Gaetano Carlo Chelli – Per un fiore!

I

Lettrici gentili, voi non conoscete Giorgio Alviti. Se lo conosceste, io credo che nel fondo del vostro cuore, si troverebbe un palpito arcano di simpatia verso l’eroe sfortunato del nostro racconto.

Bello, giovane, allegro, spiritoso e ricco, ecco le sue doti. Convenite che le medesime riassumono molti elementi necessarii a rendere amabile un uomo.

Se poi conosceste la causa di una sua qualità caratteristica, non ridereste ai fenomeni che ne sono la conseguenza, mentre ignorandola, vi sarebbe da ridere assai, malgrado tutto.

Un giorno il nostro eroe era immerso in uno di quei colloqui misteriosi nei quali le nostre labbra non trovano che voci e parole incoerenti; ma che pur tanto esprimono. Tali colloqui non avvengono altrimenti che fra due persone di sesso diverso e che stanno per incamminarsi sulla via dell’amore. La romantica compagna di Giorgio – una leggiadra brunetta molto nervosa e quindi molto facile alle emozioni – pendeva affascinata dalle labbra eloquenti del suo interlocutore. Ella non rispondeva più che con parole tronche, indistinte, che si esalavano a metà in un sospiro e in un palpito. Ella sognava un mondo di beatitudine, e nelle sue vene scorreva il fremito di una strana voluttà.

Dopotutto però, la posizione della leggiadra brunetta era imbarazzante assai, e questa sentì il bisogno di farla cessare.

Non v’era mezzo migliore, per raggiungere scopo siffatto, che cambiare argomento. L’adorabile fanciulla vi si attenne.

Era fermato al suo petto un mazzolino di violette. Essa lo staccò lentamente. Lo guardò fiso fiso, ed accomodando con delicatezza e con imbarazzo i vari fiorellini chiese a Giorgio:

– Osservate le belle violette! Emma, quella pazza fanciulla, sa ch’io la amo di molto e-

Ma non finì.

Giorgio aveva seguito i moti della giovinetta. Così, egli si accorse del mazzolino.

A tal vista, uno strano cambiamento operossi in lui. Egli divenne pallido per ribrezzo; quasi tremò confuso e annichilito com’era, e quando la sua interlocutrice sporse innanzi la mano, come per invitarlo a prendere il mazzolino, fece un tal salto indietro e gli si sprigionò dal petto un tal urlo, che sembrò lo avesse mosso un serpe.

Una voglia irresistibile di ridere s’impadronì della fanciulla che rise, rise con tutta l’anima, a piena voce-

Povero Giorgio! Il faticoso edificio innalzato dalla sua eloquenza era caduto. Nulla ormai avrebbe potuto innalzarlo di nuovo. Giorgio in un istante era divenuto ridicolo agli occhi di colei che lo avrebbe forse amato con trasporto ed entusiasmo.

Che un fiore faceva tale effetto su Giorgio, non era la prima volta e non doveva esser l’ultima. La sola vista de’ fiori esercitava nel povero giovane la stessa influenza di ribrezzo che provereste, care lettrici, al contatto di un rettile.

A noi così strana antipatia solletica la curiosità. Noi ne vogliamo conoscere la prima origine. E buon per noi che un siffatto desiderio non ci sarà difficile appagare.

II

Nessuno ha mai resistito al fascino della bellezza. Secreto o palese, l’amore alligna in ogni cuor di mortale, e in esso solo, forse, sta riposto il secreto di tutte le agitazioni della vita, glorie od infamie, gioie o dolori, ricchezze o miserie.

Giorgio amò – Amò la bellezza dell’anima e la bellezza della materia riassunte in una fanciulla – Questa fanciulla si chiamava Ida.

Figuratevi una giovinetta rosea, bionda, dall’occhio ceruleo, dalle labbra bellissime atteggiate ad eterno sorriso, da quell’espressione ardente dello sguardo e delle movenze che suppone una quasi violenza di affetti e di sentimenti, un impeto, così nel piacere come nel patimento. Tal era Ida.

