poi una donna, e poi ricchezza non grande, e poi più grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose trova quello che va cercando, e credelo trovare più oltre... Veramente questo cammino (verso l’ultimo desiderabile, ch’è Dio) si perde per errore, come le strade della terra: ché siccome da una città a un’altra di necessità è un’ottima e dirittissima via, e un’altra che sempre se ne dilunga, cioè quella che va nell’altra parte, e molte altre, qual meno allungandosi, e qual meno appressandosi: così nella vita umana sono diversi cammini, delli quali uno è voracissimo, e un altro fallacissimo, e certi men fallaci, e certi men veraci...»[30]
Di questo luogo teniamo sopra tutto presenti ora le parole: « perché la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere sperta, né dottrinata, piccioli beni che paiono grandi ». E non si dimentichi che qui è tra i desiderabili una donna. O questi piccioli beni che paiono grandi, non sono essi le vanità con sì breve uso, e quella donna non può essere una pargoletta? E tutti questi desiderabili non sono essi sirene? Dice Beatrice:
Ben ti dovevi, per lo primo strale
delle cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovean gravar le penne in giuso,
ad aspettar piú colpi, o pargoletta
o altra vanità con sì breve uso. [31]
Dove si vede che Beatrice tra le cose fallaci, tra le vanità, tra le false imagini di bene, e tra le presenti così piene di falso piacere, poneva pur sé; sì, pur sé viva; e pargoletta [32] è da lei detto in memoria forse di quando ella primamente apparve a Dante nella sua giovanissima etade. [33] Ella vuol dire, o altra pargoletta, come dice, o altra vanità, una pargoletta come me, una vanità qual era io. Ma checché sia di questo, ricordiamoci che se gl’inganni cui l’anima umana è soggetta, nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita, sono inganni e non altro che inganni, sono cose fallaci, sono imagini di bene, sebben false, e sono, questi inganni, causati dall’imperfezione naturale della conoscenza umana che non è ancora sperta o dottrinata: non sono peccati o vizi, non sono, sopra tutto, tutti i viziacci o peccatacci che si possano commettere dall’uomo. Molto ci corre. E la selva oscura non è il simbolo della perdizione e del disordine e del male e dell’inferno. Troppo, troppo ci corre.
Ma no: si obbietta: non ci corre nulla. Ell’è in vero una selva oscura, selvaggia, aspra e forte, tanto amara che poco è più morte, tremenda al pensiero e quasi ineffabile. Non può essere se non quel che noi possiamo imaginare di peggio.
E io rispondo ch’ella è oscura, selvaggia e aspra e forte, amara mortalmente, ineffabile e impensabile, e pur non è se non l’inganno, o vogliam dire errore, ma con senso traslato sì, pur vicino al proprio, dell’adolescenza. E in vero oscura, e una notte, e passata con pièta, è quella che si passa tra’ suoi pruni; perché? Perché la parte razionale dell’anima non discerne ancora. E questo appunto accade nell’adolescenza. In vero dice Dante: «perocché infino a quel tempo (al venticinquesimo anno sino a cui dura l’adolescenza) l’anima nostra intende al crescere e allo abbellire del corpo, onde molte e grandi trasmutazioni sono nella persona, non puote perfettamente la rational parte discernere». [34] Ecco dunque la oscurità e la notte della selva, nella quale come nella valle d’abisso, che è oscura, profonda e nebulosa, non si discerne. [35] E la selva è selvaggia e aspra e forte, un inextricabilis error; e con tutto ciò rappresenta nello stil di Dante non più che un deviamento come quello di chi «tortisce per li pruni e per le ruine, ed alla parte dove dee, non va». [36] E la selva è amara quasi quanto la morte, così come morto, parendo vivo, è, per Dante, [37] chi non segue le vestige lasciate dai suoi antenati. Nell’età, in cui la ragione non perfettamente discerne, è necessaria l’obbedienza, senza la quale l’adolescente non saprebbe tenere il buon cammino che gli è mostrato dalli suoi maggiori, ai cui comandamenti deve ubbidire; [38] Se non ha questa obbedienza, tortisce per li pruni e per le ruine, e si può chiamare vilissimo e, a maggiore detrimento, morto. In fatti nell’uomo vivere è ragione usare, e chi non l’usa, non vive, è morto: «e non si parte dall’uso della ragione chi non ragiona il fine della sua vita? e non si parte dall’uso della ragione, chi non ragiona il cammino che far dee?» [39] Ora essere, in certo modo, morto, ed essere nella selva amara quasi quanto la morte, tenendo conto del linguaggio figurato, è la stessa cosa. La stessa cosa dunque Dante dice di chi non ubbidisce, nella sua adolescenza, quando la ragione non perfettamente discerne, ai comandamenti de’ suoi maggiori, e di chi, pur nell’adolescenza, si lascia andare dietro le false imagini di bene. Noi, per la medesima cosa, adopreremmo forse imagini meno tenebrose e parole meno forti; ma noi siamo noi e viviamo e pensiamo ora; Dante è Dante e viveva nel trecento, e il suo pensiero e il suo stile si colorivano di religione e di scolastica.
Oh! sì: era disubbidienza anche quella di Dante. Vilissimo e morto egli chiama chi, non avendo che a seguire le vestige lasciate dall’altro, erra il cammino, sebbene scòrto. [40] Valente (cioè nobile) è invece chi «per sua industria, cioè per accorgimento e per bontà d’ingegno, solo da sé guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende». [41] E il Dante della Comedia? Egli era, a detta di Beatrice
tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch’ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova. [42]
Poteva dunque essere un valente, con sola la sua industria, cioè per accorgimento e per bontà d’ingegno. Di più, egli aveva Beatrice. Ella seguita:
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
mostrando gli occhi giovinetti a lui
meco il menava in dritta parte volto. [43]
Era dunque anche scòrto, e da chi e come! Eppure abbandonò la verace via! Oh! veramente morto, se altri mai, poteva dirsi lui! Né vale dire, che la dolce guida non c’era più quando Beatrice mutò vita. No:
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita. [44]
No:
Ben ti dovevi, per lo primo strale
delle cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovean gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpi, o pargoletta
o altra vanità con sì breve uso. [45]
Era dunque anche sperto: aveva veduto con la morte di Beatrice, come poteva quetarsi il cuore nelle cose terrene!
Dunque, sebbene egli fosse nell’età in cui, per mancanza di discernimento, è naturale che si seguano le imagini false di bene o le vanità, Dante era senza scusa: aveva bontà d’ingegno, ed era scòrto e addottrinato prima della morte di Beatrice, e sperto con la sua morte, e dopo la sua morte da lei richiamato in sogno e altrimenti; [46] e, dopo, più avrebbe dovuto ubbidire che prima. Quindi tutto quel vergognare e piangere e ripentire di Dante avanti Beatrice, [47] che è analogo alle espressioni del principio dell’inferno:
Eh! quanto a dir qual era è cosa dura
questa selva selvaggia e aspra e forte,
che nel pensier rinnova la paura.
Tanto è amara che poco è più morte. [48]
E c’è altro. Nell’età proprio, in cui la ragione non perfettamente discerne, Dante non c’era mica più !
Alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando!
Così gli dice Beatrice; [49] ed egli ben conosce il velen dell’argomento di quel dire barba invece di viso. Non era più in età da potere scusare con essa i suoi traviamenti. Ed è dunque manifesto che quei traviamenti erano di quelli che si scusano con l’età.
Dunque oscurità e notte, e pruni e orridezza, e amarezza e morte, e paura e pietà, e rossore e pianti e singhiozzi di pentimento, quanti volete: ma tutte queste cose non ci sono che per gl’inganni dell’anima che nell’adolescenza erra per manco di discernimento. Errore, diremmo noi, perdonabile. Ma invece di discernimento diciamo discrezione, nel senso che s’è un po’ stinto in questa parola. La discrezione, dice Dante, [50] è lo più bello ramo che dalla radice razionale consurga. Perché essa è proprio alto di ragione, e questo è, secondo Tommaso, citato a questo punto, «conoscere l’ordine d’una cosa ad altra». Ora vediamo meglio quale è questo più bel ramo, questo atto per eccellenza della ragione. Diremo che è una virtù per eccellenza tra quelle che consurgono della radice razionale, cioè tra le virtù che si dicono morali e che si riducono a quattro virtù cardinali. [51] Essa è la PRUDENZA che tra le virtù morali è precipua e dirige le altre, e senza essa le altre non possono essere, [52] la Prudenza di cui Dante dice come «essa sia conducitrice delle morali virtù, e mostri la via perché elle si compongono, e sanza quella essere non possono». [53] Essa è la Prudenza, la quale se s’intende come può essere intesa, qual condizione di qualsivoglia virtù, si chiama appunto DISCREZIONE, a quel modo che, così intese, la Giustizia prende il nome di Rettitudine e la Fortezza di Fermezza e la Temperanza di Misura (modus). [54]
E qui abbiamo limpido il pensiero di Dante, e ci sentiamo liberi da quella diffidenza, che ispira sempre un risultato affatto nuovo tratto da premesse in gran parte vecchie. Come mai, domanderei io e domanderebbe il lettore e il lettore l’ha in vero spesso domandato sfogliando la mia Minerva Oscura! — come mai dalle pagine che tanti nobili spiriti da qualche secolo hanno lette, rilette, studiate, comentate, illustrate, tu cavi un senso tanto diverso e quasi contrario a quello che essi ne cavarono; essi tanto grandi, tu così piccolo omicciuolo? E qual concetto è così diverso da quello che tutti si sono fatti della selva selvaggia, che è sembrata sin qui il disordine politico e morale, la morte dell’anima, il peccato, l’inferno; come codesto che ci narri tu, ch’ella sia l’imprudenza della prima età? Il lettore avrebbe ragione di così domandare se io non dichiarassi nella sua forma scientifica il pensiero di Dante così: La selva è la vita adolescente (troppo a lungo durata per Dante) cui non governa la virtù morale, detta PRUDENZA. Ora poiché dove non è la Prudenza, non sono le altre virtù, così diventa molto scusabile l’errore di tanti, che videro nella selva oscura tutti i vizi. Dante ha detto: «non c’è alcuna virtù»; i suoi comentatori dicono: «ci sono tutti i vizi o c’è tutto il male, il peccato, la morte». I concetti rassomigliano, ma pur sono lontanissimi l’un dall’altro, di tutto il cielo; di quanto il fare dista dal non fare: distanza che Dante conosceva bene. [55] Dante, finché fu nella selva, dopo che ebbe abbandonata la verace via, era non virtuoso, non valente; e con ciò non si vuol dire che fosse malvagio e vizioso; era bensì non nobile, cioè (perdonimi lo spirito magno se qui uso le parole sue) vile, e magari vilissimo e quasi morto; ma solo per il difetto di quella virtù che si chiama Prudenza, che ci fa discernere i mezzi con cui conseguire il bene dalla ragione; da cui, come egli dice, «vengono i buoni consigli, i quali conducono sé ed altri a buon fine nelle umane cose e operazioni»; [56] ma solo per il seguire che la sua anima faceva, di imagini di bene, le quali, la sua ragione non discerneva che erano false. Ora la sua ragione, che aveva avuto per iscorta gli occhi giovinetti di Beatrice, e aveva sperimentata con la morte di lei la fallacia di essi beni, ed era stata addottrinata e ammonita da lei e in sogno e altrimenti, ed era non più ormai d’adolescente, ma di giovane, a mezzo la gioventù, ed era virtualmente capace d’ogni bontà; la sua ragione, si poteva aspettare che già discernesse. Ora il fatto è che non discerneva.
Rileggiamo i rimproveri che fa Beatrice a Dante. Ricordiamo in primo luogo che il traviamento di Dante non era stato sì grave da impedire che Beatrice dicesse di lui a Virgilio: «L’amico mio e non della ventura», e che di lui dicesse Lucia a Beatrice: «Quei che t’amò tanto!» [57] O andate a pensare che questo amico si fosse ingolfato in tutti i vizi! No: l’amico aveva fatto ciò che nel Convivio è detto dell’anima nostra, «incontenente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra»: [58] s’era sbagliato d’albergo. Egli credeva di trovar Beatrice nelle pargolette e altre vanità che seguiva. In vero nella Vita Nuova della «gentile donna giovane e bella molto», di cui s’innamorò dopo la morte di Beatrice, afferma [59] che «molte fiate gli ricordava de la sua nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia» e che «maggiore desiderio era ’l suo ancora di ricordarsi de la gentilissima donna sua (cioè di Beatrice), che di vedere costei (cioè l’altra, la gentile donna giovane e bella molto)». [60] L’appetito o cuore [61] era che lo traeva a costei, prima leggèro, poi grave: il cuore o appetito che si sbagliava, non avendo a dirigerlo la prudenza acquisita che nei giovani è debole. [62] E se ne pentì subito quella volta, e tornò, incerchiato gli occhi di corona di martirii, alla morta gentilissima. Se ne pentì subito, dopo alquanti die: [63] eppure egli chiama vilissimo il pensiero di tal donna, [64] e dice che da tal desiderio «s’avea lasciato possedere vilmente», [65] e questo desiderio chiama malvagio; non senza aggiungere che spesso chiama vanità questa dei suoi occhi o del suo cuore. Così abbiamo un esempio del traviamento di Dante, che, sebbene biasimato e maledetto con parole gravi, grave non si può chiamare se non da lui stesso. E da Beatrice, aggiungo; perché le sue parole nel Purgatorio sono dal Poeta colorite d’amore; sono rimproveri sì, ma di chi ama a chi ami; e si possono riassumere così: « Io vedevo che tu cercavi me e dietro me cercavi Dio,
per entro i miei disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s’aspiri; [66]
ma come ingannarti così? che c’era mai nella fronte degli altri? Povero uccellin di nido, che eri rimasto ferito già una volta per la mia morte, e invece ti lasciasti ferire tante altre volte! Povero fanciullo (egli stava
quale i fanciulli vergognando muti,
co gli occhi a terra ...), [67]
povero fanciullo con la barba!» E di che dunque rimprovera questo nidiace, questo fanciullo, se non di manco di prudenza? Ché la prudenza, secondo la classica definizione di S. Agostino, è «il saper ciò che si deve cacciare (cioè appetire: uso la parola di Dante, Conv. IV 26) e ciò che si deve fuggire» [68] o, secondo un’altra del medesimo, «è amore che sagacemente trasceglie ciò che l’aiuta da ciò che l’impedisce».
