Giuseppe Cesare Abba – Il Dottor Crisante

Il dottor Paleari se ne tornava cavalcando come se non sapesse neppure d’essere in sella, tanto l’animo suo si lasciava rapire dalla vista dei monti lontani di dov’egli veniva, i bei monti tra i quali, cadendo dall’opposta parte dell’orizzonte, il sole entrava di traverso, e vi illuminava certe profondità di boschi, che nell’altre ore del giorno l’occhio non trovava, e che, a guardarle in quell’ora, parevano senza fine.
Che pace lassù! esserci nato in un tugurio, esserci cresciuto senza saper nulla del mondo, sempre a pascer mucche, far legna e carbone; e un bel giorno avervi incontrata una di quelle belle giovani che vi stavano, quella bellissima ch’egli, il dottore, aveva veduta poche ore prima; essersi fermato improvviso dinanzi e lei, a un passo di sentiero selvaggio, e averle detto: sei mia, ti sposo, vivremo semplici e allegri, e per questi boschi staremo delle giornate intere a guardare i grandi alberi, ad ascoltar il silenzio, la selva… «Ora che cosa mi viene in capo! – esclamò il dottore sorprendendo sè stesso in quei pensieri come in un fallo – che giovane, che sposa, che selva, io che ho moglie e figli e già qualche capello bianco! Bah!».
A questa esclamazione, la cavalla, fors’anche perchè si sentì ne’ fianchi i calcagni del padrone, affrettò ancora un tantino il passo, e, benchè rifinita, in quattro tempi di trotto lo portò a casa. Là nel cortile, si scrollò forte, allungando il muso fino a terra, quasi volesse far capire a Maglorio di far presto, sebbene egli fosse già corso a levarle gli arnesi; presto, perchè non ne poteva più, e quel giorno s’era guadagnato il fieno e qualcos’altro. Anche il dottore, smontando, fece un gesto con cui voleva dire d’averne abbastanza; carezzò la bestia lisciandola sul collo, e poi, buttate le redini al servitore, gli ordinò di darle doppia razione.
– C’è stato qualcuno a chiamarmi?
– Per questa sera no, ma per domani l’aspettano di buon’ora da Pilo del Pian de’ galli.
– Del Pian de’ galli? Ma se son passato da quelle case due volte, e qualcuno di quei vicini era nei campi e m’ha visto! Non poteva chiamarmi? Ah, contadini, gente dura! No, ho torto; facciamo troppo poco per dirozzarli. Pazienza! Domani tornerò a trottar lassù.
Diceva così il dottore con certo senso di piacere, perchè gli tornava a mente la bella giovane veduta il mattino da quelle parti. Forse l’avrebbe riveduta! Ma come si sorprese per la seconda volta in quel sentimento, fece uno sforzo per soffocarlo e si rimproverò di quella mala gioia dell’animo. Se avesse potuto indovinare in sua moglie un pensiero di quella sorte, glielo avrebbe perdonato? Certo mai più?
E salì stanco la scala.
– Babbo, babbo! – vennero a gridargli tra i piedi i suoi figliuoli, tre quercioli dai quattro ai dieci anni. – Sono già andati al battesimo, sono! quando tornano li vogliamo buttar noi i confetti; ce li lasci buttare!
– Sì, sì, li butterete voi. E la mamma?
– Ci siamo stati ora – dicevano i due maggiori, saltando dalla gioia: ma intanto il dottore s’avvide che il più piccino aveva pianto.
– E tu? Che cosa piangi? Hai fatto qualche birichinata? – diceva egli mettendo le dita nei ricci del fanciullo.
Subito questo gli abbracciò una gamba, e cominciò a singhiozzare. Allora Gesualda, che era qualcosa tra cameriera e aia dei bambini, si fece avanti e spiegò.
– Ecco, signor padrone; è venuta la signora Laurina per dire che stassera ci sono altri due battesimi, e che suo fratello avrebbe aspettato al battistero appena finito il rosario, e mentre si fermava a carezzar Tullo, gli diceva che ora gli hanno accorciata la camicina, che baci e confetti non nè avrà più, che tutto sarà dell’ultimo…
– E tu, ancor più sciocca di lei, lo ripeti con tanto gusto! No, no, piccino, non ci badare, non t’hanno accorciato nulla; anzi delle camicie te ne faremo una più lunga di quelle del babbo. Sei contento? Sicuro! Bravo! Ecco che Tullo è contento.
Il fanciullo si rischiarò un poco, ma non parlò; onde il dottore pensando che a levargli quella malinconia ci sarebbe voluto altro tempo, andò nel suo studio a riporre la custodia de’ suoi ferri, a registrar le visite fatte. Noie d’ogni giorno. Intanto mormorava: «Paiono cose da nulla, ma insomma quell’innocente è già angosciato, forse odia già, per la grulleria d’un’anima oziosa, che si crederà d’aver detto bene. Ecco la vita! Tutta una storia di piccole male azioni che si commettono ogni giorno, ogni ora, un po’ da tutti, senza che ce n’accorgiamo; e non di meno si tira avanti onesti, dabbene, esemplari. Ferri, ferri del mio mestiere, voi tagliate, voi sanate la carne; ma le storture dell’anima chi le raddrizza? Eppure la signora Laurina è sorella d’un parroco!».
Poi passò dalla moglie, che se ne stava ancora riguardata in camera, però lavorando con molti capi di biancheria sulle seggiole, nelle ceste, pertutto. Lavorava essa, ma da un’ora toccando qui, lasciando là, inquieta, perchè aveva il pensiero ad altro. Come mai suo marito tardava tanto a tornare? Sapeva bene che quella sera si doveva fare il battesimo del loro bambino! Ma già! chi li vede, chi sa che cosa fanno gli uomini quando sono fuori di casa? Dianzi aveva pur detto bene la signora Laurina: da quelle parti, dove suo marito era andato per i suoi malati, ci stavano quelle bellissime ragazze, che, la festa, quando calavano nel borgo alla messa, erano l’invidia di tutte le signore. Sapeva che molti signori andavano sin troppo volentieri a caccia da quelle parti, per quei boschi, e che se ne dicevano sempre delle nuove: anzi più d’una delle sue amiche si era confidata con lei di certe storie del proprio uomo con qualcuna di quelle boscaiole lassù… Però, se il suo Paleari le avesse fatto il torto di fermarsi da quelle case, per…
Appunto pensava così e stava per minacciare tra sè chi sa che cosa, quando il dottore entrò:
– Buona sera, Valeria, finalmente eccomi qui!
Valeria rispose a quel saluto senza aver quella gaiezza che sempre le rideva negli occhi quando parlava con lui: anzi parve al marito che in quel momento, in quegli occhi ci fosse qualcosa d’insolito, di non sincero.
– Cominciava a temere che ti fosse capitata qualche disgrazia.
– Non si deve temere mai! – rispose egli un po’ secco – chi è fuori di casa si guarda da tutto.
– Ma chi sta a casa pensa a male.
– E allora non dovevi sposare un medico di campagna, che deve trottar da un’avemaria all’altra e non può star a casa a farsi adorare!
Che guai, pensò Valeria, se egli avesse indovinato quello che le era passato per la mente allora allora! E il dottore un poco seccato da quella nebbiuzza che Valeria aveva ancora sul viso, non si potè liberare da un pensiero che gli volle venire a ogni modo: «l’altro medico del borgo non aveva moglie, viveva da sè, solo, forse infelice; ma, almeno, quando tornava a casa trovava la quiete».
– Scuserai se non t’hanno aspettato – ripigliò Valeria – il parroco mandò sua sorella a dir che andassero appena finito il rosario, e sono andati.
– Hanno fatto benissimo! Non son potuto giungere in tempo, perchè ho trovato due contadini che mi aspettavano, per condurmi da un pover’uomo che ha sette fgliuoli, uno un po’ più lungo dell’altro, su, su, come le canne d’un organo, ma tutti piccini. Stava nel bosco a far legna e si è quasi affettato un piede. E io ho dovuto rifar più di sei miglia indietro, ma pazienza! quel piede spero d’averglielo salvato.
– Pover’uomo! e chi è?
– Quel Gemito, sai? quello che trova i tartufi al fiuto meglio dei cani?
– Ah! quello che sta lassù dove ci sono tutte quelle belle donne? – disse Valeria con certa malizia nel tono.
– Valeria! – esclamò il dottore – in quattordici anni che stiamo insieme, non t’ho mai sentita dire una sciocchezza! Cominci ora?
Valeria chinò gli occhi mortificata. Egli allora si sentì rimordere perchè essa, che pur senza saperlo aveva qualche ragione di fargli quella domanda, si mostrava quasi vergognosa d’averla fatta. Pensava che dianzi aveva fatto bene egli a cacciar dalla mente quei fantasmi di bellezze d’altra donna, ed ora se teneva; ma non sarebbe stato ancor meglio dire addirittura la verità, confidare a Valeria che s’era perso con piacere a pensar a quella ragazza, ma che appena s’era avvisto di pensarci aveva cacciato via la tentazione, e addio? Sarebbe stato meglio? Chi sa?
Il fatto è che non si è punto avvezzi a essere interamente sinceri in nulla: tuttavia, riconoscendosi immeritevole di quella pronta sottomissione di Valeria, il dottore si rabbonì subito e soggiunse:
– Non m’ero mica dimenticato del battesimo del nostro bambino; ma ho detto: faranno senza di me; e sono andato da quel pover’uomo. Bisogna ben esser pronti per i poveretti carichi di figliuoli! Anche noi sappiamo che cosa vuol dire.
– Ma! – sospirò Valeria.
Allora il dottore le prese le mani e gliele strinse, godendo di sentire come erano tornate morbide, in quei pochi giorni che era stata senza far nulla.