La voce della leggiadra era un’armonia, un gorgheggio infinito. A lei non mancavano davvero argomenti, e, testolina bizzarra, la non risparmiava punto i poveretti o le poverette che, presente lei, avessero fatto o detto cose che dassero campo al sarcasmo od al riso

C’è da scommettere che la non avesse pensato mai all’amore. In quell’ambiente di felicità e spensieratezza ov’ella viveva, il vuoto del cuore non poteva esser sentito. Ma una volta ella sentì come una forza misteriosa che le facea volger lo sguardo, e questo andò ad incontrarsi con quello di Giorgio.

Allora il cuore di lei provò moti mai provati prima. Una smania, un accasciamento di tutte le forze, una noia alla vista di ciò che in passato la divertiva, e poi certe preferenze per certi luoghi, un desiderio irresistibile di solitudine, un affanno arcano, un continuo fantasticar sull’ignoto, quasi una volontà strana di piangere di nulla e per nulla, modificarono il suo carattere. Giorgio l’amava. Ella amò Giorgio.

Furon felici per qualche tempo: un tempo che volò e si estinse colla velocità del pensiero. Se si avesse detto a lei che tutto ciò doveva presto cessare, avrebbe riso di molto e dato dell’imbecille al cattivo profeta. Ell’era convinta, fermamente convinta, che il suo contento, il suo amore sarebbe durato eterno.

Ma nel suo carattere Ida aveva un difetto. Questo difetto fu quello che distrusse il sogno dell’amore dell’Ida, e che fece la sventura di Giorgio.

Nella impetuosità del suo carattere, nell’ardenza dell’affetto suo, Ida voleva che Giorgio portasse a lei la sommissione di uno schiavo, poi era gelosa e sospettosa di molto.

Una sera, – sciagurata sera! – fra l’Ida e Giorgio avvenne una di quelle scaramuccie di amore che offuscano di qualche lieve nube l’orizzonte, ma che ordinariamente non conducono la tempesta. La sera innanzi Giorgio aveva applaudita con trasporto una ballerina. Ida fu gelosa di quell’applauso e sospettò che Giorgio le fosse infedele coll’intenzione.

Quando il povero giovane fu partito irritato di non poter convincer la bella severa, ella disse fra sé:

– Vedremo ciò ch’egli farà allo spettacolo di questa sera.

III

Giorgio non aveva mai amato i fiori. L’odore di essi produceva in lui l’emicrania, e se pur comprendeva che quel profumo potesse piacere negli appartamenti, non si dava però pace che un individuo, e specialmente un individuo maschio, potesse girandolare con un fiore o con un mazzolino sul petto od in seno.

Ida sapeva tutto ciò.

Quella sera Giorgio non voleva recarsi a teatro. La sua assenza avrebbe convinto l’Ida ch’egli non aveva nulla colla ballerina.

Già calcolava come impiegare altrimenti le ore, quando un nuovo ordine d’idee lo fece cambiare affatto determinazione.

Egli non amava Ida soltanto con veracità di sentimento. L’amava con tutto l’ardore dell’entusiasmo. Vederla era per lui un fascino inebriante, un bisogno irresistibile.

D’altronde, se la sua presenza in teatro poteva dar qualche sospetto all’Ida, egli avrebbe saputo distruggerlo non lasciandosi punto trasportare dalle piroette delle ballerine e badando di non applaudir questa per nessuna causa. L’essere invece assente dalla platea, non poteva forse far nascere nell’amata il sospetto ch’egli fosse dietro le quinte o ne’ corritoi vicini al palcoscenico?

Giorgio decise adunque entrare in teatro ed entrò.

Lo spettacolo era già cominciato; ma tre o quattro amici del giovane erano tutt’ora nell’atrio a discorrere assieme. Salutarono Giorgio e lo chiamarono. Egli si fermò e prese parte ai loro discorsi.

L’argomento erane un’avventura galante che aveva a protagonista la ballerina applaudita la sera innanzi da Giorgio.

Ecco di che si trattava.

Fin dal principio della stagione erasi invaghito della leggiadra silfide un distinto celibatario della città. Egli aveva avanzate le sue proposte, che dopo qualche tempo erano state accettate. Poco credente però della virtù delle donne da teatro in generale, e delle ballerine in particolare, dicevasi ch’egli fosse stranamente geloso. Si narrava in quella sera di una scena tragicomica avvenuta al mezzogiorno fra il signor M. (il celibatario) e la ballerina, e se ne rideva di molto.

Giorgio rise anch’egli alla notizia.

