I.
L’Atta Troll, immaginato in Cauteretz, piccolo borgo de’ Pirenei, nel 1841, nella stagione delle bagnature, fu buttato giú in una prima composizione sul finire di quell’autunno, e nel 1842 pubblicato a pezzi in un periodico tedesco che s’intitolava Il mondo elegante. «Ma in generale i poemi epici – scriveva il Heine al suo editore Campe – han da essere rifusi piú d’una volta: quante volte rimutò il suo l’Ariosto! quante il Tasso! Il poeta alla fine è un uomo, e i migliori pensieri gli vengono dopo il fatto3.» E cosí, pensatoci su ancora qualche anno fra i dolori d’una lunga malattia agli occhi e i fastidii d’una questione d’interessi con parenti, Enrico Heine, sol nell’autunno del ’46, molte cose aggiunte, altre mutate, finí la piú fantastica e insieme la piú serenamente aristofanea satira che egli mai scrivesse e che la poesia germanica vanti.
L’autore stesso, nella prefazione che va innanzi al poema, narrò, con quella intima e splendida arguzia che è tutta sua, le circostanze fra le quali l’Atta Troll venne su, e anche rivelò i suoi intendimenti e le mire. Le ragioni storiche e politiche, le piú peregrine notizie, i piú sicuri schiarimenti su le allusioni personali, gli ha dati Carlo Hillebrand nella lettera al traduttore e nelle note che adornano preziosamente questa edizione. E già esso traduttore aveva pubblicato in un fascicolo della Nuova Antologia dello scorso anno un accurato studio su l’Atta Troll e sul genio satirico del Heine. Dopo ciò una mia prefazione è da vero inutile. Ma la prefazione di un terzo qualunque a un libro non suo può ella essere mai altro che inutile? Perché questa mia sia meglio in carattere, io cercherò di rappezzarla rubacchiando a man salva di qua e di là.
II.
Atta Troll è il filisteo tedesco mascherato da orso. Ma che cosa intendono i tedeschi per filisteo? e che cosa è il filisteo in generale? Lasciamolo dire al Chiarini, il quale, per la pratica lunga che ha avuto con l’orso, deve conoscerne meglio di altri il genio le abitudini e i gusti.
«Interrogando le sue memorie infantili intorno alla storia sacra, il lettore si rammenterà che i Filistei erano una piccola nazione della Siria, la quale fu lungamente in guerra col popolo ebreo; si rammenterà ch’erano gente robusta, ma grossa di cervello e dura, mentre gli Ebrei, che per ben due volte furono da loro soggiogati, ma seppero largamente vendicare le loro sconfitte, erano il popolo eletto, il popolo della luce, della civiltà, del progresso; si rammenterà che Sansone con una mascella d’asino ne uccise ben mille; si rammenterà che il piccolo David mosse senz’altra arme che la sua fionda contro il gran filisteo, il gigante Goliat, e lo atterrò, e toltagli la spada, e mózzogli con essa il capo, se ne tornò trionfante tra’ suoi. E queste reminiscenze gli faranno, io credo, rifiorire nell’animo l’immagine di una razza d’uomini grossolana e volgare, moventesi senza garbo né grazia, piena di sé medesima, ostinata, arrogante, prosuntuosa. Pare a me, e parrà, spero, anche al lettore, che que’ coraggiosi rappresentanti del vero spirito moderno in Germania, i quali si affidarono di combattere e vincere l’usanza con la ragione, avessero una felicissima idea, allorché, allargando il significato della parola filisteo, con la quale già fino da tempo antichissimo gli studenti delle università schernivano i giovani provinciali, lo affibbiarono ai loro oppositori in arte, in politica, in filosofia. Come in ogni nazione, cosí in ogni ordine dell’umana società, anzi in ogni scuola, in ogni setta, in ogni associazione, ci sono filistei; riconoscibili facilmente a un certo sussiego, che non si scompagna mai da una certa goffaggine, che è, come a dire, la pelle, onde madre natura li ha rivestiti. Sien essi romantici o classici, sieno liberali o assolutisti, sieno progressisti o retrogradi, sieno realisti o repubblicani, sieno credenti o increduli, sono sempre un po’ accademici, un po’ arcadi, un po’ pedanti; sono l’opposto della disinvoltura, della semplicità, della grazia, della eleganza; e perciò odiano queste qualità e chiunque le possiede, e perciò odiano spesso l’uomo d’ingegno, che non cura o deride le leggi ond’essi vorrebbero imbavagliare ogni cosa. E perciò i filistei tedeschi dovevano riguardare con un santo orrore Enrico Heine, ingegno indipendente, se altro mai, lucido, petulante, aggressivo; e perciò Enrico Heine doveva essere il piú fiero, il piú terribile, il piú spietato nemico de’ filistei. In ciò sta il carattere principale, e come a dire l’essenza del poeta. In ciò sta l’importanza dell’opera sua letteraria, la quale, come acutamente e giustamente notò Matteo Arnold ne’ suoi Saggi di critica, fu una guerra a morte contro il filisteismo, una guerra che durò quanto la vita dell’autore.»
Questa guerra Heine la combattè nell’Atta Troll con le sue piú belle armi d’oro e con un intendimento meglio che altrove determinato. «Atta Troll è il filisteo tedesco, virtuoso, liberale, amante della patria, che porta i capelli lunghi, che fa la ginnastica, che nutre un superbo disprezzo pei popoli corrotti di sangue latino, che si guarda con gran cura dal macchiare di voci straniere il suo nativo idioma». Cosí l’Hillebrand4 illustrava il tipo del filisteo tedesco: tipo, certamente, che si porge graziosissimo alla caricatura, da quanto lo chauvin francese, da quanto l’italianissimo, vestito di velluto, dei tempi del Primato. Ma l’intenzione lo spirito e le fogge della caricatura heiniana non si possono né cogliere intere né ammirare adeguatamente, se non si avverta da principio che Atta Troll è un tipo un po’ complesso: è il germanesimo caparbio in certe sue evoluzioni politiche e insieme in certe fasi dell’arte: è, se vogliamo dirlo piú breve, il germanesimo romanticamente politico. «Come in Germania – séguiti qui il Chiarini – la scuola romantica pura attribuí a sé il monopolio della virtú, del liberalismo, dell’amore di patria, e come i purissimi dei romantici tedeschi furono i poeti svevi; Atta Troll è anche la satira del romanticismo tedesco in generale e della scuola sveva in particolare».
Se non che, prima di far conoscenza piú stretta con la caricatura heiniana, è giusto avvertire quel che notava l’Hillebrand: «L’Atta Troll comincia a non avere piú in Germania quel che oggi dicesi una grande attualità. La scuola patriottica dei tedeschissimi (Deutschthümler), che avea per motto il frisch, fromm, fröhlich, frei, e della quale è uno de’ capi il padre Iahn, come Heine lo chiama, erasi già in parte modificata verso il 1840, quando il Gervinus ed altri, rinunziando a certe ridicolezze di forma e di linguaggio, infusero nuova e piú seria vita alla tendenza nazionale, benché serbassero poi nel fondo lo stesso orgoglio smisurato, lo stesso sentimento della propria virtú, lo stesso disprezzo per le nazioni neolatine. Cotesta scuola può dirsi che nel 1866 rimanesse interamente disfatta. Tuttavia i Mommsen i Wais ed alcuni altri non sono, chi ben guardi, che una terza metempsicosi dell’orso immortale»5.
III.
Ora qualche cosa del romanticismo bisognerà pur dire; ma, siccome gl’italiani si sono ostinati a non volerne udir discorrere e io sono un po’ pregiudicato, lasciamo parlare prima un altro, un forestiere.
Uno di quei francesi che innanzi al 1870 andavano pazzi della Germania e della sua poesia, il sig. Eduardo Schure, in una Storia della canzone popolare tedesca, piena d’ingegno e di notizie e di belle traduzioni, ma forse troppo enfatica e poetica da crederle su la parola che la sia una storia, scrisse, sul romanticismo germanico e su le parti diverse che vi sostenne Heine, alcune pagine, che paiono una ballata romantica esse stesse. Le traduco qui, a rischio che la mia prosa rimanga scolorita al confronto.
«La poesia romantica tedesca era nel 1825 a’ suoi piú be’ giorni. Una folla di adoratori le si stringeva attorno, cavalieri non pochi sventolavano i suoi colori nell’arena della letteratura e della critica, i re le sorridevano perché essa gli incensava, i diplomatici la proteggevano perché essa faceva dimenticare al popolo il pensiero della libertá. Proprio allora entrò in lizza un poeta scintillante di spirito e d’immaginazione, che si annunziò per il suo cavaliere piú devoto e ardente. Ahimè, si accorse ben presto che le lance, anziché per i vezzi d’una bellezza fiorente, ei le rompeva per una vedova non tanto in carne, vivente su la contraddote. Rosso di collera, le gittò in faccia il guanto, e a tutti i suoi campioni assestò tali stoccate che i piú non se ne rialzarono, e la venerabile dama ne morí di dispetto. Il cavaliere fantastico e terribile era Enrico Heine. A questo nome quante bizzarre e incantevoli apparizioni sorgono a turbinare nella memoria! Quante fate pensose ci guardano coi loro grandi occhi azzurri cupi, quante nisse beffarde ci motteggiano passando! Quante buffe caricature, quante figure dolorose ci sfilano davanti agli occhi! Si riapre ancora allo sguardo abbagliato la magica foresta dei racconti delle fate; e nella caligine luminosa dei verdi frondeggiamenti, fra gli scintillii del sole sul lussureggiante fogliame, apparisce una mano bianca che ci fa segno, ci chiama, ci attrae piú lontano, sempre piú lontano.