– Chi dice: ma! contento il cor non ha. È un proverbio che varrà per gli altri, ma non per noi: siamo contenti, noi! e i nostri figli, siano quanti vogliono, cresceranno senza patire. Già, capisco, tu sospiri per quelli che ci son morti. E spesso sospiro anch’io, anzi vivo più con essi che coi vivi. Quando vado solo pei monti li vedo pertutto, li sento parlare, parlo con essi, sono la mia compagnia. Ora poi non piangere…
– Però… insomma, temo che ti dispiaccia di quest’altro bambino. Non andare in collera, mi sarò ingannata, ma quella sera che nacque mi sei parso di cattivo umore, triste, irritato…
– Oh! allora sta a sentire! – disse il dottore, cui ora pareva di trionfare, addolcendo sempre più la voce: e andato all’armadio a muro della biancheria lì nella camera, trovò tra le lenzuola un libro vecchio vecchio, lo prese, tornò a sedersi vicino a Veleria e lo aperse. In quel libro, già in gran parte scritto a mano, sfogliò, cercò la pagina che voleva e lesse:
«Due settembre milleottocento settanta, otto ore di sera. Mi è nato il sesto figliolo. La mia Valeria desiderava una femmina, ma per i tempi che corrono, meglio un maschio. Quasi sempre, se non c’è dote, bambina vuol dir zitellona: eppoi anche quelle che si maritano, di dieci nove non sono felici. Il bambino è nato mandando certe strida che pareva un falchetto. In questo momento passano i soldati richiamati sotto le armi, e cantano le canzoni della patria:
Anderemo a Roma santa,
Anderemo in Campidoglio.
Buon augurio pel mio figliolo che un dì leggerà la storia di questi tempi. E leggerà anche questa nota, e vedrà con gioia come la mano di suo padre scrisse sicura, e in qual momento solenne fu salutata la sua venuta al mondo».
– Grazie! – esclamò Valeria, ora con gli occhi lucenti di quel sorriso che aveva soltanto lei – sei forte e sincero!
– Sincero! – pensò egli con amarezza, e difendendosi dalla visione di quella bella montanina, che ora voleva tornargli alla mente – Sincero! niente affatto! Non valeva scusarsi: l’aver fantasticato come aveva fatto lui poche ore prima quando s’era incontrato con quella ragazza, poteva parere una cosa da nulla, ma intanto voleva dire essersi augurato di non aver mai avuta Valeria per compagna, o, peggio, non averla più. Povera donna! Sincero!
– Ora a che cosa pensi? – disse Valeria con dolcezza.
– A nulla.
– Sempre divaghi tu, sempre come quando scrivesti codeste righe! Perchè sei andato a ficcare tante storie di soldati nella nascita del nostro bambino? Piuttosto ci dovevi mettere che nella stesso momento nasceva la bambina di Livia…
– Oh! è vero, ma i pensieri gentili e buoni vengono soltanto a voi donne. Chi sa? Quando i due saranno grandi, se mai venissero ad amarsi, che cosa cara e religiosa per essi trovarsi già uniti in questa nota, e lui sapere che tu hai voluto che la scrivessi! La scrivo subito e dico proprio che l’hai voluta tu stessa.
E così come diceva, si affrettò a scrivere, dettandosi a mezza voce, mentre Valeria stava a sentire e gioiva.
Poi chiuse il libro e stette un tantino a guardarne la legatura in cartapecora ingiallita e grinzosa, che dava un senso quasi religioso di vita antica, di spiriti cari, richiamati da quelle pagine, scritte da tante mani di morti. E, riapertolo, senza fermarsi a nessuna pagina, ma sfiorandone alcune righe a salti, si esaltò e disse:
– Questo è davvero il libro della vita, anzi del gran dovere della vita! Vorrei che fosse obbligatorio per tutte le famiglie! Non è una consolazione, una guardia, una guida poter vedere, come in una sfilata, passar per questi fogli tutta una stirpe? Qui scrissero mio padre, mio nonno, il mio bisnonno e anche il mio trisavolo; ci scriverà poi qualcuno dei nostri figli. Come gli uomini sono divenuti indifferenti per certe cose! Novantanove su cento sanno appena dire come si chiamava, di dov’era, che mestier faceva il loro nonno; i bisnonni, quelli stiano nel buio della memoria come in quel della tomba! Ingratitudine! Noi invece in questo libro possiam risalire fino alla quinta generazione, forse quella cui appartenne il primo della famiglia che potè uscir dal volgo…
– Rileggimi la pagina di quando nascesti tu! – disse Valeria lampeggiando negli occhi, e assettandosi meglio nel seggiolone per ascoltare.
Ma il dottore non ebbe il tempo di trovar la pagina, perchè si sentì un chiasso di fanciulli nella via, una turba che veniva gridando: Confetti! confetti!
– Eccoli qui! – diss’egli chiudendo il libro, e andò a riporlo dov’era stato tenuto di generazione in generazione.
– Babbo, mamma! – entrarono gridando i loro tre figlioli, che erano stati pronti nella sala vicina – eccoli, vengono, dateci i confetti da buttare!
– Sì, prendete, una manata per volta, fate da bravi, ecco, una manata ciascuno…
E messo un bel paniere nelle mani del più grandicello, il dottore spalancò il balcone della sala, mentre il corteo battesimale entrava nell’andito.
Allora i tre fanciulli si slanciarono sul balcone e fecero cadere una gragnuola di chicche e frutte secche sul gruppo di monelli che subito s’accapigliarono nel rigagnolo, e questi chi raccattava e si empiva la bocca e chi le tasche; chi soverchiava, chi andava sotto; uno ne dava, l’altro ne toccava, taceva o partiva, piagnucolando pel suo berretto, per la sua scarpa in quel viluppo perduta.
E intorno intorno, adulti, vecchie, grulli fannulloni che stavano a guardare e a ridere goffamente.
Ma poco discosto dalla casa del Paleari, nella farmacia del signor Saverio, dalla cui bella vetriata nova si spandeva luce fin nella via, il passaggio di quel corteo battesimale aveva suscitato un mezzo litigio tra i signori che vi stavano ad aspettar l’ora d’andare a cena. C’era il signor Bonifacio, regio notaio, buon vecchio a cui l’avvocato Ciccoli mandava in segreto dei cattivi auguri, l’avvocato Ciccoli, lingua tabana temuta da tutto il paese. C’era costui, c’era il commendator Sapetti, capo divisione giubilato di fresco, tornato a stabilirsi nel borgo nativo, dove un impiegato regio era considerato come un principe; e dove molti compagni suoi di gioventù rimasti a non far nulla per godersi l’ombra del campanile, e a vivere tutta la vita come cavalli legati a un piolo con quattro braccia di corda per girare e pascere lì, dicevano che era stato un gran fortunato e che se avessero saputo l’avvenire avrebbero fatto come lui. C’era il sindaco Prudenziani che aveva sempre seco un certo parassita cui tutti davano del canonico, e dicevano che nelle cose del Comune tutto dipendeva da lui: anche v’era il pretore venuto da poco in quella residenza, ma se ne stava ancor zitto, quasi volesse studiar bene la gente con cui aveva a fare, prima di dir la sua; c’era il signor Nicostrato, antico impiegato delle cacce reali, con altri quattro o cinque personaggi minori, ma non da contar tra questi il dottor Crisante, amico sincero del Paleari benchè suo collega. In un cantuccio, rannicchiato e quasi non veduto, c’era quella sera anche un conte, vecchissimo, erede dei titoli non dei beni d’un’illustre famiglia, che aveva dominato per secoli nei castelli di quelle parti : il qual conte, strascicando i piedi, si faceva condurre qualche volta in farmacia, per sentir leggere nelle gazzette le notizie della guerra tra Francesi e Prussiani. Egli ascoltando avido, riviveva i suoi tempi di sessant’anni prima, paesi, battaglie, vittorie, la guardia imperiale nella quale era stato capitano, e di quelle cose godeva o pativa in silenzio; poi se ne andava a letto a sognarle.
Quella sera il discorso s’era arruffato parecchio, appunto sull’argomento della gran guerra; ognuno aveva combattuto per l’una o per l’altra parte, proprio come se fossero stati in campo alle cannonate; e si erano detti e si dicevano spropositi che facevano male al cuore del vecchio conte. Alla fine il sindaco Prudenziani si levava da quello scompiglio, dicendo che se in Francia si ammazzavano, facessero pure, chè prima che il sangue fosse lì, ci sarebbe stato il tempo a scappare, e che alla peggio il mondo non poteva finire per quello.
– Tutt’altro! – gli gridò quasi nell’orecchio il dottor Crisante, irritato per quella sciocchezza, mentre gli faceva largo perchè potesse passare – il mondo non finirà mai perchè ci son troppi grulli! Eppoi, guardi quest’altro battesimo; è il terzo che vedo dacchè siamo qui. E che baccano! Perchè lei, signor sindaco, non proibisce questi chiassi da barbari?
– Proibire, proibire! – rispose il degno magistrato, volgendosi tutto al dottore – non ho mai sentito parlar tanto di proibire come da voi che avete avuto la libertà!
– Io?
– Voi per il primo!
E se n’andò grave, sicurissimo di lasciar il dottor schiacciato. Dietro di lui uscì subito il canonico, cui il dottore diede un’occhiata di compassione sprezzante; poi voltosi a quelli che rimanevano nella bottega disse in tono triste:
– Fanno festa quando uno nasce! Farla quando uno muore vecchio, se è vissuto buono ma non sciocco come il nostro sindaco, la faccian pure; chè allora mette conto! Ma insomma di chi è quel marmocchio che gli fanno dietro tutto quel chiasso?
– È del nostro buon Paleari – s’affrettò a dire il farmacista che stava al banco a incartar certe polveri, ondeggiando col pensiero allegro, tra il prezzo di costo e quello di vendita. Ora disturbato a un tratto dalla tema che si venisse a sparlare del Paleari proprio lì nella sua bottega, e questi lo risapesse poi e avesse a piantar lui e la farmacia, per aver se non altro la scusa di non essere stato a sentire, scappò nella via dove si mise a guardar il tempo.
– Ma venga qui, guardanuvoli; non abbia paura di compromettersi! – disse il dottor Crisante – dunque è del Paleari quel bambino? E bravo anche lui! Così è già carico di figlioli come un bracciante.
– Che cosa vuol poi dire: come un bracciante? – domandò con certa arroganza l’avvocato Ciccoli.