Uno dei giovani che Giorgio aveva incontrato, teneva fra le mani un fiore. Al nostro eroe venne una pazza voglia di possederlo. Lo chiese all’amico:

– Scusami – rispose quest’ultimo – ma non posso davvero servirti. Questo fiore mi è troppo caro. D’altronde, a che te ne serviresti? Tu abborri i fiori.

– Ebbene – disse Giorgio ridendo – se tu mi favorisci ti prometto che, per la prima volta in vita mia, mi appunterò il fiore all’occhiello e resterò così in teatro fino alla fine dello spettacolo.

– Tu!- Tu ammalato di rabbia canina contro questi gentili prodotti di madre natura!- Ah! ah! La è davvero ridicola!-

– Dunque?

– Dunque, voglio vedere anche questa!

E dette il fiore a Giorgio.

Esso lo fermò all’occhiello, e tutti entrarono in platea.

IV

Ida era in un palco di seconda fila assieme ai propri genitori. Il signor M. era andato a far visita a quella famiglia.

Abbiamo detto che la fanciulla era gelosa e sospettosa assai. Sulla tardanza di Giorgio allo spettacolo, aveva fabbricato mille castelli in aria, e come il giovane aveva temuto, si figurò che per quella sera egli volesse starsene fra le quinte del palcoscenico.

Pure essa interrogava ad ogni istante e con ansietà l’ingresso delle sedie chiuse, ove Giorgio aveva un posto assai presso al palchetto.

Appena dunque l’amante entrò, Ida lo vide. Lo vide, e divenne pallida come la cera.

Il fiore brillava all’occhiello del giovane, che ostentava una pazza allegria.

Mille sospetti suscitò nel cuore della povera innamorata quel fiore fresco e smagliante. Se il suo Giorgio aveva potuto adornarsi di quelle foglioline odorose che tanto poteano esprimere nel misterioso linguaggio dell’amore, ciò avea dovuto essere a seguito di un istante di ebrezza indicibile, capace di cambiare fin anco i gusti ed il carattere del perfido! Da lei Giorgio aveva sempre rifiutato un fiore. Era dunque necessario che, per accettarlo da un’altra, amasse la seduttrice a mille doppi maggiormente di quello che non aveva amato lei. E la povera Ida che avea sognato col traditore un lungo avvenire di felicità! Un’infinita vicenda di dolcezze e di affetto! Oh!, credete alle proteste dei signori uomini- Essi vi turbano il cuore e la mente- Vi fanno provare palpiti arcani ed impetuosi; gettano tutta voi stessa nelle illusioni di un sogno fantastico e soave, eppoi, alle prime lusinghe della prima sirena incantatrice, vi abbandonano, stanchi dell’amore onesto e virtuoso, per bere fino alla sazietà le dolcezze, che si cangiano poi presto in fiele, del tradimento e della colpa!-

Così Ida eccitavasi seco stessa, cedendo all’impulso di una sùbita aberrazione. Era tanto convinta del tradimento e della perfidia di Giorgio che la non avrebbe ascoltato da parte del giovane nessuna scusa, non l’avrebbe convinta in suo favore nessun argomento, non avrebbe dato fede a nessuna prova con cui si fosse tentato di ricondurla a più sano giudizio.

Ad onta però di un pallore permanente e di un tremito impercettibile di tutte le membra Ida non tradì il secreto dell’aspra battaglia che si combatteva in cuor suo. Giorgio non doveva accorgersi di nulla. Non doveva avere il trionfo di vedere andare in ismanie colei che aveva così indegnamente tradito. Egli doveva esser tratto a credere che se non amava più l’Ida, Ida non amava più lui.

Il signor M. si accorse di qualche cosa. Essendo amico intimo della famiglia, e sapendo l’Ida fidanzata a Giorgio, interrogò delicatamente la fanciulla, se la causa dell’indifferenza con la quale essa compensava l’affannarsi dell’amante, che dalla platea cercava ogni mezzo di richiamare su di sé uno sguardo ed un sorriso, fosse qualche lieve dissapore.

– No davvero – rispose Ida – noi non abbiamo avuto nulla fra noi.

Poi a bassa voce:

– Temo – soggiunse – che il nostro matrimonio non avverrà più.

– Come mai? – chiese M. al massimo della sorpresa.