«La storia del Heine e della poesia romantica è per sé stessa un de’ piú bizzarri racconti. Questa poesia aveva trasportato i suoi penati nell’antico castello del medio evo. L’aveva restaurato superbamente: cioè, fra i muri crollanti aveva ricostruito una splendida sala, badate bene, di legno. Colonne a chiocciola sostenevano superbamente la vòlta moresca; e le statue colossali dei vecchi imperatori, disposte in fondo alla sala presso il trono della santa e mistica poesia, parevano pronte a trar la spada per difenderla. In quella sala, scintillante di faci di fontane e di specchi, i romantici si diedero l’appuntamento per una gran festa… Vi giungevano, meravigliosamente addobbati, cavalieri tedeschi, francesi, mori e saracini; bionde castellane in vesti azzurre seminate di stelle d’argento, cupe regine in mantelli purpurei raggianti di soli d’oro, trovatori dalle capellature ondeggianti. E cominciò il ballo. Una musica fantastica attrasse le coppie entro un cerchio magico, e con le cadenze via via piú passionali le trascinò a turbine. In questo momento entrò un misterioso cavaliere spagnolo. Stretto in una giubba di velluto, ei procedeva con la superba aria d’un hidalgo: mostrava nel mantello ricamato a oro alcune cifre arabe e indiane, e una gran penna di corvo gli dondolava sul capo: non avea maschera: bello di volto e attraente. Un ardore dolce e cupo covava negli occhi suoi fissi, e un superbo disdegno gl’increspava le labbra voluttuose. Portava ricamata in argento sul berretto la sua insegna, due teste di sfinge, che l’una pareva piangere e l’altra scoppiar dalle risa. Smisero di ballare per guardarlo. Egli con far trascurato prese la prima chitarra che gli venne alle mani, e cantò certe romanze castigliane con tono cosí altero e accento cosí nuovo, che scoppiò un tuono d’applausi. Il ballo ricominciò furioso, e il nuovo venuto ne fu il re».
«Ma presto tutti cadevano di stanchezza. – Or su – disse ad alta voce il bello incognito – è mezzanotte: via le maschere: ne ho assai di questa commedia. Vo’ sapere chi siete. Io mi chiamo Enrico Heine: giudeo o protestante, come vorrete: ma mi rido di Dio e del diavolo, adoro l’amore e la libertà, e odio l’ipocrisia. Io ho detto chi sono. Ditelo anche voi. – Tutti gridarono: Indegnità. Il bel cavaliere diè in uno scroscio di risa: – Ah, voi avete paura, mascherine belle? E pure io so chi siete. – E accostandosi a un maestoso templaro, gli strappò la maschera: – Tu – gridò – non sei altro che un gesuita, e qui fai gli affarucci della tua congregazione. Voi, bel contino, che non parlate se non di crociate, voi siete un povero valletto di Sua Maestà il re di Prussia, e meglio fareste a entrar nella guardia che a pompeggiarvi qui nel palazzo della Poesia dove non avete che fare. E tu bel trovatore, sospiroso per la dama de’ tuoi pensieri, tu non se’ altro che un commesso di negozio e hai avuto un po’ di fortuna con una cameriera. Voi siete tutti santi falsi, cavalieri falsi, trovatori falsi. Io vi smaschererò tutti, facchini: sotto le maschere lisce mostrerò le vostre facce rugose di sagrestani e di ciarlatani, e sotto le giubbe di seta i vostri abiti frusti di usurai e d’impiegati. Quanto a voi, dame illustrissime, non esamino i vostri titoli. Che sarebbe la commedia e la tragedia della vita, se voi non aveste il diritto di burlarvi di noi, di farci saltare come burattini ed empierci i cuori di torture divine e di voluttà dolorose? Contesse, ballerine, zingare e cortigiane, vi amo tutte e tutte vi canto. Voi siete belle: viva il ballo. – A questa uscita, scoppiò una tempesta di risa e di grida. La voce stridente del cavaliere passava nel midollo delle ossa: c’era nella sua amarezza non so che d’aspro e straziante che facea venire i brividi. La vecchia bicocca romantica tremava dalle fondamenta. Ve ne furono che gli domandarono ragione de’ suoi insulti: egli incrociò la spada con loro, e li abbattè sul pavimento distesi senza voglia di ricominciare. – Nella vostra sala si affoga – disse il vincitore: – mi bisogna aria e l’alito dei boschi. – »
«Dir questo e dare un calcio alla porta e sfondarla, fu tutt’uno: venne un colpo di vento, tutti i doppieri si estinsero, e cavalieri e dame si videro al bagliore di pallidi torchi come spettri. Ma a traverso la porta spaccata apparve un incantato paesaggio di foreste, di montagne, di laghi dormenti al lume di luna. Allora il magico poeta, presa un’arpa obliata, ne trasse accordi miracolosi: le foreste lontane fremevano deliziosamente. A quelle melodie carezzevoli, si svegliarono i geni de’ boschi e le dee delle acque, a riannodare i lor giri di ballo, a rinnovare i canti tentatori. Ai sospiri della magica arpa, ai richiami dell’incantatore, uno stuolo di fantasmi leggeri appressò e scivolò nella sala sotto gli occhi della gente attonita. Arrivarono dal fondo dei lor domi di verdura le elfidi selvagge, coronate di fiori fantastici e con ghirlande di betulla, a rintrecciare le danze fugaci al lume della luna. Arrivarono dal fondo dei lor palazzi di cristallo e delle cascate schiumanti le nisse, pazzerelle ridenti, dal seno di neve palpitante; elle si precipitarono, abbracciate, in una ridda furiosa. Talvolta le piú folli, passando davanti l’incantatore, volgevansi; e belle, scapigliate, col seno aperto, con un lampo di riso su le labbra, parevano volergli rapire un bacio, ma sfioravano l’arpa. E in mezzo al cerchio delle ondine passava, misteriosa apparenza, la diletta del poeta, con le braccia incrociate sul petto, con la testina bruna inclinata, con un sorriso strano su le labbra: tenerezza o ironia?
«Tutt’a un tratto il capriccioso negromante interruppe la musica ammaliatrice con un tocco stridente, e si mise a sonare arie sí comiche che non si poteva udirle senza ridere. Queste arie avevano di strane virtú: facevano, ciascuna, entrar di súbito nella sala un personaggio del tempo; e ballava come un burattino, e dispensava in pubblico i suoi pensieri piú segreti. Una volta era il grosso banchiere di Berlino, Gumpel, intitolantesi in Italia marchese Gumpelino, che declamava un po’ di Shakspeare, calcolando il rialzo della rendita, e si metteva in testa d’essere il Romeo d’una bizzarra inglese, la quale gli ministrava teneramente certo filtro di farmacia che lo guarí per sempre da’ suoi amori imprudenti. Altra volta è Saul Ascher, filosofo kantiano, con le gambe attratte, la secca persona esprimente l’imperativo categorico; e cammina, cammina, ripetendo, come un orologio – La ragione è il primo principio. – Una terza volta è il vecchio Schlegel con le sue trenta parrucche di riserva. Finalmente è tutta una galleria…
« – Ah, voi gridate contro queste care figurine? – dice il mago. – E pure siete voi, è la vostra generazione, che si chiama sciocchezza, ipocrisia, servilità. Con le vostre pie bigottaggini, con le vostre vigliacche concessioni, voi avete avvelenato la vostra religione, la vostra filosofia, la vita intera. D’altra parte, tutto è sogno, chimera, illusione. La poesia è tanto pazza quanto la realtà è stupida. La storia è una commedia che il buon Dio si concede per ammazzare il tempo. In fondo in fondo, a questo buon Dio, che fa paura ai bambini e alle balie, voi non ci credete piú di quello ci creda io. Solamente voi siete tanto vigliacchi che non ardite dirlo. Voi non vi stimate nulla voi stessi; ma vi mettete in positura dinnanzi al mondo, vi imbacuccate di berretti, croci, nastri; e vi scambiano per eroi. Bene! io, per me, sono un pazzo: non credo a nulla, disprezzo me stesso, ma dico la verità. Il mio cuore sanguina; ma le vostre stolte infamie non mi strapperanno mai altro che un ghigno di disprezzo, e io ho il diritto di frustarvi in faccia. – Cosí parlava il mago trasformato in pazzo di corte, con lo scettro di buffone nell’una mano e la frusta nell’altra. – Dài al miserabile! addosso al ciuco! morte al bestemmiatore! – gridò tutta la canaglia romantica, aristocratica e clericale. Ma egli, afferrando una torcia affocata, la ruotò intorno a sé, e intonò con voce stentorea la Marsigliese. – Oh, questo canto vi fa paura – disse: – per soffogarlo, voi vorreste rizzare un patibolo. V’aiuterò. – Il mago evocò allora lo spettro della ghigliottina. Ed ella si rizzò, alta e sanguinolenta, entro una nebbia rossa; e le si aggiravano intorno corpi senza testa, e si facevano riverenze l’un l’altro: erano Maria Antonietta e la sua corte. – Corpi senza testa, ecco l’immagine della vostra società – disse ridendo il terribile pazzo. E già si sentiva cantare lontano la Marsigliese, la Carmagnola, il Ça ira; e cotesti canti andavano crescendo come il muggito della tempesta, al rintocco del 1848. – Le jour de gloire est arrivé – gridò il poeta, gittando la sua torcia nel tavolato dell’intarlato edifizio. La fiamma rossa lo investí, e crepitando di gioia guadagnò il culmine. Le travi scricchiolarono, la folla scappò: in un batter d’occhio la splendida sala fu un braciere, e sprofondò. Il poeta gittò un grido di trionfo. Ma tutto a un tratto si trovò nella triste torre, invecchiato, malinconico, solo. Come avviene nei racconti delle fate, quando svanisce il castello pieno di fiaccole, di valletti e di damigelle; egli non udí piú altro che gli stridi della civetta e della strige. Allora il poeta gridò tristamente: – E pure io ho amato! e pure io ho creduto all’ideale! – Forse non mai era stato piú sincero d’allora; ma egli aveva troppo riso, e non fu creduto6.»