– Volete provarlo soltanto voi il gusto di parlar male degli assenti? – rispose il dottore – sì, lo compiango! Un uomo come il Paleari, che avrebbe potuto andar a stare in una capitale e farsi onore e arricchirsi, montar in cattedra, insegnare, scoprir chi sa che cose nuove, eccolo qui in croce con quattro chiodi. Già! a vent’anni s’innamorano, a venticinque piglian la croce d’una donna, e ci si configgono su da sè a punte di figlioli. E poi pensieri, e poi crucci, e trottar da mattina a sera, e far i capelli grigi prima del tempo! Lasciamo far così a quelli che frugano nella terra tutto il santo giorno: quelli, dei figli, ne possono mettere al mondo quanti vogliono, che posto ed erba ce n’è ancora per tutti; ma gli altri, noi, voi, dal ciabattino in su, chi non zappa la terra e non sa viver d’erba, no, no! In questi tempi! Aveva ben ragione il signor Vigo, buon’anima, quarant’anni fa, quando qui, in questa bottega, diceva che da chi gli avesse dato centomila lire, si sarebbe lasciato tirar una schioppettata! Allora tutto il paese gridò che era un empio; ma si vede che lo sapeva lui che cosa volesse dire non esser ricchi e aver figli! Mi darei alla disperazione io se ne avessi cinque o sei come certuni!
– Io ne ho appunto sei e non mi dò certo alla disperazione per far piacere ai filosofi, che forse n’han più di me… – disse freddamente il notaio, che avendo appunto sei figli, prese la cosa per detta a lui.
Un lampo d’ira balenò negli occhi di Crisante.
– Vuoi giuocare che dici così perchè ti dispiace di non aver preso moglie? – entrò a dire il capodivisione volto al dottore, con la sua voce fine d’uomo vissuto nel mondo dei cavalieri, per volgere in celia quel discorso già un tantino pericoloso.
– Moglie? – rispose il dottore – domanda un poco qui al signor Pasquale, se ne prenderebbe un’altra egli che ha perduto quella che aveva ed era buona?
Quel signor Pasquale, che era un uomo quieto, e bonariamente si lasciava dir tutto pur di stare in compagnia di signori, questa volta malignò senza volerlo, e rispose che per un parere di quella sorte era più al caso il signor Nicostrato, che di mogli ne aveva prese tre.
– Vuol dire che avrà trovato tre Fenici! – disse ridendo il dottore.
– Badate come parlate! – saltò su stridendo il capitano Nicostrato delle cacce reali – certe parolacce tenetevele per voi! Le Fenici sappiamo che cosa sono, e le vostre le abbiamo conosciute tutti!
Fu uno scroscio di risa che fece tremare nelle scansie tutti i barattoli del farmacista.
Il dottor Crisante rimase un po’ come stordito; poi con lo stesso tono del capitano Nicostrato disse:
– Ma che capitano d’uccelli era, lei, che non sa nemmeno che cosa siano le Fenici?
A quest’altre parole le risa scrosciarono ancor più forti. Allora il capitan Nicostrato, che appunto alle spalle era chiamato capitano degli uccelli, credette di poter pigliare maggior ardimento, e ancor più irritato gridò:
– Ripeto che Fenici saranno state le donne che avete conosciute voi! – e se n’andò alla maniera che se n’era andato il sindaco, anzi ancora più gravemente.
– Guardate che passi! – disse il dottore – guardate! pare sempre che cammini sul petto di qualche nemico messo in terra da lui; ma ora il nemico atterrato son io, e calca più forte. Ma che le bestie del paese si diano tutte la posta qui in questa farmacia?
Chi sa che guaio seguiva per queste ultime parole, se appunto non fosse venuta a passare per la bottega la signora Tersilla, che scendeva dal pian di sopra.
– Che cos’ha il signor capitano che se ne va così in collera? – disse lei con certa malignità.
– Giusto lei, signora! – esclamò il dottore – e sia sincera! Si parlava di figlioli. Non si loda, lei, di non averne dato nè pochi nè molti, anzi neppur uno al suo buon Saverio?
– Se mai, non avrebbe dovuto mantenerli lei! – sibilò la signora, volgendoglisi contro come una vipera.
Saverio fulminò la moglie con un’occhiata fosca di tanta ira quanta non ne condensava in un anno. Non sapeva quella saetta che gli poteva levar dottore e ricette dalla bottega? Non gli faceva abbastanza guerra l’altro farmacista dall’altro capo del borgo? Per reggervi aveva dovuto cambiar i barattoli, far fare quella vetrina nova, mandar nel solaio le belle imposte antiche con le figure che avevano attirato la gente per un secolo e mezzo! E credeva essa che non si fosse risentito anch’egli di quell’insolenza del dottore? Vedeva bene che masticava amaro e mandava giù dolce! Ecco, ecco; ah! che brutta serata! ecco a punto che il dottore se n’andava!
– Buona notte a tutti – disse infatti il dottore; e se n’uscì, accompagnato da un’occhiata del signor Saverio, che pareva gli volesse dire di non badare, che quelle erano parole di donna, e che la sua era una donna, e che il savio davvero era stato lui che di mogli non aveva mai voluto saperne.
Il dottore si fermò un tantino nella via a guardare gli ultimi monelli, che, sotto il balcone del suo collega, razzolavano ancora per trovare se vi fosse rimasto qualche confetto. E vide che qualcuno di quei ragazzi andava via menato a forza dalla madre; che un altro se ne partiva da sè, cantarellando una canzone già più insolente di quel ch’egli alla sua età potesse essere; che un terzo pigliava la rincorsa come un vitello punto dall’assillo, forse non sapendo neppur lui dove andar a finire.
– Poveri diavoli! che colpa ci hanno essi se son venuti al mondo? – mormorava il dottore – senti, senti! Ci son quelli che ce li mettono e poi li picchiano; senti che strilli! – E s’avviò, tentennando il capo e pensando al suo collega che s’era messo anche lui tanti pesi sulle spalle; ma intanto si sentiva qualche rimorso, per le cose che aveva dette e per quelle che aveva fatte dire nella farmacia. Veramente, uomo contento non era stato mai. Ora già sulla sessantina, se ne viveva solo con una vecchia domestica, la quale, sebbene con lei fosse burbero e non le parlasse quasi mai, gli si era attaccata da anni e anni come l’ostrica allo scoglio, con la speranza di un lascito quando egli fosse venuto a morire. Intanto se le altre fantesche le dicevano che era fortunata e che se in casa del dottore comandava, il perchè lo sapeva lei, non negava, faceva la rota e si lusingava, tutta devota all’avaro padrone che le teneva in serbo i salari.
Il dottore entrò in casa e chiuse l’uscio a chiave e a catenaccio, tastando poi per accertarsi d’aver fatto bene, mentre giù per le scale correva a incontrarlo, scodinzolando nel buio, il suo cane. Salì egli accarezzandolo, passò dalla cucina dove prese il lume a mano dalla domestica senza dirle nulla, ed essa che lo capiva lo lasciò andar nella camera, guardandosi bene dal dargli la buona notte. Là, trovandosi ancora il cane tra i piedi, il dottore gli fece un’ultima carezza per mandarlo a cuccia, e mentre l’animale se n’andava guardando indietro: – Povera bestia! – disse il pover’uomo – volta, rivolta, il mondo è vasto, ma che mi voglia bene non ci sei proprio che tu!
A quell’ora, dal Paleari si beveva l’ultimo sorso alla salute della signora Valeria e del suo bambino; si erano fatte delle volate lontane nei ricordi della famiglia, anche con l’aiuto di quel tal librone antico in cui erano scritte le nascite di generazione in generazione; s’erano rinnovati confronti di tempi, persone, somiglianze tra vivi e morti, massime a proposito del bambino battezzato poco prima e questo o quell’altro degli avi, zii e zie, cose che fanno passar l’ore in fretta: poi i convitati, tutta gente della parentela, senza cerimonie, chi un po’ prima chi un po’ dopo, se n’andarono tutti. E così rimasero solo quei di casa, e quindi silenzio, lumi spenti, la pace e il sonno d’una famiglia, che avrà avuto anch’essa le sue tristezze, le sue ombre, quel tanto d’occulto nei cuori da cui si stenta a liberarsi, ma che insomma era composta bene.
– Ora bisogna lavorare ancor più di voglia – aveva pensato addormentandosi il dottor Paleari, e il giorno dopo ci si vedeva appena che già egli passava a cavallo sul ponte, incamminato a trovare i suoi ammalati. E sul ponte lo fermò il signor capitano, quello degli uccelli, che se per uso antico non si faceva mai trovare in letto dall’alba, questa volta s’era dovuto alzar anche prima del solito, perchè tutta la notte era stata una lite con la moglie. Egli le aveva narrato il fatto appena giunto a casa, e quella parola «fenici», forse per certi brutti suoni che faceva tornar nell’orecchio anche a lei, essa non l’aveva potuta mandar giù.
– Pensava proprio a voi! – disse al Paleari il capitano, che, per non si sapeva qual grado di nobiltà che vantava nella sua famiglia decaduta, dava del voi a tutti.
– Il Paleari fermò la cavalla, e l’altro, tenendosi bene bene a distanza contro la spalletta del ponte, continuò:
– Non avete ancora saputo nulla? Ieri sera nella farmacia di Saverio, quella lingua sporca di Crisante, che pare così vostro amico, ha detto che siete peggio d’un bracciante, e che se avesse tanti figli quanti voi, si darebbe alla disperazione.
– Già già! E che cosa ne dice, capitano, lei che se n’intende, passeranno dei tordi?
– Che c’entrano i tordi! Ah! la pigliate in burla, voi? Ebbene, se a voi non importa d’essere rispettato, sono ben contento io d’aver detto il fatto suo a quella linguaccia: io non temo nessuno!
– O insomma, allora che cosa gli ha detto?
– Lo sa lui! L’ho inchiodato là come un pipistrello!
– Dunque buon pro, capitano – disse il dottore scattando via al trotto, e l’altro rimase lì.
To! fatevi dei nemici per difender gli altri! Ma già, i giovani non hanno più sangue!
Così dicendo il capitan Nicostrato guardava dietro al Paleari, il quale sparì presto nella campagna.
