Giuseppe Parini – Lettera a Onofrio Branda

AMICO.

Voi avete ragione di querelarvi di me, perchè, dopo la vostra partenza da Milano, io non v’abbia più scritto, e ve ne chiedo perdono. Se io volessi qui recare i motivi, per gli quali non l’ho fatto, sarebbe cosa lunga; e voi ad ogni modo non mi credereste come quello che siete persuaso che tutto ciò venga dalla mia infingardaggine. Anzi a me conviene di lasciarvi durare in cotesta opinione; perciocchè in questa guisa non pretenderete giammai ch’io vi scriva; e io non vi scriverò se non a quel tempo e a quella misura che più mi piacerà.

Ora nondimeno mi bisogna pigliar la penna in mano, e rispondervi con una lettera o due o più, se farà di mestieri per cavarvi la voglia strana che avete di saper novello intorno e’ progressi della quistione che hanno i Milanesi col Padre Onofrio Branda, e di sapere i miei sentimenti, o, come dite voi, il mio giudizio, sopra le scritture del detto Padre e di alcuni suoi fautori uscite ultimamente contro di me. In certe occasioni io rinnegherei, quasi fui per dire, l’amicizia, se l’amicizia non fosse così dolce cosa quanto ella è; e se voi non foste così potente sopra il mio animo quanto merita lo amore che voi mi portate. Voi mi trascinate per forza a parlar di cose delle quali io avea stabilito di non fare giammai verun motto, sì perchè credo che non meritino d’esser soggetto del mio discorso, sì perchè non vorrei pormi in occasione di avere a dire corte verità, che, quantunque utili e sane, potrebbono nondimeno rincrescere a molto persone che vogliono pure a marcio dispetto della ragione e della verità aver tuttavia gli occhi foderati di panno; e potrebbono esser cagione di nuovi romori.

Voi vi dovete ricordare che, essendo voi a Milano, noi parlammo più volte insieme del Padre Branda, offerendocene occasione la presente disputa. Perciò potete esser buon testimonio dell’ottima opinione ch’io ho sempre avuto, ed ho tuttavia, di questo Religioso, non solamente per riguardo alla dottrina, ma ancor più per riguardo alla integrità de’ suoi costumi. Pure, siccome qualora si parla di alcuna persona in compagnia di molti, ci sogliono essere sempre di questi che, in mezzo agli elogii delle sue virtù, ne rilevano anche i piccioli difetti; così molto volte è accaduto che noi abbiamo udito biasimar la maniera dello scrivere del P. Branda, e dire che, quand’egli s’è recato una volta la penna fra le dita, sembra diventare tutt’altra cosa da quello ch’egli è in sostanza; e che, dove egli è per natura gentile, ragionevole, prudente, pare a chi legge le opere sue ch’egli sia il più ruvido, arrischiato e capone uomo del mondo: di modo che chi, non conoscendolo, argomenta, dalle cose ch’egli stampa, pare a me che faccia torto insieme ed al carattere di lui ed alla verità.

Basta esser uomo, perchè si possano commettere degli errori: e perciò non è maraviglia che anche il P. Branda, scrivendo, ne abbia commessi: guai nondimeno a colui che si crede infallibile, imperocchè costui è come un orbo che si lusinga di vederci, e che, correndo a fiaccacollo, non fa altro che cadere in nuovi e più pericolosi inciampi. Ci ha di quegli uomini al mondo, che, poichè pure son caduti in qualche fallo, non si vergognano di confessarlo; ci ha al contrario moltissimi talmente ostinati e caparbii, che lo sproposito, evidente quanto la luce del sole, vogliono a spada tratta sostenere, e lascerebbonsi anzi tôrre di vita che ridursi a confessare la loro colpa. Di questo numero può forse parer nelle cose letterarie il P. Branda. Egli, poichè ebbe pur composto e stampato quel primo suo dialogo Della lingua toscana, si avvide che quest’operetta commoveva gli animi de’ Milanesi contro di lui; e però gli parve esser necessario di giustificarsi col secondo Dialogo. Ma, dove l’errore è palpabile, le giustificazioni e le scuse non servono; ci vogliono confessioni e pentimenti; altramente colle pretese giustificazioni si divien più colpevole, sembrando che vogliansi far parere ignoranti e balordi coloro che pur veggono e toccan con mano la verità.

Voi sapete quanto io ho sempre desiderato che il P. Branda potesse comparire innocente delle colpe ond’egli è stato accusato; ma quanto più si va avanti con questa causa, tanto mi sembra impossibile che ciò accada giammai; imperocchè questo benedetto uomo la va rendendo peggiore ogni dì più. Ciò che mi rincresce oltre ogni altra cosa si è ch’egli, avendo il torto, e il torto ch’egli ha essendo troppo chiaro ed evidente, si lascia trasportare dalla passione, e, aiutandosi con termini improprii e con istudiati sofismi contro al suoi avversarii, lascia luogo a dedurre dal suo scrivere delle conseguenze che possono far dubitare, come vi ho accennato di sopra, della dottrina e della onestà di lui: la qual cosa mi punge vivamente per amor suo; e molto più, perchè dà motivo di sospettare che siano veritiere anche le voci che si spargono per Milano, cioè ch’egli e i suoi fautori, non contenti di scrivere in sua difesa, e di servirsi delle arme che convengono alle letterate persone, non manchino di adoperarsi segretamente ogni dì per adescare i semplici e per infinocchiare i potenti, acciocchè si alienino da’ loro avversarli; il che vedete quanto debba esser lontano da ogni onesta persona, e quanto perciò sia improbabile che si verifichi nel Padre Branda.

Pubblicata che fu la mia prima Scrittura diretta ad esso Padre, non passarono molti dì ch’io mi trovai a casa bella e stampata una Scrittura di lui : imperocchè, siccome dianzi io gli avea fatto presentare amichevolmente un paio di copie della mia operetta; così egli, contendendo meco di cortesia, volle regalarmene tre copie della sua. In tutto e tre le copie ch’egli si compiacque di mandarmi in regalo, io non potei vedere nè la data del luogo dell’edizione, nè il nome dello stampatore, nè il permesso di verun superiore, laico od ecclesiastico. Io non so qual misterio ci possa esser coperto; e giovami di credere che la cosa sia innocente, come la conta il Padre Branda nella sua Lettera diretta all’onoratissimo Tanzi. Ma questi, ad ogni modo, non ebbe il torto di chiamar quella Scrittura stampata alla macchia, e di riprenderne Sua Riverenza; imperocchè qualunque siano le giustificazioni che il Padre ha poi prodotto, doveano essere pubblicate prima, acciocchè niuno non si potesse ingannare, nè creder che non fosse legittimamente stampata una cosa che in apparenza portava tutto quanto il carattere di furtiva edizione. Ma il Padre Branda ha, a mio parere, il pernicioso difetto de’ pronti e veloci ingegni; il quale durando, io dubito ch’ei non sia giammai per iscrivere cosa degna della sua niente nè de’ suoi studii, e forse nè meno della gravità del suo carattere. Io, vo’ dire ch’egli è troppo frettoloso nello scrivere, di modo che, non rimanendogli tempo nè di meditare nè di consultare i suoi scritti, non può a meno che molto cose non gli sfuggano, ch’ei medesimo a sangue più freddo riproverebbe. Quindi è poi, che le sue proposizioni, non prima ben ponderate, o scandolezzano il pubblico od offendono i particolari; molti sono forzati a risentirsene ed a ribatterlo: ed egli, credendo di provvedere al proprio interesse ed alla propria gloria si ostina nel voler contra ogni ragione mantenere, ciò che una volta gli è uscito della penna. Quindi finalmente quegli amari dileggiamenti, co’ quali, per mancanza di ragioni, assale i suoi avversarii, e que’ violenti scritti, ond’egli, quasi temesse di dover morire all’indomani, si affretta oggi di rispondere alle altrui opposizioni; e pargli d’esser beato, purchè una, qualunque poi si sia, sua stampa, succeda immediatamente a quella dello avversario.