È ciò, insomma, che regge e governa l’appetito o il cuore, il quale senz’essa prudenza, ripeto, s’inganna, come Dante stesso ci racconta nella Vita Nuova; e il fatto di quell’inganno, da lui raccontato, è tipico. Ora in essa il cuore è detto e presentato come avversario della ragione, e a noi che cerchiamo la parola e la postilla propria di Dante, questa parola ragione non potrebbe bastare, come troppo generica; ma egli non ci lascia in dubbio, soggiungendo: «Allora cominciai a pensare di lei; e ricordandomi di lei (di Beatrice apparsagli con quelle vestimenta sanguigne, con le quali apparve prima a li occhi suoi) secondo l’ordine del tempo passato, lo mio cuore si cominciò dolorosamente a pentère de lo desiderio, a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la COSTANZIA DELLA RAGIONE». [69] Sotto queste parole costanzia della ragione si legge chiara l’altra, PRUDENZA, essendo che «a prudenza pertiene preferire maggior bene (la gentilissima donna) a minor bene (la donna gentile): dunque desistere dal meglio pertiene a imprudenza; ma ciò è INCOSTANZA; dunque incostanza pertiene a imprudenza ». [70]
Il sin qui detto mi par che basti, poiché è mio proposito trovare e non ragionare il pensiero di Dante; se non che non è inutile per il mio proposito stesso dare una prova del linguaggio con cui Dante espone il suo pensiero. Egli comincia la Comedia col raccontare uno smarrimento:
ché la diritta via era smarrita. [71]
La prudenza egli sapeva dai Padri e dai Dottori che è virtù direttiva, è virtù dirigente, e il suo medio è, come di regolante e misurante, la rettitudine della ragione. [72] Il prudente, secondo la dichiarazione di S. Agostino, accolta nella Somma, è «porro videns» che s’interpreta va «chi vede lontano» e s’interpreterebbe «chi vede innanzi sé»; [73] or Dante si ritrova
in una selva oscura. [74]
Inoltre è notte il tempo che vi passa. Dante non sa ben ridire come v’entrasse, e dice che è cosa dura (cioè, mi parrebbe, difficile: cfr. Inf. III, 12) dir qual era. In tutti e due i passi è lecito scoprire una nozione d’oblio. Or bene la memoria è parte di prudenza, e l’oblio porta ad essa alcun impedimento. [75] Dante dice che eran pien di sonno in su quel punto che abbandonò la via diritta. Or bene è dottrina di S. Agostino che della prudenza è la notturna guardia e la diligentissima vigilanza. [76] E a ciò allude il solenne principio di Beatrice:
Voi vigilate nell’eterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie.[77]
Par che dica: « Voi, sustanzie pie, non siete come colui che di là piagne, che pien di sonno entrò nella notte della selva». E tutto il rimprovero di Beatrice a Dante, che egli non continuasse dopo la morte di lei per la via dritta che ella gli mostrava da viva, e non desse retta alle spirazioni, con le quali lo rivocava in sogno ed altrimenti, è un rimprovero di disubbidienza e di indocilità. Ora la docilità è parte di prudenza. [78] E Beatrice aggiunge:
sì poco a lui ne calse; [79]
e questo, è rimprovero di negligenza, e la negligenza è specie d’imprudenza, come l’incostanza [80] per la quale Dante si tolse a Beatrice e diessi altrui. [81]
Dante a Beatrice dirà:
Tu m’hai di servo tratto a libertade, [82]
con l’aiuto di Virgilio, ch’ella andò a cercar nell’inferno e che, nel sommo del monte, pur a lui dirà:
libero, dritto, sano è tuo arbitrio
e fallo fora non fare a suo senno. [83]
Ora la servitù da cui Dante fu tratto per opera di Beatrice e di Virgilio, quale è? da che cosa e da che fatto è simboleggiata? È simboleggiata dal suo errar nella selva. Ma questo errare non è esso il difetto delle virtù di prudenza? Sì; e per conseguenza è difetto di libertà d’arbitrio. A ciò si legga la teorica dell’amor d’animo. [84]Si confronti al luogo del Convivio più su riportato, [85] questo:
Esce di mano a lui, che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta, che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volentier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e retro ad esso corre... [86]
Ecco l’inganno dell’anima o dell’animo di Dante che, seguendo le immagini false di bene e le vanità, pargoleggiava, proprio come i parvoli del Convivio i quali cominciano dal desiderare il più picciol bene di cui sentano sapore: un pomo. Si tratta dell’anima semplicetta CHE SA NULLA, non d’un uomo immerso nei vizi o nell’ignoranza; nell’ignoranza, dico, quale noi intendiamo. E leggiamo ora più su:
lume v’è dato a bene ed a malizia,
e libero voler... [87]
Chi non ha quel lume, non ha nemmeno il libero volere: è servo. E quale è quel lume? Leggiamo ancora:
Innata v’è la virtù che consiglia,
che dell’assenso de’ tener la soglia.
Questo è il principio, là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo
s’accorser d’esta innata libertate... [88]
Dunque dalla virtù che consiglia scende la libertà: innata quella, innata questa. E la virtù che consiglia è quel lume. Ma la virtù che consiglia che nome ha? Ricordiamoci, per postillar Dante con le sue parole, ciò che riportai più sopra dal Convivio: [89] «Se ben si mira; dalla PRUDENZIA vengono i buoni consigli ». Quella virtù è dunque la PRUDENZA; la prudenza che s’infonde col battesimo; la quale chi non ha o non adopera, è, dunque, servo [90].
La selva oscura è, come simbolo di mancanza di lume o di virtù che consiglia o di prudenza, così simbolo, conseguentemente, di servitù. [91]
Dante adolescente, in dritta parte volto, come se per questa via avesse trovato fossi e catene, [92] torna indietro, si mette per traghetti, si smarrisce. Non ha più la virtù dirigente, non va quindi diritto. Non ha il lume che c’è dato a bene ed a malizia, quindi è nell’oscurità: in una selva oscura. Non vede ciò che è, e vede ciò che non è: non vede più gli occhi giovinetti di Beatrice, ma agevolezze e avanzi nella fronte degli altri. [93] S’inganna. Segue imagini false di bene. Non avendo questo lume, cioè la virtù che consiglia, cioè la prudenza, non ha nemmeno la libertà dell’arbitrio. È come un non battezzato. Invero quando egli, passato Acheronte, si trova nel Limbo, tra le anime dei non battezzati, prova, diremmo noi, come un’ allucinazione. Che è? che non è? Dove si trova? ma è ancora nella selva oscura? nella selva oscura, che è il simbolo del manco di lume e di libertà? di prudenza e quasi di battesimo? (ché la selva è quasi amara come la morte, non proprio uguale). Virgilio gli ha confermato il fatto della discesa del possente e della liberazione di Adamo e d’altri molti. E Dante dice:
Non lasciavam l’andar, perch’ei dicessi;
non passavam la selva tuttavia...
Come la selva? Sì:
la selva, dico, di spiriti spessi. [94]
Ed è oscura questa selva. Dante vede infatti un foco,
ch’emisperio di tenebre vincia. [95]
Il foco risplendeva nel mezzo delle tenebre, senza di-sperderle e allontanarle.
Quel luogo è
non tristo da martìri
ma di tenebre solo. [96]
Anche la selva oscura, nella quale Dante si ritrovò smarrito, in comparazione di ciò che egli ha a soffrire avanti le fiere, si può dire che sia trista solo di tenebre. Ma Dante continua:
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno. [97]
Di qua dal sonno? Già: sonno e non sommo lessero gl’interpreti antichi e dànno moltissimi codici. [98] E lessero e dànno, bene; e questa paroletta sonno invece di sommo deve essere una delle più certe per sceverare i migliori codici danteschi dai peggiori. Sì: dal sonno! Come Dante ha intraveduto la selva oscura nel limbo dei non battezzati, che non ebbero il lume e perciò la libertà, così qui ricorda il sonno, col quale cominciò
la notte che passò con tanta pietà. [99])
E questo sonno è pur simile e analogo a quello alto sonno [100] da cui si riscosse nel limbo, e che lo pigliò nel passaggio dell’Acheronte. [101] Come vedremo. [102]
Nel mezzo del cammino della vita Dante nella selva si ritrovò. È indicato con questa parola, mi pare, il suo ritorno a conoscenza. A trentacinque anni, si ritrovò. Ciò pare detto in tono di vergogna, di confessione amara, come se noi dovessimo aggiungere un finalmente! che esso tace. Né tace del tutto; ché le parole
ma per trattar del ben che v’incontrai
dirò delle altre cose che vi ho scorte [103]
si riferiscono all’amarezza della selva oltre che ad altre cose, più che ad altre cose; e indicano un ritegno pudico a parlare. La vergogna che prende Dante al rimprovero di Beatrice e specialmente al velen dell’argomento che è nelle parole, Alza la barba, [104] è già al principio del poema sacro chiaramente, mi pare, espressa. E bisogna avvezzarsi a questo linguaggio che splende di luce riflessa, ricevendo i raggi del simbolo che è sotto l’orizzonte. A ogni modo lo smarrimento precede questo ritrovarsi: mi ritrovai, accenna a un tempo; era smarrita indica un tempo anteriore. Dante non dice: A trentacinque anni mi smarrii e mi ritrovai in una selva; ma: Mi ero smarrito, come e quando non so: a trentacinque anni mi ritrovai in una selva. Egli era pien di sonno quando abbandonò la via verace: continuando la metafora, egli chiama notte [105] il tempo che passò nella selva. Quando nella selva si ritrova, egli è appiè d’un colle, da cui lo disgiunge un po’ di piaggia diserta, e sul colle, in alto, vede il chiarore dell’alba. Dante discerne. Se la paura[106] è lo stato dell’anima che è priva della prudenza e per ciò delle altre tre virtù cardinali, ossia d’ogni virtù, dell’anima di chi può chiamarsi vilissimo [107] e sente l’amarezza della morte, questa paura è naturale che cessi all’apparire dell’alba che termina quella notte; ma non del tutto: ché se il cessar della notte significa il riapparire della prudenza, il riapparir della prudenza non significa proprio il ritorno delle altre virtù, sebbene ne dia indizio e speranza. Perciò la paura fu soltanto un poco queta; la paura
che nel lago del cor gli era durata
la notte che passò con tanta pieta. [108]
Dante si volge indietro
a rimirar lo passo
che non lasciò giammai persona viva; [109]
lo riguarda come il naufrago l’acqua in cui rischiò di affogare. E riposato che ha un poco il corpo (l’animo fuggiva ancora) [110] riprende via
per la piaggia diserta
sì che il piè fermo sempre era il più basso.
Ed ecco quasi al cominciar dell’erta
una lonza... [111]
Essa è leggera e veloce, coperta di pelle macchiata e gaietta. Faceva come il cane, che scacciato o spaventato corre innanzi e poi si rivolta con insistente abbaiare al passeggero:
...non mi si partia dinanzi al volto;
anzi impediva tanto il mio cammino,
ch’io fui per ritornar più volte volto. [112]
Era una noia, piuttosto che spavento, quella di Dante, pure anche spavento. [113] Ma era il principio del mattino e stagione di primavera, sicché Dante sperava bene, quando gli si presentò un leone
con la test’alta e con rabbiosa fame, [114]
da spaventar l’aria; e poi una lupa magra. e avida, che
... molte genti fe’ già viver grame,[115]
e spaventevole anch’essa quanto e più del leone. La vista del leone dà paura: la paura che esce dalla vista della lupa fa subito perdere
la speranza dell’altezza. [116]
Dante avanti questa
bestia senza pace [117]
piangendo e attristandosi, come chi impensatamente, dopo aver sperata la vittoria, vede di perdere, arretra verso l’oscurità, rovina in basso loco.
In questo momento si mostra a lui Virgilio.
Questo dramma allegorico è spiegato in altre e proprie parole nel racconto che fa Virgilio a Dante del motivo e delle circostanze della sua venuta, nei rimproveri che Beatrice fa a Dante, e in qualche altro passo.
Beatrice, dopo aver detto che, tosto dopo la sua morte, il suo amico
...volse i passi suoi per via non vera
imagini di ben seguendo false, [118]
il che si riferisce allo smarrimento nella selva; dopo aver detto:
Né impetrare spirazion mi valse,
con le quali ed in sogno ed altrimenti
lo rivocai; sì poco a lui ne calse, [119]
il che credo si riferisca tuttavia a quello smarrimento, a quella notte che cominciò con quel sonno; aggiunge:
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
alla salute sua eran già corti,
fuor che mostrargli le perdute genti.
