La biblioteca classicistranieri.com esprime solidarietà incondizionata all’insigne filologo e finissimo intellettuale Luciano Canfora per la pretestuosa e temeraria querela ricevuta da un’Alta Carica Istituzionale.
Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce glisi era fatta rocca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole.
Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll’uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze selo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, comese desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere nè alla messa, nè sul ballatoio, chè si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu comelo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! però non ne fece nulla, e si sfogò coll’andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella.
— Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, dicevano i vicini, che passa lanotte a cantare come una passera solitaria?
Finalmente s’imbattè in Lola che tornava dal viaggioalla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece nè bianca nè rossa quasi non fosse stato fatto suo.
— Oh, compare Turiddu, me l’avevano detto che siete tornato al primo del mese.
— A me mi hanno detto delle altre cose
ancora! rispose lui. Che è vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere?
— Se c’è la volontà di Dio! rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto.
— La volontà di Dio la fate col tira e molla comevi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola!
Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce glisi era fatta rocca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole.
— Sentite, compare Turiddu, gli disse alfine, lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?…
— È giusto, rispose Turiddu; ora che sposate compare Alfio, che ci haquattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia
madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch’ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d’andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro nell’andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu.
La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d’oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d’indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell’oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava. — Voglio fargliela proprio sotto gliocchi a quella cagnaccia! borbottava.
Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza.
— Perchè non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? rispondeva Santa.
— La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora!
— Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, nè il suo santo, quando ci siete voi, chè la gnà Lola, non è degna di portarvi le scarpe, non è degna.
sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile.
Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poichè la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gliocchi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell’uscio, la figliuola gli aprì la finestra, e stava a chiacchierare con lui tutta lasera, che tutto il vicinato non parlava d’altro.
— Per te impazzisco, diceva Turiddu, e perdo il sonno e l’appetito.
— Chiacchiere.
— Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti!
Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu.
— E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più?
— Ma! sospirò il giovinotto, beato chi può salutarvi!
— Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! rispose Lola.
Turiddu tornò a salutarla così spesso che Santa sene avvide, e gli battè la finestra sul muso. I vicini selo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo, quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule.
— Domenica voglio andare a confessarmi, chè stanotte ho sognato dell’uva nera, disse Lola.
— Lascia stare! lascia stare! supplicava Turiddu.
— No, ora che s’avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perchè non sono andata a confessarmi.
— Ah! mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. Sull’animamia non voglio mandarti a Roma per la penitenza!
Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste.
— Avete ragione di portarle dei regali, gli disse la vicina Santa, perchè mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!
Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull’orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore comese l’avessero accoltellato. — Santo diavolone! esclamò, se non avete visto bene, non vi lascierò gliocchi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado!
— Non son usa a piangere! rispose Santa; non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di nottein casa di vostra moglie.
Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l’uggia all’osteria, cogli amici; e la vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gliocchi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell’affare e posò la forchetta sul piatto.
— Avete comandi da darmi, compare Alfio? gli disse.
— Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi.
Turiddu da prima gli aveva presentato un bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse:
della Canziria potremo parlare di quell’affare, compare.
— Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme.
Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l’orecchio del carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare.
Gli amici avevano lasciato la salsiccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gnà Nunzia, poveretta, l’aspettava sin tardi ogni sera.
— Mamma, le disse Turiddu, vi rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a tornar più? Datemi un bel bacio come allora, perchè domattina andrò lontano.
Prima di giorno si prese il suo coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno, quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria.
furia? piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire.
— Vado qui vicino, rispose compar Alfio, ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più.
Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto, premendosi sulle labbra il rosario che le aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi.
— Compare Alfio, cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi. Come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto lamia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere lamia vecchierella.
— Così va bene, rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto, e picchieremo sodo tutt’e due.
Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; comela rese, la rese buona, e tirò all’anguinaia.
— Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi!
— Sì, ve l’ho detto; ora che ho visto lamia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi agli occhi.
— Apriteli bene, gliocchi! gli gridò compar Alfio, che sto per rendervi la buona misura.
Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi all’avversario.
Ei cercava di salvarsi, facendo salti disperati all’indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un’altra botta nello stomaco e una terza alla gola.
— E tre! questa è per la casa che tu m’hai adornato. Ora tua madre lascerà stare le galline.
Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola e non potè profferire nemmeno: — Ah, mammamia!
La prima edizione dei Cantifu pubblicata a Napoli, curata dall’autore, nel1835. Superficialmente sarebbe potuta apparire un’ennesima raccolta della tradizione classicista italiana. Nulla di nuovo infatti nel contenuto e nel linguaggio. Il pessimismo e la noia sono temi che dall’Ecclesiaste erano apparsi regolarmente nella letteratura occidentale, da quella classica fino al Werther. Le sferzate poetiche contro la decadenza politica e civile della “patria”, le cui prime attestazioni nella tradizione culturale occidentale risalgono ai profeti veterotestamentari, già inDante e Petrarca avevano raggiunto vette altissime. Nulla di sostanzialmente nuovo neanche nella lingua poetica, la stessa oramai canonica dal Petrarca in poi: “sembiante” per viso, “luci”, “lumi” o “rai” per occhi,“garzone” per giovane, “beltà”, “augelli”, “alma”, “cor”, ecc. Ma si legga a caso un passo dei Canti, ed ecco che, come nella musica di Mozart, siamo colpiti da un tono nuovo, unico, difficilmente analizzabile. Si provi ad invertire un qualunque sintagma e la magia scompare! Mai titolo fu più pertinente. Ma non è musica fine a sé stessa. Dispiegata sulle “ali del canto”, la voce, così profondamente sincera ed umana di GiacomoLeopardi, grazie all’ineffabilità che nasce dal suo sforzo poetico, continua a toccarci l’animo e il cuorecome poche altre, nella poesia italiana. (Riassunto di Sergio Baldelli)