Io son ben certo che il Padre Branda medesimo si avvedrà una volta a mente più fresca di tutto ciò che il movimento della prima collera non gli ha lasciato osservare; e conchiuderà meco che molto volte l’uomo, ad animo più pacato, è costretto di condannar quelle cose che nella subitezza della passione gli sono sfuggite. Allora egli confesserà che solamente nelle battaglie sta la vittoria a favor di colui che riman padrone del campo, ove nelle dispute letterarie colui vince che di più valide ragioni è fornito. Sopra queste solo giudicano i savii, mentre che il volgo degl’ignoranti fonda le sue decisioni sopra la quantità de’ volumi. E questo è il motivo per cui la lunga serie delle scritture del Padre Branda non potrà giammai spaventarmi: e siccome io conto d’essere di lui più giovine, così se qualche fondamento puossi avere sopra la nostra vita, spero anche di sopravvivergli e di potere scrivere dopo di lui. Direbbe il Padre Branda, se mai gli pervenisse questa mia Lettera, che in fatto di sentenze non la cedo un dito a Seneca Morale; ma dica egli prima se queste non sono opportune al caso presente. Voi sì, o amico gentilissimo, mi potete riprendere, perchè, divertendomi in esse, non proseguo a compiacervi di ciò che mi avete richiesto. Ed eccomi a farlo, con patto nondimeno che voi mi lasciate sentenziare e moralizzare a mia posta, e dove buono mi sembrerà.

Il titolo della prima Scrittura dal Padre Branda a me diretta è molto singolare; nè men singolare è tutto il corpo di essa. Scorriamola così leggermente, e vedrete che cosa io ne pensi. Nel bel frontespizio egli esce con una fanciullaggine appena sopportabile in uno de’ suoi scolari. Voi sapete che nel frontespizio della mia prima operetta diedi a lui ed a me il titolo di « milanese ». Egli si accorse del vero, e disse fra se medesimo così: – Costui vuole innanzi tratto mostrare, anche nel titolo della sua opera, come io, essendo milanese, ho avuto maggior torto di offendere i miei patriotti, e ch’egli, essendolo pure, ha ragione di scrivermi contro. Bisogna adunque, vendicarsene, e chiamarlo « milanese di Bosisio ». Così noi verremo a fare un viaggio e due servigi; mostreremo ch’ei non ha ragione di volersi chiamar milanese, nè conseguentemente di difendere i Milanesi e la loro lingua; e allo stesso tempo il faremo arrossire; pubblicando l’oscuro luogo de’ suoi natali. – Oh il leggiadro pensiere, oh il bellissimo trovato! Egli stampa adunque la sua Lettera, e a me la dirige con questa gentilissima soprascritta: « Al signor abate Giuseppe Parini, milanese di Bosisio ». Di qui voi potete vedere che, se il Padre Branda avesse ricevuto la mia operetta colla stessa placidezza, colla quale io ricevetti la sua e quelle de’ suoi fautori scritto contro di me; se questo benedetto Religioso avesse, prima di scrivere, lasciato tornare in calma il suo animo; o se almeno, dopo avere scritto, conceduto avesse qualche dì di riposo alla sua opera, non potrebbe a meno ch’ei non si fosse accorto che quel titolo di libro potea movere a riso le persone o dare indizio di malo animo. Perciocchè, quanto al potermi o no chiamar milanese, sarebbegli risovvenuto di Cicerone (le cui opere, come procettore d’eloquenza, ei debbe avere tuttodì fra le mani), il quale, contuttocchè [sic] fosse di Arpino, nondimeno chiama sempre sua patria Roma e gloriasi d’essere romano; di Virgilio mantovano, ch’era da Andi; di Giovanni Boccaccio fiorentino, ch’era da Certaldo; di Lodovico Ariosto ferrarese, nato a Reggio; e così andate voi discorrendo. Avrebbe potuto risapere che Bosisio è nel ducato di Milano, nella pieve d’Incino; e finalmente avrebbe saputo che già son ventun anno ch’io stabilmente dimoro in città. Sarebbesi avveduto che con me egli offendeva tante civili e nobili persone del nostro contado e de’ nostri municipli, le quali si gloriano di poter portare il nome della lor capitale; ed escludeva dalla biblioteca de’ milanesi scrittori tanti illustri uomini che nati sono nel nostro ducato.

Quanto poi al credere di farmi arrossire pubblicando l’oscuro luogo de’ miei natali, egli è certo che troppo vilmente penserebbe il Padre Branda, se, come accenna in questo titolo, fosse d’opinione che queste cose, per se medesime così indifferenti possano recare onta o disonore all’uomo « spregiudicato », che non vi ha punto di cooperazione. Onta e disonore recano in cambio a colui che le rimprovera, sì perchè il fa senza ragione, sì perchè, ricorrendo a queste frivolezze, mostra che una mala causa abbia per le mani; o, se buona, ch’ei non abbia forze nè coraggio da sostenerla. Credete voi che, se a me fosse piaciuto d’investigare l’origine e la genealogia del Padre Branda, non avessi potuto trovare di che vendicarmi? Ma troppo plebeo cuore ha colui che pon mano a tali vendette, imperocchè mostra d’essere offeso di ciò che non offende altri fuorchè la vile feccia del volgo e la superba ignoranza. Io anzi sono il primo a confessare ogni cosa, e a predicare molto più di quel che il Padre Branda ha stampato. Mi sieno testimonii i nostri comuni amici qui in Milano, molti de’ quali Io medesimo ho pregati che volessero pubblicare fra le persone colte e per le case de’ nobili l’obbligo ch’io tengo verso uno de’ rispettabili correligiosi del Padre Branda, per un piccolo beneficio fattomi in tempo della mia fanciullezza. La fama di questo beneficio, sparsasi solamente in quest’occasiono per Milano, non altronde è nata che dalla bocca di lui; imperocchè non era dianzi noto ad anima nata, fuorchè a lui ed a me, che non ne ho parlato giammai, siccome a lui sarebbe molto più convenuto di fare per sostenere il carattere del verace benefattore e per non congiurare col Padre Branda in una colpa che giugne all’estremo della viltà. Io dubito bene che, se questo, ch’io con voi dico, venisse ad essere risaputo, mi si negherebbe da’ miei avversarii; ma a me, non importa, chè non parlo alla loro lingua, ma alla loro coscienza.