Sparì, e tirava via ridendo dell’incontro avuto; ma poi quasi senza avvedersene, cominciò a pensare a qual proposito il suo collega potesse aver detto quelle cose che il capitano gli aveva riferite. Figlioli? Ma Crisante n’aveva ben più di lui! E quello, quell’altro, e quell’altro ancora, di chi erano? A volerli ricordare tutti si sarebbe passato in rassegna il borgo e la contrada. Ma il Paleari si lasciò levare da quella maldicenza solitaria per pensieri più urgenti, gli ammalati che aveva qua e là, il suo bambino battezzato la sera innanzi, la strana coincidenza dell’interrogazione fattagli da Valeria con le sue scappate di desiderio sulla bella ragazza di quelle parti, dov’ora tornava; e arrossiva quasi del facile sdegno con cui si era liberato dal discorso di lei, mentre appunto si era sentito quella bellissima creatura ancor vagante per la mente. E ora, proprio in quell’istante che ricominciava a pensar a colei, eccola in persona spuntar da una macchia, come se fosse stata là ad aspettar lui e gli venisse incontro a dirgli: son tua. Maravigliò di sè stesso. La vista di quella bellezza non gli faceva più nessun senso, anzi egli passò senza quasi badarci. Era il suo spirito che si guardava per non doversi gridar da sè: bada, tu non vali nulla di più di lui, di quell’altro, Crisante insomma, che aveva preso la vita pel suo facile verso? Era la voce di Valeria che gli sonava in fondo al cuore, Valeria tutta casa, che viveva soltanto per lui? Gran giogo il matrimonio e gran rinuncia! ma in compenso era anche una gran guardia contro tutto ciò che nella vecchiezza deve tradursi poi in rinfacci interiori mordenti, umilianti! Meglio dunque, meglio assai nel volgersi poi indietro, aver a sentirsi pungere dal desiderio di cose non godute nella gioventù, meglio che trovarsi ne’ piedi di Crisante, che aveva detto male di lui perchè si caricava di figliuoli! Ah sì? Qualcuno gli avrebbe narrato più preciso di quell’abbondone di capitano ciò che Crisante aveva detto, e se mai, o sul serio o per celia, al collega l’avrebbe fatta intendere lui.
E la sera di quel giorno gliene parlò la signora Tersilla, che aveva risaputo tutto dal suo Saverio; e per aizzarlo contro Crisante gli esagerò le cose anche più del capitano: ond’egli pigliato il fatto sul serio più che non sarebbe convenuto, deliberò di dare al collega la lezione che meritava.
Tre o quattro giorni dopo, venuto il bello della vendemmia, la signora Valeria volle andar a passare nella sua villetta quelle giornate, che son tanto deliziose, forse perchè c’è qualcosa di malinconico nell’aria; nelle piagge, pur ancora ben verdi, spunta già verecondo qualche colchico, spira da tutto non si sa che, a dir all’animo che non solo l’autunno, ma sta per andarsene un altr’anno di vita.
E un di quei giorni, verso le undici, il Paleari se ne stava nella vigna tra le vendemmiatrici che cantavano, e pareva allegro o credeva di esserlo, ma in fondo non si sentiva contento. Qualche cosa gli faceva desiderare che quel giorno non fosse giunto. Pure di quando in quando faceva una risatina che si comunicava alle donne, le quali senza saper il perchè si guardavano, guardavano lui e ridevano anch’esse. Ah! se avesse potuto mettere alcune di quelle donne qua e là pei colli, tra le viti, che bella trovata farle cantare certi strambotti, certi stornelli adattati ai casi del dottor Crisante, mentre questi passasse! E glie ne nascevano pungenti come vespe: Cuculo cuculo, forte hai il grido, ma metti le uova nell’altrui nido! «Questo poi no, pensava intanto il Paleari, sarebbe troppo!» Quel che aveva preparato, per farla capir al collega, doveva bastare; anzi cominciava a sentirsene quasi svogliato e pentito, perchè a certi momenti gli pareva che una voce gli sussurrasse dentro, che quello che voleva fare al collega poteva riuscire uno scherzo, ma che insieme era una vendetta anche un pochino volgare. Tant’era vero che egli non aveva trovato il verso d’informarne Valeria. E così veniva di cattivo umore.
Intanto il mezzogiorno sonava lontano al campanile del borgo, e Valeria s’era affacciata parecchie volte a una finestra della villetta a guardare verso la parte di dove il collega di suo marito doveva venire; segno che la colazione era pronta. Il Paleari guardava anch’esso verso quella parte, e cominciava a dubitare che Crisante, pigliato qualche sospetto, si facesse aspettare e non venisse più. Ebbene ora come ora lo desiderava: la giornata sarebbe passata forse meglio.
Ma ecco improvviso a piè del colle un ombrello da sole, quello del dottor Crisante, che era conosciuto da un capo all’altro del territorio. Di dove era passato lo strano uomo? come aveva fatto a giungere fin là senz’essere veduto? Il Paleari corse giù a incontrarlo, e Valeria si fece avanti sul poggio. Pochi passi d’erta, un inchino alla buona, poi l’ospite fu lì da lei, che quasi vestita da contadina, tenendosi una pezzuola bianca sul capo, tutta nella luce del sole sul verde del prato, pareva più bella di quando era vestita da signora.
Crisante la avvolse tutta con un’occhiata, che in altri tempi avrebbe voluto dire tante altre cose, ma ora non esprimeva forse che il rimpianto di non aver anch’egli una compagna come lei. Intanto le si mise a fianco e s’avviarono verso la casa chiacchierando.
Ma a un certo punto egli sentì qualcosa che gli destò dell’inquietudine. Di dietro le viti d’un filare che fiancheggiava il viale, s’era levato dritto a guardarlo un bracciante, giovane di forse ventiquattro anni, che nel borgo era conosciuto per uno senza padre. E infatti portava il cognome della madre, una bellissima tessitrice di cui si parlava ancora, sebbene fosse morta da molto tempo. E chi la rammentava diceva che era stata anche buona, benchè qui, benchè là; che insomma aveva vissuto a modo d’altri, ma che alla fine delle fini, si sa, il torto l’aveva avuto lei. Forse diceva così anche il primo che l’aveva tirata a sdrucciolare. Ora la gente bisbigliava che quel giovane somigliava tutto a un tale; e al giovane qualcuno lo aveva detto, aizzandolo a farsi avanti, che alla fine dei conti quel tale era ricco, non aveva nessuno che gli premesse e avrebbe sentito la coscienza o la paura. Ma egli, poveretto, che sin dai primi anni aveva sempre tribolato a servire ora qui ora là, e da qualche tempo soltanto era venuto a stabilirsi dove era nato, egli non aveva mai dato retta a quei consigli, forse per un senso d’onestà sdegnosa, o per quella timidezza che la miseria mette nel cuore a chi non è nato cattivo. Però quando vedeva il dottor Crisante, lo guardava con certi occhi pieni di desiderio e quasi di ammirazione; e adesso, di dietro quelle viti, osava fissarlo più liberamente.
Il Paleari, tenendosi a un passo dietro al collega, che camminava a lato di Valeria, non s’accorse del turbamento che questi provò passando presso quel giovane messo là da lui. Forse che Crisante non sapeva quel che la gente diceva sul conto suo e di quel poveretto? Doveva essere così, poichè il mondo è tanto falso ne’ suoi riguardi che avviene spesso che le cose di quella sorte tutti le dicono, mentre il solo a non risaperle è appunto quegli di cui son dette.
Entrarono in una saletta a terreno, semplice, gaia, fresca, dov’era apparecchiata la mensa. Un odor di tovaglie uscite appena dal bucato, che la signora Valeria faceva far volentieri in campagna; vi lavorava lei, e parevale allora d’essere veramente lieta. Quell’odore deliziava più ancora di quello delle vivande che stavano al foco in cucina. Pure Crisante non si sentì stuzzicar quel buon appetito, che alla sua età era ormai la sola cosa di cui si lodasse: egli si mise a mangiucchiare pensieroso, senza alzar gli occhi dal piatto. La colazione, cominciata a quel modo, pareva volesse andar a finire nel silenzio, perchè anche il Paleari non sapeva dir nulla; Valeria sola ebbe qualche parola, qualche domanda, qualche risposta vaga; poi anch’essa non trovò più che dire, e taceva sentendosi mortificata che nella compagnia vi fosse qualche cosa di poco sincero.
Ma a un tratto Crisante si voltò al Paleari esclamando:
– O i tuoi figlioli?
Il Paleari, colto così, non seppe serbar il proposito che intanto aveva formato di mandar a finire in nulla quel che aveva macchinato, e si lasciò scappar detto goffamente:
– I figlioli sono piaghe…
Valeria gli sgranò gli occhi in faccia stando per fare chi sa che maraviglie; ma Crisante non gliene diede il tempo.
– Oh! lasciale dire a noi codeste cose, a noi che talvolta ciarliamo come ragazzi che han paura d’andar soli al buio, e cantano per farsi coraggio! Ma a noi non si vede qui dentro, dove non abbiamo più che dei pugni di cenere!
Crisante disse queste parole con si profondo dolore, che Valeria e più ancora il Paleari ne sentirono pietà. Ed egli che se ne avvide crollò il capo, e si mise a guardare un colle che si vedeva da uno dei balconi, e guardando strizzava gli occhi in fretta in fretta, forse per ricacciar indietro qualche lacrima, che per lui sarebbe stata una cosa che non si sarebbe mai perdonata.