Per questo visitai l’uscio dei morti. [120]
Tanto giù cadde corrisponde a
mentre ch’io rovinava in basso loco. [121]
Beatrice qui non narra più quello che narrò a Virgilio, quando visitò l’uscio dei morti. Allora narrò, e Virgilio lo ridisse a Dante, il tutto partitamente. Dante era impedito nella diserta piaggia: era dunque già, dopo l’alba e dopo il riposo, in via per la piaggia diserta, [122] tanto impedito
che volto è per paura. [123]
Era dunque non più solo avanti la lonza, ma avanti il leone e specialmente avanti la lupa; ché la paura è di tutte e due, per non dire di tutte e tre e della selva, è di tutte e due le bestie, ma solo quella ispirata dalla lupa lo ripingeva là dove il sol tace. Questo impedimento [124] fu quello di cui si compianse una Donna Gentile nel cielo, la quale mandò Lucia a Beatrice. Da Lucia sa Beatrice che Dante pietosamente piange, e che lo combatte la morte
su la fiumana ove il mar non ha vanto. [125]
Questo essere combattuto dalla morte, su quella fiumana, corrisponde al tanto giù cadde,
che tutti argomenti
alla salute sua eran già corti; [126]
questo piangere corrisponde al suo essere ripinto, al suo rovinare, piangendo e attristandosi, [127] non vi ha dubbio. E la fiumana che è? In questo miraggio per cui un’azione terrestre si stampa, per così dire, nel cielo, trasfigurandosi, sì che alcuni tratti si conservano (piangere, rovinare etc.) e altri scompaiono (le tre fiere), in questo miraggio il pensiero di Dante, che assomigliò la selva a un pelago dall’onda perigliosa e sé a un naufrago ansante, ha come un’ombra, ha come un’eco nel cielo, sì che la selva diviene fiumana. E il pensiero è corretto lassù. Lucia dice: Altro che mare: peggio del mare, o Dante fedele mio! [128] E Dante dunque, se fiumana è uguale a selva, è ripinto verso la notte pietosa: [129] ove il sol tace; [130] rovina verso la valle: [131] in basso loco. È tornato dunque a quello stato dell’animo, in cui più non si discerne, in cui non luce più la prudenza, e con essa mancano le altre virtù; riprova l’amarezza della morte, e questa volta la morte lo combatte così, che davvero la salute sua non può essere opera più che d’un intervento soprannaturale. Non bastano più le spirazioni in sogno o altrimenti. [132] Questo peggioramento dello stato di Dante si deve senza dubbio all’incontro, ch’egli ha fatto nel suo cammino per la piaggia diserta, delle tre fiere. Quali sono esse?
Nel canto XI dell’inferno Virgilio espone a Dante i peccati che restano a vedere. La sua divisione più generale è questa: Malizia con forza e malizia con frode. Quando Virgilio ha terminato l’esposizione dei peccati in cui si suddividono queste due malizie, Dante chiede: — Se dunque tutta la malizia (quasi dicesse il male che si può commettere) è in questo baratro, quelli che abbiamo già veduti sin qui perché sono puniti? Se hanno fatto il male, hanno a essere nel baratro; se non l’hanno fatto, non avrebbero a essere nemmen lassù, così tormentati.— E Virgilio risponde, con qualche rimbrotto: O l’incontinenza? non la ricordi? — Delle tre disposizioni di cui tratta l’Etica d’Aristotele, l’incontinenza
men Dio offende e men biasimo accatta: [133]
nel fatto l’incontinenza non scende dall’amor del male; non è malizia quindi; ma nasce dal soverchio amore del bene. Di questo discorso tra Virgilio e Dante, qui voglio che il lettore osservi soltanto il distacco, dirò così, materiale, delle due malizie dall’incontinenza; e poi il distacco, dirò così, morale. Le due disposizioni prime sono materialmente collocate a parte e insieme, moralmente sono dette offendere Dio più e con più biasimo; anche moralmente sono collocate a parte e insieme. Ora vediamo le tre fiere presentarsi a Dante così: prima una, e sola, la lonza; poi quasi a un tempo e insieme le altre due, il leone e la lupa. Non c’è già una presunzione che queste tre fiere siano le tre disposizioni cattive? Si aggiunge ora che la lonza arriva prima, come Dante prima vede nell’inferno i peccatori d’incontinenza, e poi vengono il leone e la lupa, come Dante vede poi i peccatori di malizia, e di questi prima quelli di violenza e dopo quelli di frode; che la lonza è leggera, molto insistente, che fa volgere più volte il passeggero, ma che infine lo lascia bene sperare: come l’incontinenza
men Dio offende e men biasimo accatta,
sì che gli incontinenti sono dipartiti dai felli (maliziosi) e men con loro è crucciata la divina giustizia; che invece il leone e la lupa inspirano con la vista la paura che è, come abbiamo veduto, strettamente connessa con la morte, e fanno perdere (più la seconda che uccide, che la prima fiera) la speranza dell’altezza, come (qui necessariamente mi limito) i peccatori del baratro sono felli e spiriti maledetti e più in ira di Dio. La presunzione cresce per questa gradazione parallela d’incontinenza e malizia, di lonza e due bestie fameliche. Fameliche: il leone ha rabbiosa fame, [134] la lupa dopo il pasto ha più fame che pria. [135] Ma non voglio qui spiegare l’essenza del simbolo a parte a parte: mi appago di notare la somiglianza tra leone e lupa e la dissomiglianza di leone e lupa da lonza, per inferire la grande probabilità che lonza, leone e lupa corrispondano a incontinenza, malizia con forza e con frode, che sono appunto dichiarate così: incontinenza, prima e a parte, e più lieve, e leone e lupa dopo in quest’ordine, prima leone e poi lupa, e simili tra loro per la fame che hanno e per la paura che dànno, come in realtà la malizia è una sola, e ha per fine l’ingiuria; è insomma l’ingiustizia; ed ha due aspetti, uno violento, uno fraudolento. E basti aggiungere, per il parallelismo osservato tra le disposizioni e le fiere, che ciò veramente che hanno in comune le due ultime fiere e che manca alla prima, è la fame. La lonza è leggera, è presta, impedisce il cammino sì che Dante si volge più volte per ritornare (non è proprio paura, ma un impedimento è): ora nelle parole di Beatrice a Virgilio l’idea d’impedimento è accostata a quella di paura:
L’amico mio...
nella diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che volto è per paura: [136]
e così nel verso. Ma tanto l'impedisce che l'uccide, [137] impedimento è accostato a morte; non proprio cunque la paura scevera la lonza dalle altre due fiere; ma fame, Dante non dice che ne avesse. Delle altre due sì, dice che avevano fame. Ora, qual è che le due disposizioni peggiori hanno in comune e non ha la meno peggio?
D’ogni malizia...
ingiuria è il fine. [138]
È l’ingiuria dunque; e la fame è il proposito d’ingiuriare, è la cupidità del male del prossimo. Ma Virgilio continua:
ed ogni fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista. [139]
E del leone dice che veniva contra lui
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aer ne temesse. [140]
Il leone ha rabbiosa fame: se fame è il fin d’ingiuria, rabbiosa fame come non è fin d’ingiuria violentemente fatta? Con forza (vis)? E della lupa esprime, come meglio non si potrebbe, l’andare guardingo per giungere al suo fine d’ingiuria, per sbramare la sua fame sempre nuova e intera, per uccidere: ell’è senza pace, non dà tregua e
venendogli incontro a poco a poco
lo ripingeva là dove il sol tace. [141]
Paragonate l’atteggiamento del leone, a test’alta, rabbioso, e questo della lupa che a poco a poco respinge l’atterrito viandante. Non par di vederla avanzarsi tortuosamente, con gli occhi biechi e la testa bassa? sparire e riapparire? E poi paragonate la natura rabbiosa del leone e quella malvagia e ria [142] della lupa, e quando avrete ripensato che tutte e due le fiere hanno fame e vogliono fare ingiuria, ditemi se questi aggiunti non segnino appunto la gradazione da violenta a fraudolenta. [143]
Che solitamente queste tre fiere simboleggiassero nel medio evo e nell’evo antico quello che io dico, può essere e non essere; ma sia e non sia, non è la ricerca, benché utile, necessaria. [144] Ne’ suoi simboli Dante era libero e può essere affatto originale. Sì; ma di questa figurazione qui, noi abbiamo la fonte chiara chiarissima. Nella divisione che Virgilio fa della malizia, egli segue Cicerone, riferito nel Tesoro di Brunetto e nel Moralium dogma. Traduco il passo del Moralium dogma: «La truculenza è divisa in violenza ( vim) e frode: la frode pare quasi di volpe (vulpeculae), la violenza quasi di leone: l’una cosa e l’altra alienissima dall’uomo, ma la frode degna di maggiore odio». Cicerone ha: « Poiché ingiuria si fa in due modi o con violenza o con frode, la frode par quasi di volpe, la violenza di leone » etc. Quello che è malizia che ha per fine l’ingiuria, in Dante, è iniustitia in Cicerone. Ora si legga
D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista,
ingiuria è il fine, ed ogni fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma poiché frode è dell’uom proprio male
più spiace a Dio. [145]
Dunque c’è la divisione di malizia (ingiustizia in Cicerone, truculenza negli abbreviatori) in violenza (vim) e frode, e anche il cenno della maggior gravità della frode. Ora Dante leggeva in Cicerone e in Brunetto e nel Moralium dogma: La violenza sembra quasi di leone... Non deve parere, più che probabile, quasi certo, che anche il leone di Dante esprima la violenza? Ma poi Dante ha la lupa invece della vulpecula. Già. E non c’è bisogno d’altre parole. In ogni caso una volpe, così piccolo e vile animale, sarebbe dispiaciuta a Dante, in tale figurazione: dopo il ruggire spaventevole del leone, mettere il guaito d’una volpe! questa più spaventevole di quello! e la volpe assetata di sangue umano, divoratrice di genti, porgitrice di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista! [146]
In ogni caso; ma qui era Cicerone stesso che lo consigliava a scegliersi altra bestia, quando avviliva con quel diminutivo di disprezzo la volpe, trattandola da vulpecula. [147]
E del resto Dante mostra di ricordare la vulpecula Ciceroniana, quando, pur fedele alla natura della lupa, questa lupa fa procedere cauta, tortuosa, a poco a poco, con atteggiamenti più di volpe che di lupa, e a ogni modo tanto di volpe quanto di lupa. E la ricorda quando di Guido Montefeltrano dice le opere non leonine ma di volpe [148], cioè non violente ma fraudolente. [149] E la ricorda quando dopo l’aquila che simboleggia la persecuzione dei tiranni, la violenza contro la chiesa, pone la volpe che s’avventa nella cuna del trionfal veiculo [150] a simboleggiare l'eresia, la cauta fraudolenta nemica. Né con ciò intendo di escludere altre fonti.
Or mi sembra che se Dante da Cicerone ha preso il leone a significare la violenza e ha convertita la volpe di lui in lupa a significare la frode, sia giusto credere che abbia aggiunta la lonza a significare l’incontinenza, prendendola donde gli è parso.
E c’è altro, ben altro! Ma in tanto spero che il lettore si sarà cominciato a persuadere, che dovendo le tre fiere raffigurare qualcosa di cattivo e di brutto, peccati, insomma; è molto probabile che li raffigurino questi peccati, in modo generale e sintetico, sì che questo qualcosa di cattivo e di brutto sia propriamente il male morale tutto; ed è molto probabile che Dante, nel significare questo male, segua Dante, per non dire Aristotele, e perciò lo rappresenti qui con tre fiere, come altrove l’ha visto in tre disposizioni; ed è molto probabile specialmente perché quelle tre disposizioni sono trattate in due gruppi, uno d’una, l’altro di due disposizioni, e la prima e considerata più leggera e le altre due molto più gravi e distinte da quella sostanzialmente, perché queste sono malizie e quella no; e le due sono molto simili tra loro tanto che si aggruppano sotto il comun nome di malizia ch’odio in cielo acquista, di cui ingiuria é il fine, [151] e si sceverano coi nomi di violenza e di frode, e questa è fatta più grave di quella; mentre nello stesso modo la lonza è separata dalle altre due fiere, e vien prima, e lascia sperare, e non è micidiale, e non è famelica; e le altre due vengono quasi insieme e sono tutte e due fameliche e terribili, sebben l’ultima assai più. E tutto ciò al lettore sembrerà tanto più probabile, in quanto, avendo egli già veduto che nella selva oscura è raffigurato il difetto di prudenza e libertà innate, quale discende dal peccato originale, come se la redenzione sia stata in vano; egli ora deve aspettarsi che l’uomo o Dante debba trovare impedimento nella sua via per opera del peccato attuale. E il peccato attuale così Dante ha diviso, seguendo a modo suo Aristotele, come ho detto. E le tre fiere sono le tre disposizioni che il ciel non vuole; sono cioè il peccato attuale; come la selva è il difetto di lume e di libero volere; è, cioè, — quasi (ché tanto è amara che poco è più morte, non è la morte a dirittura) — il peccato originale.
In rapporto con la triplice disposizione che il ciel non vuole, della quale mostrandosi così tutta la importanza direttiva che ha nel concepimento fondamentale della divina Comedia, si fa sempre più probabile che ella sia raffigurata dalle tre fiere del primo canto; in rapporto con essa sono le tre rovine di cui è cenno e discorso e figurazione nei canti V (v. 34) e XII (v. 1-11, 32-44) e XXI (106 segg.); e sono con essa in rapporto i tre fiumi di cui è parola nel XIV (116 segg.). Le lagrime invero che gocciano dalla fessura della statua del gran veglio
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia
in fin là dove più non si dismonta:
fanno Cocito...
Acheronte, Stige, Flegetonte, Cocito: ma son quattro codesti fiumi! dice alcuno. E sì, rispondo, quattro, come le rovine, in fin dei conti, e le disposizioni. [152] In verità oltre i peccatori delle tre disposizioni, che sono divisi in sette specie, come in parte abbiamo veduto e meglio vedremo, ci sono altri dannati nell’inferno Dantesco, come, oltre le tre rovine, vi è uno sconquasso e una rottura alla porta stessa dell’inferno, la quale si trova così aperta e senza serrame; [153] come oltre i tre fiumi che si vedono tristi, sanguigni e gelati in tre parti dell’Inferno, è l’Acheronte che distermina il vero inferno dall’antinferno, l’Acheronte cui Dante passa così agevolmente, come varca la porta stessa... Oh! in tutto questo Dante è alto come non mai, sì che non è meraviglia che il suo volo non sia stato raggiunto dall’occhio né possa essere seguitato da lingua né penna!
Ma parliamo in tanto di sole tre rovine e di soli tre fiumi; di quelli e quelle che si riferiscono alle tre disposizioni.