– Guardi Giorgio – disse Ida. – Egli ha un fiore sul petto.

– Verissimo. Ebbene?

– Ebbene! Gli è stato dato da Fanny la ballerina-

V

Il signor M. parve scosso da una scintilla elettrica. Un lampo d’odio o di gelosia, partito dai suoi occhi, andò a conficcarsi su di Giorgio. Questi sentì la potenza magnetica di quello sguardo e ne ricambiò un altro.

Che ha mai con me colui? Chiese a sé stesso il giovane. Ma non trovando una risposta soddisfacente pensò ad altro.

Ida lesse nel cuore a M. Dopo tutto, ella amava sempre Giorgio e provò dolore che le sue parole potessero in qualche modo aver serie conseguenze. Ma a lei non conveniva più ritirarle. Il dado era tratto.

Il sipario calò. M. alzossi e prese immediatamente commiato.

Giorgio, dopo la vanità de’ suoi sforzi, era caduto in una di quelle irritazioni nervose che rendono un uomo molto facile alla stizza ed al dispetto. Fantasticando anch’egli sul contegno dell’Ida, sospettò che M. con qualche insinuazione, potesse aver mantenuto vivo nel di lei cuore quel sentimento che era stato la causa e l’effetto della contesa de’ due amanti.

Ebbene! Mormorò il giovane, cercherò di avere con quel signore una buona e chiara spiegazione; e se mai-

Non finì. S’era sentito chiamar da vicino.

Si volse. Eragli a lato M.

– Se non vi disturbassi- – disse questo nel modo più compito, ma guardando il giovane di sbieco – Se non vi disturbassi, avrei a chiedervi il favore di un colloquio da solo a solo.

– Sono ai vostri ordini – disse Giorgio, alzandosi senza frapporre un istante di indugio.

Uscirono assieme ne’ corritoi.

– In che posso servirvi? – chiese Giorgio quando si vide lontano dallo sguardo dei curiosi.

– Ho da farvi una sola domanda. Chi v’ha dato quel fiore che vi sta così bene all’occhiello?

La domanda era tanto strana e tanto singolare e d’altronde, nello stato di irritazione in cui Giorgio trovavasi, lo urtava in tal modo ch’egli, rosso di collera, disse:

– Permettetemi o signore, di dirvi che una tale domanda mi meraviglia infinitamente. Essa è così assurda, ch’io credo vi vogliate burlare di me, e ciò non consento a nessuno.

– V’ingannate. Vi giuro sul mio onore che non ho mai parlato più seriamente d’adesso. Io torno quindi a chiedervi-

– Basta. Nel caso in cui non si tratti di una burla di pessimo genere, vi dirò che non riconosco punto in voi il diritto di chiedermi ciò che volevate chiedere. Tanto meno poi avete diritto ad una risposta.

– Allora, o signore, siccome so che quel fiore vi è stato donato da Fanny, e siccome era, per parte vostra, una indegnità l’accettarlo-

– Misurate le vostre parole, o signore! Non vi accorgete adunque che m’insultate?

– Ed io vi credo assai buon gentiluomo perché non dobbiate lasciar passare inosservato un insulto.

– Capisco. Due miei amici saranno domani dalle persone che voi scieglierete.

– Vi ringrazio. Permettetemi di prendere commiato da voi. Fra pochi minuti saprete a chi indirizzare i vostri amici.

I due interlocutori si separarono nei termini della più perfetta gentilezza.

VI

Pochi minuti più tardi Giorgio aveva trovato due uomini che consentirono fargli da secondi, e sapeva quali erano i testimoni di M.

Ai padrini fu affidata la scelta delle armi, del luogo e dell’ora del duello. Essi, come sempre avviene, si occuparono invece di trovare il mezzo di appianare quel dissapore, che, evidentemente, doveva essere il risultato di un equivoco.

Ma i loro sforzi furono paralizzati sul nascere. Giorgio si era eclissato, né sapevasi dove potesse aver rivolto i suoi passi. Come avere da lui le opportune spiegazioni?

L’irritazione di Giorgio si aumentò dopo la sfida. Egli non era pauroso, ma si sarebbe dato delle pugna nel capo pensando come l’innocente regalo fattogli dall’amico, il più innocente proposito di farne pompa, potesse trargli sul capo la bellezza di un duello.