Queste ch’io v’ho narrate finora son cose tutte che fanno torto alla onestà ed alla urbanità del P. Branda e de’ suoi fautori; anzi pregiudicano assaissimo anche alla loro causa, tanto che si meritano i rimproveri e i disprezzi delle assennate persone, alle cui mani pervengono le cose loro. Per altro io sono grandemente tenuto al P. Branda, il quale, anche non volendo, mi ha troppo onorato, chiamandomi «da Bosisio; imperocchè si è servito meco a un di presso del medesino tratto che Salustio [sic] usò contra il principe degli oratori, chiamandolo « da Arpino » ; e questi al pari di me non s’è vergognato d’un tale rimprovero. Ben m’incresce per gli scolari del P. Branda, i quali avranno ora appreso dal loro maestro a motteggiarsi a vicenda sopra le patrie loro, sicchè talvolta verranno alle pugna o accapiglierannosi ben bene. Anzi si crederanno d’ora in avanti che sia uno de’ precetti importanti della Rettorica il cominciare a rispondere alle altrui ragioni con manifeste ingiurie e dal soggetto della quistione lontanissime.

Dopo il titolo di questa lettera del P. Branda, sopra il quale io mi son forse troppo lungamente trattenuto per gastigarvi dello avermi fatto tanta pressa, perchè io vi scrivessi di queste cose, voi credereste di trovare una convenevole ed adequata risposta alle obbiezioni fattegli nella mia operetta; e di vedere in un punto dileguate e distrutte tutte le apparenze di colpa, che, com’egli ha confessato, scrivendo il secondo Dialogo, venivangli apposte da varii. Ma, amico mio carissimo, altra cosa è il lampo, altra il tuono. Fate pur conto che questa Scrittura, della quale parliamo, sia stata il lampo; ma l’orribile schianto del tuono, cioè l’adequata e convenevole risposta alle ragioni, non s’è, finora sentito.

Questa Scrittura a me indirizzata, dice il P. Branda non essere altro che la risposta al proemio della mia operetta; cioè il proemio o preambolo della sua generale risposta, la quale, com’egli accenna, avrà forse per titolo La sfucinata. Voi mi domanderete perchè egli abbia voluto stampare il preambolo prima di avere scritta la risposta. Che volete ch’io vi dica? Chi vuol metter legge a’ capricci degli scrittori? Sembra, egli è vero, cosa naturale ch’ei dovesse attendere a pubblicare il proemio ad un tempo colla risposta; ma, per rispondere adequatamente e difendersi da tutto ciò che gli viene apposto, ci vuole assai tempo e lunga applicazione. Aveva egli adunque a starsene cheto per tanto tempo, a risico di comparire un poltrone presso ai suoi scolari, la cui stima e venerazione, oltre ad ogni altra cosa, gli preme di mantenersi costante ed illibata? Ma venghiamo oramai a parlare del contenuto di questo proemio, frattanto che il P. Branda, siccome ha più volte promesso in istampa, attende a trattare ex professo e con tutta la civiltà, quiete e ragionevolezza possibile, il punto della quistione.

Nella prima pagina di questa sua lettera suppone il P. Branda ch’io siemi dichiarato suo scolaro per quest’unico motivo, cioè «per far quindi più risplendere il mio valore contra di lui»; ma questo suo supposto è appoggiato sopra un manifesto equivoco ch’egli ha preso, e conseguentemente può esser falso. Egli dice che «di fatti, sul bel principio della mia operetta, io mi son fatto a mostrare che non solo io lo abbia potuto raggiugnere, ma eziandio oltrepassare di gran lunga in senno, accorgimento ed ogni pregio d’ingegno e di sapere».

Quanto all’intenzione ch’io abbia avuto nel dichiararmi suo scolare, ei l’ha molto male, anzi potrebbe parere ch’ei l’abbia molto maliziosamente interpretata. Voi sapete ch’io non ho avuto altro fine, ciò faccendo, [sic] che di prevenir lui medesimo; imperocchè, conoscendo io la natura del suo dire biliosa ed imprudente, io teneva per certo ch’ei sarebbesi ingiustamente doluto di me; perchè, essendo stato suo scolare, avessi ardito di scrivere contro di lui.

E mi serviva d’esempio il sig. dottor Tosi, persona dotta ed onorata, il quale fu dal P. Branda pubblicamente trattato da mulo, che, dopo aver mangiato la biada, trae de’ calci nel vaglio, solamente perchè in certa sua stampa egli avea chiamate le Scuole volgarmente dette di S. Alessandro, e ch’egli avea frequentate da giovinetto, «Scuole Arcimbolde», per così tener viva nella nostra patria la memoria di quel buon cittadino, che fu insigne benefattore di esse.

Quanto al secondo, io ci ho voluto impazzar sopra. – E dove ha egli mai letto – io dicea fra me medesimo – ch’io, ragionando di me in particolare, «abbia preteso di mostrare ch’io l’oltrepassi di gran lunga in senno, accorgimento ed ogni pregio d’ingegno e di sapere»? Io so che mi vergognerei quanto della più disonesta cosa del mondo, se mi fossi pure una volta arrischiato di parlare a questa guisa di me medesimo. – Io esaminava pure, senza mai poterci raccapezzar nulla di ciò, queste parole della mia operetta, dal P. Branda additato: «Non segno della ragione quel che degli anni: imperociocchè egli è ben vero che con questi non potremo giammai aggiugnere chi è nato prima di noi; ma sibbene li giugneremo noi molto volte colla ragione, ch’essi hanno destata in noi, e talvolta gli oltrepasseremo eziandio». Di grazia pregovi di osservare attentamente questo periodo, anzi di ricercare tutto quanto il mio libro, per pur vedere se in qualche canto trovar possiate nè «di gran lunga», nè «senno», nè «accorgimento», nè «ogni pregio d’ingegno e di sapere», nè qualsisia altra parola o sentimento, detto a questo proposito che il P. Branda suppone.

Egli è bensì vero ch’io dico, e nella presente circostanza son persuaso d’oltrepassarlo colla ragione; ma, ciò faccendo [sic], io mi glorio d’un pregio ch’è comune a qualsivoglia di que’ nostri contadini, che dal P. Branda sono chiamati «balordi», «stolidi», «babbuassi», ecc., ciascun de’ quali può ad un bisogno sopravanzar colla ragione alcuno do’ maggiori scienziati del mondo. Anzi egli dee avere osservato come, per rattemperare la mia proposizione, che per altro non avea bisogno di verun temperamento, non di me solo ho voluto parlare nel sovraccennato periodo; ma mi sono mescolato colla comune degli altri, dicendo «giugneremo» ed «oltrepasseremo».

Io ho letto in Cicerone, e negli altri maestri dell’arte rettorica, che, dovendosi perorare contro alcuno, bisogna procurare sul bel principio dell’orazione di scemar la fede all’avversario e di renderlo sospetto ed odioso agli uditori, acciocchè non prostino credenza alle sue parole, e da quello si alieni il loro favore. Ma ciò sta bene allora solamente che si può fare colla verità e col fatto alla mano, di modo che non si possa dubitare che, quanto l’orator dice, sia da lui medesimo inventato; imperocchè allora, invece di giovare, recherebbe nocumento alla propria causa. Ora vedete che, se io non fossi persuaso che le milanterie [sic] di sopra attribuitemi dal Padre Branda nascano da un mero suo equivoco e non mai da veruna malizia, io avrei luogo di credere che troppo diversa sia la Rettorica ch’io ho appresa da’ libri, da quella ch’ei sembra insegnare con queste amplificazioni e con queste infedeltà nel citare i miei sentimenti, come voi vedrete ch’egli ha fatto imprudentemente in altri luoghi.