IV.
Dopo ciò, a discorrere, di fuga, del romanticismo mescolato alla politica, toccherà a me.
Da principio romanticismo e patriotismo furono in Germania una cosa. Le memorie del medio evo cristiano-tedesco risvegliate con poetica sentimentalità nel romanticismo durante la signoria francese infiammarono i combattenti del 1813: l’orgoglio delle vittorie del ’13 e del ’15 alla sua volta rese quasi nazionale la riazione, e inebriò e licenziò a’ piú furiosi eccessi mistici e feudali il romanticismo. Ci fu tempo, breve per verità, che la Germania, e non solo la Germania, parve avere perduto il senso del vero, la conscienza del moderno, la superbia della eredità del secolo decimottavo. Fu un terror bianco di medio evo, uno stravizio d’idealismo, un carnevale di spiritualismo. E il carnevale era la quaresima; e il digiuno delle idee durava tutto l’anno; e mille Braghettoni morali mettevano gran foglie di fico su le nudità della primavera, su l’oscenità dell’estate. Intanto i principi invitavano per mezzo degli usseri i patrioti e i combattenti del ’13 e del ’15 a maturare nelle fortezze la loro educazione per l’avvenire; e uno, fattisi saldare da’ sudditi i debiti suoi e del figliolo, che non erano pochi, profferiva una carta costituzionale al prezzo di quattro milioni di talleri, e poi si sarebbe contentato anche d’un ribasso di due milioni; un altro concedeva la costituzione, ma solamente per i nobili e gl’impiegati, e con la discussione segreta; un terzo la rimandava a quando avesse ultimato un suo spartito o a quando fosse finito il domo di Colonia. Cosí non poteva durare. Il romanticismo intanto, come poesia, languiva tisico, per quel suo peccato originale di aver voluto sequestrarsi dal vero e vivere di profumi inebrianti fra i vapori e l’azzurro di un mondo fantastico, dalle cui cime riguardava con mesto disprezzo le bassure coltivate e abitate, che pur producono il buon pane, il buon vino, il buon manzo, e i dolori e le gioie di tutti i giorni. Esalata, per estenuazione e rifinimento, l’anima; le forme rimasero ciò che senza anima sono le forme. E mentre i corvi seguitavano a gracchiare intorno ai campanili, e i falchi roteavano intorno alle torri, e nelle torricelle tubavano le tortori, e i paperi diguazzavano nella probatica piscina della estetica, i cigni emigravano; e dalle uova deposte nella terra dell’odiata rivoluzione sgusciava, al sole delle giornate di luglio, la Giovine Alemagna.
La Giovine Alemagna usciva dagli scritti del Heine e del Börne, due ebrei già convertiti, se non proprio al cristianesimo, certo il primo alla poesia, il secondo alla repubblica. Heine assai prima delle giornate di luglio aveva gittato alle ortiche la tonaca del romanticismo; e ne’ Reise-Bilder si era dichiarato per Napoleone, per la borghesia, per la libertà filosofica politica e letteraria; tutte parole e idee che allora andavano insieme a braccetto all’avventura: fuoruscito in Parigi dopo il ’30, sonò a doppio contro il romanticismo e la vecchia Germania. Ma i purissimi in patria erano rimasti fedeli alle tradizioni cristiane e germaniche del medio evo; e da una parte Menzel, il mangiator di francesi, che inorridiva al paganesimo del Goethe, denunziava (la espressione è del Heine) alla polizia della Confederazione i libri de’ fuorusciti; dall’altra il Mayer il Pfizer e gli altri poetini della scuola sveva scomunicavano in nome della moralità e dell’idealismo la nuova poesia. Heine dal suo lato rimaneva anch’egli costante nella fede alla poesia, nella religione del bello, nella politica dell’arte: fede, religione e politica, che egli sentí professò e trattò sempre con devozione immutata ed integra. Perdurava egli del pari in quell’ardenza rivoluzionaria, che ai 6 e 10 agosto del 1830 gli fece scrivere dei pezzi lirici in prosa come questi? «Lafayette, la bandiera tricolore, la marsigliese! Io sono come inebriato. Audaci speranze si slanciano appassionate su dal mio cuore, come alberi con frutti d’oro e con rami di selvaggio rigoglio che distendono il loro fogliame fino alle nuvole. Ma le nuvole ruinanti in fuga diradicano quegli alberi giganteschi, e con essi si spazzan la strada davanti… Nell’azzurra letizia del cielo erra una melodia di violini; e dalle onde smeraldine del mare risuona come un allegro riso di fanciulle. Ma sotto terra qualche cosa scricchiola e bussa; il suolo si fende, i vecchi dèi sporgon fuori le teste, e con frettolosa meraviglia domandano – Che cosa vuol dire questo giubilo che percuote fin nel midollo della terra? Che c’è di nuovo? Dobbiamo tornar su? – No, rimanete nella regione caliginosa, ove ben presto un nuovo compagno di morte scenderà a raggiungervi. – Come si chiama? – Oh lo conoscete bene, è quello che un tempo sprofondò voi nella notte eterna… Pane è morto…»-«Lafayette, la bandiera tricolore, la marsigliese! Via ogni desiderio di riposo! Adesso io so di nuovo quello che voglio, quello che debbo… Io sono il figlio della Rivoluzione, e afferro le armi benedette su le quali la madre mia ha pronunziato il suo scongiuro… Fiori! fiori! voglio incoronarmene la testa per la battaglia. E anche la lira, datemi la lira, ch’io canti la canzone della battaglia… Parole simili a stelle fiammeggianti, che scoppino dall’alto e incendano i palazzi illuminando le capanne… Parole simili a dardi lampeggianti, che volino fino al settimo cielo e colpiscano la impostura che vi si è appiattata nel santo dei santi…. Io sono tutto gioia e canto, tutto spada e fiamme7.»
Sapete voi la storia del cane Medoro, del cane leggendario delle tre giornate? La racconta brevemente lo stesso Heine, nella stessa lettera onde riferii le ardenti parole. «Oh potessi vedere soltanto il cane Medoro! Egli mi preme assai piú degli altri cani i quali con rapidi salti han portato la corona a Filippo d’Orléans. Egli il cane Medoro portava al suo padrone il fucile e le cartucce, e quando il suo padrone cadde e fu con gli altri eroi sotterrato nella corte del Louvre, il povero cane restò giorno e notte su la tomba, immobile come una statua della fedeltà.» Giunto il Heine a Parigi volle andar a vedere questo Medoro, il quale fu cantato anche dal Delavigne ed era mantenuto a spese comuni della Guardia Nazionale nel Louvre; ed ecco che glie ne parve: «Non rispose affatto alla mia aspettazione. Non vidi che un brutto animale, nel cui sguardo nessun entusiasmo, anzi vi spuntava qualcosa di losco e di falso, qualcosa d’interessato e di furbacchiotto: direi anzi che v’era dell’industriale. Un giovine, uno studente, in cui m’incontrai, mi disse che quello non era il vero Medoro, ma un cagnaccio intrigante, un cane della dimani, che si faceva empiere il ventre e lisciare il pelo a spese della gloria del vero Medoro, mentre questo, dopo la morte del padrone, s’era modestamente ritirato, come il popolo che avea fatto la rivoluzione. Adesso il povero Medoro, aggiunse lo studente, erra forse per Parigi, senza un tozzo e senza un giaciglio, come molti eroi di luglio; perché il proverbio, che buon cane non trova mai un osso buono, qui in Francia è piú orribilmente vero che altrove: qui si mantengono nei canili caldi e si pascono della carne migliore mute di mastini, di cani da caccia e di altri quadrupedi aristocratici: qui voi vedete riposare su cuscini di seta, ben pettinati e profumati e rimpinzati di biscottini, lo spagnolo e la piccola levriera, che abbaiano contro ogni onest’uomo, ma che sanno adulare la padrona di casa e sono qualche volta iniziati nei vizi umani. Ahimè, tali bestie vili e immorali prosperano nella nostra società, mentre ogni cane virtuoso, ogni cane della verità e della natura, che resta fedele a’ suoi convincimenti, crepa miserabile e tignoso sur un letamaio. – Cosí mi parlò lo studente; e molto mi contentò quella sua altezza di giudizi politici»8.