Le rovine si trovano, la prima nel cerchio dei lussuriosi, la seconda sopra il cerchio dei violenti, la terza nella bolgia degli ipocriti. Gli spiriti dei peccatori carnali, che la ragion sommettono al talento,
quando giungon davanti alla ruina,
quivi le strida, il compianto e il lamento,
bestemmian quivi la virtù divina. [154]
Per scendere dagli spaldi di Dite al primo dei cerchietti, che è dei violenti, Dante con Virgilio prende
via giù per lo scarco
di quelle pietre che spesso moviensi
sotto i suoi piedi per lo nuovo carco. [155]
Si tratta ancora di una ruina:
Era lo loco ove a scender la riva
venimmo, alpestro...
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse
o per tremuoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è si la roccia discoscesa
ch’alcuna via darebbe a chi su fosse;
cotal di quel burrato era la scesa;
e in su la punta della rotta lacca...[156]
Era una ruina anche quella, ché a Dante pensoso dice Virgilio:
tu pensi
forse a questa rovina... [157]
E ne dà anche la spiegazione :
Or vuò che sappi, che l’altra fiata
ch’io discesi quaggiù nel basso inferno
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, s’io ben discerno,
che venisse Colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l’alta valle fida
tremò sì, ch’io pensai che l’universo
sentisse amor, per lo quale è chi creda
più volte il mondo in Caos converso:
ed in quel punto questa vecchia roccia
qui ed altrove tal fece riverso. [158]
Altrove, cioè nel cerchio dei lussuriosi: altro Virgilio né sa né può sapere, e anche della ruina prima non si rende a ragione se non ora, veduta la ruina seconda. Così Virgilio studia e a mano a mano s’ addotdottrina e addottrina il suo alunno.[159] In Maleholge è la terza rovina:
giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto. [160]
Malacoda lo dice, e dice anche il tempo della rottura:
Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta;[161]
ma come quegli che è bugiardo e padre di menzogna [162] fa credere a Virgilio che uno dei ponticelli della bolgia sia intero: il che Virgilio non trova. Dice a lui invero uno degli ipocriti della bolgia sesta:
Più che tu non speri
s’appressa un sasso, che dalla gran cerchia
si muove e varca tutti i vallon feri,
salvo che a questo è rotto e nol coperchia:
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia. [163]
Una cerchia dunque di scogli fa ponte tra bolgia e bolgia, girando su tutte e dieci, salvo che ella è interrotta nella bolgia sesta, che è quella degli ipocriti, che è quella dove è crocifisso Caifas, l’ipocrita giudice di Cristo. Una rovina quindi tra il limbo ed il primo cerchio degl’incontinenti; un’altra tra gli spaldi di Dite e il cerchietto dei violenti, una terza nel cerchietto secondo, che è dei fraudolenti — dei fraudolenti in chi fidanza non imborsa — e appunto alla sesta bolgia. La prima è, dunque, in un cerchio d’incontinenza, la seconda in un cerchio di malizia con forza o violenza, la terza in un cerchio di malizia con frode. [164] Di più osservo che la prima è nel primo cerchio dell’incontinenza; la seconda subito al primo scendere nel cerchietto della malizia con fòrza, quindi prima di ogni suddivisione dei violenti che tali sono contro il prossimo o contro sé o contro Dio; la terza nel primo dei due cerchietti di fraudolenti; in quello, cioè, che punisce la frode in chi non si fida, mentre l’altro tiene nell’eterna ghiaccia la frode in chi si fida o tradimento. Di più, quest’ultima è nella bolgia degl’ ipocriti i quali sono i primi nominati nell’enumerazione che fa Virgilio dei peccatori di frode:
onde nel cerchio secondo s’annida
ipocrisia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura. [165]
Né si deve tralasciare che a proposito di questa rovina si fa l’esperimento della natura del diavolo che
è bugiardo e padre di menzogna. [166]
Con ciò Dante ha segnata, secondo il suo stile, una visibile impronta, perché noi sapessimo che eravamo ora veramente nel regno dei diavoli e che la prima bugia del diavolo domina tutta questa parte ultima dell’inferno che ha a capo Gerione, il serpe infernale, e in fondo Lucifero. [167]
Tutto dunque porta a credere che le tre rovine sono pensate a capo delle tre divisioni dell’inferno che rispondono alle tre disposizioni che il ciel non vuole, cioè all’incontinenza, alla violenza e alla frode.
E i fiumi? Le lagrime che abbiamo vedute
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia
in fin là dove più non si dismonta:
fanno Cocito. [168]
Qual sia quello stagno Dante vedrà, e noi sappiamo da lui. Cocito forma la ghiaccia ultima, là, come egli stesso dice con quelle parole che riflettono la luce del simbolo, là dove più non si dismonta, dove non si può andar più giù e dove non si può far di peggio. Cocito è in fondo in fondo all’inferno. E, aggiungo io, in fondo al terzo cerchietto della malizia, a quello, cioè, della frode in chi si fida o tradimento. E, aggiungo io, in fondo all’ultimo cerchietto della frode, come la rovina terza (quella della sesta bolgia) è a principio del primo cerchietto della frode stessa, sì che la frode complessiva ha in cima quella rovina e in fondo questo fiume.
E guardate: dello Stige e della prima rovina (quella del cerchio dei lussuriosi) è la stessa cosa: la rovina è nel primo cerchio degl’incontinenti, e lo Stige nell’ultimo. Nell’ultimo cerchio degl’incontinenti, sì,
una palude fa che ha nome Stige,
questo triste ruscel, quando è disceso
al pie’ delle maligne piagge grige: [169]
e in quel pantano genti fangose, ree d’incontinenza, come è chiaramente affermato da Virgilio che alla domanda di Dante: quei della palude pingue...? risponde accomunando questi a coloro che mena il vento e che batte la pioggia, E che s’incontran con sì aspre lingue [170] — ai lussuriosi, ai golosi, e agli avarie prodighi — che sono colpevoli per quella disposizione che il ciel non vuole, la quale si chiama incontinenza e
men Dio offende e men biasimo accatta. [171]
Ed è sottile l’accorgimento di Dante, e sottilmente osservabile, come delle quattro specie di incontinenti egli definisce soltanto la prima e la quarta: quel che basta, basta; lettore, omai per te ti ciba: poiché dei primi dice che sono i peccator carnali
che la ragion sommettono al talento, [172]
ossia che la ragione, cioè volontà e intelletto, rendono serva del talento, ossia dell’appetito; e degli ultimi dice che sono
color cui vinse l’ira. [173]
Dimodoché, fondendo le due definizioni, si ha quest’unica: incontinenza è lasciarsi vincere (prender la mano, diremmo con la metafora di Dante nel Convivio) dall’appetito che è concupiscibile e irascibile. Né si tralasci ancora (nulla va tralasciato in Dante e bisogna sempre aguzzar gli occhi e bisogna sempre mirar la dottrina che s’asconde) quell’ordine nella menzione che Dante fa degl’incontinenti:
quei della palude pingue,
che porta il vento e che batte la pioggia
e che s’incontran con sì aspre lingue: [174]
dove se si volesse l’ordine inverso dei peccatori come furono veduti, si aspetterebbero, dopo quei della palude, quelli che si sgridano a vicenda e poi quelli sotto la pioggia e infine quelli in balìa del vento; e se si volesse l’ordine diretto, si avrebbero prima questi ultimi e via via gli altri; mentre, come Dante li ha disposti, non rispondono ad alcun ordine. Ma è per la rima! Oh! io vi concedo che a priori non si possa affermare che Dante è un divino fabbro della parola, la quale egli foggi sull’incudine come a lui piace; ma voi dovete concedermi che non si possa affermare se non a ragion veduta, che egli dalla rima si lascia condurre o trascinare, come pastorello da una gran bestia! E qui si deve vedere ch’egli divide in due specie il genere incontinenza; e ricorda prima quella che vide ultima: l’incontinenza d’irascibile; e seconda quella che vide prima: l’incontinenza di concupiscibile; la quale suddivide nelle sue tre sottospecie secondo la loro serie formale: lussuria, gola, avarizia e prodigalità.
Or dunque come l’ultima delle tre rovine è a principio della malizia con frode e Cocito è in fondo, là dove più non si dismonta, così la prima di esse rovine è a principio dell’incontinenza e lo Stige in fondo, al pie’ delle maligne piagge grige.
Lo stesso avviene della seconda rovina e di Flegetonte: la rovina domina il cerchietto dei violenti
In su l’estremità d’un’alta ripa,
che facevan gran pietre rotte in cerchio... [175]
E anche
Era lo loco ove a scender la riva
venimmo, alpestro e...
qual è quella ruina...
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi su fosse:
cotal di quel burrato era la scesa. [176]
Era insomma una frana, uno scarto di pietre, che da un’alta ripa scende assai dolcemente al piano. E Flegetonte? Questo si trova naturalmente al basso, e naturalmente in fondo, di tutto questo cerchietto che è unico e tutto in un piano, salvo che s’abbassa dolcemente. Al capo dunque anche qui, nel regno della malizia con forza, la rovina, e al pie’, anche qui, il fiume.
Per altro non questo fiume, come gli altri due, punisce in sé la peggiore specie del peccato. In vero delle due specie di malizia con frode, Cocito serra nel suo ghiaccio quella in chi si fida o tradimento, e delle due specie d’incontinenza Stige tiene nel suo fango quella d’irascibile; mentre la riviera bolle nel suo sangue ardente la malizia con forza contro gli uomini, non quella contro Dio che è la peggiore di tutte, né quella contro sé che è peggiore della prima. Sì; ma convien notare in primo luogo che questa divisione della malizia violenta non procede parallela alle altre, che accennai, della incontinenza e della malizia fraudolenta, sì che le specie di quella siano, per così dire, a un medesimo piano che le specie di queste. [177] In secondo luogo Dante... E qui siamo a uno di quei punti in cui, interpretando, si incorre nel biasimo di sofisticare e di sottilizzare. Vediamo. Dante trova subito in questo cerchietto la riviera di sangue
in la qual bolle
quel che per violenza in altrui noccia. [178]
Virgilio a lui l’accenna. Ma di questa riviera Dante non sa il nome se non dopo averla guadata e aver veduti i violenti contro altrui, se non dopo aver attraversata la selva e aver veduti i violenti contro sé, se non dopo esser venuto alla landa e aver già veduti i primi dei violenti contro Dio, ossia quelli che violenti furono direttamente; se non in somma al terzo girone che è il più basso; quando da Virgilio sente esporre la mirabile storia del gran veglio [179] e dei fiumi che si fanno delle sue lacrime, tra i quali tre Dante ha già veduti, e d’un d’essi non sa d’averlo veduto, e domanda:
Maestro, ove si trova
Flegetonte? [180]
Per chi legge il Dante come si leggerebbe un romanzo, o lo canta a mo’ dell’asinaio, come si canterebbe uno cantare, ecco un de’ momenti di dire ch’egli ozia con le parole e fa versi per empire il canto e dice per dire. Ma no: Dante vuole che il lettore consideri all’ultimo del cerchietto, dove egli lo riconosce, questo fiume che pure ha veduto anche al principio e che, a differenza degli altri due mentovati, punisce non i più gravi ma i più leggeri peccatori della disposizione. Vuole insomma che sia conservata e confermata la dottrina per la quale al pie’ d’ognuna delle tre disposizioni è un fiume di lacrime; fangoso il primo; sanguinoso il secondo; gelato il terzo. E ricordo per le tante volte che occorrerà, che il viaggio di Dante non è una passeggiata delle nostre, e che è inventato. Per esempio, a questo punto non è già Dante prima sbadato e poi attonito, ma finge d’essere stato e d’essere così; e questa finzione va aggiunta alle altre mirabili finzioni e interpretata anch’essa, e né sottilmente né grossamente, ma bene.
E qui è certo che il Poeta volendo l’acqua rossa per quelli
che dier nel sangue e nell’aver di piglio,[181]
ai quali è così adatta, né potendo egli questi metter dopo gli altri violenti più gravi, e d’altra parte non volendo né potendo contradire all’insegnamento che dalla serie e dall’uffizio dei fiumi traeva per noi, ha ricorso all’espediente di quel suo smemorare, che alcuno avrebbe preso per naturale sì ma ozioso, e che ognuno deve stimare più significativo ancora che naturale.
Abbiamo dunque tre rovine e tre fiumi per le tre grandi divisioni Aristoteliche dell’inferno Dantesco, e per ognuna di queste, una rovina al capo e un fiume al piede. Or questo fatto conferma la mia interpretazione del simbolo delle tre fiere, sì perché dimostra come nel pensiero e nel discorso di Dante era capitale e fondamentale tale divisione, sì per altro. I fiumi sono lo Stige, tristo ruscello, il Flegetonte, subito riconoscibile al bollor dell’acqua rossa, il Cocito, in cui, fatto lago, quasi tutti i peccatori lagrimano [182] e lagrima con sei occhi Lucifero, sì che non pare negabile che Dante interpretasse: fiume del pianto. Ed è in vero l’ultimo stagno formato dalle lacrime che gocciano dal gran veglio. Dante conosce il significato delle tre parole, Stige, Flegetonte e Cocito; quello della prima, per altro, imperfettamente, ché Stige non è tristizia, ma odio. Ma noi vediamo interpretato Stige per tristizia in Servio. [183] E mi par molto probabile che da Servio fosse Dante aiutato a spiegare il luogo di Virgilio, [184] dal quale Dante ha preso la polionimìa dell’unico fiume infernale, che in Virgilio è Acheronte, Stige e Cocito, in Dante è Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito, e poi anche Lete. Ché il passo è difficile per quel Cocyto, che Servio annota benissimo in Cocytum, e aggiunge: Scilicet per Stygem. [185] Ecco inspirato a far entrare nel sistema fluviale del sotterra anche lo Stige, medio tra l’Acheronte e il Cocito. Egli aggiunge il Flegetonte e anche il Lete: è vero: ma la prima spirazione è da Servio. Il quale può avergli dato l’etimo di Acheronte (caret gaudio: 295) e di Stige (oltre i luoghi accennati, qui Servio ha: qui caret gaudio, sine dubio tristis est) e di Cocito (luctus: ib. e 132). E si aggiunga Flegetonte che Dante, forse senza necessità, bastandogli il Virgiliano verso 550, dove è rapidus flammis... torrentibus amnis, poteva leggere interpretato (v. 265): Per Phlegethonta... (c’è anche la ragione della forma Flegetonta) ignem significat nam... con quel che segue, [186] e che Dante forse non leggeva: graecum est.