L’arte del persuadere, la quale in ogni caso debb’esser fondata sulle regole del vero e dell’onesto, non insegna a corrompere il vero stato delle cose, com’è proprio di quella falsa e malvagia Rettorica, dalla quale, siccome già dissi nella mia prima operetta, dee il Padre Branda tener con ogni studio lontani i suoi scolari. Di fatti, quali conseguenze credete voi che uno d’essi fosse per trarre dagli esempii, che il suo maestro loro propone nelle sue opere? Certo non altre che queste: – Dunque io ristringerò o allargherò, interpretando le altrui proposizioni, secondo che alla mia causa tornerà meglio; dunque io asserirò costantemente le cose, benchè contra il fatto, per abusarmi della semplicità di chi crede sopra la mia asserzione e così andate voi discorrendo.

Io non pretendo già con questi e simili altri discorsi inseriti nella mia prima operetta al Padre Branda indirizzata, io non pretendo già, com’ei dice, «di condurlo ad apprendere da me la maniera di pensare, il metodo di scrivere, la dirittura di ragionare, l’arte d’insegnare». Io so ch’egli è professore delle umane lettere nelle pubbliche scuole d’una cospicua città, e che per conseguenza egli è obbligato dalla sua carica a saper tutto questo. Pretendo unicamente di avvertirlo che nella presente occorrenza potrebbe sembrare ch’egli si dimenticasso del debito suo, e non operasse con quella sincerità ch’io son corto ch’egli ha ben fissa e radicata nell’animo, e ch’egli procura di usare in ogni altra occasione.

Se il Padre Branda non iscrivesse così frottolosamente, quanto di sopra vi ho detto ch’ei fa, non solamente non sarebbe soggetto a simili equivoci, ma neanche cadrebbe in certe argomentazioni che potrebbono chiamarsi, com’egli, senza altrimenti provarlo, chiama le mie, «secche e frivole e dissipite. Eccovene una prova, in questa maniera d’argomentare ch’ei tiene alla pagina 2. Dic’egli che, «passando la cosa tra uno scolaro, che libero ufficio di dottore assunse, ed un maestro, ch’ei prende ad ammaestrare, non sa a qual fine riuscirà la faccenda, imperocchè, dovendo egli ad ogni modo sostenere l’autorità di maestro con me, che pretendo di avere senno da vendere, altrui e da soperchiarne i dottori, ei non potrà parlarmi con quella sommissione e riverenza che userebbe nel rispondermi se avessi celato il titolo di scolare, che a me fa poco onore, ed a lui dee dare qualche sicurtà nel proferire i suoi sentimenti ».

Voi vedete, amico carissimo, che qui primamente è falso il supposto che la cosa debba ora passare, com’ei dice, tra lo scolare ed il maestro; imperocchè nè io sono attualmente scolare di lui, nè egli è mio precettore, essendo ben quindici anni ch’io sono uscito dalla sua scuola; ed egli, come dice più abbasso, più non sarebbesi ricordato di me, «se il catalogo de’ suoi scolari dell’anno 1745 non gliene avesse fatto risovvenire l’idea».

Voi vedete però ch’ei non sarebbe tenuto a sostenere quest’autorità di maestro con me, che più non vo ad apprendere da lui, «anzi pretendo», com’ei dice, «di avere senno da vendere altrui e da soperchiare i dottori»: e che perciò, se gli piace e se il suo naturale il comporta, potrebbe ottimamente parlarmi, non dico «con quella sommissione», ma almeno «con quella riverenza» che userebbe nel rispondermi se avessi celato il titolo di scolare.

Supposto nondimeno per vero ch’io sia attualmente suo scolare, ed egli attualmente mio maestro, osservate, di grazia, quale conseguenza egli ne trae. Non altra che questa, se non che egli non sa «a qual fine riuscirà la faccenda», e ch’egli non potrà parlarmi «con sommissione e riverenza», e che ciò gli «dee dare qualche sicurtà nel proferire i suoi sentimenti». Ed ecco come, in mezzo al bollore della sua passione ed alla fretta del suo scrivere, gli è pur rimasto qualche intervallo da fare l’apologia alle incivili punture, delle quali avea meditato di servirsi poi meco, quasi che il pubblico precettore non fosse tenuto a trattar modestamente e riverentemente co’ suoi stessi scolari, i quali rappresentano la crescente e giovane città; e che gli fosse lecito di usare con esso loro que’ medesimi termini inconvenienti, de quali voi vedrete essersi lui servito con me in questa sua lettera; e quasi che l’urbanità, la modestia, il rispetto non fossero i veri mezzi da sostenere «l’autorità di maestro», e di conseguire stima e venerazione da’ proprii scolari.

Voi avete notato di sopra come il P. Branda ha detto che «il titolo di scolare a me fa poco onore». Se egli intende di voler dire con ciò, che l’essermi io dichiarato suo scolare mi fa poco onore, io lodo la sua modestia; ma gli torno a confermare sinceramente che io mi compiacerò sempre d’esserlo stato. Che se a lui pare che il protestarmi suo scolaro mentre gli scrivo contro, mi faccia poco onore, io mi sono abbastanza giustificato nel principio della mia prima operetta. Ma se per fine egli crede che generalmente il titolo di scolare debba essere vergognoso, che assai strana cosa sarebbe, io gli rispondo ch’io mi stimerò onorato d’essere a parte di questa vergogna con tutti i maggiori scienziati e con tutti i sommi filosofi, che non sonosi giammai arrossiti di dichiararsi bisognosi d’imparare; e che perciò, intanto che tutto il mondo ricorreva alla loro scuola, dichiaravansi scolari di tutto il mondo. Imperocchè guai a colui che troppo per tempo si crede maestro e da se medesimo si chiama «dottore di professione», conciossiachè il suo sapere non andrà più oltre, ed a quel tempo sarà fissato il termine delle sue cognizioni.

Avrete inoltre osservato ciò ch’io pur dissi di sopra, cioè che il Padre Branda, più non sarebbesi ricordato di me, «so il catalogo de’ suoi scolari dell’anno 1745 non gliene avesse fatto risovvenire l’idea». Ora io so da persone degne di fede che il suo amor proprio, prima della presente quistione, non gli facea parer degno di sì grave dimenticanza quel «certo Sig. Abate Parini », del quale a sì grande stento, come ora dice, si è fatto risovvenire l’idea. Anzi quel medesimo interesse fecegli una volta innalzare, oltre al dovere, il mio piccolo merito, il quale ora fa ch’egli, a se stesso contraddicendo, il deprima e quasi calpesti co’ piedi; sicchè ora egli eccede nel vilipendermi, come dianzi eccedeva nell’onorarmi.

Pure, quantunque dalla mente del Padre Branda si fosse al tutto cancellata l’idea della mia prima persona, sicchè, com’ei dice, gli fu d’uopo di ricorrere a’ cataloghi; non s’è per tutto ciò dimenticato ch’io era «uno di que’ suoi scolari che ad altro tempo serbavano far comparsa del loro ingegno e dar pruove del loro sapere, ed a’ quali egli applica que’ versi, ove si paragonano al pruno, che, dopo essersi mostrato rigido e feroce, tutto il verno, porta finalmente sulla cima le rose. Che vuol dire ch’ei s’era dimenticato di me o del mio nome e nondimeno ricordasi ch’io era nella sua scuola «un pruno rigido e feroce»? Se l’idea del mio nome non gli ha fatto risovvenir quella del poco mio studio, dovrà dirsi che anche questo fosse descritto su quel catalogo dell’anno 1715, o forse che il non essere io presente alla sua mente mostra ch’io nella sua scuola non abbia fatto cose degne ch’egli se ne ricordi. Ma nondimeno che importa il rinfacciarmi questo? Non dice egli medesimo che si può diventare una volta quel che prima non s’era stato? e ch’egli può aver avuto degli scolari, «i quali ad altro tempo serbavano far comparsa del loro ingegno e dar pruove del loro sapere»? Vi par egli che sia cosa conforme alle regole della buona creanza che il precettore, senza veruna occasione, rinfacci di simili cose alle persone già adulte e che già da tanto tempo abbandonarono la sua scuola? Queste sono di quelle grossolane e plebee maniere e di quel genere di rimproveri, che non bisogna lasciar conoscere a tanta civile, e nobile gioventù, che frequenta le nostre scuole; la quale, udendole da’ suoi maestri, non può a meno che non le approvi e non le imiti; e, dato che n’esca colla mente adorna di cognizioni, nulla non le varrà, quando non abbia insieme, purgato e ingentilito il costume; imperocchè molto più importa il renderci cari che ammirabili alla società.