Cosí Arrigo Heine trovò ben presto in Parigi il disinganno; e non meno presto cercò e trovò la lotta, anche, pur troppo, co’ suoi compagni d’esilio. Il Börne giudicava l’Heine, dopo il libro che fu pubblicato anche in francese col titolo De la France, cosí: «Io posso essere indulgente con un fanciullo che giuoca, con un giovane innamorato; ma quando in un giorno di sanguinosa battaglia, il fanciullo va a caccia di farfalle pe’l campo della strage e mi si mette fra le gambe, quando, in un’ora di suprema angoscia, che noi preghiamo Dio con ardore, il giovane sguaiato, fra noi, non vede né guarda altro in chiesa che le belle ragazze, e fa l’occhietto e dice le paroline dolci; allora, con tutto il rispetto alla filosofia e all’umanità, v’è ben ragione di andare in collera. Heine è un artista, un poeta; e ad essere riconosciuto tale da tutti, non gli manca che il suo voto. Ma egli spesso vuol essere qualche altra cosa che poeta, e spesso si perde. Chi, come lui, non vede nulla piú su della forma, deve tenersi alla forma; altrimenti, passato a pena quell’orlo, ei cade nell’illimitato e vi s’inabissa e dispare. Chi adora per suo dio l’arte, e solamente per capriccio fa orazione di quando in quando alla natura, quegli oltraggia insieme la natura e l’arte. Heine accatta dalla natura il nettare e il polline dei fiori, e poi con la duttile cera costruisce l’alveare dell’arte; ma l’alveare non lo fa perché conservi il miele, raccoglie il miele per empierne il suo alveare. Però egli non commove quando piange, perché si sa che colle lacrime innaffia l’aiuola dei suoi garofani. Però egli non persuade quand’anche parla il vero, perché si sa che nel vero ama soltanto il bello. Ma la verità non sempre è bella, né resta bella sempre. Ci vuole del tempo perché ella venga in fiore, e i fiori bisogna che caschino prima ch’ella porti i frutti. Heine adorerebbe la libertà tedesca, s’ella fosse nel suo pieno fiore; ma in questi rigori d’inverno è ancora sotto il concime, ed egli non la riconosce e la sdegna. Con qual bello entusiasmo non ha egli parlato del combattimento e dell’eroica morte dei repubblicani nella chiesa di San Mery! Felicissimo combattimento, nel quale essi ebbero la sorte di gittare la piú nobile delle sfide alla tirannide e morire di bellissima morte per la libertà. Se il combattimento fosse stato meno bello (a ciò bastava fosse avvenuto in altro luogo, ove si fosse potuto disperdere i repubblicani o prenderli alla spicciolata), Heine ci avrebbe scherzato su. Heine celebrerebbe il fatto di Bruto come nessuno meglio: ma sia un sarto che levando il coltello sanguinoso dal cuore di una cucitrice oltraggiata, la quale si chiami soltanto Barberina, conciti i cittadini a libertà; Heine ci ride su. Trasportate Heine nella sala del giuoco della palla, a quell’ora memorabile in cui la Francia si svegliò dal sonno millenario e giurò di non voler piú sognare, egli diventerà il piú furioso giacobino, il piú arrabbiato nemico degli aristocratici, e farà con delizia scannare in un giorno tutti i nobili e tutti i principi. Ma date il caso ch’ei vegga scappar fuori dalla tasca di Mirabeau tonante alla tribuna una pipa al modo degli studenti tedeschi col fiocco rosso nero e oro, allora addio libertà! egli se la batte a fare di bei versi su’ begli occhi di Maria Antonietta9».
È vero: Heine era troppo squisitamente poeta, troppo feminilmente nervoso, troppo liricamente mobile: la rigidità e la durezza, il giacobinismo del Börne, del forte e nobile Börne, non gli si affaceva. Ma la imagine della libertà sotto il concime è, me lo perdoni il Börne, un po’ brutale. Heine aveva adorato la libertà, ma in visione, come una dama del medio evo, a cavallo, col falcone in pugno, col velo verde ai venti; l’aveva adorata come un’etaira di Atene, passeggiante in tunica succinta, fra i mirti, sotto i platani, in mezzo alle statue bianche dei numi; come, in somma, una Isotta o un’Aspasia, la quale avrebbe gittato a lui fiori e sorrisi ed egli a lei i suoi canti. Quando la vide in sembianza di vivandiera mescer vino e anche rhum per accendere i soldati al combattimento; quando la previde massaia onesta e laboriosa attesa a distribuire a ciascuno la sua parte di lavoro e di pane e anche di companatico, ma senza i crostini dell’ideale impastati di miele e di burro e spalmati d’azzurro, o solamente per le ragazze e i bambini; allora l’apostata romantico rivolse la testa a riguardare le bianche alture onde era sceso la mattina; non le rivide piú; e una lacrima gli tremolò negli occhi, e una irrequietudine nervosa lo possedé poi sempre. Ma in un modo o nell’altro la libertà egli l’amò, amò la patria tedesca; e pur tra le sue infedeltà di artista quell’amore brilla su la fronte sua di poeta come una stella. Ora in Germania è di rigore e di moda giudicare severamente il Heine, della cui poesia non si vuol vedere che la parte negativa. Noi italiani possiamo essere piú giusti: è giusto a ogni modo che ascoltiamo anche lui. Nel suo scritto commemorativo su ‘l Börne, che era meglio del resto non avesse scritto, vi sono pagine che bisogna rileggere prima di aprire l’Atta Troll. Eccone alcune:
«… Mi pesano su l’anima, come ombre umide, tutte quelle tristezze senza consolazione… Mi pioviggina per entro i sensi roventi come un’acqua ghiacciata, e il mio vivere altro non è che intirizzimento doloroso. O freddo inferno invernale dove viviamo dibattendo i denti! O morte, bianca fantasima di neve in mezzo a una nebbia infinita, che ne accenni tu con quello schernevole crollar della testa?
«Felici coloro che imputridiscono in pace nelle carceri della patria! perocché quelle carceri sono pure una patria con spranghe di ferro, e vi spira a traverso l’aria tedesca, e il custode, quando non è mutolo affatto, parla la lingua tedesca. Sono oggimai piú che sei lune da che niun suono tedesco mi ha percosso l’orecchio, e tutto ciò ch’io imagino e sogno si riveste faticosamente delle forme d’una lingua straniera. Dell’esilio del corpo voi avete per avventura un concetto, ma l’esilio dell’anima solo può rappresentarselo un poeta tedesco, il quale si trovi costretto a parlare a scriver francese tutto il giorno ed anche a sospirar francese la notte sul cuore della donna amata. Fino i miei pensieri sono esiliati, esiliati in una lingua straniera.
«Felici coloro che all’estero han da combattere soltanto con la povertà, con la fame e col freddo, mali non piú che della natura. A traverso i buchi della soffitta sorride loro il cielo con tutte le sue stelle. O miseria dorata in guanti lustri, quanto piú infinitamente tormentosa! Doversi far acconciare, se non pur profumare, la testa disperata; e le labbra gonfie di sdegno, piene di maledizioni al cielo e alla terra, dover sorridere, sorridere sempre!
«Felici coloro che sotto il soverchio del dolore hanno perduto alla fine l’ultimo bocconcel di ragione e han ritrovato un ricovero sicuro a Charenton o a Bicêtre, come il povero F… come il povero B… come il povero L… e tanti altri che io conosceva meno. Nella loro follía la cella pare ad essi la patria diletta; essi nella camicia di forza si credono vincitori di ogni dispotismo, si credono superbi cittadini d’un libero stato. Ma tutto ciò lo avrebber potuto avere anche a casa.