Or dunque il Poeta poneva al pie’ dell’incontinenza il ruscel tristo pieno di tristi, e al pie’ della malizia con forza, il fiume dell’onda rossa in cui bollono i violenti contro altrui, e al pie’ della malizia con frode, il fiume del pianto gelato. Vediamo ora se nelle tre fiere si trova qualche nota di questi tre fiumi. La lupa fa tremar le vene e i polsi, e ripinge il viatore che rovina in basso loco, là, sto per dire, dove più non si dismonta. [187] Dante prova per lei ciò che dice per la ghiaccia
onde mi cien riprezzo,
e verrà sempre, dei gelati guazzi, [188]
mentre avanti la lupa
in tutti i suoi pensieri piange e s’attrista.[189]
Dalla lupa è ripinto dove il sol tace: sul Cocito egli muore nell’eterno rezzo. La morte il combatte, per opera della lupa; avanti Lucifero, che agghiaccia il fiume del pianto, egli non morì e non rimase vivo. E il leone che viene
con la test’alta e con rabbiosa fame,[190]
ha certo nell’animo quel bollore di sangue, quel fuoco d’ira, che, non occorre spenderci troppe parole, noi più per un’osservazione fisica che per un capriccio di metafora, sentiamo nella violenza? E la lonza, la lonza che cosa ha mai di comune con lo Stige, cioè con la tristizia alla quale conclude l’incontinenza? Dal fondo dello Stige sale un inno, gorgogliato nella strozza dai fitti nel fango:
tristi fummo
nell’aer dolce che dal sol s’allegra... [191]
Come non ricordar subito la cagione, che a prima vista, e anche a seconda, ci pare strana; la cagione che era a Dante di bene sperare
di quella fera alla gaietta pelle? [192]
Era
l’ora del tempo e la dolce stagione. [193]
E queste sono parole illuminate dalla pallida luce del simbolo. L’aer dolce che dal sol s’allegra sarebbe pure stato, doveva pur essere (dicono i fitti nel fango di Stige), un grande farmaco alla nostra tristizia! Perché quel gorgoglio ha questo senso: Fummo tristi, eppure l’acre era così dolce e il sole rallegrava per noi la terra, e Dio aveva fatta gioconda la vita nostra! A quei tristi ciò non valse; ma a Dante sì. Quelli s’attristarono poi nella belletta negra; mentre Dante ha cagione a bene sperare. Or se i tristi sono rei d’incontinenza, il che è ben certo, Dante reo sarebbe stato d’incontinenza, se
l’ora del tempo e la dolce stagione
non lo avesse salvato. Dunque la fiera alla gaietta pelle si conferma che sia l’incontinenza. Poiché in vero contro la lonza, quanto contro la incontinenza (la quale è significata nello Stige, come a dire, nel suo effetto di tristezza), tanto contro 1’ una quanto contro l’altra, doveva valere e vale, come rimedio, 1’aer dolce, la dolce stagione, il sole, la bellezza del creato: il logoro insomma [194]
che gira
lo rege eterno con le rote magne. [195]
Illustre Professore:
nella Flegrea del 5 luglio ultimo, in un suo studio sulle tre fiere della selva dantesca (è il suo titolo: io avrei detto «della piaggia diserta») ella a un certo punto scrive: «Ultimamente il Pascoli, nel secondo dei due articoli inseriti in questa Flegrea, procurò dimostrare che la lonza rappresenti l’incontinenza, il leone la violenza, la lupa la frode». A questa dimostrazione che io procurai fare, ella oppone suoi argomenti. Or ella non lesse certo a piedi di quel secondo articolo la parola continua, o anche se la lesse, credé che i miei argomenti fossero tutti lì in quello che era già stampato. Ma il fatto è che quei due articoli io rifusi e continuai in un libro (Sotto il Velame, Messina, Muglia); che, quando comparve il suo scritto, era già venuto alla luce da più d’un mese. Ebbene in quel libro le sue obbiezioni (e si potrebbe dar lode a lei, se per lei codesta lode non fosse superflua, d’averle messe avanti, e a me, che me la prenderei volentieri, tanto sono tenuto a stecchetto dai critici, d’averle prevedute) le sue obbiezioni sono, oso credere, respinte e vinte; tanto che oso pur credere che ella non avrebbe pubblicato il suo scritto se avesse letto il mio libro. Vi avrebbe in vero trovato ciò che ella dice della cupidità (che era in breve anche nella mia Minerva Oscura; per es., a pag. 130) e dell’avarizia, e avrebbe concluso con me che la lupa è sì avarizia o cupidità e sì frode, secondo da che capo ci facciamo a considerarla. In verità ella c’era così ben preparata ad acconsentire! Non dice ella «ben altra avarizia o prodigalità (ben altra da quella del quarto cerchio) v’è nei cerchi della violenza e della frode!» Sicuro: c’è quella che si chiama violenza e frode. Al qual proposito ci sono tante cose da dire... che qui non posso ridire.
Perché ella rifiuta in quell’articolo del 5 luglio la mia dichiarazione delle tre fiere? Per due ragioni: «tra l’incontinenza e la lonza non si riesce a trovare nessun rapporto specifico desumibile dalla natura vera o supposta dell’animale»: questa è la prima. Ma non voglio passare alla seconda, senza affermarle subito subito, che tutti i rapporti specifici trovati dagli altri o da me, tra la lonza e la lussuria (che è dell’incontinenza la specie che meno si può contenere ed è più leggera e presta, e veloce al vento, e sempre dinanzi al volto) si possono regalare a chi li vuole; tanto sono superflui avanti l’argomento nuovo con che si prova nel mio libro che la lonza è l’incontinenza sì di concupiscibile, sì d’irascibile; è la lussuria e gola più la tristizia o accidia, come la lupa è, traducendo i termini filosofici in chiesastici o popolari, l’invidia e superbia, più l’avarizia; la quale avarizia a parte, è considerata da Dante come una tristizia o accidia anch’essa inconoscibile e innominabile. La lonza contiene tre peccati, tre altri ne contiene la lupa (quel gruppetto che dà tanto da pensare in bocca a Ciacco e a Brunetto) e il settimo, l’ira, è nel leone. Leone, leopede, leonza: ecco, mi pare, perfezionata una bella osservazione del Casini; perfezionata mercé una notizia che ricavo dal suo scritto e un’altra che ho messa nel mio libro. Ma dove corro e divago? O Dante!
Torniamo a noi e prendiamo il secondo argomento per il quale ella rifiuta la mia dichiarazione delle tre fiere. «La lupa non può gabellarsi per simbolo della frode» perché, insomma, essa «non può simboleggiare se non quel vizio che corrisponda ai suoi caratteri lupini». Dunque la lupa non ha i caratteri della frode? E pensare che c’è mancato poco che io in quel mio libro non tralasciassi di farne discorso, di tali caratteri di frode; tanto erano noti! Ella dice che trasformar la volpe di Cicerone «in lupa feroce non iscevra di volponeria» è un «darvinismo critico», «una violenza». Darvinismo? Violenza? Ma la lupa o il lupo è la volpe degli ovili! Il lupo non insidia? Care pecore, ditelo voi! In verità ella, critico tanto acuto e profondo, ha avuto un minuto d’oblio! Poco dopo ella ricorda gl’in vesta di pastor lupi rapaci. Chi son essi? Ipocriti in genere, se son lupi che vestano a pastore; simoniaci in ispecie, secondo il pensiero di Dante. Simoniaci o ipocriti: due delle dieci specie di frode semplice. E prendiamo la lupa bipede, quella che si ammoglia molto; e prendiamo la fuia con cui delinque il gigante. Dov’è Taide, che molto assomiglia a codeste lupe e fuie? In una bolgia di Malebolge: rea di frode. E nel mio libro è ricordato che «figura di lupo porta il diavolo, che sempre insidia il genere umano», e che il lupo vive a volte di preda, a volte di terra, come il serpente, come perciò Gerione, come non il veltro che non ciba terra né peltro; e sono ricordate tante altre cose e più sono accennate.
Ma ella può dirmi: «Però, in quel primo canto, è atteggiata come famelica, e non come insidiatrice». E anche di codesto si discorre nel libro. E tuttavia anche non fosse rappresentata lì come insidiatrice e frodatrice, che sarebbe? Scusi: ella dà alla lonza la parte dell’invidia, perché la lonza si credeva secernesse dai reni il lyncurium che poi invidiava agli uomini... O qual secrezione renale lascia a piè del colle la lonza in quel bel mattino di primavera? Ma lasciamo questo modo di argomentare: potremmo aver torto io e lei; e a me preme di mostrare che io ho ragione. L’atteggiamento della lupa è veramente d’insidiatrice: essa viene o ripinge a poco a poco il viatore. Ella non crede che in quell’a poco a poco ci sia nulla d’insidioso... Cioè, non credeva. Ella, son certo, lo crederà ora leggendo ciò che io riporto intorno al lupo che s’appressa all’ovile: sensim. Ma non ce ne dovrebbe essere bisogno: la lupa è cupidità e frode; anche si mostrasse soltanto cupida, essa non sarebbe meno per ciò il simbolo della frode; come papa Nicolò è cupido e perciò fraudolento e perciò in borsa laggiù nel luogo della frode.
E quante e quante cose avrei da dirle! Ma non posso trascrivere tutto quel mio studio, né anticipare gli altri due libri, che sto facendo. E poi, ella mi domanderà: «Anche questo poco, perché me l’ha detto? e pubblicamente? Io l’ho dichiarato (può aggiungere), che avevo di mira il secondo de’ suoi articoli sulla Flegrea! » Sì, l’ha dichiarato. Ma senta.
Il suo bell’articolo, nel quale si fa tanta parte al Casella e tanto poca a me (potrei dimostrare, con tutta la venerazione che io ho per quell’elegantissimo ingegno e cara memoria, che ella non ha fatte le parti giuste); quel suo articolo, illustre professore, fu subito, come è ragionevole che fosse, riassunto nella Minerva. La Minerva è un periodico che non mi è certo nemico: vi ho lavorato anch’io. Orbene, il suo articolo nel numero del 22 luglio vi è riassunto in un certo modo... Senta. Vi si ripete a principio tra virgolette la sua espressione (mi par certo che ella già se ne dolga di quell’espressione!) «piccola sciarada» a proposito del valore simbolico delle tre fiere; non si tralascia all’ultimo di ribattere che sono questioncelle, che sono indovinelli; si batte e ribatte, insomma, al principio e alla fine che son cose di nessuna o menoma o minor importanza (perché la Minerva riassume allora? l’importanza dell’articolo, per la Minerva, sta forse nel dimostrare senza importanza l’argomento dell’articolo?); e nel bel mezzo si legge: «Ultimamente il Pascoli cercò di dimostrare che la lonza ecc. Sopratutto contro quest’ultima interpretazione appunta il D’Ovidio la sua critica...» Ecco dunque che la mia cara Minerva ha bandito alle sue molte migliaia di lettori che ella, illustre professore, ha appuntata la sua critica sopratutto contro me. Sia. Ma perché la Minerva ha tralasciato, a scapito del suo collaboratore, le parole «nel secondo dei due articoli inseriti in questa Flegrea»? Poiché più d’un mese avanti l’articolo di lei, illustre professore, e due mesi avanti il riassunto della Minerva, io avevo pubblicato il mio volume, l’innocente omissione mi fece diventar rosso avanti le molte migliaia suddette. Che avranno pensato? che il D’Ovidio abbia appuntata la sua critica contro quel volume e non contro quell’articolo non compiuto? che io abbia scritto un grosso volume tutto su quella «piccola sciarada»? che perda il mio tempo, che devo all’incremento della scienza e all’onore della mia patria, in misere questioncelle? che abbia studiato dieci anni per non indovinare un indovinello, indovinato poi dal D’Ovidio? che il collaboratore della Minerva, del quale qualcosa quelle migliaia avevano letto, sia diventato o rimasto un imbecille?
Scrissi per una rettifica. La lettera, si vede, non giunse.
Ed ecco perché, illustre professore, in questi tempi e in questo paese della suggestione, in questa cara Italia dove i cuori e gl’intelletti sono servi della fazione e della scuola, e non si ragiona più, e si ripete soltanto ciò che si sente dire, io che dalla suggestione ricavo un bene che rigetto ferocemente e un male che dignitosamente sopporto, io mando questo mio buon Marzocco non tanto a ragionar con lei, quanto a raggiungere tutte quelle migliaia di Minerve che un mese fa si sparpagliarono per l’Italia bandendo che un de’ collaboratori di essa Minerva era rimasto o diventato un imbecille. Gli dico, al Marzocco, in lingua contadina: «Solca e racchiappale; e dì il vero!» Ma sì! Il Marzocco è un leone; ma non ha l’ali!
Suo
Giovanni Pascoli
Note
_______________________________
[1] [Raccolgo qui un gruppetto di scritti che storicamente (e idealmente e psicologicamente) si collocano fra i due primi volumi danteschi del Pascoli: due di tali scritti — il primo e l’ultimo — sono qui trasportati da Conferenze e Studi Danteschi; quello intermedio (Intorno alla « Minerva Oscura», nei suoi tre paragrafi) non fu mai compreso nei volumi pubblicati. Note particolari sono apposte a ognuno di questi scritti. Nota del Curatore.]
[2] Da « II Marzocco», 6 marzo 1898.
[Trasporto qui il primo (e più avanti, il secondo) degli scritti già compresi in Conferenze e Studi Danteschi. Questo è il primo articolo polemico strettamente collegato con le tesi della Minerva Oscura, e ad essa idealmente e cronologicamente va collegato. Di più, è come un soggettivo preambolo agli altri passi di discussione che ho fatto subito seguire. Come meglio si noterà nelle pagine che tengono dietro a queste, comincia a rivelarsi evidente l’ansia, il tormento e l’esaltazione del Pascoli, persuaso scopritore del mistero dantesco. Per la conoscenza e la storia dello spirito pascoliano, questo gruppo di scritti che sta fra i primi due volumi veri (ed è quindi ad essi interposto) è proprio rivelatore. Ciò giustifica la parziale disintegrazione del volume Conferenze e Studi Danteschi, che del resto è una raccolta casuale e postuma.