Io, a dir vero, non nego ciò che il Padre Branda accenna, e che i suoi fautori, con termini ancora più incivili, hanno sparso per Milano. Pur troppo, allorchè frequentai da giovinetto le nostre Scuole di Santo Alessandro, male corrisposi alla diligente cura de’ miei poveri parenti, e poco attesi a quello ch’essi chiamavano studio. Nondimeno, benchè io non sia giammai salito tra’ precipui campioni del Ludo Litterario, non sono per tutto ciò rimasto tra la ingloria turba degl’indisciplinabili adolescentuli. E potrei ancora ad un bisogno mostrarvi i superbi trofei che, d’una in altra classe passando, furono da’ comprofessori del Padre Branda a me decretati. Egli è bensì vero ch’egli non potrà veder pendere alle pareti de’ portici scolastici il mio nome, accompagnato di qualche ingegnoso emblema e, adorno d’una cornice dorata, perchè, come ottimamente sa quel suo Correligioso mio benefattore, i miei parenti non ebbero mai danari da gittar via.

Non crediate, o amico gentilissimo, che questa sorta di motteggi che nell’agrezza del suo umore sono sfuggiti al Padre Branda, abbian qui fine. A misura ch’ei vien più riscaldato dalla collera, e che perciò cresce la fretta dello scrivere, crescono ancora i motteggi non convenienti alla civiltà del suo stato, e le sue strane argomentazioni.

Egli scrive ch’ei non sa se il mio «nome stia troppo bene sul frontespizio di mia Lettera ». Indi decide che, « secondo lui, ci stia male il suo, ma peggio il mio ». Io domando ora a voi per qual ragione il Padre Branda possa aver creduto che il mio nome stia male nel titolo della mia prima operetta. Certo voi mi risponderete che per una di queste due: o perchè lo abbia scritto scioccamente; e, in tal caso, dovrebb’egli prima provarlo che dirlo; oppure, da uomo civile operando, dopo averlo provato, lasciar che gli altri il comprendessero da  sè, massimamente che, com’ei confessa più avanti, una molto favorevole «fama era precorsa della mia operetta»; oppure perchè lo abbia scritto ingiuriosamente: e di questo ne lascerò giudice voi e tante persone pie, savie, prudenti e d’elevato grado, che mi hanno onorato della lor lode anche per rispetto alla moderazione da me usata scrivendo; imperocchè nè egli ned io potremmo essere indifferenti. Forse egli ne avrà una terza ragione, che nè l’un nè l’altro di noi possiamo comprendere. Se l’abbia egli pure; ma la dica, e non ci venga a parlare così in enimma, senza dichiarare e senza provare mai nulla. Io per me credo che ad ogni modo il mio nome ci stia bene; e la ragione si è, perchè io mi lusingo d’avere scritto ragionevolmente e civilmente, come, secondo che mi verrà negato, procurerò di dimostrare. E dovrei anzi aver fatto cosa grata al Padre Branda e a’ suoi fautori, palesandomene per autore; perocchè, altrimenti, quanta materia sarebbe mancata alle loro scritture e alle lor dicerie, le quali, in vece di occuparsi sopra la quistione, hanno potuto così divagare sopra la mia patria, sopra i miei studii, sopra la mia fortuna, sopra il mio vivere, sopra i miei scritti alieni dal presente soggetto.

Domando ancora perchè il Padre Branda dica che in fronte alla mia operetta sta male anche il suo nome. Forse perchè è in fronte a un cattivo libro, qual è il mio? Questo è ancora da dimostrarsi. Io credo, anzi, che ci stia bene. Un cattivo libro contro di lui favoreggia la sua causa e fa onore alle suo opere; e, nominandolo, ne onora conseguentemente l’autore. Inoltre, è egli persuaso il Padre Branda d’aver fatto una buona e savia cosa scrivendo i suoi Dialoghi, o no? Se sì, io l’ho onorato nominandolo; se no, perchè gli ha egli scritti? o perchè si lagna ch’io gli abbia levato quel velo, sotto il quale egli ha immeritamente biasimato e deriso altrui? Non sa egli che come scrive un illustre Francese, è lecito di strappar dal viso la maschera a colui che in tempo di carnovale se ne abusa? Forse dirà ch’io, faccendolo [sic], ho offesa la sua modestia. S’egli è così, io gliene chiedo perdono, e mi rincresce di averlo fatto. Nondimeno, per avere offesa la sua modestia, non mi pare d’aver fatto torto a quel carattere d’onest’uomo, che, com’egli dice, mi professo di avere.

«Ma tutto ciò non monta un frullo»: quello che importa si è che io, quando ho a combattere con alcuno, non voglio combatter con ombre: e mi pare una cosa ridicola il credere che chi non pone il suo nome in fronte a’ proprii libri il faccia per modestia, quando tutto questo d’ordinario si fa, per provvedere al proprio interesse; o perchè si teme di non avere scritto cosa degna di lode, o perchè si teme di concitarsi de’ nimici, o finalmente per altri simili riguardi. Quest’affettata modestia supporrebbe un’anteriore vanità. D’altra parte il non comparire svelatamente col proprio nome è un comodo grandissimo de’ furfanti, i quali possono così a man salva offendere impunemente i loro avversarii e dire qualunque indegnità loro piace, senza pericolo d’essere svergognati in faccia al mondo; e l’esporre l’altrui onore senza porre a ripentaglio anche il proprio, è una villana soperchieria ed una manifesta ingiustizia. Credete voi che, se l’autore di quella Lettera contro di me, che va sotto nome di uno Scolaro del Padre Branda, e l’autore di quell’altra infame e sciocchissima colla data di Piacenza contra il nostro Tanzi; credete voi che questi due autori non si vergognerebbono come ribaldi delle insoffribili impertinenze da loro scritte; o credete ch’eglino avessero ardito di far ciò, se usciti fossero apertamente co’ loro nomi, come facciamo noi? Oh quanto mi duole che il Padre Branda abbia di simili fautori, i quali rendono ognor peggiore la sua causa, e lasciano luogo a temere ch’ei medesimo non si corrompa con simile genia d’amici, i quali hanno insieme accoppiato gli eccessi dell’ignoranza e della furfanteria! io vorrei che costoro si smascherassero una volta, e non traessero più il sasso nascondendo la mano, perchè, quantunque ogni galantuomo debba vergognarsi di risponder loro, vorrei pure un tratto provarmi di render sensibile a tutto il mondo la costoro sciagurataggine, la quale nondimeno ha mosso tanto a nausea e ad indegnazione gli uomini savii ed onorati.