«Solo il passaggio dalla ragione alla follía è un momento increscevole e orribile. Rabbrividisco quando ripenso all’ultima volta che il F… mi venne a trovare, per dirmi sul serio che si doveva accogliere nella gran federazione dei popoli anche gli uomini della luna e gli abitatori delle stelle piú lontane. Ma come notificar loro la nostra proposta? Questo il punto difficile! Un altro patriota in simili disposizioni aveva immaginato una specie di specchio colossale, col quale rifletter nell’aria proclami in lettere gigantesche, tanto che tutto il genere umano potesse leggerli allo stesso tempo, senza timori d’impedimenti dai censori e dalle polizie. Disegno gravido di pericoli per lo stato! E pure non ne fu fatto menzione nei rapporti della Dieta germanica su la propaganda rivoluzionaria!
«Ma felicissimi poi i morti, che giacciono nella loro fossa al Père-Lachaise, come tu povero Börne.
«Sí, felici quei che sono nelle carceri della patria, felici quelli nelle soffitte della miseria corporale, felici i forsennati nella casa di forza, e felicissimi i morti! Per quel che tócca a me, io credo in ultimo di non avermi a lamentar troppo, perocché io in certa guisa partecipo la felicità di tutta questa gente, per quella meravigliosa suscettività, per quella simpatia involontaria, per quella malattia dell’anima che è nei poeti e non si sa propriamente denominare. Se anche, il giorno, io mi aggiro fresco e ridente per le vie splendide di Babilonia: credetemelo, non a pena cade la sera, le arpe melanconiche mi risonano in cuore, e tutta notte tutti i tromboni e i cembali del dolore, tutta la musica giannizzera dei patimenti umani vi rintrona dentro; e ne sale su fuori una orribile e stridente processione di maschere.
«Oh che sogni! sogni di carcere, di miseria, di follía, di morte! mescuglio stridente d’insania e di saviezza! zuppa avvelenata che puzza di sauerkraut e odora di fiori d’arancio! Orribile sensazione, quando i sogni dileggiano la realtà del giorno, e ironiche larve metton fuori il capo dai rossi papaveri ammiccando e facendovi lima lima, e i superbi allori si convertono in ispidi cardi e gli usignoli fanno un sogghigno di scherno!
«Per il solito ne’ miei sogni io mi siedo sul pilastro angolare al canto di via Laffitte in un’umida sera di autunno, quando la luna gitta lunghe strisce di luce su ‘l sudicio lastrico, sí che la mota sembra dorata se non pur seminata qua e là di diamanti che scintillano. Gli uomini che passano sono della stessa guisa, mota che risplende: sensali di fondi pubblici, giocatori al rialzo, monetari falsi del pensiero, scribi a buon mercato, e ragazze anche a miglior mercato, le quali per verità devono mentire soltanto col corpo, pance oziose che si rimpinzano nel caffè di Parigi e poi si precipitano all’Accademia di musica, alla cattedrale del vizio, ove Fanny Essler danza e sorride… In mezzo, un trepestío di carrozze, un saltar di lacchè screziati come tulipani e volgari come i loro nobili padroni. E, se non erro, in uno di que’ cocchi sfacciatamente dorati siede il già mercante di sigari Aguado, e i suoi cavalli che passano pestando superbamente la mota inzaccherano dall’alto al basso il mio abito di maglia rosso ròsa… Già, con mia gran meraviglia, io mi veggo vestito da capo a piè di maglia rosso ròsa, d’una veste color carne; poiché la stagione inoltrata e anche il clima non concedono una intiera nudità, come in Grecia, alle Termopili, dove re Leonida co’ suoi trecento spartani la vigilia della battaglia danzò tutto nudo, tutto nudo, coronato il capo di fiori. Io vesto alla foggia del Leonida dipinto dal David, quando ne’ miei sogni mi siedo su ‘l canto di via Laffitte, ove il maledetto cocchiere dell’Aguado m’inzacchera i miei calzoni di maglia. Mascalzone, egli m’impillacchera anche la mia corona di fiori, la bella corona di fiori che porto in capo, ma che, detto fra noi, è già mezza secca e non manda piú odore… Ahi, ahi! egli erano freschi e allegri fiori il giorno che me ne adornai, nel pensiero che la dimani si anderebbe alla battaglia, alla santa e vittoriosa morte per la patria… È oramai un bel pezzo, ed io me ne seggo qui tristo e sfaccendato in via Laffitte, e aspetto la battaglia; e intanto i fiori mi appassiscono su ‘l capo, e anche i capelli m’imbiancano, e il cuore mi si ammala nel petto. Dio santo! com’è lungo il tempo di questo attendere oziosi! alla fine mi muore anche il coraggio… Io veggo la gente che passa guardarmi pietosamente, e susurrar l’uno all’altro: Povero pazzo!10»
E intanto nel sacro suolo della patria, nella Germania tutta nera di querce e d’idee, il movimento incalzava; e in pochi anni alla Giovine Alemagna, specie di repubblica girondina che la dittatura contro il passato esercitava nelle poesie nei romanzi e nei drammi, succedeva la sinistra hegeliana, specie di montagnardi che tutte le idee del passato cominciando da Dio decapitavano sotto la ghigliottina filosofica; succedevano i poeti politici, specie di volontari del ’93, che stanchi di combattere per parole e di decapitare idee volevano romperla con qualche cosa, ma non sapevano che. A questo punto Heine si smarrí.
E pure il giacobinismo del Börne era, con un piú ardente amore alla patria tedesca, quello stesso giacobinismo delle lettere da Helgoland. E pure la sinistra hegeliana non avea fatto altro che confinare nello stretto ragionamento le divinazioni e le volate del libro su l’Alemagna. E quei della poesia delle tendenze erano pure figlioli, piú o meno legittimi e rassomiglianti, che Heine aveva generati ne’ suoi amori di luglio e di agosto con la rivoluzione del ’89 e del ’93. Ma che! L’estate e la passione erano ite, e la rivoluzione non parea piú cosí bella. E quel Börne con quella sua corona di ebrei e di puritani e di disperati era cosí poco estetico! E poi quella dura sinistra hegeliana, che deportava gli eleganti e poetici ingegni ai lavori forzati del romanzo di genere o della liricuzza nell’arcipelago del nulla! E poi quella politische Tendenzpoesie (orribile scontro di parole, di idee e di ringhi) cosí arruffata, per lui artista correttissimo nella linea! quel Hoffmann di Fallersleben con tutti i bicchieri che beveva per la rima, quel Dingelstedt con la lanterna, quel Prutz con la mazza, quel Herwegh strappatore di croci, quel Freiligrath, il quale dagli amori alle giraffe, che non avea mai vedute, di Guinea, era passato a recitare il confiteor fra i socialisti, apparivano cosí iperbolici, cosí enfatici, cosí monotoni, cosí vaporosi, a lui adoratore del Goethe e ora quasi naturalizzato francese!
Tali odii e amori, tali rimembranze e rimpianti, tali eccitazioni e antipatie, parte umane e patriotiche, parte artistiche e liberali, parte personali ed egoistiche, conspirarono tutte insieme a informare e formare l’Atta Troll. L’orso del Heine, come il veltro di Dante, muta parvenze e attitudini secondo spira il vento della fantasia e della passione: è il combattitore mangiafrancesi del ’13, è il costituzionale del ’18 col suo buon vecchio diritto, è il girondino della Giovine Allemagna, il giacobino della scuola di Börne, l’ammazzasette della sinistra hegeliana, il socialista poeta-tendenza, ma sempre sentimentale, sempre idealista, sempre germanico, sempre romantico, sempre orso. Heine nell’Atta Troll sembra aver fatta sua l’impresa di quel vecchio cavaliere spagnolo, Yo contra todos y todos contra yo: non mai fu piú in disaccordo con tutti e piú d’accordo col suo genio. E la caricatura riuscí tanto piú meravigliosa, non so qual meglio fra comica e fantastica, per questo, che fu condotta col piú serio artifizio della scuola romantica e con un appassionato sentimento della romantica poesia.
Lo afferma esso il poeta nelle Confessioni: «Dopo aver dati de’ colpi a morte alla poesia romantica in Germania, a un tratto fui ripreso io stesso da un infinito amore del fiore azzurro nel paese de’ sogni del romanticismo; e tolsi in mano la lira incantata, e cantai un canto nel quale mi abbandonai a tutte le meravigliose esagerazioni, a tutta l’ebbrezza del lume di luna, a tutta la strana magía di quella folle musa che io aveva un dí tanto amata. Io so che quello fu l’ultimo libero canto del vero romanticismo e che io sono l’ultimo suo poeta11.» E piú liberamente confessandosi al Varnhagen d’Ense (in una lettera del 3 gennaio’46): «Questa nuova generazione vuol godere e farsi il suo posto nel visibile: noi, i vecchi, c’inchinavamo umilmente dinnanzi l’invisibile, ma godevamo in soppiatto d’ombre, di baci, di profumi di fiori azzurri; noi rinunziavamo e piagnucolavamo, e non per tanto eravamo piú felici di questi duri gladiatori che vanno incontro con tanto orgoglio a un combattimento mortale. Il millennio del romanticismo è sul finire; ed io, io stesso, sono stato l’ultimo suo re favoloso, disceso volontario dal trono. Se non avessi gittato la corona e vestito la blouse, mi avrebbero a punto a punto decapitato. Quattr’anni or sono, prima di divenire apostata di me stesso, volli ancora diguazzarmi un poco al lume di luna co’ vecchi compagni de’ miei sogni; e scrissi Atta Troll, il canto del cigno d’un’età che declina; e l’ho dedicato a voi. Ed è proprio vostro; perché voi eravate il compagno d’armi che piú mi rassomigliava, sí nel serio sí nello scherzo. Come me vi adoperaste a seppellire il vecchio tempo e avete servito di levatrice al nuovo: sí, noi l’abbiamo messo al mondo, e ora ce ne spaventiamo: siamo come la povera gallina che ha covato le uova di anitra, e vede tutta sgomenta la sua covata gittarsi deliziosamente nell’acqua12.»