A piè di quel colle ch’egli guardava, in un gruppetto di pini si vedeva il tetto e un po’ del piano superiore d’una casetta, che pareva sentisse di quella contentezza modesta di chi poco ha, poco vuole, e sta sulla terra nel suo cantuccio, beato di poter far, se capita, un po’ di posto a chi n’ha bisogno. E nello sguardo dato dal dottore a quella casetta c’era tutta una storia che in quel momento sentiva traboccar dal cuore, dove se la teneva da trentacinque anni. Gli pareva che avrebbe provato un gran sollievo a dirla; senonchè lì eran tre, forse troppi; ma insomma chi in quella storia aveva sofferto di più era lui, onde fece come chi chiude gli occhi e s’abbandona, e disse:
– Pugni di cenere! Dovevo dir peggio. La vedete quella casetta là tra quei pini? Son passato di là per venir qui, ho voluto rivederla dopo trentacinque anni, perchè là mi fu spezzato il cuore. Trentacinque anni fa vi stava d’estate una giovane che voi non avete conosciuta. Per questo ne parlo, e voi mi dovete promettere di non domandar mai chi quella giovane fosse. Del resto ora è una vecchia e sta lontano; eppoi, forse godrebbe di sentire che si sa ciò che sto per dire. Vedete quei pini su quella vetta? Là con quella giovane passammo delle giornate intere a parlar di noi, come se parlassimo di due altre persone beate in un altro mondo, senza nemmen sapere che ci volevamo bene: io certe parole non ho più garbo a dirle; ma insomma mettete che fossimo due sorelle o due fratelli; per noi era lo stesso. E non eravamo mica più bimbi. Non sapevamo parlare che di sposarci un dì. Che sciocco! Perdoni signora Valeria, tiro via presto. Appena fui medico, pensai subito a sposarla e ne parlai a mio padre. «Guardatene bene! – mi disse lui – se è figlia di sua madre, povero a te!» In quel momento mi parve un triste uomo e non gli diedi retta; anzi appunto quel giorno corsi da lei, da sua madre, in quella villetta là, per finirla a modo mio e intenderci per lo sposalizio. Ma quando fui a piè del colle e guardai quei pini lassù, i nostri pini! vidi due persone abbracciarsi, baciarsi, e una sparire dietro la costa di là, l’altra venir giù verso la villetta, cantando e saltando. La vedo ancora, vestita d’azzurro, coi capelli quasi sciolti; era lei. Non dico quello che sentii. Affrettai il passo per tagliarle la via; essa mi vide e mi volò incontro gridando: «O tu, tu, quant’è che t’aspetto!» Allora l’avrei sbranata e gridai: «O son fatte così le donne? Dunque mio padre ha ragione?» E non le dissi altro. Voltai le spalle, e addio; me ne tornavo a casa pensando che avevo vissuto tutti gli anni dell’Università come un romito per lei. Vi lascio immaginare il mio cuore. Ma ecco, che trovo per via una signora con una sua figliola giovinetta, che avrà avuto cinque anni meno di me, una stella. Questa la conoscete, ma non vi dico chi sia; tanto si capisce che è una vecchia anch’essa. Ebbene, quella signora mi ferma, fa cenno alla figliola d’andar avanti, e mi dice: «Lei viene da trovar la tale? Se sapesse che avrei da dirle! Guardi la mia figliola; questa, sì, farebbe per lei, ma quell’altra, quella… ne domandi, potrebbe anche essere sua sorella». E aveva tanta malizia negli occhi mentre diceva, che non potei trattenermi e la mandai a farsi benedire. Dico benedire, ma in verità devo aver tirato uno di quei sagrati che lasciano il segno nell’aria, perchè la signora si mise quasi a fuggire, tappandosi le orecchie… Ed io mi allontanai, avvicinando nella mente le parole misteriose di lei con quelle che m’aveva dette mio padre, e maledii le donne, e dissi che avevano ragione quelli che avevo sentito disprezzarle e farsene gioco; pensai che tutte le loro buone qualità erano tutte fantasie di noi grulli quando l’amore ci fa girare il capo; e mi diedi dello stolto, perchè le avevo rispettate e tenute in alto. Così da quel giorno m’imbestialii a credere che tutte le donne fossero come quella e di mogli non volli saperne mai più. Mio padre ebbe un bel dirmi che m’ammogliassi! «Dammi questa soddisfazione! – diceva egli – fammi vedere una nuora, non lasciarmi morire senza che conosca quella che sarà la madre dei miei nipoti! Tu non lo sai quel che soffrono i vecchi, quando i figli li privano di questa consolazione… A noi, se non vediam dei nipoti, ci par di morire proprio del tutto…». «Sì, sì, la troverò», rispondevo io, ma furono promesse; mio padre morì senza nuora. Quando ebbi trentaquattro o trentacinque anni, pensai che alla fine un po’ di famiglia sarebbe stata bene anche a me; ma allora sentii rimorso di formarmela dopo che non l’aveva voluto mentre che viveva mio padre, eppoi mi pareva già d’esser vecchio. Così ho falsificata la vita come una moneta che poi si spende male e può condurre alla perdizione. Oh! andiamo, andiamo che io vi guasto l’anima! Sento bisogno d’aria… Dove sono i vostri bambini? Andiamo a vedere i vostri bambini…
Il Paleari e Valeria ch’erano stati a sentirlo guardandolo e guardandosi, con curiosità e compassione crescenti, non ebbero tempo di dir parola che il dottore era già fuori come volesse fuggir sè stesso. Ma lì dietro le viti, proprio rimpetto alla porta della saletta, Crisante rivide quella tal faccia di giovane, come un’apparizione. Forse colui era venuto passo passo fin là per sentir lui parlare. Allora egli tornò a provar quel rimescolìo che aveva provato la prima volta, ma forte più assai e più strano; fece per volgersi altrove, gli parve di non potere, e che anzi le gambe lo portassero verso quel lavoratore, il quale s’era già curvato vergognoso all’opera sua.
Crisante gli si avvicinò a parlargli per di sopra il filare.
– Sei del paese, bel giovine?
– Signor sì – rispose colui tenendo il viso basso, con la voce strozzata, forse dalla soggezione, forse dal piacere di sentirsi dar del tu da quell’uomo.
– E come ti chiami?
– Prospero.
– Di casato, dico…
– Primavera… – disse il giovane lasciando cader due lagrimoni sul dosso della mano, e arrossendo fino alla radice dei capelli.
Allora il dottore gli vide nella nuca certi riccioli biondi, che egli si ricordava d’aver avuti da giovane; que’ bei riccioli pei quali era tanto piaciuto a molte donne. Ma oltre ai riccioli gli vide un neo alla base del collo, il neo che sapeva d’aver anche lui. Tutto il sangue gli andò al core, poi sentì come un capogiro, credette di cadere, ma fu pronto e forte a padroneggiarsi; anzi pensò subito a non farsi scorgere, pigliò per una mano la signora Valeria che s’era accostata, e questa, sempre più commossa, perchè cominciava a capir qualcosa, si lasciò condur via da lui, giù per un viale, mentre il Paleari dietro di loro non sapeva più neppur lui che si fare, quantunque stesse per accadere che tutti e tre andassero là dove ora egli non avrebbe a niun costo voluto.
Di fatto il viale menava a un praticello dove, all’ombra di certi castagni antichissimi, si vedeva una dozzina di fanciulli, che, messe in disparte le stoviglie nelle quali avevano mangiato sull’erba, s’erano ordinati di fronte in due schiere, tenendosi l’un l’altro con le braccia intrecciate dietro la vita. E allora appunto che quei tre apparirono una schiera, si mosse e cantando ballò avanti sin quasi a toccar col petto i fanciulli dell’altra che stava ferma. Il canto era una vecchia ballata paesana, parole d’ambasciatori che vanno al castello vicino a domandar la sposa pel figlio del loro signore. Ripetendo le parole la schiera indietreggiò, sempre danzando, e tornò al suo posto. Allora l’altra si mosse, ballò anch’essa verso la prima cantando la risposta, e così via a vicenda, andando e venendo, empivano l’aria di allegrezza, sebbene tutto il canto fosse uno di quelli ne’ quali si va perdendo l’eco dell’ età mesta dei castelli, quando i poveri guardavano in su e nella potenza e nel fasto dei signori, massime se eran buoni, capivano meglio la onnipotenza del Signore dei cieli, e si rassegnavano volentieri e servivano per destino.
– Oh beati i fanciulli! – proruppe il dottor Crisante – oh! tornare di quell’età per godere innocenti! Senta quale deliziosa ballata! L’ha mai cantata, lei, signora? E tu, Paleari? Quante cose si farebbero che non si son fatte chi potesse tornar fanciullo, o quante che si son fatte non si farebbero più! Ma di chi sono tutti quei ragazzi? Voi di grandini non ne avete che tre!
– Gli altri sono figli di gente del paese che ho invitati a godersi una scampagnata co’ nostri – rispose il Paleari.
– Andiamo in mezzo a loro.
– No, Crisante, non li disturbiamo, lasciamoli divertirsi tra loro… No… via, te ne prego, Crisante.
Queste parole furono dette con tal tono che Crisante non potè neppure far cenno d’insistere; e del resto, il Paleari lo aveva già preso a braccetto, e con lui si era volto indietro. Così tornavano pian piano verso la casa, e ora Valeria capiva ancor di più, anzi scambiò col marito un’occhiata di intelligenza.
Ma Crisante non se n’avvide, perchè guardava timidamente ad altro, a quel tal punto del filare di viti, se ci fosse ancora quel giovane; e non trovandovelo più, provava un senso di sollievo misto di scontento. Il Paleari, che se n’accorse, si lodò d’aver mandato in un’altra parte del vigneto quel lavoratore, e ora di tutto il suo disegno vagheggiato, con certa malignità che gli era sempre stata ignota, non rimaneva più nulla. Per altro c’era qualcosa che sarebbe stato bene poter ottenere, che Crisante finisse poi per andarsene allegro com’era venuto, ma non ci fu più verso di farlo sorridere. Passeggiarono su e giù pei viali, bevvero, parlarono di cose allegre, perfino il Paleari toccò il tasto della maldicenza; ma no, Crisante non cambiò umore. Pareva che a ogni istante fosse lì per aprirsi loro di qualche dolore presente, ma non fu nulla; e alla fine si accomiatò, pregando che non lo volessero accompagnare neppur un breve tratto, perchè lui nella campagna andava volentieri da solo, fantasticando.
Così se n’andò, volgendosi poi indietro chi sa quante volte, per vedere se in qualche parte si scoprisse ancora quel lavoratore; e andando parlava con certi toni da mettere la malinconia sin nelle pietre.
– Ci faccio la croce! – disse Paleari appena Crisante fu un po’ discosto – è finita bene, ma scherzi come quello che avevo ideato non me ne passeranno pel capo mai più. Sai che cosa avevo voluto fare?
– Oh! l’ho indovinato. E perchè prima di tutto non ne hai parlato a me?
– Mi sarebbe parso d’offenderti.
– Certo! Ma io t’avrei impedito. E che cosa ti fece lui?
Allora il Paleari le raccontò quel che Crisante aveva detto quella tal sera nella farmacia del signor Saverio.
– E ti pareva una vendetta da prenderti?
– Tu sei infinitamente migliore di me.