In questo articolo uscito contemporaneamente al volume Minerva Oscura si conferma che lo «schema penale» dell’Inferno si riduce a quello dei sette peccati capitali (come è nel Purgatorio); ma più personalmente c’è anche un tentativo di giustificazione del «metodo» pascoliano (prima conoscere Dante e poi cercarne le fonti); e di più si risponde a una critica (di porre i problemi come «sciarade» e di risolverli con qualche bel «trovato») che il Pascoli prende su di sé (anche se non direttamente fatta a lui): forse perché di una simile critica aveva già avuto accenni da altre parti e perché aveva mina certa percezione della «sottigliezza» della sua interpretazione. Nota ciel Curatore.]
[3]Inf. XXXII 13.
[4] Inf. XVIII segg.
[5] Inf. XII 49.
[6] Inf. VIII 49 segg.
[7] Aen. VI 618, 620.
[8] Aen. VI 370.
[9] [Della serie di questi tre paragrafi, il primo fu stampato in un articolo della Rivista «Flegrea», 1899; e poi in opuscolo, Napoli, Stab. Tipogr. Pierro e Varaldi, 1899; mai fu compreso in volume; i due altri uscirono in uno stesso numero di «Flegrea», febbraio 1900: neppur essi furono compresi nei volumi danteschi.
Riproduco questi scritti per la loro importanza, non solo perché sono finora rimasti fuori dai libri danteschi del Pascoli, ma anche perché offrono la possibilità di raffronti fra una redazione compendiosa dell’argomento (prima stesura) e i capitoletti definitivi di Sotto il Velame, in cui tutta la materia fu ripresa (si confronti questo paragrafo I «La selva oscura» a pag. 231 con quello di ugual titolo e anche con gli affini «Il corto andare» e «L’altro viaggio» che sono in questo volume a pag. 301, 445, 572; e per i paragrafi II e III, si vedano i capitoletti IV e VI – e in parte anche V – del volume: «Le tre fiere» e «Le rovine e il gran veglio»). Essi, come già accennai per il precedente scritto di «Esame di coscienza...», sono idealmente e direi sentimentalmente un segno del passaggio fra i due volumi Minerva Oscura e Sotto il Velame. Onde li riproduco — e ciò vale specialmente per il primo, con quell’arricchimento di note che ebbe nella ristampa in opuscolo – nella loro forma originaria, sia per il valore direi storico che ci permette di seguire le sfumature della faticosa elaborazione del pensiero pascoliano; sia e anche più, perché ci lasciano intravvedere già qualche poco del dramma dantesco sofferto dal poeta, che dalla sua stessa sensibilità «mistica» era portato a credere specialmente in Dante «mistico» e a intuirne (e forse crearne) i segreti, e che perciò trovava dura opposizione fra gente diversamente disposta, e preparata con tutt’altra, o forse più positiva, dottrina.
Di questo dramma, che qui già si abbozza, oltre a vari passi di altri suoi scritti (per un accenno proprio a questi articoli, v. la nota a pag. 1661 di Conferenze e Studi Danteschi) ci parlano le lettere del poeta: fra le altre, importantissime quelle ai Padri scolopi Pistelli e Pietrobono, che sarà utile leggere nel volume di Pasquale Vannucci, Pascoli e gli Scolopi, Roma, Signorelli 1950. Anche su tali lettere ho tentato la storia psicologica degli studi danteschi pascoliani, che si pubblica a parte.
Il secondo articolo (paragrafi II e III) è la continuazione del primo; ad esso si allude nella lettera pascoliana A Francesco d’Ovidio, pubblicata poi anche in Conferenze e Studi Danteschi (si veda qui subito dopo a pag. 292), la quale è una risposta all’altro articolo del D’Ovidio, pure in «Flegrea» e similmente intitolato Le tre fiere nella selva dantesca (5 luglio 1900).
Questi articoli, come facilmente risulta al Lettore, avrebbero dovuto avere un seguito, però in tale stesura non furono continuati, essendo poi la materia stata riplasmata nel volume Sotto il Velame che uscì nel 1900, nei mesi fra questo secondo articolo del Pascoli e quello del D’Ovidio. Ma è psicologicamente interessante la spiegazione che dell’interruzione dà il poeta in una lettera al Pietrobono, del 20 luglio 1900: «Lei sa che interruppi la stampa degli articoli, perché mi persero (a posta?) il ms. del terzo articolo, e non mi fecero, contro i patti, nemmeno un estratto del secondo, e per sospetti di peggio...» (Vannucci, op. cit., p. 272).
Per L’argomento di questi tre paragrafi si veda l’Indice-Sommario di Sotto il Velame, ai capitoletti corrispondenti. Nota del Curatore.]
[10] L’articolo fu pubblicato nella rivista «Flegrea», 1899. Riproduco questo scritto (che non fu raccolto nei volumi danteschi editi) per l’interesse personale e polemico di questa premessa e per la possibilità di raffronti fra la redazione compendiosa (prima stesura) dell’argomento che qui è al paragr. 1 (pp. 231-250) e i vari paragrafi affini di Sotto il Velame. Per altre notizie, v. a pag. 290. Nota del Curatore.]
[11] Perché non mi si accusi di nascondere da una parte il resto del bene che è per me in quel giudizio, e dall’altra, e sarebbe peggio, il resto del male, ecco, trascrivo il giudizio stesso: «Giovanni Pascoli nella Minerva Oscura si spropone di esporre e rappresentare la costruzione morale del poema di Dante; Egli vuole ignorare il molto che è stato scritto sulla Divina Commedia, e le si pone di fronte solo, con ponderose citazioni tomistiche, scolastiche, di santi padri, convitando quasi i lettori ad assistere al modo onde il processo della costruzione si è generato e svolto nella sua mente. La potenza innegabile della sua sintesi gli fa ravvisare nella molta lettura parallelismi finissimi che colpiscono di nuova luce; ma l’acceso ingegno gli fa ignorare, o gli dissimula, molti stacchi e salti del suo disegno; e la destrezza del letterato gl’insegna a velare e a ricoprire le screpolature delle ardite costruzioni. Egli vedendo in una parola o in un verso simboli nuovi, o i simboli già noti allargando a particolari significazioni, intravede in tenui somiglianze corrispondenze meravigliose, ed esorbitando in sottigliezze e in acutezze si adopera di ridurre a schema uno, elaborato e definito, il poema a cui pose mano cielo e terra. Il libro del Pascoli pullula d’ipotesi ingegnose, e suggestive; è ricco anche di non pochi semi di verità: ma non tutta la faccia dell’oscura Minerva è illuminata, e assai spazio resta ai Prolegomeni per raggiungere la mèta. È scritto con austera eleganza. Del resto, la Commissione è dispiacente di non potere tener conto dei meriti letterarii onde rifulgono altre pubblicazioni dell’egregio professore, le quali non entrano a parte del concorso. (Relazione sul concorso al Premio Reale per la Filologia e Linguistica, del 1899. Commissari: Carducci, Compartiti, Nigra, Schiaparelli e Ascoli [relatore]).
[12] Non solo le ricerche quali continuai e continuo, ma le critiche stesse fatte al mio libro mi confermano che la costruzione morale della Comedia è quale la esposi in quel libro (Minerva Oscura, Livorno, Giusti, 1898). De’ miei critici il più diligente e paziente, per non dir altro, è Giuseppe Fraccaroli. Egli nella sua Rassegna «Giornale storico», XXXIII, fasc. 98-99, p. 364-376 dice: « ... questo parmi certo, che il Pascoli, nel complesso del libro, si sia accostato al concetto dantesco assai più che ad altri non è riuscito di fare, e per me questo è forse il lavoro sintetico più serio per acume e per conveniente preparazione di quanti finora sono stati scritti su questa materia.» In verità il Fraccaroli che senza dipendere dal mio studio, pur senza precederlo (il mio studio fu, con poca differenza, pubblicato nel Convito del 1895 e 96, e fu riassunto nel «Bullettino della S.D.I.» vol. IV, pag. 131, del 1896), aveva pubblicato un suo articolo su «Le dieci bolge e la graduatoria delle colpe e delle pene nella Divina Commedia», si trova d’accordo con me più che esso non creda. Ecco infatti il dissidio quale da lui stesso è brevemente dichiarato: «Il falso e l’erroneo che vi si può scoprire in parecchi luoghi, non toglie forza a molte verità che sono in parecchi altri, e la tesi fondamentale è sempre vera, ove se ne rovesci l’applicazione: una bensì è la norma direttiva della morale dantesca, per lo meno nell’Inferno e nel Purgatorio, e probabilmente anche nel Paradiso, ma questa norma direttiva è precisamente quella che dice Dante, la triplice disposizione d’amore, non i sette peccati capitali, come dice il Pascoli. Non era dunque da cercare in qual modo, dati per norma i sette peccati, questi potessero risolversi da una parte nella triplice disposizione d’amore, dall’altra analogamente nelle tre disposizioni che il ciel non vuole, ma come invece, data per norma la triplice disposizione d’amore, ad essa corrispondano nel Purgatorio i sette peccati e nell’interno un altro ordinamento, cioè all’amore disordinato l’incontinenza, al poco amore, che nell’Inferno è amor nullo, l’eresia semplice nel senso in cui la intende Dante (quella che nega Dio o lo sminuisce), all’amore del male la violenza e la frode». Or bene quest’altro ordinamento che nell’Inferno corrisponde alla norma della triplice disposizione d’amore, è, come presso a poco consente il Fraccaroli, la triplice disposizione che il ciel non vuole, che si risolve anch’essa in sette peccati, come Virgilio stesso, nello stesso discorso in cui parla delle tre disposizioni che il ciel non vuole, conferma. Perché tra Dante e lui annoverano, come equivalenti a queste tre disposizioni, sette peccati e sette generi di peccatori, ricordando il primo quei della palude pingue, uno; che porta il vento, due; che batte la pioggia, tre; e che s’incontran con sì aspre lingue, quattro: rei d’incontinenza, come Virgilio assevera; e il secondo avendo prima parlato di tre cerchietti (inf. XI 17) nei quali sono puniti gli spiriti rei di malizia con forza o violenza, cinque; di malizia con frode usata dall’uomo in colui che fidanza non imborsa, sei; di malizia con frode usata in colui che ’n lui fida, e sette. Dunque, egregio professore, le tre disposizioni si risolvono in sette peccati; e questa è una delle mie scoperte facilissime e pianissime, come ognun vede, così facili e piane che la professione d’averle fatte non può essere considerata un vanto e un peccato di superbia; eppure tanto utili e feconde! Ché io al mio contradittore potrei proporre con quasi la certezza che la proposta fosse per essere accolta: «Vogliamo accordarci? Io dirò che in certo modo, quodammodo, questi sette peccati dell’Inferno equivalgono ai sette peccati capitali del Purgatorio. Va bene, ora?»
Ma il quodammodo va a ciò a cui Dante stesso l’ha voluto appiccare: ad esempio, ai peccatori o come si hanno a chiamare, che eccedono questo novero di sette; agli spiriti che in questo novero non entrano, tamquam non sint; per quelli del vestibolo, per quelli del limbo, per quelli dell’arche: poiché in verità essi quodammodo non sono; sono cioè e non sono; non fur mai vivi o sono sepolti anche nell’inferno, doppiamente morti. Sono gente di cui non si parla; di cui non si parla quodammodo anche quando se ne parla; e se ne parla pur tanto per la loro onrata nominanza e per la loro magnanimità (Inf. X 73; II 44) e per la magnitudine (mi si passi il latinismo) del loro spirito (Inf. IV 119). Qui non fo che accennare; e aggiungo soltanto che siamo in presenza d’uno de’ più alti concetti di Dante, espresso con uno de’ suoi più sottili accorgimenti. Ma tale sottigliezza è, intendiamoci, di Dante, come quell’altezza: non dell’umile interprete.
Umile sì, o Dante padre, nta tu a cui la mia terra diede l’ultimo refugio, dovevi farmi avere di che tornare in quella terra che al tuo umile interprete diede la culla, e di che riavere la casetta, dove esso nacque e sua madre morì. Dovevi: perché il tuo pensiero, anche quando era piano, non era inteso, e non si sapeva quanto fosse alto, anche dove era ammirato. Quivi, per un esempio. Ché (per deliberare ciò che distesamente sarà detto in uno degli studi seguenti il primo che ora pubblico) tu ti sollevi su ali ingegnate con artifizio di Dedalo alla più grande altezza del pensiero cristiano; e non si saprebbe quale ammirare e paventare più, se la maestria dell’artefice o la sublimità del pensatore; ma tu volavi e nessuno ti vedeva volare. Tu dici: «Non fu mai vivo chi non usò della libertà dell’arbitrio, non fu mai vivo chi non la poté avere, non fu mai vivo chi non la volle avere. Di chi non fu mai vivo, non si parla. Di questi che mai non fur vivi, alcuni chi direbbe mai che vivi non furono? chi mai sognerebbe che di loro parlare non si deve? Ché furono spiriti magni, furono magnanimi, lasciarono onrata norninanza. Di loro, se d’altri mai, si ragiona; vivi furono, se altri mai, loro. Eppure no: non poterono (ma sino a un certo punto non poterono) o non vollero (questi maliziosamente non vollero) essere veramente vivi e liberi». Oh! i supremamente attivi accostati ai supremamente ignavi! i magnanimi ai pusillanimi! gli spiriti magni agli sciaurati! il signor dell’altissimo canto, che sopra agli altri com’aquila vola, alle anime stimolate da mosconi e da vespe! Farinata che difese la sua patria a viso aperto, a colui che fece per viltate il gran rifiuto! Eppure sì: sono somiglianti nella loro distanza infinita e antitetica.