Il poeta si è veramente confessato. Dunque si adoperò anch’egli a seppellire il vecchio tempo! Dunque serví da levatrice al nuovo! Egli sa ciò che ha fatto, e in fondo crede che è bene; ma ha dentro di sé la tenia romantica che gli dà il mal umore.
Non voglio esser io a rappresentare Heine per rivoluzionario e radicale, e però lascio parlare un suo biografo tedesco, lo Strodtmann. «Questa spettrale e corusca apparizione del romanticismo per entro la fredda e arida vita del presente dà al poema un’attrattiva tutta sua e originale; ma noi ci accorgiamo súbito che quelle sono ombre morte, le quali ci volteggiano intorno stranamente gesticolando su la frontiera che separa il paesaggio del mondo antico dal paesaggio del mondo moderno. Noi, non del tutto liberati ancora dai loro influssi, sospiriamo riguardando indietro alla regione dei sogni del buon tempo antico; ma la ragione ci mostra l’ignoto avvenire. Per quanto il poeta metta in ridicolo senza un riguardo al mondo la poesia politica delle tendenze pavoneggiantesi nella sua ampollosità e la orsina goffaggine della propaganda socialistica, era ben lontano dal pensiero di mettere in dubbio co’ suoi scherzi il contenuto delle dottrine rivoluzionarie e sociali. Non sarà per contrario sfuggito agli accorti e spregiudicati lettori come spesso il furbo Heine simpatizzi con le distruttive teoriche del radicalismo; e la teologia in specie può restare mezzanamente contenta agli ammonimenti di Atta Troll a’ suoi figli che si guardino da Feuerbach e da Bauer, se gli raffronti alla rappresentazione del creatore sedente, su l’aureo trono del cielo, sotto il padiglione stellato, in forma d’un colossale orso del polo con pelle tutta di neve immacolata13.»
In tale contrasto fra il presentire Enrico Heine nella chiaroveggenza del suo pensiero il trionfo di quelle idee di trasformazione politica e sociale per le quali egli stesso aveva combattuto, e il suo disgusto di artista per le forme con le quali elleno erano almeno per allora bandite, e le voluttuose aspirazioni della sua sensualità di poeta a uno stato di segregato riposo ove la fantasia potesse abbandonarsi a tutti i voli di scoperta e l’arte a tutti i capricci di lavoro; in tale contrasto è la novità originale dell’Atta Troll. In mezzo al regno attuale degli orsi e prima dell’avvenimento delli gnomi l’autore del Canzoniere vuole abbandonarsi a un saturnale di fantasia, vuol prendere (perdonatemi, per amore della verità, la metafora) una romantica ubriacatura di poesia pretta, a onta e dispetto della scuola delle tendenze; se non che non può uscire dalla corrente, e con quel suo continuo ribattere a cotesta sciagurata poesia delle tendenze cade nella tendenza egli stesso.
V.
E in tali contrasti, e negl’intendimenti, in generale, che finora mi son provato a raccogliere e rappresentare, sta anche la ragione della diversità che intercede grandissima fra l’Atta Troll e le altre zoepiche (epopee bestiali sonerebbe improprio e sgarbato), che risorte dopo il risorgere dell’apologo nella smania del secolo decimottavo per il naturale affèttato, furono diversamente ammirate nel correre del nostro secolo. Il Reineke Fuchs, che Volfango Goethe lavorò nel 1793 sul rifacimento, in basso tedesco del Quattrocento, dell’antico poema francese della volpe, tiene e dalla origine sua medievale, del tempo delle canzoni di gesta, e dall’arte classica onde il poeta di Weimar allargò i rozzi ottonari in esametri solenni, tiene, dico, l’anima e le forme di una vera epopea, di una epopea oggettiva, nel cui sereno sorriso non v’è riflessione o inflessione di motivo personale. Gli Animali parlanti del Casti, composti dopo la tempesta della rivoluzione, nella oscillazione dei tempi e degli animi fra il Direttorio e il Consolato, rimangono a punto una cosa incerta in politica e in poesia: sono, non ostante l’opportunità delle allusioni e delle dottrine politiche, non ostante certa vivacità pittorica nei particolari, un troppo lungo apologo in stile troppo spesso di gazzetta: quelle bestie seguitano ad affannarsi per ventisei canti in sestine a dimostrare che non son bestie, il che appariva a bastanza dal primo canto.
Qualcuno potrebbe darsi a credere che l’Atta Troll sia in comparazione al Reineke Fuchs quello che di fronte agli Animali parlanti sono i Paralipomeni alla Batracomiomachia del Leopardi. Nei due poemi, di fatto, in quello dei topi e delle ranocchie e in questo dell’orso, c’è il motivo e l’intenzione personale: ambidue i poeti mettono in ridicolo avvenimenti ed uomini dei giorni loro e fanno, un gran giuoco, con diversa opportunità, di episodi. Ma la rassomiglianza, tutta esteriore, finisce qui. Già il prof. Zumbini notò la mediocrità satirica del Leopardi, e, poiché il poeta della ginestra dai particolari (gli avvenimenti italiani del ’21 e del ’31) trascende presto al generale, anche notò, con molta verità, pare a me, la impossibilità del render comica l’irrisione di tutta la vita umana quale è, quale fu, quale sarà14. Ma, oltre a questo, il Leopardi, lirico grande e de’ piú profondi e umani poeti che sieno stati, nei Paralipomeni è inferiore a sé stesso, anche come artista. Lasciamo la favola ricalcata un po’ su l’antica Batracomiomachia e un po’ sugli Animali parlanti; ma, salvo certi episodi di valor lirico, salvo certe brevi descrizioni naturali che sono delle piú vere della poesia italiana, come giudicar belle, in una letteratura che vanta i Pulci e l’Ariosto, quelle ottave cosí fredde, cosí slogate, tanto affannosamente stentate, che di alcune si contrasta ancora sul senso e se la costruzione sia retta? Scusiamo l’infelice poeta, che malato a morte non scriveva, dettava; ma non vantiamo, oltre quello si convenga a un’opera postuma, il poema.
L’Atta Troll si differenzia dai Paralipomeni e dagli Animali parlanti specialmente per una sua proprietà, che fu ben rilevata da un critico tedesco: – ha un sentimento poetico piú profondo che non l’allegoria: questa in altri poemi di favola simile diventa astrazione: Heine invece sa darle tale forma, che i personaggi ne acquistano una vita loro, per la quale e con la quale dànno un piacere vero estetico oltre a ciò che devono significare15. – È vero: l’orso del Heine raffigura il filisteo tedesco, ma è non per tanto un orso, e orso rimane; a quel modo che nel poema medievale della volpe rifatto dal Goethe la volpe, il lupo, il montone, con nomignoli nuovi tratti da certe loro qualità speciali, raffigurano indoli, caratteri e istinti diversi di personaggi dell’ordine feudale e clericale, ma rimangono volpi lupi e montoni veri. È la favola della vita umana, raffigurata ne’ bruti e fatta recitare a’ bruti, secondo certe rassomiglianze tipiche che l’uom vede o crede vedere fra certi individui della sua specie e certi bruti. Anche: Heine capí che una zoepica pura non poteva ai dí nostri reggere, e mescolò nella sua l’elemento umano. Come nella Divina Commedia (si parva licet componere magnis) il protagonista del poema è Dante stesso, l’uom vivo, antitesi della morte, nella cui personalità è (se cosí posso esprimermi) la guarentigia della verità e dell’arte di fronte alla visione e all’allegoria; per egual modo l’antitesi e l’antagonista di Atta Troll è il Heine stesso, a salvaguardia della verità e dell’arte contro l’allegoria e l’astrazione. E il Heine che viaggia i Pirenei in compagnia di Lascaro a caccia dell’orso è Enrico Heine vero, l’Heine dei Reisebilder, con tutto insieme la sua disposizione fantastica alla leggenda e il caustico riso, con la potente e profonda osservazione e la ingenua e infantile ammirazione amorosa della natura.