– Intanto guardalo là… qualcosa deve aver capito! povero vecchio, se ne va che pare gli sian cresciuti dieci anni.
Se gli fossero stati alle spalle, non visti, e lo avessero sentito parlare! «Eh già, diceva egli, colpa degli esempi! Le cose vedute, le cose udite da fanciulli: la vita dipende quasi tutta da esse». Lo sapeva lui! Gli era forse mai uscita dalla memoria la scena veduta quando aveva quattro o cinque anni, quel giorno di domenica, dopo i vespri? Sapeva sin l’ora e il tempo che faceva quel dì; rivedeva ancora il raggio polveroso di sole, che, entrando per un buco d’un’imposta della finestra nella camera tutta buia di sua madre, si posava sulla testa d’un san Francesco appeso alla parete, in capo al letto, dalla parte di suo padre, proprio nel momento che questo tornava di fuori ed entrava in quella camera, allegro molto, con un garofano in mano. Ricordava l’impeto fiero con cui sua madre, statasene chiusa tutto quel giorno, quasi senza parlare neppure a lui, fanciullo adorato, s’era avventata al marito, gli aveva strappato quel fiore e se l’era messo sotto i piedi. E subito erano state parole dure e pianti e sdegni, de’ quali allora non aveva capito nulla. Ma divenuto grande, n’aveva poi saputo tanto da cogliere il significato e il dolore di quella scena; onde aveva detto fra sè: «perchè si sposa una donna se poi le si deve esser fedeli, e a non esserlo le si spezza il cuore?»
Rampollavano ora l’un sopra l’altro i ricordi, mentr’egli seguitava a parlare. O quell’altra volta che s’era trovato a quella festa in campagna, con altri fanciulli, e dopo il desinare s’era intavolato tra i babbi allegri certo discorso sulle donne del borgo, intanto che egli e gli altri piccini giocavano nel prato là presso? Ne aveva sentite d’ogni fatta, su questa e quella, magagne che allora cominciava a capire alla grossa. Ma cresciuto, se l’era poi spiegate assai chiaramente, maravigliando che le donne delle quali erano state dette vivessero ancora mogli e madri stimate. E la famiglia gli era parsa tutta una finzione.
E quella sera che a veglia, essendo egli già sui quindici anni, si parlava d’una gran burrasca avvenuta alla marina? Uno narrava che il mare s’era infuriato a segno che un paesello sulla riva stava per essere ingoiato da un istante all’altro; che la gente inginocchiata per le vie pregava da disperata; che il prete era già uscito col Santissimo a scongiurare il tempo ed era stato come dir nulla; ma che alla fine passò un carrettiere e disse: «Oh! povera gente; e non sapete come chetarlo codesto mare matto? Dategli moglie!» Giurava il narratore che il mare si chetò subito. Bei racconti da fare questi, quando ci sono dei giovinetti a sentire! Bel modo da insegnare il rispetto per la famiglia! Quella doveva essere stata una goffa invenzione, ma intanto tutta la veglia s’era sganasciata dalle risa, senza riguardo alle donne presenti, le quali certo non di cuore, perchè erano mogli, avevano riso anch’esse, le sciocche! Si maravigliava ancora d’aver potuto pensare una volta ad ammogliarsi.
Dunque, così andando, Crisante rifaceva parte della sua vita, e accusava e si scusava d’essere quel che era, ma a un certo luogo si sentì come se una forza misteriosa gl’impedisse d’andar avanti e si fermò.
Era giunto a una di quelle povere chiesette di campagna, dove uno che viaggia a piedi si mette volentieri a riposare; e se anche non ha più l’uso di pregare, ci ritrova quel senso di pace che fa al cuore come una preghiera. La chiesetta era piantata su d’una roccia di fianco alla via. «Sediamoci un po’ qui», disse egli con certo abbandono, e si mise sur uno dei gradini che servono anche da inginocchiatoio a quelli che vogliono farsi ai finestrelli per pregare o veder almeno qualcosa, un santo, una croce. In quel momento, per un sentiero dei boschi, sul colle in faccia, passavano tre o quattro villani dietro un prete in cotta, che camminava sotto l’ombrello. «I preti vanno di giorno e di notte come noi medici – pensò Crisante – e anch’essi, come me, non hanno famiglia. Ma ora che storie vo a cercare? Se non avessi figliuoli, io! Se sapessi quanti ne ho!» Poi stette a lungo con la testa tra le mani a guardar la polvere dove una traccia di formiche si affaticava andando e venendo da un buco che entrava sotto quel gradino. Forse non le vedeva neppure, perchè seguitava il suo discorso: «E quanto starà a passare quel giovane che ho visto dal Paleari? Di qui deve passare e di qui non mi muovo. Voglio rivederlo».
Questa risoluzione gli fece passar pel cuore un senso di dolcezza e di calma. Che bel giovane era colui! Quei capelli, quei bei capelli, gli aveva avuti anche lui, il dottore, «gli ho avuti anch’io, sì – pensava – ma quella povera Primavera? Mandò il suo bambino all’ospizio e non ci fu uno, non gli altri, non io, che abbia detto: potrebbe esser mio! Canaglia!»
Il dottore balzò in piedi sdegnato, come se qualcuno nascosto gli avesse gridato quella parola; e allora sentì un chiasso di voci fanciullesche venir oltre crescendo dalla parte ond’era venuto lui. Che fossero quei ragazzi che aveva veduti dal Paleari?
Erano proprio essi, e venivano rincorrendosi, tirando sassi agli uccelli negli alberi, cantando e gridando che parevano in quaranta. Che pienezza di vita! Il dottore si sporse dalla roccia, mentre che passavano là sotto e li guardò e stava per chiamarli, ma… ora cominciava a capire anche lui! Erano tutti figli di gente che conosceva assai bene; uno, due, tre, questo, quello, dei quali altro dicevano i libri delle nascite nel Comune, e altro la voce del mondo.
I fanciulli passarono.
«Grullo io che non l’ho capita subito! Il Paleari ha risaputo quel che ho detto da Saverio quella sera, e m’ha voluto dare una lezione. Oh! non può essere che così. E ben mi sta! Ma… toccava a lui darmela? Lui? Ma certo! Di queste rughe nell’anima non ne ha lui! I suoi figliuoli se li tiene, se li gode, se li soffre, sani, malati, buoni, cattivi; se gli muoiono è lui che si sente portar via un brano di cuore, se gli riusciranno male sarà lui che se li troverà intorno a metterlo in croce. Io invece, io… tanti altri come me… Lasciami tornare dal Paleari, qualche ispirazione mi verrà!».
Discese dalla roccia e s’avviò per tornare dall’amico, risoluto non sapeva neppur lui a far che, ma a far qualcosa ad ogni modo; e andava sciolto che pareva ringiovanito perfin nel passo. Senonchè in un punto dove la via giaceva profonda tra certi roveti, vide apparire e venir quel tal giovane, che camminava piano, a capo chino, stanco o afflitto. Ebbe un istante quasi di paura; diede un’occhiata indietro, non c’era alcuno; rallentò il passo. Ma l’altro veniva ed egli andava verso di lui, sicchè non aveva ancora formato mezzo proposito che s’incontrarono. Il giovane salutò quasi senza guardare, tirando dritto per la sua via; e il dottore rimasto là senza aver avuto cuore di dirgli nulla, stette tanto che quello scomparve di là d’una voltata della strada.
«Non ho mica avuto paura! – disse poi tenendosi una mano sul cuore che gli batteva forte – paura no… ma… che senso!… Insomma una cosa strana. E non ho osato fermarlo! Non potevo mettermigli al fianco e andarmene con lui? Lo voglio raggiungere.
E si volse indietro affrettando il passo e incalzando, ma come tornò a vedere quel giovane, tornò insieme a rallentare; poi si affrettò ancora e ancora si rattenne più volte, sempre voglioso, sempre dubbioso, sino a che quando egli giunse nel borgo, colui si era già internato per chi sa qual via e non si vedeva più.
Il dottore se n’andò a casa carico di pensieri, umiliato, stanco, tanto che la fantesca quando lo vide entrare credette che si sentisse male, ed ebbe nella sua piccola mente, tra un miscuglio d’altre idee, l’idea che forse cominciava il tempo in cui il padrone, alla fine, avrebbe dovuto rendere i conti a lei e a Dio. Non aveva già sessant’anni? Ma a parlargli fece la voce affettuosa.
– Signor padrone, si sente qualcosa?
– No, anzi sto bene. Andatevene pure a letto.
– E lei? Vuole che lo lasci così? Non ha bisogno di nulla? Mi pare… non so…
– Andatevene pure a letto… non ho proprio bisogno di nulla… mentre voi, povera donna, sarete stanca…
– Senti come parla dolce!… vuol proprio morire! pensò essa; poi avvicinandoglisi: – ma perchè è voluto andare in campagna alla sua età?
– Alla mia età? Dunque sono vecchio davvero? Ah! già. E appunto per questo è tempo di far giustizia. Ma andate, andate a letto, ubbidite, via! che mi volete seccare?
La donna non osò più ribattere e se n’andò. Se ne andò, ma non a coricarsi, che presa da curiosità irresistibile, volle star a sentire dall’uscio della sua camera quel che il padrone facesse. E lo sentì tutta la notte andar di qua e di là per la casa, parlare, sospirare, sino all’alba, e quando fu l’alba discendere e uscire. Allora si mise indosso la bavera che portava alla messa, e camminando come un’ombra gli tenne dietro, da lontano, spiando. Perchè mai andava egli a sedersi su quel muricciuolo del ponte a quell’ora? Non erano mica più i bei tempi suoi, di quando a ogni passo tendeva una rete a qualche bella campagnola o del borgo! La sapeva essa la storia! Pure lo vide stare, stare, stare, guardando come chi aspetta qualcuno. Passò un tale; niente: passò un tal altro; niente: alla fine passò un giovane, quel giovane di cui sapeva bene anch’essa ciò che la gente diceva. Oh che grullo di padrone! Rendeva il saluto a quello straccione! Certo si era andato a metter là apposta; ecco, ecco che gli si perdeva dietro con gli occhi!