Ah!, mormorava; è pur vero che le disgrazie non vengono mai sole! Tormentato dai capricci dell’Ida, addolorato dalla sua gelosia, doveva capitarmi anche quest’altro pasticcio!

E questa è opera dell’Ida stessa, lo giurerei! Quella fanciulla, che pur tanto amo, è stanca di me, non mi vuol più vicino cerca ogni mezzo per sbarazzarsi di un uomo che alla fin fine avrebbe fatto scopo unico della sua vita la brama di circondarla di contento e di felicità, e la non si arresta neppure alla enormità di- Quale infamia! Ho bisogno d’aria libera!

Uscì all’aperto. Infilò la prima strada trovatasi innanzi senza prendere nessuna direzione, ma andando innanzi alla ventura ed a caso. Si allontanò dal centro della città; si trovò ad una delle porte di essa; la varcò, e fu nell’aperta campagna.

Il bujo notevole di quella notte, la pace profonda che tutto intorno regnava, quel silenzio arcano e quasi religioso, quella solitudine completa, lo sollevarono un po’. Calmossi la sua irritazione, e desiderò quindi, più ardentemente che mai, venire ad una spiegazione coll’Ida e riappacificarsi con lei. Circa a M. era necessario vedere qual’era la causa vera che aveva mosso quell’uomo a insultar lui (Giorgio) e se mai in tutto ciò non fossevi stata che la conseguenza di un malinteso o di un equivoco., pensare anche ad accomodare il pasticcio del duello.

Giorgio mulinava tra sé i mezzi migliori di ottenere i risultati che si era proposti. Egli intanto andava innanzi francamente.

Giunto ad un certo punto della strada, sotto un cupo viale di alberi annosi, e presso una foltissima siepe che fiancheggiava per lungo tratto la via, parvegli udire un lieve stormir di fronde. Si fermò sospettoso per cercar la cagione di quel rumore. Non scuoprì nulla affatto. Allora ritenne che fosse stato un alito di vento, o lo svolazzare di qualche uccello notturno.

Fece ancora quattro o cinque passi, ma si fermò poi di botto. Se fosse stato di giorno lo si sarebbe visto impallidire e tremare.

Questa volta non v’era luogo a sbagli. Si erano armati i cani di un pajo di pistole. Contemporaneamente una voce partì dall’altro lato della siepe, imponendo:

– Ferma, o sei morto!

E quattro ombre si disegnarono alla estremità della strada, avvicinandosi precipitosamente a lui.

Appena i quattro aggressori furon presso Giorgio, brillò lo splendore di una lanterna cieca. Giorgio ricevette tutti i raggi di quella sul viso.

– Maledizione! – gridò uno dei quattro – Abbiamo sbagliato!

– Chi ti permette venir qui a quest’ora? – chiese un altro al povero giovane.

– Bastoniamolo per punirlo. – propose un terzo.

Giorgio, invocando tutto il coraggio, se possiamo così esprimerci, dalla gran paura che aveva, scaraventò otto o dieci pugni alla cieca, che colpirono tutti e mandarono a gambe levate tre degli aggressori. Poi prese una corsa sfrenata attraverso i campi.

VII

Sarebbe stata strana cosa il poter vedere quel giovane elegantissimo darsi, così, l’aria di un ladro e affondare, fino alla noce, gli stivaletti sulla terra mossa dei solchi.

Egli non aveva direzione. Correva, senza sapere ove s’andasse. Le case passavangli d’accosto, nel bujo della notte, come apparizioni fantastiche. Così alberi e piante.

L’affannoso sollevarsi del suo petto, la circolazione troppo accelerata del sangue, lo spossamento che segue sempre uno sforzo, l’obbligarono alla fine a fermarsi. Si fermò e guardossi attorno. Era solo, e il silenzio della notte era solo interrotto dai lontani guaiti di un cane che pareva avvicinarsi.

L’atto improvviso di Giorgio aveva sorpreso i cavalieri notturni che avevano assalito il giovane. Quando quello di essi che era restato in piedi pensò ad inseguirlo, il nostro eroe era già lungi di molto. Fu dunque deciso lasciarlo perdere, e que’ signori avean buone ragioni a ciò fare.