Quanto allo stile, a conseguire quell’agilità e quella sveltezza di passaggi e varietà di toni che è mirabile nell’Atta Troll, Heine fu anche aiutato e giovato dal metro che elesse. È in fondo l’ottonario delle romanze spagnole, che Herder avea già introdotto col suo Cid nella versificazione tedesca spoglio di rime e di assonanze ma fissato nel trocaico di quattro battute: se non che Heine per piú regolarità e per una tal civetteria lirica partí i suoi trocaici in istrofe di quattro. Su la qual maniera di strofe lo Strodtmann fa un’osservazione giusta: «come la sloka indiana, secondo notava A. G. Schlegel, imita l’andar barcollante e dondoloni dell’elefante, cosí il suono de’ trocaici a quattro piedi fa tornare alla mente il passo dell’orso: v’è in fondo a quelle strofe un’avvertita e intenzionale monotonia, una gravità pretensiosa, che procede pettoruta con la grandezza spagnola16.» È vero, ma non è tutto il vero. La satira del romanticismo, che è insieme l’ultimo libero canto della poesia romantica, non poteva esser condotta meglio che col metro nel quale fece le migliori prove quella che agli Schlegel pareva la piú romantica delle letterature romanze, la spagnola; con quel metro lirico e insieme epico, e anche drammatico, che serví all’intonazione montanara e marinara dei romanceri e al dialogo constellato di diamanti della commedia del Calderon. Per la virtù specialmente di cotesto metro, che giovenilmente rimaneggiò, potè Heine alzarsi con tanta facilità e felicità dal racconto e dal discorso comico satirico alle volate liriche e fantastiche.
Il traduttore italiano (al fine parliamo un po’ anche di lui) capí bene, che, non ostanti le apparenti somiglianze dell’Atta Troll con le due zoepiche italiane ricordate, non era il caso di tradurre le strofe di Heine in sestine e in ottave, o, peggio, in endecasillabi sciolti, come il buon Pietro Monti fece già del romanziero del Cid e non so chi, or son dieci anni, dell’Intermezzo del nostro poeta. Novantanove volte su cento il carattere di un’opera poetica sta nel metro; e già il Cesarotti scrisse: «I traduttori, volendo mettere in vista la difficoltà delle traduzioni, calcano unicamente sopra la diversità del linguaggio, ma non mostrano di sentire un’altra difficoltà, con cui è lor necessario di lottare, e che, per mio credere, è ancora più grande: voglio dire quella che nasce dalla diversità della versificazione. Egli è certo che i sentimenti, i pensieri e le espressioni prendono da sé stesse un tornio e una configurazione corrispondente alla versificazione rispettiva dei varii poeti. La brevità o la lunghezza del verso, la varietà delle flessioni, delle pose, delle cadenze, l’armonia che risulta naturalmente dal numero e quella che nasce dall’aggiustatezza delle consonanze, il diverso intralciamento e la distribuzione delle rime, ciascheduna di queste cose modifica i sentimenti, e comunica loro una bellezza propria e distinta da tutte le altre. Si trasferiscano gli stessi sentimenti in un altro metro, si cangi la disposizione, si alterino le misure; tutto è guasto. Le idee, aggiustate sopra un altro metro, stanno, per cosí dire, a disagio in questo nuovo, e prendono attitudini violente e scomposte: si forma una discordanza disgustosa tra i sentimenti ed i suoni: gli oggetti non si presentano piú sotto il punto di vista conveniente: l’orecchio, ed in conseguenza lo spirito, si riposa in luoghi poco opportuni, e sdrucciola su quelli ne’ quali dovrebbe arrestarsi; e la composizione piú perfetta diventa simile ad un bel corpo con tutte le membra slogate. Perciò egli è assolutamente impossibile il far una traduzione di buon gusto, la quale sia precisamente letterale in una soverchia sproporzione di metro17.» Non si poteva né veder piú vero né dire meglio; ma le conseguenze che il Cesarotti ne traeva per il suo modo di tradurre sono false. Nessuno richiede, credo io, una versione precisamente letterale in poesia; e anche, perché farla tale è assolutamente impossibile, non è permesso a nessuno di rendere, per esempio, frugoniana e arcadica l’Iliade. Meglio, un altro poeta italiano, e dei novatori piú felici di modi lirici, il Berchet, proponevasi, traducendo le vecchie romanze spagnole, di rendere in italiano poesia straniera per poesia straniera, intonazione per intonazione, armonia per armonia, mirando a una fedeltà piú reale che apparente e piú esatta che non un’ordinaria fedeltà materiale18. Non so se il Chiarini pigliando a tradurre l’Atta Troll conoscesse il metodo e il libro del Berchet, ma pare a me siasi proposto proprio lo stesso; e, come il Berchet fece con le lunghe serie ad assonanza spagnole, egli ancora, per rispetto all’orecchio italiano troppo avvezzo alla rima specialmente nei versi brevi, ha creduto dovere introdurre due rime nelle quartine sciolte del Heine.
Ora non temano i lettori che io voglia far loro il maestro spiegando i pregi di questa versione dell’Atta Troll. Il mio debito era di aiutarli, quelli almeno che del mio aiuto possano credere di aver bisogno, a legger bene, cioè con conoscenza di causa, il poema tedesco; e mostrar loro il metodo, che a me pare il vero, tenuto dal Chiarini nel tradurlo. Del resto, leggano, e giudichino da sé. Se prima di giudicare volessero buttar da parte cosí i pregiudizi della vecchia scuola accademica come le superbiucce ignoranti della gente della letteratura facile, farebbero, credo, bene; e meglio farebbero se, leggendo, pensassero che per raggiungere l’espressione vera nell’arte manca a noi italiani moderni ancora di molto e molta fatica ci occorre, e fossero però un po’ cortesi a chi questa fatica l’ha fatta onestamente e valentemente.
VI.
Sí, valentemente. Credo poterlo ripetere oggi, dopo cinque anni che le pagine qui a dietro furono stampate in prefazione al volumetto dell’edizione Zanichelli.
Certi parrucchieri della poesia, certi commessi viaggiatori della critica, quando scappa loro parlare di verseggiatura e di stile poetico, dovrebbero starsene contenti ai libretti d’opera. Essi non sanno, per esempio, che sia, o che ci sia al mondo, la strofe trocaica tedesca; essi non sanno che sia, o che ci sia al mondo, il semplice e monotono ottonario dei romanzi spagnoli (romanzi, badino, che non sono come quelli del Zola), che sia, o che ci sia al mondo, l’ottonario spezzato delle commedie di Calderon; due maniere metriche queste, che Heine imitò nella strofe trocaica del suo poema comico romantico, d’argomento e di scena spagnolo: ora, non sapendo tutto cotesto, non possono intendere che il Chiarini non poteva e non doveva tradurre l’Atta Troll in istrofette, come,
Mira, Norma, a’ tuoi ginocchi
Questi cari pargoletti ecc.
Essi signori parrucchieri e commessi viaggiatori non sanno che c’è una poesia italiana del secolo decimoquarto e decimoquinto, e che fu molto piú naturale e piú vera e piú varia della poesia degli arcadi classici, non che dei romantici lombardo-veneti, i quali spinsero il furore della originalità sino a rifare o contraffare in versetti metastasiani o in versoni cesarotto-foscolo-montiani i romantici francesi e tedeschi: non sanno che in quella vecchia poesia abondano le ballate vere a strofe ottonarie d’un andamento rotto franco e famigliare, che poi non si rivede piú se non forse in qualche parte obliata della poesia drammatica e popolare del secolo decimosettimo. Se dunque il Chiarini nel tradurre l’Atta Troll, e prima di lui il Berchet nel tradurre le vecchie romanze spagnole, risalirono a cotesti esempi; chi cotesti esempi conosce e conosce un pochetto della poesia straniera onde il Berchet e il Chiarini tradussero, sa, o crede, che facessero bene; perché con le strofe ottonarie del Metastasio o del Romani che stanno benissimo nei melodrammi, e con quelle del Parini o del Monti o del Prati che sono ai lor luoghi bellissime, il Romancero e l’Atta Troll non si traducono da vero, e tradotti in altro metro non sono piú il Romancero e l’Atta Troll.
Che se, dove in questo poema prevale l’elemento discorsivo e satirico la traduzione del Chiarini è alle volte ineguale né senza durezze o contorsioni, bisogna anche avere un po’ di riguardo alla incredibile difficoltà del rendere in rime italiane quella poesia indiavolata; bisogna un po’ vedere se l’originale in certi luoghi sia facile andante eguale, o non si contorca e sperda in giravolte d’allusioni e d’arguzie troppo misteriose e lontane e faticosamente cacciate. Ma dove l’epos romantico si devolve con abondanza di cuore e di vena, la traduzione del Chiarini, fedelissima, ha pienezza d’intonazione, semplicità di mezzi, rispondenza di movimenti e di suoni tale, che non lascia desiderar, credo, molto.