Allora capì che stava per avvenire qualcosa di molto nuovo in casa, e se ne tornò sbuffando come un’alfana bolsa. Là, con le convulsioni alle mani, si mise intorno alle stoviglie lasciate da rigovernare la sera innanzi; le scivolava via una zuppiera e: «vattene pure!»; ruppe dei bicchieri: «al diavolo anche voi!» diceva la donna; parlava con quelle cose e si sfogava a trattarle male.
In quanto al dottore, da quel giorno, tornò mattina e sera sempre a quel posto, non potendo più stare senza rivedere quel giovane. E sempre questi passando andava a capo chino, sempre gli pareva più modesto ma meno malinconico, e però anche egli in casa diveniva sempre più buono.
Cosi dàgli oggi, dàgli domani, una sera il dottore andò addirittura incontro al giovane, risoluto di farla finita e parlare. E passo più passo meno lo trovò proprio in quel luogo dove l’altra volta aveva avuto quasi paura. Lo fermò.
– Buona sera, Prospero, mi lasci tornar indietro con te?
L’altro si confuse.
– Sì, vengo con te: voglio parlarti.
E gli si mise a lato. Camminarono alcuni passi tacendo, poi il dottore ripigliò lui:
– Dimmi la verità, tu fai una vita tribolata.
– Da povero – rispose il giovane con naturalezza – ma è già una grazia aver la salute.
– Oh! la salute.
Fecero un altro cento di passi senza dir nulla, poi il dottore:
– E ci vorresti venire a star da me?
– Oh! – sospirò Prospero, volgendosi in là per nascondere le fiamme che si sentiva al viso – io non ho mai fatto altro che zappar la terra e non so far nulla. Preferisco andar a giornata.
– Superbo come me! – pensò il dottore guardandolo di traverso, ma con gioia – superbo e anche d’ingegno forse: guarda che bella fronte!
Poi soggiunse:
– Io ti voglio prendere con me per colono, nel mio podere della Calandra; lo sai dov’è il mio podere della Calandra?
– Lo so.
– E ci vieni?
– Io non ho che le mie braccia: aratro, buoi, danaro, non ho nulla io.
– N’ho io, ho io tutto: ci devi venire!
Prospero non rispose.
– Bravo! – esclamò il dottore, e gli prese il braccio scuotendoglielo con amore, poi gli pose una mano sulla spalla e andò avanti parecchi passi così, che non sapeva più levarla, e sentiva che il giovane tremava.
– Animo, animo! al mondo bisogna aver animo! – e dicendo, gli pareva d’aver avuto il giovane altre volte con sè, e d’essere con lui in confidenza di cuore.
– E dimmi; tu, sei stato anche soldato; vedo che hai ancora i calzoni con la striscia: prima dove stavi? Raccontami tutta la tua vita.
Prospero, con voce franca ma bassa, cominciò una di quelle storie che somigliano a tante altre; a tutte l’altre degli infelici che non ebbero mai che latte di carità pagata, pane di sette croste, e anche l’ingiuria nel nome che loro fu dato, tanto per dire e non dire, bastardo.
A quel racconto il dottore sentiva il cuore come se si schiudesse e s’inteneriva; ma quando il giovane disse con angoscia che il boccone più amaro l’aveva mandato giù il giorno del suo arrolamento: egli, quasi temesse d’udir qualcosa che gli schiantasse il cuore, diede un crollo e proruppe:
– E non t’è mai venuto in capo di farne una grossa, di prendere qualcuno per la gola, così?
E dicendo accompagnava le parole iraconde con un atto ancor più iracondo, pigliandosi per la gola davvero; e intanto si maltrattava, s’insultava dentro, avrebbe voluto far pagare a sè stesso in quel momento il fio di tutta la vita.
Se quel povero Prospero gli avesse potuto legger nel cuore, l’avrebbe pregato di chetarsi, che alla fine delle fini, dei derelitti ne aveva conosciuti moltissimi più miseri di lui, che almeno non era nè sciancato, nè ulceroso, nè altro; e che non c’era forse uomo che non si dovesse accusare d’avere qualcuno del proprio sangue perduto pel mondo; anzi, che egli stesso, così meschino com’era, forse…
In quella giungevano nel borgo ch’era quasi buio. Quando furono nella luce del primo fanale Prospero si senti pigliare da certa vergogna di camminar tra la gente col dottore, onde rallentò il passo dicendogli che lo riveriva, che cenasse e dormisse bene.
– Come? Non vieni con me? – disse il dottore prendendolo pel polso – ah figliol mio! – il giovane trasalì, il dottore si sentì felice; – sì, figliol mio, non si fa, così! tu vieni da me, e domani ti metto nel mio podere. Vedrai come ci starai bene! Frumento e vino tutti gli anni, da venderne; la casa nuova e bella; una volta entrato non te n’andrai più.
– Ma non pensa a quei poveri diavoli che ci stanno?
– A quelli ci penserò. Poi prenderai moglie, diventerai il padrone tu… insomma ora andiamo.
– Almeno mi lasci venir a distanza…
– Andiamo!
E il dottore continuò a tener pel polso il giovane, che dalla confusione non sapeva quasi più mandar i piedi avanti.
Quelli che li videro passare stupirono di quella novità; ma il capitano degli uccelli, che appunto allora usciva di casa per andare a fumare la pipa sul ponte, si volle cavar gli occhi dubitando d’aver traveduto.
– Finalmente ne fa una da galantuomo! – pensò, guardando dietro al dottore, cui da quella tal sera non aveva mai più concesso il saluto; e fermando subito il primo in cui s’imbattè per dargli la nuova, gli disse: – Volete sapere? questa volta Crisante ha trovato scarpe pe’ suoi piedi. È passato adesso adesso con uno de’ tanti suoi… mi capite! uno che ha le spalle quadrate e i pugni sodi. Quello si deve essere fatto giustizia da sè… Se correte un poco, lo vedete anche voi… Sentiremo, domani!
E poi lo disse a un secondo, a un terzo, e andò a ridirlo nella farmacia; e così prima che la gente andasse a dormire, mezzo il borgo ripeteva che Prospero aveva preso il dottore per la gola e s’era fatto condurre in casa per avervi i suoi diritti.
Ma che schianto per la domestica, quando vide colui entrar col padrone! Si sentì addirittura derubata. E si fece avanti con le mani sui fianchi, lì lì per iscoppiare come una nuvola grigia, ma il dottore la disarmò con un’occhiata.
– Non avete nulla di pronto da mangiare?
– Qualche boccone per lei – rispose la donna con un mugolìo come di temporale andato a sfogarsi lontano.
– Non credere, Prospero, che costei sia la padrona, no; questa è la serva.
E si maravigliò di non aver alzato il bastone contro quella insolente. Poi seguitò:
– Portate quel boccone e servirà per due.
La donna portò in tavola con una spanna di grugno; ma il dottore senza badarle si mise a empire il piatto di Prospero, pigliandone per sè appena da assaggiare.
– Mangia, mangia, figliolo. Dove ceni la sera quando torni dal lavoro?
– Nella stanzuccia che tengo nel vicolo dei Cani.
– Vile questo tempo che si danno ancora dei nomi di scherno alle vie dei poveri! Mangia, mangia e bevi. Andate a prendere delle bottiglie voi, o Lupinella!
La domestica si scosse, andò e tornò con le bottiglie.
– Ora salite a fare il letto dei forestieri, e poi andatevene a dormire.
Lupinella accese un lume e andò.
– Date almeno la buona notte, sciocca!
– Buona notte – disse Lupinella di sull’uscio.
– Pare in agonia! – sussurrò il dottore sorridendo – ma non è mica una serva padrona, no; è una scioccona che se lo deve essere immaginato. Mangia, mangia.
Prospero era già quasi seccato di sentirselo dire, ma mangiava e beveva sforzandosi e sospirando la sua magra cena d’ogni sera. Oh la pipa che poteva andar a fumare conversando sull’uscio coi vicini, povera gente come lui, mentre sulla soglia dirimpetto alla sua, ma soltanto quand’egli c’era, usciva a sedersi la giovane che gli empiva il cuore di gioia! Quella sera egli non le avrebbe potuto parlare!
Avrebbe voluto andarsene almeno dopo aver cenato, ma il dottore sempre più allegro e alla mano, era omai il padrone, e volle condurlo egli stesso a coricarsi nella camera che aveva chiamato dei forestieri. Ed egli si rassegnò.
– Animo! spogliati; non aver soggezione di me; gente a letto ne vediamo tutti i giorni, noi medici. Cosi! Smetterai anche codesti panni… Su, sotto, tra le buone lenzuola che sono ancor di mia nonna. Vedrai, ce n’ho un armadio che tiene tutta una parete, pieno da capo a fondo. Stai bene?
– Bene – rispose Prospero quasi col singhiozzo.
– Bravo! e ora continua il tuo racconto d’oggi – soggiunse il dottore sedendosi a pie del letto, come usava fare quando visitava i suoi ammalati. – Sei rimasto a quando ti toccò andar sotto l’armi, e dicevi che allora mandasti giù il boccone più amaro della tua vita. Che cosa fu?
– Non me lo faccia dire…
– Dillo anzi; ora ho bisogno di saper tutto: tanto è lo stesso!
– Ecco! Il mio furiere, quando scrissi il mio nome, arrivato a un certo punto che a una sua domanda risposi una certa cosa, mi disse, senza neppur alzar gli occhi a guardarmi: «Ah! dunque anche tu sei uno di quelli che non hanno nè tetto nè pagliaio? La tua casa sta in faccia a quella del lupo? Stai al mondo e non sai nemmeno a chi dir grazie? Vattene, poveraccio, vattene anche tu». Io andai fuori di quella stanza mordendomi le mani. Oh! come mi fece male quella compassione in presenza di tanti compagni!
E Prospero proruppe in pianto.
– Forse quel soldato era un brav’uomo e disgraziato come… tanti altri – disse il dottore, forzandosi per trattenere le lagrime.
– Di fatto si chiamava Venturino.
– Ah! Venturino? Anche questo è un nome di scherno. Ma non sarà dato ai tuoi figli; tu non avrai tempo di mandarne pel mondo con tali nomi; vedrai! Già, a quest’ora, una ragazza cui vorrai bene ce l’avrai? Sì? È una ragazza dabbene? La vuoi sposare subito? Chi è?