E sono tutti e tre (per mettere, come è mio proposito e costume, ai versi di Dante la postilla con le proprie parole di Dante) ai loro luoghi per un difetto e non per altro rio (Inf. IV 40). Per un difetto o manco; e questo è significato dal difetto o manco stesso nella enumerazione che si fa dei peccati. Per un difetto: non per fare ma per non fare (Pur. VII 25): difetto totale in quelli del vestibolo, difetto quasi involontario in quelli del limbo, difetto malizioso in quelli dell’arche. Quante, quante cose da ammirare! quanto sublime e profonda questa cancellazione dei sospesi che saranno, forse (ma è un forse che col contrapposto che soggiungo diventa certo), ricongiunti al Dio che non conobbero, con Catone la cui vesta sarà così chiara e con Virgilio che già godé le primizie dell’eterno piacere; e dei sepolti, su cui nel gran dì calerà per sempre il coperchio, e per cui cesserà ogni barlume di luce, e che spariranno dalla vista pur d’ogni dèmone. Vedremo l’inferno di Dante dopo il gran dì. Ecco: la città dolente non ha se non sette contrade, per così chiamarle, sì che bene Virgilio aveva parlato di sette genie sole di peccatori. Ha sette contrade la città dolente: anche, come è naturale che abbia una città, anche il suo cimitero. Ma i morti non contano. Dal cerchio supremo sono spariti i mesti abitatori, che avevano avuto torto di non unire al desio la speranza; i mesti abitatori cui Minos non legava. C’è solo oltre Acheronte la corsa vertiginosa, come di foglie secche in un ventoso vestibolo, degl’ignavi, rifiuti della vita e della morte, sdegnati dalla misericordia e dalla giustizia. Ma anch’essi non contano. Contano soltanto quelli che fanno clamore e gorgoglio, nello Stige, avanti Dite, come gli altri fanno ridda e gridio avanti tutto l’inferno e oltre Acheronte. Quelli di oltreinferno non contano, ché sono fuori; contano questi d’oltre Dite, sì, e fanno con le tre genie di peccatori che sono cli sopra e le altre tre che sono di sotto, il numero solenne di sette. Vedremo questo e altro; ma io, Dante padre, non vedrò più forse la terra che fu per te d’esilio e per me di dolore; ma in cui vorrei morire, come tu ci moristi!
Pazienza! né te ricondusse il POEMA SACRO all’ovile in cui dormisti agnello, né me.
[13] In questo come negli studi che seguiranno, io prometto d’essere più esatto degli altri meglio che nuovo, e meglio serio che ingegnoso, e meglio rigoroso che audace. Non é, credo, un’accusa in quelle parole della Commissione de’ Lincei: «Egli vuole ignorare il molto che è stato scritto sulla Divina Commedia ...» ma se fosse, la riputerei non meritata, ché in vero al comento del poema sacro non fu ancora data una base scientifica, sulla quale i maestri e manovali continuino a lavorare sicuramente. Perché questa base ci sia, bisogna trovare a ogni simbolo di Dante la parola esatta di Dante che lo interpreti, a ogni concetto di lui la pastilla di lui. E poiché non resta di Lui un comento alla Comedia, come c’è di lui alle quattro canzoni conviviali, bisogna raccoglierlo dalla Comedia stessa e dalle altre sue opere, in primo luogo, e, in secondo, dai libri che si possa accertare che erano nelle sue mani, e da ciò che faceva scienza per Lui e per i suoi uguali. Or io lavoro appunto intorno a questa base dell’interpretazione di Dante: come mi si può rimproverare di non mettere questa base su un’altra base, che non c’è? Per un esempio del difetto di esattezza, quale è nelle menti più perspicaci, intorno al comento di Dante, valgano queste parole del Barton (Delle opere di Dante Alighieri, La Divisa Commedia, Parte I, p. 7): «Ora che cos’è la selva nella quale il Poeta dice di essersi smarrito, per i commentatori antichi? E il vizio, è l’ignoranza. Essi sono in ciò tutti concordi». Bene: è dunque il vizio o l’ignoranza? in che sono concordi? nell’essere discordi? Si vedrà, subito, spero, a che porti il credere che la selva sia il vizio o l’ignoranza!
[14] Conv. IV 24.
[15] Inf. I 2, 3, 10. Seguo sempre, dove non avverto del contrario, la lezione di Carlo Witte, riprodotta in Milano, Daelli, M.DCCCLXIX. Per le opere minori uso l’edizione del Fraticelli (Firenze, Barbèra, Bianchi e Comp., 1856-57); per la Vita Nuova, tuttavia, la bella ed. commentata di Tommaso Casini (Sansoni, 1885).
[16] Inf. I 12.
[17] Inf. I 1.
[18] Conv. IV 24.
[19] Pur. XXX 115 segg.
[20] V. N. 2
[21] Conv. IV 24.
[22] Pur. XXX I24 segg.
[23] Conv. IV 24.
[24] Pur. XXX 130 segg.
[25] Pur. XXXI 34 seg.
[26] Pur. XXXI 45, 59, 60.
[27] Mon. I 17 in fine [15].
[28] Conv. IV 24.
[29]Pur. XXX 115, 123.
[30] ConV. IV 12.
[31] Pur. XXXI 55 segg.
[32] E poniamo pure che alluda alla pargoletta della Ballata VIII del Canzoniere:
Io mi son pargoletta bella e nuova,
e son venuta per mostrarmi a vui
delle bellezze e loco, dond’io fui.
Io fui del cielo, e tornerovvi ancora etc.
E come questa pargoletta qui non può e non deve essere Beatrice? Se la ballata è di Dante, è ben ragionevole dire che questa pargoletta che fu del cielo ed è venuta per mostrarsi delle bellezze e loco donde fu, sia quella stessa cosa venuta di cielo in terra a miracol mostrare, e sia quella stessa che non fu più cosa fallace, solo dopo che fu morta. Bisogna intenderci. Beatrice con le parole, o pargoletta o altra vanità, fa sé, viva, uguale a quelle vanità, perché anch’ella era cosa fallace. Or direste voi che l’amor di Dante per Beatrice fosse vizio e perversità? Pure, si risponderà, Dante dandosi a queste altre vanità traviava, mentre quando seguiva quella che si chiamava Beatrice, era in dritta parte volto. Ma sì: Beatrice dove andava, traendosi dietro il giovane amatore? Andava verso il cielo, verso l’altra vita, che mutò con quella fallace e vana della terra: e mutai vita. Proprio allora, Dante si rivolge e si dà altrui, proprio allora:
quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita.
Proprio allora, mentre si doveva levar suso di retro a lei: il che (intendiamoci) non significa già morire, morire anche lui: no, egli si volle riprovare al gioco periglioso, che quella volta gli sarebbe riuscito bene; ma, riprovandosi, egli non faceva maggior peccato di quello che avesse già fatto seguendo Beatrice, la quale era, finché visse, pur cosa fallace e vanità anch’essa. Non faceva maggior peccato, ma correva ben maggior pericolo. Come si vide.
« Oh! — per tradurre in umili parole le altissime di Beatrice — ma, fanciullone! io ero Beatrice! Beatrice, intendi? Quante credi che siano le Beatrici al mondo? Ero io sola, e viva non t’avrei tratto a rovina, e morta t’avrei condotto a salvazione! Come fosti imprudente!»
[33] V. N. 2.
[34] Conv. IV 21.
[35] Inf. IV 10:
Oscura, profond’era e nebulosa,
tanto che, per ficcar lo viso al fondo,
io non vi discerneva alcuna cosa.
Riporto il passo non per altro se non per mettere accanto al pensiero di Dante la parola di Dante. Ne vedremo subito l’utilità.
[36] Conv. IV 7.
[37] Conv. IV 7.
[38] Conv. IV 24.
[39] Conv. IV 7.
[40] Conv. IV 7.
[41] Conv. IV 7.
[42] Pur. XXX 115 segg.
[43] Pur. XXX 121 segg.
[44] Pur. XXX 127 segg.
[45] Pur. XXXI 55 segg.
[46] Pur. XXX 133.
[47] Pur. XXX 78, XXXI, 7, 13, 19, 34, 64.
[48] Inf. I 4 segg.
[49] Pur. XXXI 68 seg.
[50] Conv. IV 8.
[51] Dante nel Convivio ricorda sì le virtù morali in numero di undici, secondo Aristotele (IV 17), e sì le quattro virtù cardinali a cui elle si riducono (IV 22). Nella Comedia si tien fermo al numero ridotto di quattro. Vedi per ciò, tra altro, Pur. I 23, 37; XXXI 104 segg.
[52] Summa, passim, tra altro is tae Ix I; LVIII 3.
[53] ConV. IV 17.
[54] Summa, passim, spec. 1a 2ae LXI 2, 3 e 4; e LXV r; e LXVI 2.
[55] Pur. VII 25 segg.
[56] Conv. IV 27.
[57] Inf. II 61 e 104.
[58] Conv. IV 12.
[59] V. N. 36.
[60] V. N. 38.
[61] V. N. 38.
[62] Vedi Summa 2a 2ae XLVII 14. Vi è, tra altro, riportato di Aristotele (3 Top. cap. 2, loc. 24) quod iuvenes constat non esse prudentes; e si risponde che la prudenza acquisita è causata dall’esercizio degli atti e perciò ha bisogno d’esperienza e tempo, sì che non può essere ne’ giovani né secondo abito né secondo atto; mentre la prudenza gratuita è causata da infusione divina, e questa, secondo abito, è anche nei fanciulli, pur che battezzati, e anche nei pazzi.
[63] V. N. 39.
[64] V. N. 38.
[65] V. N. 39.
[66] Pur. XXXI 22 segg.
[67] Pur. XXXI 64 seg.
[68] Vedila riportata nella Summa, con una leggèra modificazione (cognitio invece di scientia) 2a 2ae XLVII 1: Prudentia est cognitio rerum appetendarum et fugiendarum. Nello stesso articolo è l’altra pur di S. Agostino: Prudentia est amor, ex quibus adiuvatur, ab eis quibus impeditur, sagaciter eligens.
[69] V. N. 39.
[70] Summa 2a 2ae LIII 5: Sed contra est, quod ad prudentiam pertinet praeferre maius bonum minus (sic); ergo desistere a meliori pertinet ad imprudentiam: sed hoc est incostantia; ergo incostantia pertinet ad imprudentiam.
[71] Inf. I 3.
[72] Summa 1a 2ae LVII 4.; LVIII 3 e altrove: la prudenza è recta ratio agibilium. 1a 2ae LXIV 3: medium... udentiae,... prescilicet rectitudo rationis,... ut regulantis et mensurantis.
[73] Summa 2a 2ae.
[74] XLVII 1. Inf. I 2.
[75] Summa 2a 2ae XLIX 1; XLVII 16.
[76] Vedi Summa 2a 2ae XLVII 9: in cui sollecitudine è fatta uguale a vigilanza, ed è portato come testo: Estote prudentes et vigilate in orationibus. Il sonno di Dante spiegai, dubitativamente, più su, come effetto dell’adolescenza. E può essere in tutti e due i modi. Ché non è insolito nello stile allegorico di Dante il polisenso.
[77] Pur. XXX 103 segg.
[78] Summa 2a 2ae XLIX 3; dove si afferma che sebbene la docilità sia utile a qualsivoglia virtù intellettuale, tuttavia principalmente pertiene a prudenza.
[79] Pur. XXX 135.
[80] Summa 2a 2ae LIII 2: «L’imprudenza... quanto al precetto stesso, che è proprio atto di prudenza, è incostanza e negligenza ».
[81] Pur. XXX 126.
[82] Par. XXXI 85.
[83] Pur. XXVII 140 seg.
[84] Pur. XVI 67 segg.; XVII 91 segg.; XVIII 16.
[85] Conv. IV 12.
[86] Pur. XVI 85 segg.
[87] Pur. 75 seg.
[88] Pur. XVIII 62 segg.
[89] Conv. IV 27.
[90] Di ciò più avanti. [Così l’Autore prometteva un seguito; che non ci fu se non nel volume Sotto il Velame. Nota del Curatore.]
[91] [Fin qui il primo degli articoli stampati in «Flegrea»: questo uscì nel 1899; e fu poi ripubblicato, con note polemiche aggiunte, in un opuscolo dello stesso anno. Un secondo articolo comprendente due paragrafi (il II e il III) comparve pure in «Flegrea» nel 1900, ed è quello che qui segue. Per altre notizie si veda la nota * a pag. 290. Nota del Curatore.] vedi notta del curatore su La Minerva Oscura
[92] Pur. XXXI 25.
[93] Pur. XXXI 28 seg.
[94] Inf. IV 61. segg.
[95] Inf. IV 69.
[96] Pur. VII 28 seg.
[97] Inf. IV 67 seg.
[98] «Il Witte accettò sonno che è anche in undici mariani, ne’ tre cortonesi e in altri...»: da una nota dello Scarabelli (Bologna 1866). «Credo ora che primitiva voce fosse somno alla latina... »: da una nota del medesimo Scarabelli in XX codici danteschi (Bologna, 1870).
[99] Inf. I 21.
[100] Inf. IV 1.
[101] Inf. III 136.
[102] Il lettore in tanto fermi il suo pensiero a questa conclusione: che la selva è il difetto di lume ossia di prudenza che dirige l’animo e gli insegna che cosa sia da fuggire e che cosa da cacciare. Non posso qui subito mostrargli il profitto di questa conclusione per l’intelligenza del concepimento fondamentale del poema sacro; ma gli dico che il profitto è grande. Il lettore lo comprenderà, quando io avrò tolto a lui ogni dubbio intorno al significato delle tre fiere.
[103] Inf. I 8 seg.
[104] Pur. XXXI 68.
[105] Inf. 121.
[106] Inf. I 19.