Ma ritorniamo al Padre Branda; il quale io spero che in avvenire si guarderà bene dall’imitare,  nè anche per inavvertenza e nella menoma cosa, questi vilissimi mascherati scrittori, capitali nemici della creanza, della ragione e della verità.

Egli séguita a dire, alla pagina. 3 della sua Lettera a me diretta, «che anche il mio nome, nella causa ch’io tratto, ci sta molto a disagio; e tanto è lontano che la patria, cioè Milano, debba sapermi grado della difesa ch’io mi vanto di prenderne, che anzi si ha da riputare da me, per tale opera, vilipesa ed oltraggiata. Imperocchè, posto che fosso vero ciò ch’io ho sognato del suoi Dialoghi, parrebb’egli che potesse fare onore a Milano l’avere in una causa di simil sorta per avvocato il Sig. Abate Parini»? Vedete a quali eccessi un mal compresso sdegno trasporti il P. Branda! Io gli concedo volentieri che troppo cattivo avvocato io sarei della mia patria; e che, s’ella avesse a scegliere, tutt’altri che me sceglierebbe in propria difesa. Ma non pertanto vi pare egli che convenga ad un civile uomo, com’è il P. Branda, l’usare di simili termini, scrivendo ad un altro, che, per testimonio di tutto le più sane persone, gli ha scritto contro quanto più modestamente comportava la materia ch’egli avea per le mani? che non è giammai uscito de’ confini della quistione e del libro che n’era il soggetto? che non ha parlato se non delle cose che sono pubbliche al mondo? che gli ha dato le più sincere testimonianze della sua stima e venerazione? che non ha mostrato di credere che il P. Branda s’ingannasse od errasse in altro, fuorchè in alcune cose di quel determinato dialogo Della Lingua Toscana? che in ciò pure ha procurato di scusarlo, e di mettere con mille civili artificii un velo alla nuda verità, perchè meno disaggradevole gli sembrasse? Eppure il P. Branda, con quelle sue parole accennate di sopra, mi toglie ad un punto ogni abilità nello scrivere, e mi caratterizza generalmente per un ignorante, che, invece di fare onore alla sua patria, può, col solo scrivere, vilipenderla ed oltraggiarla. Voi, o amico carissimo, a cui è noto qual concetto io abbia di me, ben vi avvedete ch’io, vie più che dell’offesa a me fatta, dolgomi dell’offesa che il P. Branda ha fatta a se stesso con simili fogge d’insulti.

Proseguo poi a dire alla stessa pagina che, «se fossero vere le mie invenzioni, che per tanti capi i Milanesi di lui si dolgano, l’offesa da lui fatta sarebbe pubblica, pubblico sarebbe il giudizio; e perciò a nessuno de’ Milanesi meno che a me toccherebbe, senza esserne richiesto da alcun ordine della città, a prender contro di lui l’accusa, e in favor di Milano il patrocinio». Ognun vede che, finchè egli non abbia risposto, come finora non ha fatto, alle mie ragioni, starà sempre in vigore l’offesa ch’egli ha fatto generalmente alla nostra città, e in particolare ad alcune spezie e ad alcuni individui de’ nostri cittadini; e quelle, ch’io asserisco nella mia prima operetta, non si potranno giustamente chiamare mie invenzioni. Nondimeno ha ragione il P. Branda di dire che a nessun altro de’ Milanesi meno che a me toccherebbe, senza esserne richiesto, di prender il patrocinio della nostra città. Il che vuol dire che ciascun altro potrebbe farlo; e perciò alcuni lo hanno fatto; e perciò anch’io l’ho fatto, che ho l’onore d’essere compreso nel corpo rispettabilissimo di essa.

Ecco quale conseguenza, per lo P. Branda inopinata, ma giusta, si dee trarre dalla surriferita proposizione ch’egli ha detta in proprio favore. Conciossiachè il caso viene appunto ad essere il medesimo, come se alcuno avesse imprudentemente offesa la rispettabile Religione de’ Barnabiti, al cui ruolo è meritamente ascritto il P. Branda; perciocchè, in tal caso, e non in verun altro, sarebbe lecito, non solo a tutto il corpo, ma eziandio a ciascuno de’ membri, Il difenderla e patrocinarla; * non piuttosto al Padre Branda che * verun altro de’ suoi Correligiosi. Tralascio a bella posta una quantità di testi e di autorità a questo proposito, colle quali mi potrei fare onore, e comparirvi un Bartolo od un Ulpiano.

Ma odo che voi mi rispondete: – Il P. Branda, dopo la proposizione veduta di sopra, soggiugne pure queste parole: «Imperocchè, quantunque vi facciate voi Milanese, lo siete però come sono cittadini quel di contado; vo’ dire come son di Milano quel di Bosisio, qual siete voi, e quale vi siete dichiarato di essere quando foste accettato nelle pubbliche scuole». – Egli è verissimo; e voi, amico, avete ragione; anzi, s’io ho a confessarvi la verità, io me l’era, come dire, a bella posta dimenticato, per l’interesse ch’io mi prendo dell’onore del P. Branda. Ma, che conchiude ciò mai? Forse che uno del contado di Firenze non si possa chiamar Fiorentino e difendere i Fiorentini; che uno del contado di Siena non si possa chiamar Sanese e difendere i Sanesi? Sapete voi quel che conchiude? Non altro se non che il P. Branda, con quelle parole «lo siete però come son cittadini quei di contado», per colmo dell’elogio, viene a darmi gentilmente del villano. Dio sa quali sudori ha sparsi, e che fatica e che frugare dee aver fatto ne’ suoi scartabelli per rinvenire ch’io era da Bosisio; certo non minore di allora ch’egli andava cercando molto seriamente quante volte si trovasse nel Boccaccio e nel Petrarca e «se non se» e «città» e «virtute» e simili altre parole. Che non ne ha egli, per la più corta, domandato quel suo Correligioso, celebre mio benefattore?

Dopo avere il Padre Branda con mirabile gentilezza parlato della mia ignoranza, e del vile luogo de’ miei natali, passa a un altro capo del graziosissimo elogio della mia persona; cioè alla «celebrità» del mio nome; e dato come per certo che nella mia operetta io abbia parlato d’una tale «celebrità», scrive queste parole: «Per ciò che riguarda la celebrità del vostro nome, io non credo che abbia Milano a pregiarsi gran fatto di avervi suo patrocinatore». Ei tende con queste parole a farmi comparire un milantatore [sic]; e così diminuire, se possibile fosse, quel credito e quell’autorità che mi possono procacciar le ragioni; e perciò anche più abbasso, quasi che io avessi parlato di alcune mie «notabili opere», segue a dire: «Che finora notabili sieno altre opere vostre

Non se ne sono ancor le genti accorte».