Giorgio restò qualche tempo immobile per orizzontarsi. Non gli venne fatto. S’arrabbiò contro sé e contro il destino. Imprecò ai capricci dell’Ida. S’ella non ne avesse avuti non sarebbe avvenuto nulla di male. Era necessario assolutamente finirla con quella fanciulla troppo suscettibile e che facea troppo disperare la gente.

Così pensava il povero Giorgio ed in quella situazione imbarazzante l’eccitazione di tutto il suo essere lo traeva a maggiormente fissarsi nella determinazione di lasciar l’Ida.

– Domani! Egli concluse, domani sarà tutto finito.

In quella s’accorse che gli stava ancora sul petto il fiore che aveva provocata la sfida. Povero fiore tutto pesto ed ammaccato che attendeva esser gettato lungi come cosa inutile.

Infatti Giorgio si staccò violentemente il fiore dall’occhiello e lo gettò.

– Anche tu – disse – dovevi venirmi tra’ piedi! Va’! giuro che non porterò mai più fiori in vita mia.

I guaiti del cane erano da qualche tempo cessati; ma nella oscurità notturna parve a Giorgio che un corpo nero e grosso si avvicinasse con precauzione. Il giovane tremò credendo di trovarsi di fronte agli assalitori di prima, e si dette di nuovo a fuggire. Se non che, fatti pochi passi, un grosso cane nero gli era sopra abbajando furiosamente e strappandogli a brani l’abito.

Giorgio cadde. Non si poteva difendere. Egli era alla mercé di quel feroce animale. Per sua fortuna sopravvenne uno sconosciuto che seguiva da presso il cane e che levò questo di dosso al povero giovane.

– Chi siete e come siete qui?- Chiese lo sconosciuto.

– Ahimè!, io non so nulla, più nulla! – Mormorò Giorgio provando dolori acuti pei morsi del cane e pel colpo della caduta.- Soccorretemi e vi basti.

– Voi rispondete ben male ad una autorità costituita! – esclamò l’altro ingrossando la voce.

– Ma voi chi siete?

– Io sono la legge!-

Giorgio rise di cuore a questa scappata. Lo sconosciuto saltò in bizza-

– Io sono la Legge – continuò – cioè la Guardia Campestre, ed in nome della legge vi arresto come ladro notturno.

Era troppo! Giorgio s’alzò come spinto da una molla; ma poi restò affranto e scoraggiato, senz’aprir bocca, senza dire una parola di ciò che gli stava nell’anima.

D’altronde, egli non avrebbe potuto reagire. La Guardia Campestre, uomo robusto e ajutato dal suo cagnaccio nero, l’aveva avvinto, e con una prestezza e una maestria degna di miglior causa, lo legò.

Erano distanti forse quattro miglia dalla città, entro i confini di un comune rurale. Quella notte Giorgio dormì o piuttosto vegliò, guardato a vista, nella sala d’udienza del comune, facente funzione provvisoria di carcere.

VIII

L’indomani in città s’era disperati. M. era venuto a cognizione del come Giorgio avesse avuto quel fiore che causò la sfida, e così Ida. Il primo era pronto a far le sue scuse al giovane. La seconda desiderava ardentemente riappacificarsi di lui.

Ma Giorgio era sparito. Nessuno sapeva dar novelle di lui. In città era un dire, un meravigliarsi straordinario, giacché, dopo tutto, l’amante d’Ida era conosciuto di molto e tutti gli volean bene.

Dopo un paio d’ore d’infruttuose ricerche, quando alcuno cominciava già a pretendere che Giorgio si fosse annegato o datasi una pistolettata nel cuore o fuggito in America, una frotta di contadini, con a capo la Guardia Campestre, entrò in città, tenendo in mezzo, mani e piedi legati, il povero Giorgio senza cappello, tutto lacero ed infangato, pieno di lividure.

La folla si accalcò intorno a quello strano corteggio che entrò nel corpo di Guardia. Si procurò da tutti venire a capo del pasticcio e non fu difficile ritornare il giovane ai desolati parenti.

Appena rientrato in casa, Giorgio protestò che non voleva più sentire parlare dell’Ida. Poi si chiuse in un silenzio profondo, in una concentrazione strana di ogni facoltà del corpo e dell’anima. Nessuno, per quanti sforzi facesse, fu buono a trargli di bocca una parola. Soltanto d’ora in ora, Giorgio ripeteva cupamente:

– Per un fiore!!-