Leggiamo, o rileggiamo, a prova, la Caccia selvaggia, che per l’invenzione e la rappresentazione larvale fantastica appassionata, ove il languor dei delirii a un latteo lume di luna pare ardenza di entusiasmi sotto il rosso splendore del sole, è, per me, il punto culminante, il punto che mi vince, dello strano poema (cap. XVIII-XX). Nella Caccia selvaggia, si sa, il poeta, rimaneggiando all’uopo suo un’antichissima tradizione odinica incristianita nel medio evo, figura il corteo degli spiriti nemici al cristianesimo o che non ebbero inspirazione o sentimento di cristiani, i quali la notte di San Giovanni vanno a caccia per i greppi de’ Pirenei.
Era appunto il plenilunio
E la notte e l’ora quando
Pe ‘l burrone degli spiriti
Vanno i morti cavalcando…
Risa, gridi e suon di corni,
E di fruste scoppiettare,
E nitriti lietamente
Fean la valle risonare.
Venían primi insiem correndo
E cinghiali e cervi strani,
E altre fiere, che inseguite
Dalla muta eran dei cani.
Differenti i cacciatori
E di tempo e di paese:
Cavalcava con Nembrotte
Carlo decimo, francese.
Sovra bianchi palafreni
S’avanzavano: i bracchieri,
Dietro, a piede, coi guinzagli,
E con faci gli staffieri.
Io piú d’uno riconobbi
Nella gran turba. Non fu
Quel coperto tutto d’oro
Forse un giorno il re Artú?
Dopo i re e i guerrieri, i poeti:
Vidi ancor piú d’un eroe
Del pensier fra quella gente;
Riconobbi il nostro Goethe
Al sereno occhio lucente…
Della bocca al dolce riso
Shakspeare anche ravvisai,
Che gl’inglesi Puritani
Condannaro….
Con Shakspeare il suo pietista commentatore tedesco sur un asino:
Va cogli altri a caccia, e monta
Un caval di nero pelo.
Al suo lato, sopra un asino,
Trotta un uomo…. O Dio del cielo!
Quella faccia di devoto,
Quella orribile paura,
Quel berretto di cotone….
Quella d’Horn è la figura.
Quando van tutti al galoppo,
Il gran vate sorridendo
Guarda il suo commentatore,
Che a fatica il vien seguendo,
E spossato in su la sella
Del somier s’aggrappa forte,
Fedel sempre al suo poeta
Come in vita così in morte.
Seguitano le baccanti dell’antichità:
Anche vidi molte dame
Ne la folle processione,
Belle ninfe da le snelle
Leggiadrissime persone.
Inforcavano i polledri
Tutte nude, ma i capelli
Giú per gli omeri scendevano
Come d’oro ampi mantelli.
Coronate eran di fiori
E agitavano i virenti
Tirsi bacchici, riverse
In procaci atteggiamenti.
le schive del medio evo,
Vidi appresso in veste lunga
Molte caste damigelle,
Con in pugno il falco e assise
Di traverso su le selle.
le fatturate del tempo nostro,
Dietro, quasi parodía,
Sopra magri rossinanti
Venían donne che al vestire
Somigliavan commedianti.
Grazïose eran nel volto,
Ma sfrontate anche un pochetto;
E gridavan come pazze,
Tutte rosse di belletto.
Come ciò gioiosamente
Fea la valle risonare!
Risa, gridi e suon di corni,
E di fruste scoppiettare.
E tra le donne, tre figure, tre simboli, tre età, tre poesie.
Diana, la poesia classica:
Da la mezza luna in capo
L’una si riconoscea:
Fiera e bella come statua
S’avanzava la gran dea.
Da la tunica succinta
L’anche e il petto uscivan fuore:
Le baciava della luna
Delle fiaccole il chiarore.
Bianco e gelido qual marmo
Era il viso. La severa
Rigidezza di quei tratti
E il pallor terribil era.
Ma ne’ vividi occhi neri
Fieramente divampava
Un maligno e dolce fuoco,
Che accecava, divorava.
Abonda, la poesia romantica del medio evo
Vienle al fianco un’altra bella,
Che ben poco a lei somiglia;
Ma il candore ha pinto in volto
Della celtica famiglia.
Al dolcissimo sorriso
Ed al suon de la gioconda
Pazza voce io riconobbi
Di leggier la fata Abonda.
Avea faccia un po’ pienotta,
Di rossor sempre soffusa;
E la bocca a cuor, che i bianchi
Denti mostra ognor socchiusa.
La leggera azzurra veste
Che portava apríasi al vento:
Spalle uguali neanche in sogno
D’aver visto mi rammento.
Erodiade, la poesia orientale:
Il suo bianco ardente viso
Rammentava le contrade
D’Orïente, le sue vesti
La sultana Scheherezade.
Era il naso un bianco giglio,
E le labbra melagrane;
Come palme in mezzo a un’oasi,
Le sue membra svelte e sane.
Sedea sopra una chinèa
Bianca, e a’ lati uno ed un moro
Le trottava a piè, reggendo
Con la man la briglia d’oro.
Essa, Erodiade, volle la testa di San Giovanni Battista, perché ne era innamorata; e ora
Porta sempre nelle mani
Il vassoio con la testa
Di Giovanni; e di guardarla,
Di baciarla mai non resta.
Ne la notte s’alza, ed esce
Alla caccia, e porta in mano,
Com’è detto, il capo tronco:
Che talor (capriccio strano
Femminil!) con grandi risa
Fanciullesche in aria getta,
Come palla, e su ‘l vassoio
Ricader quindi l’aspetta.
La regina degli ebrei sente e distingue nel poeta un suo nazionale:
Quando a me passò dinanzi,
Riguardommi, e m’accennò
Cosí languida col capo,
Che ‘l mio cor forte tremò.
Ben tre volte andò la turba,
Galoppando, innanzi e indietro;
E tre volte, nel passare,
Salutommi il caro spetro.
Già sparía la processione,
Il tumulto già cessava;
E l’amabile saluto
Pe’l mio capo ancor trottava.
Tutto il giorno di poi il poeta fantastica della processione e specialmente delle tre donne:
E mi prese un fier desío
Di sognar, di delirare,
Un desío di quelle Amazzoni
Che aveo visto cavalcare.
O notturne visïoni,
Dall’aurora spaventate,
Dite, dite, ove fuggiste?
Ove al dí ricoverate?
Ricovero a Diana sono le rovine del paese che fu romano, onde ella in forma tra di dea e di strega conturba ancora gli spiriti:
Sotto i ruderi d’un tempio
Di Romagna, per timore
De’ cristiani, ritirata
Sta Dïana il giorno. L’ore
De la nera mezzanotte
Per uscir fuori ella aspetta;
Ed allor con le compagne
A la caccia si diletta.
Piú lontano, piú fantastico, piú misterioso il refugio della romantica Abonda:
Essa pur la bella Abonda
De’ cristiani ha gran paura,
Ed il giorno sta nascosta
D’Avalun ne la sicura
Isoletta. Ne l’oceano
De’ romantici, assai lunge,
È quest’isola: l’alato
Pegaseo solo vi giunge.
Mai la Cura non v’approda,
Né vapor su quelle ripe
Mai depone i curïosi
Filistei da le gran pipe.
Non si sente là de’ doppi
Il suon tristo, fastidioso,
Quel din don din do continuo
Alle fate tanto odioso.
Là, fiorente di perpetua
Gioventú, sempre gioconda,
Vive in mezzo a la letizia
La gentile e bella Abonda.
Fra l’odor di strani fiori,
Là ridendo ella passeggia.
Fra una turba di ciarlieri
Paladin che la corteggia.
Ma Erodiade, la povera esecrata ebrea, sta sotterra nei vecchi sepolcreti di Gerusalemme:
Nel sepolcro fredda salma
Stai dormendo tutto il giorno,
Fin che poi a mezzanotte
Ti risveglia il suon del corno,
E tu segui con Dïana,
Con Abonda, la feroce
Cavalcata, e con gli allegri
Cacciator ch’odian la croce.
L’attrazione della caccia selvaggia e la fatal simpatia d’Erodiade rapisce il poeta:
Qual gioconda compagnia!
Potess’io cacciar con voi
Per i boschi ne la notte!
Starei sempre a’ fianchi tuoi:
Poi ch’io t’amo sopra tutte!
Né la greca altera dea,
Né la fata amo del norde,
Quanto te, morta giudea…
Ogni notte nella caccia
Al tuo lato cavalcando
Verrò teco; rideremo,
Anderemo insiem ciarlando.
….e il dí piangendo
Sul tuo tumul sederò.
Sí, nel giorno, su gli avanzi
De’ regali mausolei,
Su la tomba dell’amata
Mi vedranno i vecchi ebrei
Star piangente, e crederanno
Ch’io lamenti sconsolato
La città santa distrutta
E ‘l gran tempio ruinato.
È uno strano pezzo di romanticismo classico ed ebreo; tradotto poi, che non si poteva meglio. A cui la traduzione non garba, si conforti coi Salmi adattati al gusto della poesia italiana dall’abate e avvocato Saverio Mattei, che del resto avea ne’ suoi tempi sufficienza di dottrina; mentre i commessi viaggiatori d’oggigiorno per giudicare della musicalità in poesia hanno soltanto la capacità delle orecchie.