Ma eccovi il passo della mia prima operetta, dove il Padre Branda dà per supposto ch’io abbia parlato di celebrità del mio nome, e di notabili opere mio; ed è il medesimo ch’egli ha distesamente citato. «Ma quantunque io mi sia così modestamente contenuto mai sempre in tutte le cose, che io ho scritte, o in alcuna ch’io possa avere stampato contro l’opera di qualche autore, ciò non ostante, invece di rispetto e di ragioni, io ho sempre riscossi improperii e villanie». Ora vi sembra egli ch’io con queste parole mi glorii della celebrità del mio nome, o ch’io chiami notabile verun’opera mia; o finalmente, ch’io parli di niuna mia cosa in materia di erudizione, com’egli nella stessa pagina suppone? Egli è bensì vero ch’io con esse rammemoro qualche mio scritto, e singolarmente la Lettera scritta da me, contro certo giudizio del chiarissimo Padre Bandiera» e in difesa del Padre Segneri. Ma dove chiamo io celebre il mio nome, notabili le mie opere? Ove parlo io delle mie cose in materia d’erudizione, sicchè il Padre Branda possa farsi strada a dire di non averne contezza? Ma egli forse mi rimprovera così di soppiatto, ch’io non abbia mai fatto veruna di simili opere. Lasciamo stare che il suo non averne contezza non importa ch’io non ne abbia fatte; e facciamo pur conto che quelle ch’io scrivo contro di lui sieno le prime opere mie. Io lascerò giudicare al pubblico, qual di noi due lo abbia meno, o annoiato, o disgustato.

Da quel medesimo passo della mia prima operetta, da me citato di sopra, ove dico che da’ miei avversarii, invece di rispetto e di ragioni, io ho sempre riscossi improperii e villanie, deduce il Padre Branda una falsissima conseguenza, soggiugnendo egli immediatamente ad esso queste parole: «Oh vedete, sig. Parini, se Milano vuole avvocati della vostra sorta e di quel credito che vi siete voi sinora meritato!». Ei mostra di concedere con queste parole che vera sia per tutte le parti la mia asserzione, e da quella ne argomenta poi malamente ch’io perciò non mi debba esser fatto nessun credito, e che Milano debba vergognarsi d’avermi per avvocato. Allora l’avvocato si merita credito, quando i suoi avversarii non hanno mai ribattute le sue ragioni; i miei avversarii non lo hanno mai fatto: dunque io mi merito il credito di buono avvocato; dunque Milano non dee vergognarsi di avere «avvocati della mia sorta». Che il Padre Bandiera spezialmente non abbia ribattute le mie ragioni, basta, per convincersene, leggere la risposta da lui a me fatta, nella quale, invece di difender se stesso, si pone ad accusar me, singolarmente perchè io abbia ardito di corregger lui, che è, com’egli da se medesimo si chiama, autore di venti tomi». Ch’egli poi mi abbia a torto accusato, basta leggere la bizzarra operetta intitolata Bandiera al vento, fatta in sua e mia difesa da un vivacissimo, ed accorto ingegno, che ora è professore della Sacra Eloquenza in una grande città, e del quale voi, amico carissimo, conoscete a mille prove il valore, sì per la dolcissima sua conversazione, sì per le altre suo riguardovoli opere stampate. Quanto poi agl’improperii e alle villanie scagliate contra un rispettoso avversario, se queste bastano per dichiararlo avvocato da nulla e a dichiarar vincitore chi le dice, il Padre Branda ha vinta meco la causa, e io mi confesso per uno avvocato che non merita credito veruno. E ora mi accorgo, perchè nelle dispute ch’egli ebbe a questi anni passati co’ due onoratissimi e dotti uomini, il sig. dottore Baldassarre Oltrocchi e il sig. canonico Gio. Andrea Irico, egli ne abbia fatto sì grande uso, sino a scherzare ingiuriosamente sopra i loro nomi, le loro patrie, le loro famiglie, le loro rispettabili e pubbliche cariche e i loro veri e convenientissimi titoli.

Viene poi a parlare il Padre Branda di ciò che ho detto del Padre Bandiera; e mi burla perchè io abbia asserito ch’egli era morto, quando, come il P. Brauda dice, è «ancor vivo, e sano; e potrebbe a un bisogno sorgere a ridarmene un carpiccio de’ buoni». Io ho già ringraziato il Padre Branda di questa buona novella; e, se quegli vorrà risorgere contra di me con questi «buoni carpicci», sarà il benvenuto. Quanto a me, non mi sento brivido alcuno. Io non ho punto di paura degli strapazzi, e venero, e mi arrendo volentieri alle ragioni; e questo è il motivo, perchè non temo neppure il Padre Branda. Quanto alla morte del Bandiera da me asserita, niuno meglio di voi può sapere su qual fondamento io mi sia appoggiato dicendolo. Vi dee ricordare di quella sera del carnovale dell’anno passato, che noi ci trovammo a conversazione, presso Il degnissimo, e gentilissimo, Provinciale de’ PP. de’ Servi di questa città, in compagnia di molti altri, fra’ quali eran compresi l’abate Passeroni e l’abate Soresi e l’abate Salandri. Vi dee ancor ricordare che quivi cadde il discorso sopra la quistione dal Soresi e da me avuta col Padre Bandiera; e da que’ Padri de’ Servi, che colà erano, si confermò la novella, già sparsa per Milano, della morte di lui, e a tal segno tenuta per certa che il Salandri e il Soresi fecero suggetto del loro improvvisare, e lodarono co’ loro versi il Padre Bandiera e il piansero morto. Se il Padre Bandiera è ancor vivo, io n’ho piacere; possa egli campare milleanni: io il credo al Padre Branda, benchè non ne adduca le pruove, nè voglio incomodarmi a domandarne, per voglia di confonderlo. Queste vie e queste pratiche lascio che le tenga egli; che, per quanto da’ suoi scritti si vede, ci debb’essere avvezzo da molto tempo.

Se poi sia vero ch’io mi meriti da quel Religioso «una buona mano di stregghia», come dice il P. Branda, ne lascio giudicare, alle savie ed imparziali persone che hanno letta la mia operetta stampata contro di lui. Voi sapete che, nella bella prima pagina di essa, io chiamo «nella letteraria Repubblica chiarissimo il nome di quello scrittore». Lodo «tre sue onorevoli fatiche»: due di esse le chiamo «opere utilissime agli studiosi». Dico, che «la traduzion di Cornelio è assai buona; e quella di Cicerone indubitatamente la migliore di quanto per insino a qui ne sieno state fatte nella nostra lingua, eccetto alcune Orazioni traslatate dal Frangipane, dal Bonfadio e dal Tagliazucchi». Alla pag. 3 dico che «nell’opera De pregiudizi delle umane lettere si conosce per entro lo spirito del Padre Bandiera, il qual mostra che desiderosissimo sia del pubblico bene». Quivi pure il chiamo «uomo savio», e in altro luogo, valoroso Sanese». Alla pag. 4 dico «ch’io non iscrivo già per vaghezza di detrarre in verun conto al merito, ed alla fama di quello scrittore; ma puramente per palesar ciò che in lui mi dispiace, com’altri farebbe d’una bellissima donna, il troppo fasto rimproverandone, e il troppo conto in ch’ella tiene la sua bellezza». Alla pag. 15 io il chiamo «onorato Religioso», e «valoroso Padre Bandiera». Finalmente nell’ultima pag. dico che, siccome non è stato mio intento col difendere il Segneri dalle ingiuste censure altrui, di recare autorità e franchigia a qualche suo vero e reale difetto; così nè manco di scemar punto del verace merito e della diritta estimazione del Padre Bandiera, con riprenderlo di alcune picciole cose che da riprender mi parvero nelle opere sue.

Queste sono le cose per le quali il Padre Branda dice ch’io «non lascio di meritarmi dal Bandiera una buona mano di stregghia» ; e si serve di questo termine per maggiormente insultarmi, trattandomi alla stessa guisa che il mulattiere avrebbe fatto con quel celebre mulo Bizzarro, a cui il Padre Branda ha stimato bene di conceder quelle lodi, ch’egli ha negate alla sua patria, ed a’ suoi concittadini. E queste sono le cose, per le quali il Padre Branda con autorità magistrale inveisce contro di me, dicendo: «Vi par egli questo il modo di scrivere contro un letterato di quel grido e merito che presso tutti gli amanti e retti giudici delle lettere, ottiene il Padre Bandiera? e voi vi querelate, che invece di rispetto, e di ragioni riscotete improperii e villanie? e voi vi proponete per esempio di moderazione?».