Prospero, con gli occhi lucenti, disse liberamente il nome di colei che, ogni sera, quand’egli stava sulla soglia della sua catapecchia, usciva a sedere sulla soglia di faccia, e ci stava fin che ci stava lui.
Il dottore, a udir quel nome, pensò un istante, aggrottò le ciglia, si fece cupo, s’alzò, poi con tono già da padrone gli disse:
– Tu quella giovane la devi lasciare!
– Lasciarla? – rispose Prospero, levandosi fiero sul gomito, e guardando il dottore, come se questi lo avesse insultato.
– La devi lasciare!…
– Ma io non posso lasciarla!… io sono un galantuomo!
Al dottore guizzò, come un lampo nel cervello, il ricordo di quelle parole stategli dette trentacinque anni prima, da quella tal signora, e gridò:
– Come? Dunque tu…
Prospero chinò il capo arrossendo, ma veramente non perchè avesse capito tutto il pensier del dottore.
– Catena orrenda del male! – si mise a smaniare questi, e pieno di confusione, sbigottito, quasi non vedendo nè sapendo più che si facesse, fuggì nella sua camera, piantando là quell’infelice, che uscì dal letto sbalordito, si vestì, volle andarsene; poi invece timido, vergognoso, si sedette con la testa tra le mani a meditare su quel mistero, di cui pur gli pareva di afferrare il senso terribile, e si forzava a non afferrarlo, a ingannarsi, a credere che il dottore stesso s’ingannasse.
Ora il dottore, quanto a lui, l’anima sua era messa a una prova dalla quale non si sarebbe potuto ritrarre neppur il più scellerato uomo della terra. Ah! le allegre leggerezze della vita facile e libera di gioventù quali tristi cose preparavano alla vecchiezza! Quel matrimonio non si doveva lasciarlo fare! Ci pensò su, tutta la notte; a il mattino si trovò ancora bell’e vestito appoggiato al letto. Andò alla finestra e aprì. Il sole illuminava già il cornicione della casa di faccia, lungo il quale garrivano centinaia di rondini, che si erano raccolte per far lo stormo e partire. Egli guardò a lungo quegli allegri uccelli, stringendosi ogni poco tra i pugni le tempie, che gli battevano fortissimo, e gli passavano per la mente degli strani pensieri d’uomini e bestie. Poi si levò di là, e si diresse, con certa ripugnanza, alla camera dove aveva lasciato Prospero. Ma il giovane non c’era più. C’era in vece Lupinella che abballinava le materasse, brontolando dietro quel villano che vi aveva lasciato un lezzo, che sarebbe durato sin chi sa quando.
– Dov’è Prospero?
– Se n’è andato.
– L’avete fatto andar via voi? – urlò il dottore.
– Che! – rispose Lupinella senza timore – l’ho sentito girare con quei suoi scarponi, sono venuta a vedere, m’ha pregata d’aprirgli giù, e se n’andò dicendomi di dire a lei che parte subito e che in questi luoghi non ci verrà mai più.
Il dottore credette che il cuore gli si disfacesse: non disse nulla, gli parve di sentire qualcuno in sè che si rannicchiasse, qualcuno che si rassegnasse a rimaner sepolto vivo sotto una rovina. Pure si provò a uscire, per andar in traccia di Prospero; ma appena fu dieci passi fuori dell’uscio, si fermò, perchè gli parve che sin i muri delle case e l’aria stessa volessero svergognarlo. «Questa è la mia morte!» pensò; e se ne tornò in casa.
In cima alla scala stava Lupinella a guardarlo, con aria di compassione; egli non se n’ebbe a male, e salì.
– Ma venga, venga su, non vada a farsi scorgere! lo sanno già anche troppo che quel miserabile ha dormito qui! Che crede che ridan poco?
– Ridano e scoppino! – gridò il dottore – E che cosa dicono?
– Dicono che un uomo come lei dovrebbe avere un po’ più di testa!
– Dicono! Ma come lo sapete voi.?
– Eh! Sono già stata alla messa e alla fontana io! M’hanno anche domandato come fa lei a sapere che quel giovane è veramente quel che lei crede…
– Zitto, zitto! lingua sacrilega! E che altro dicono?
– Che se volesse pensare a tutti quelli…. mi capisce? ci vorrebbe il bene di sette chiese.
– Ah infamia del mondo!
E bestemmiando il mondo come se fosse stato creato apposta perchè egli ci si sfogasse contro, andò a chiudersi nella sua camera, dove si gettò sul letto, come un fanciullo pauroso, bocconi, e a poco a poco s’addormentò provando un senso di discesa lenta nelle tenebre, nella tomba. Quando si svegliò vide che era già notte e n’ebbe quasi piacere: quel brutto giorno se n’era andato, ma egli avrebbe voluto che notte e sonno non fossero più finiti. Lupinella, che stava origliando, entrò, gli parlò, gli portò qualcosa da ristorarsi; poi egli si rimise a dormire, e sognò molto, non di cose liete (strano, perchè non sognava più da chi sa quanti anni, o almeno d’aver sognato la notte il mattino non si ricordava più); ma quei sogni se li tenne tutti in sè. Così quel giorno non era uscito, e non uscì per molti altri di poi. Vennero gli amici, i curiosi, i maligni; venne il Paleari, ma nessuno potè vederlo; Lupinella diceva a tutti che se n’andassero in pace ch’egli non voleva visite. E sì che il Paleari gli voleva dir di una lettera di Prospero, il quale, già da lontano, pregava lui di far sapere al dottore che in quel fatto che sapeva non volesse credere vi fosse nulla di vergognoso come pareva avesse dubitato! Il Paleari, che aveva indovinato a un dipresso di che si trattasse, dovette levarsi quel carico di coscienza mandando la lettera a Crisante. Questi la lesse, ebbe un lampo di gioia, si esaltò, pensò di partire in cerca di Prospero, di farsi aiutare dal Paleari stesso a riaverlo: ma subito si scoraggiò: troppe altre brighe gli potevano nascere. Eppoi, che farsi aiutare dal Paleari? Non era stato lui la causa di tutto quel suo trambusto? Ora lo odiava. E si chiuse ancora di più, cominciando a credere d’aver tutte le ragioni dalla sua.
Intanto, fuori, la gente che gli aveva tagliati i panni addosso cominciava a stancarsi di dire; ma nella farmacia del signor Saverio il capitano degli uccelli tirava sempre in ballo lui e i suoi guai. Avrebbe voluto vederlo almeno da un pertugio come doveva esser ridotto quel libertino! Gliele aveva date lui le Fenici! Capitava qualche volta il Paleari, mentre la compagnia era in quei discorsi; ma allora tutti tacevano o mutavano chiave. Invece in casa sua, quasi ogni giorno, si doveva parlare di Crisante perchè la signora Valeria non finiva mai di dolersi che per cagione di lui, ancorchè non l’avesse fatto apposta, il dottore si fosse abbandonato in quella miseria di vita.
– Mi dispiace – le disse un giorno il marito – che tu donna scusi tanto quell’uomo; me ne dispiace davvero. Tornerà a uscire, vedrai; tornerà a uscire.
Valeria non ne parlò mai più.
Ma in quanto a Crisante fu visto uscire soltanto alcune settimane dopo, e ancora non dalla porta di casa, ma da un usciolino dell’orto, e ficcarsi subito in una viottola che menava nella campagna. Però egli doveva aver voluto che Lupinella lo seguisse, perchè qualcuno vide costei che, a distanza, lo teneva d’occhio. Passeggiò quella volta un poco, ma poi non ci tornò più: gli era parso d’aver sempre avuto gente alle spalle o appiattata dietro le siepi per fargli del male. Poi, come l’inverno venne, si tappò addirittura in casa e si mise a leggere, leggere, leggere, quasi non volesse rimanere neppur un istante da solo col proprio pensiero. Curioso però, che leggeva di preferenza il Libro di Giobbe, come se il percosso dalla sventura fosse stato lui. Quando non ne poteva più, allora si metteva, per dir così, all’ombra di Lupinella, sotto la quale si veniva curvando un tantino di più ogni giorno, ed essa per compensarlo e farsi voler bene gli ammanniva dei desinari e delle cene che, quasi quasi, quand’uno finiva, l’altra incominciava. Le ore ch’essa stava fuori di casa erano per lui ore di paurosa inquietudine, lunghe, contate.
– Che cosa dicono di me? – le domandava sempre appena essa tornava.
– Bah! – rispondeva Lupinella – non san neppure se siam vivi.
– Se siam vivi, se siamo! Veramente questo siamo… – brontolava egli quasi offeso. E lei pronta:
– Che cosa dice, che cosa vuole?
– Oh nulla! – le rispondeva il dottore, ben lieto che non avesse capito.
Così a poco a poco quella donna gli fece dimenticar sè stesso e la gente, e sino il brutto momento cui s’era trovato, diceva essa, per le sue ubbie: onde alla fine egli s’accomodò a non pensar più nè a Prospero nè ad altri. Badava a mangiar bene e a ber meglio, e anche accadeva che qualche sera Lupinella lo mandava a dormir alticcio. Quando si annoiava, essa lo incantava nella nicchia del focolare e gli faceva dire il rosario, o gli inventava storielle di donne e d’uomini conosciuti da lui; ed egli, che volentieri le credeva, ci provava un gusto matto, consolandosi di trovarsi con sì gran compagnia. Se Dio avesse poi perdonato gli altri, avrebbe perdonato anche lui. Ma qualche volta, ascoltando quei racconti, si scoteva, dava un crollo improvviso, che Lupinella credeva fosse alla fine il colpo; dava un crollo e si fissava in una visione che pareva gli passasse davvero dinanzi agli occhi.
– Lupinella! e quando mi porteranno via morto, che si dirà di me?
– Ma? – rispondeva essa, che per solito stava filando.
– Che sono stato un brav’uomo, no di certo! Forse non verranno a accompagnarmi neppur i cani.
– Faremo distribuire dei gran cestoni di pane, e la gente verrà.
– Ah! sì, dei gran cestoni…! Ma quando morirà il Paleari?
– Ci andrà meno gente che dietro lei!
– No, no! Oh! quel giorno, la gente è giusta! Ci andrà tutto il borgo!
Lupinella seguitava a filare e mandava il fuso con tal forza che pareva mandasse lui chi sa dove.