[107] Vile è per Dante il contrario di nobile, che interpreta non vile (Conv. IV 10: e però è falsissimo che nobile venga da conoscere, ma viene da non vile, onde nobile quasi non vile). E nobile è valente e virtuoso. Egli non aveva alcuna virtù, dunque era vile; era vile, dunque aveva paura. E certo Dante sentiva nella parola vile due sensi, quello di basso e spregevole, e quello di offeso da viltà o legato da tema o pauroso. Ma il fatto è che i due sensi si fondono in uno, quando il Poeta parla allegorizzando. Si consideri il lungo discorso di Dante pauroso a Virgilio nel II dell’Inferno (10-36), discorso che si riassume nel verso: Io non Enea, io non Paolo sono. Virgilio risponde:
«Se io ho ben la tua paura intesa,»
rispose del magnanimo quell’ombra,
«l’anima tua à da viltate offesa».
Questa viltà è assomigliata allo spavento del cavallo ombroso, è detta tema, è ridetta tanta viltà, è dichiarata l’opposto di ardire e franchezza, è definita virtute stanca. Eppure è, più presto che paura o viltà vera e propria, l’antitesi della magnanimità o nobiltà, che è tutt’uno, dell’ombra, e della nobiltà o virtù o magnanimità del parente di Silvio (vedi Conv. IV 26). Per parlare con linguaggio usuale dico che Dante, per negare di essere un eroe, afferma d’essere un vile e d’aver paura. E un linguaggio il suo più tosto ideografico che ideologico, in somma; è un linguaggio che incide e scolpisce figure, non scrive o dice soltanto parole. E questa è nota certa del suo stile poetico e allegorico, e merita, con altre consimili note, uno studio a parte. Non dispiaccia udire che lo sto preparando.
[108] Inf. 19 segg.
[109] Inf. 26 seg.
[110] L’animo che fugge è l’appetito, ricordiamo (Conv. IV 26: questo appetito conviene essere cavalcato dalla ragione; che siccome uno sciolto cavallo, quando ch’ello sia di natura nobile, per sé, senza il buon cavalcatore bene non si conduce, così questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile, alla ragione ubbidire conviene: la quale guida quello con freno e con isproni; come buono cavaliere lo freno usa, quanto elli caccia... lo sprone usa, quando fugge...): Dante sta ritornando nobile, ché già la prudenza gli ha mostrato ciò che era da fuggire e gli mostra ciò che è da cacciare.
[111] Inf. I 29 segg.
[112] Inf. I 34. segg.
[113] Per anticipare dico al lettore che questa lonza impedendo a Dante di cacciare, ossia di salire il colle, e di fuggire, ossia di allontanarsi dalla selva, è impedimento al suo animo o appetito; e quindi non può essere altro che l’incontinenza.
[114] Inf. I 47.
[115] Inf. I 51.
[116] Inf. I 54.
[117] Inf. I 58.
[118] Pur. XXX 130 seg.
[119] Pur. XXX 133 segg.
[120] Pur. XXX 136 segg.
[121] Inf. I 62.
[122] Inf. I 29.
[123] Inf. II 63.
[124] Inf. 11 96.
[125] Inf. II 106 segg.
[126] Pur. XXX 136 seg.
[127] Inf. I 57.
[128] Inf. II 108.
[129] Inf. I 21.
[130] Inf. I 60.
[131] Inf. I 14.
[132] Pur. XXX 134.
[133] Inf. XI 79 segg.
[134] Inf. I 47.
[135] Inf. I 99.
[136] Inf. II 61 segg.
[137] Inf. I 96.
[138] Inf. XI 22 seg.
[139] Inf. XI 23 seg.
[140] Inf. I 47 seg.
[141] Inf. I 58 seg.
[142] Inf. I 97.
[143] Perché la lupa è insaziabile e il leone no? Parlo all’esimio prof. Fraccaroli. Perché? Il perché non mi pare che si possa trovare se non da chi riconosca ciò che ora non dico se non per anticipazione, rimandando il lettore alla Minerva Oscura; se non da chi riconosca che la violenza o bestialità è l’ira; poiché l’ira essendo bramosia di vendetta, cieca e folle cupidigia di vendetta, con la vendetta si acqueta e sazia; mentre la frode duplice è cupidigia di potere, onore, grazia e fama in confronto degli altri uomini, cioè invidia, e l’invidia si fa magra per questa cupidigia che mai non si sfama; ed è cupidigia dei detti beni in grado di eccellenza assoluta, sopra, quindi, anche Dio che è l’altissimo; cioè superbia; e la superbia asseta, il che, con metafora alquanto diversa, torna quanto dire che è insaziabile. Ecco una delle ragioni per cui la triplice malizia non è quodam modo il triplice amor del male e il triplice peccato spirituale; ma per Dante, e per altri mistici, la stessa stessissima cosa.
[144] Questa ricerca è stata fatta dal bravo quanto modesto prof. L. M. Capelli [Per una nuova interpretazione dell’Allegoria del Primo Canto: estratto del quad. VIII-IX anno VI (III della Nuova Serie) del Giornale dantesco diretto da G. L. Passerini]. Egli bene illustra quella che nelle mie intenzioni era una comunicazione scientifica, naturalmente breve. Benissimo egli scrive a pag. 19 e segg. «Un’obiezione viene qui forse spontanea al lettore. Se la volpe, dalla quale tutti gli animali furono ingannati, era nel medio evo diventata il tipo d’ogni specie di malizia e di impostura, perché non fu assunta da Dante come simbolo della frode? Probabilmente per una ragione del tutto estetica; egli, superata la lonza ed il leone, non avrebbe potuto, senza violare quelle leggi di verosimiglianza, alle quali pure obbediva l’altissima sua fantasia, tremare alle vene ed ai polsi dinanzi ad un misero volpatto...» Questa risposta è tanto più notevole testimonianza dell’acume del Capelli, in quanto egli omette, mi pare, la più sicura fonte della dantesca raffigurazione simbolica: il passo, cioè, che era nella M. O., di Cicerone.
[145] Inf. XI 22 segg.
[146] Inf. I 53.
[147] Il passo di Brunetto così suona nella traduzione di Bono Giamboni: «Crudeltà è divisa in due maniere. L’una è forza, e l’altra è bugia. Forza è come di leone, bugia è come di volpe (nel cod. è simia, nel francese è gorpil); l’una e l’altra è pessima cosa ed inumana» etc. Il Moralium Dogma è stampato nell’ed. italiana del Brunetto Latini di Sundby.
[148] Inf. XXVII 75.
[149] Il Casini interpreta: «le mie opere non furono tanto di uomo forte quanto di uomo astuto». Alle parole forte e astuto, specialmente alla prima (o non era, Guido, forte?) devono sostituirsi, per aver il pensiero di Dante, queste di violento e fraudolento. Egli confessava il contrario di ciò che simula il ladro Vanni Fucci, che vorrebbe essere stato leone, e invece fu volpe o lupa.
[150] Pur. XXXII 109-120.
[151] Inf. XI 22 seg.
[152] Di questo capitolo sono per gran parte debitore all’acuto, elegante e profondo ingegno di Raffaello Fornaciari, il quale è pur debitore, come egli stesso afferma, a Luigi Bennassuti, uomo che nel miro gorge dantesco vide assai chiaro. Non noterò qua e là dove mi allontano dall’uno e dall’altro; rimando il lettore a tutto quel mirabile studio del Fornaciari, comparso negli Studi su Dante: Milano, Trevisini, 1883, sotto il titolo: La ruina di Dante (pp. 31-45).
[153] Inf. VIII 125 segg.
[154] Inf. V 34 segg.
[155] Inf. XII 28 segg.
[156] Inf. XII 1 segg.
[157] Inf. XII 31 seg.
[158] Inf. XII 34 segg.
[159] È un’osservazione importantissima codesta, della quale in Minerva Oscura trassi molto utile. Il Fornaciari così dice: «Questo Poeta (come bene avverte il Cesari — Bell. di Dante, Dial. X e altrove —) tien sospeso il lettore accennando qui e qua senza più, e mette nel lettore curiosità: poi viene snocciolando ad una ad una le cose, riserbandosi tuttavia qualcosa da spiegare quando vorrà... Il Poeta, come si conviene a chi narra cose vedute e provate da lui, prima si rappresenta gli effetti e sol più tardi e, quando pare a lui, ce ne accenna le cause e la condizione». Benissimo; e il fine di questo modo Dantesco può esser quello di metter curiosità più presto di quel che credo io, ossia di scaltrirlo e ammaestrarlo; ma il modo stesso ha la sua causa nel proprio essere simbolico di Virgilio e di Dante, e in ciò che si vedrà meglio in questo studio nostro.
[160] Inf. XXI 107 segg.
[161] Inf. XXI 102 segg.
[162] Ricordiamo la traduzione di frode attraverso il francese di Brunetto, fatta dal Giamboni in bugia.
[163] Inf. XXIII 133 segg.
[164] Non vedo perché il Fornaciari metta (a p. 40) tra i peccatori non maliziosi i violenti.
[165] Inf. XI 57 segg.
[166] Inf. XXIII 144.
[167] Resisto difficilmente alla tentazione di anticipare su questi studi di conferma e di riprova, riportando le conclusioni di Minerva Oscura. Qui, per esempio, vedano i miei critici, veda ogni mio lettore, quanto più giusto e chiaro torna il ragionamento, mettendo, vicino a Gerione, la parola INVIDIA, e vicino a Lucifero, la parola SUPERBIA. E avverto il lettore che, a proposito del regno dei diavoli, troverà schiarimenti più avanti.
[168] Inf. XIV 116 segg.
[169] Inf. VII 106 segg.
[170] Inf. XI 70 segg.
[171] Inf. XI 84.
[172] Inf. V 38.
[173] Inf. VII 116.
[174] Inf. XI 70 segg.
[175] Inf. XI 1 segg.
[176] Inf XII 1 segg.
[177] Invero la malizia violenta si suddivide subito in violenza contro gli altri, contro sé e contro Dio; mentre la malizia fraudolenta si suddivide prima in frode semplice e tradimento; e poi la frode semplice in dieci peccati, ipocrisia, lusinghe etc., e il tradimento in quattro: contro parenti, contro la patria etc. La suddivisione della violenza in tre non ha bisogno di tre cerchietti, ma di tre gironi, mentre la prima suddivisione della frode in due, ha, sì, bisogno di due cerchietti. Ai gironi della violenza corrispondono, non i due cerchietti della frode, ma le dieci bolge del primo di essi e le quattro circuizioni del secondo. Da ciò venne a Dante la necessità d’un’altra figurazione simbolica della malizia, per mettere alla pari, in una speciale triade, la malizia con forza, non più con la malizia fraudolenta e con l’incontinenza (come egli fa con le tre fiere), ma con la malizia fraudolenta semplice e con la malizia fraudolenta complessa. E così imagina le tre furie. Del che sarà discorso più avanti.
[178] Inf. XII 47 seg.
[179] Inf. XIV 94 segg.
[180] Inf. XIV 130 seg.
[181] Inf. XII 105.
[182] Inf. XXXII 38, 46 segg., 79; XXXIII 94 segg., 112 segg.
[183] Aen. VI 134: Styx ntoerorem signi ficat... a tristitia Styx dicta est. Ib. 94..
[184] Aen. VI 295 sqq.
[185] Aen. VI 597.
[186] Aen. V 265.
[187] Inf. XIV 118.
[188] Inf. XXXII 71 seg.
[189] Inf. I 57.
[190] Inf. I 47.
[191] Inf. VII 121 seg.
[192] Inf. I 42.
[193] Inf. I 43.
[194] Pur. XIX 62.
[195] Non posso qui dilungarmi sul significato di Stige in rapporto con l’incontinenza. Qui e ora basti ch’egli è tristizia quale si raccoglie dall’incontinenza, ed essendo pur essa incontinenza, è anche accidia: come la femmina balba del XIX del Purgatorio è nel tempo stesso incontinenza
che sola sovra noi omai si piagne,
cioè avarizia, gola e lussuria; ed anche accidia, perciò è balba (come quelli di Stige non hanno la parola integra) e ha gli occhi guerci ed è storpia e monca; e ciò senza cessare di essere incontinenza, che ell’è dolce sirena. Ella è l’accidia generata dall’incontinenza e generatrice d’incontinenza. Generatrice d’incontinenza, poiché, quando Dante la mira, il suo sguardo la faceva rivivere; e si drizzava e colorava e cantava. E contro lei è rimedio nell’alto dì, e nel sol nuovo, e nel rivolgere gli occhi al logoro del re eterno. Così come la lonza e contro la tristizia. La qual tristizia è incontinenza e accidia. E così la lonza. Salvo che nella lonza L’accidia e nella tristizia l’incontinenza sono comprese come cause. E si forma così questo concetto: accidia produce incontinenza, e incontinenza accidia.
[196] Da « II Marzocco », 26 agosto 1900.
[Anche questo scritto è trasportato qui da Conferenze e Studi Danteschi, dove aveva il secondo posto. Le ragioni sono le stesse che mi hanno già fatto mettere ora lo scritto Esame di coscienza... dantesca, che nel detto volume di Conferenze precedeva questo; ragioni che ho esposto in nota a pag. 289.
In questo articolo il Pascoli conferma – in polemica col D’Ovidio – la sua interpretazione delle tre fiere; ma specialmente si duole della diffusione che la rivista «Minerva» diede allo scritto del D’Ovidio uscito in «Flegrea» il 5 luglio 1900, e alla mancata pubblicazione in «Minerva» della «rettifica» pascoliana.
Anche su questa polemica, che suscita dolori e asprezze nel Pascoli, si vedano per es. le lettere del tempo al Pietrobono, in Vannucci, P. e gli Scolopi, p. 272 e seguenti. Importanti anche per l’ispirazione e il metodo degli studi pascoliani queste parole: «Ora c’è qualcosa che al D’Ovidio insegnerà un po’ di modestia... Che ciechi! Finta battaglia sarà quella contro... i critici-storici esclusivi! Essi hanno ridotto la scuola italiana a uno scetticismo! a una nullaggine afosa! È ora di riscuotersi!» (20 luglio 1900). Nota dei Curatore.]
![]() |
![]() |
| © 1996 - Tutti i diritti sono riservati Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi Ultimo aggiornamento: 20 gennaio 2008 |