Paragonate ora voi queste sincerissime lodi, ch’io già diedi al Padre Bandiera, con que’ pochi passi che il Padre Branda cita dalla mia Lettera, per rinfacciarmi ch’io medesimo mi son servito di quelle rusticane beffe e di quelli amari dileggiamenti, che tanto mostro di riprovare. Il buono e fedele critico, qualora vuoi giudicare dell’opinione e del concetto che altri ha d’alcun’opera, o d’alcuno autore, esamina ciò che n’è stato scritto, raccoglie tutti quanti i passi pro e contra, li pone tutti quanti onoratamente nella loro veduta, insieme li paragona, e sopra quelli spassionatamente decide. Ma altra critica e altra rettorica è quella del mio veneratissimo Padre Maestro; e io non vorrei impararla a verun patto, quand’anche me ne dovesse andare la vita. Egli sceglie unicamente que’ passi che giovano al suo intento, e si dimentica di tutti quelli che ho riferiti di sopra, quantunque sieno degni di maggior considerazione. Sceglie due o tre motti da me sparsi nella mia Lettera al Soresi per vaghezza dello stile, e i quali cadono solamente sopra la maniera dello scrivere e sopra qualche parte del soggetto trattato, e lascia questi giusti e sinceri encomi che riguardano le opere, la persona e tuttociò che appartiene universalmente al Padre Bandiera.

Ma sapete voi perchè il Padre Branda mi abbia così magistralmente sgridato intorno al modo col quale io ho scritto contro al Bandiera? Non per altro, se non perchè, da vero e docile scolaro, io non ho seguíti i suoi ammaestramenti. Esaminate tutti i suoi scritti, e voi dal suo esempio vedrete ch’egli non istima conveniente che si debba lodare e rispettar l’avversario alla guisa ch’io fo e che voi medesimo fareste in simil caso. Per questo io mi son meritato la sua indegnazione, i suoi strapazzi, le suo villanie. Al contrario, quali lodi non ha riscosso da lui quel suo finto scolare, il quale lo ha così bene imitato, sì nella esattezza del ragionare, come nella gastigatezza dello scrivere? Ma di questo noi parleremo in altra occasione: e, tornando al proposito dello avere io asserita la morte del Padre Bandiera, il P. Branda mi accusa di cattivo critico, perchè, a quel ch’egli dice, mi sono ingannato. So io avessi fatto una dissertazione critica sopra la vita o la morte di quel Religioso, e che decidendo mi fossi ingannato, il Padre Branda avrebbe ragione; perchè, in quel caso, io sarei stato tenuto a cercar tutte le notizie possibili intorno al mio argomento: ma non ne avendo io parlato se non per incidenza, e avendo io asserito sopra testimonii degni di fede, ingiustamente mi accusa di cattivo critico.

Nello accostarci che noi facciamo alla fine di questa Lettera, le cose che scrive il Padre Branda divengono più serie ancora e più importanti di quel che noi abbiamo finora veduto.

Egli scrive alla pag. 7, che «per la sua parte si sarebbe volentieri appigliato al parere di molti dotti e prudenti, i quali non avrebbero voluto, mi si facesse quest’onore di rispondermi in cose tanto languide, sofistiche e dissipite, ch’io gli oppongo nella mia Lettera». E qui notate che, in tutte le sue passate quistioni, ha sempre detto questa medesima cosa, e che nondimeno ha sempre voluto fare a suo modo.

Io per me credo veramente che questi che così il consigliarono fossero dotti e prudenti uomini. Dotti, perchè conoscevano quanto importunamente il Padre Branda si sarebbe ostinato a difendere un Dialogo, quanto alla materia, pieno, parte di frivolezze e di puerilità, e parte di proposizioni erronee ed ingiuriose; quanto allo stile, pieno d’affettazione, di stento e d’irregolarità; e quanto al tutto, tale da fare assai disonore ad un Maestro, che da vent’anni occupi la cattedra dell’Eloquenza.

Io sono ancor persuaso che questi, che così consigliarono il Padre Branda; sieno, com’egli dice, «uomini prudenti»; perciocchè pensarono a ciò che ne sarebbe potuto avvenire, cioè, che l’ostinarsi egli in questa difesa avrebbe svegliato altri a esaminar più minutamente il suo Dialogo, e così si sarebbono scoperte cose da potere aprire gli occhi al pubblico; e da mostrar sempre più quanto sia necessaria una generale riforma de’ nostri studii, con poco onore del Padre Branda e de’ suoi fautori. Sono confermato nella opinione della prudenza di questi che gli diedero un tal consiglio, dal vedere ch’essi hanno conosciuto, come si suol dire, il debole del Padre Branda, e lo hanno saputo prendere per quella parte che più sarebbe valuta sopra di lui. Conoscendo eglino, spezialmente dagli scritti suoi, di quanto amor proprio egli abbondi, e quale alto concetto egli abbia di se medesimo, si fecero a mostrargli quanto pregiudizio egli avrebbe fatto al proprio onore, umiliandosi a rispondere in cose tanto «languide, sofistiche e dissipite», e sperarono ch’ei dovesse cedere a quest’utile inganno. Ma sventuratamente il Padre Branda non ha presa la cosa per lo suo verso, e non ha voluto dare orecchio a’ lor prudenti consigli. S’è consultato solamente con se medesimo e con altri cattivi consiglieri; e ha pur voluto seguitare a scrivere, fondato sopra falsi principii e mosso da que’ motivi medesimi che il dovean ritenere dal farlo.

Esaminiamo, di grazia, questi motivi per convincerci della verità.

Il primo di questi si è l’essermi a lui «presentato animosamente, non tocco da lui, non cerco, non punto, lui stimolando, punzecchiando, mordendo; sicchè, s’egli avesse taciuto, io di lui mi sarei preso maggior fidanza, e sarei divenuto più animoso ad insultarlo ». Il Padre Branda, benchè mostri d’ignorarlo, sa meglio di me che, qualora un libro è alla pubblica luce, è in arbitrio del pubblico il poterne decidere; e che qualunque persona può, purchè modestamente e discretamente il faccia, esaminarlo e censurarlo; ond’è ch’io potea far ciò del suo libro. Lascio ch’io avea ragione di chiamarmi offeso di quel libro, insieme a tutti gli altri Milanesi. Ma troppo offende la mia onestà il Padre Branda, dicendo ch’io mi sarei preso maggior fidanza di lui, e sarei divenuto più animoso ad insultarlo. Ei penserà sempre male degli altri, sinchè non prenda misure più giuste per giudicare. Così avesse egli taciuto o si fosse ritrattato, com’io avrei stampato un componimento in lode della sua moderazione e mansuetudine. Ciò che mi ha principalmente stimolato a scriver contro di lui, è stata l’ostinazione ch’egli ha dato a vedere nel secondo Dialogo, col quale pretende di spiegare il primo; ed altro non fa che dire assai peggio, come io ho dimostrato nella mia prima operetta, alla quale non ha peranco risposto cosa alcuna, benchè più volte abbia promesso di farlo, come già vi dissi di sopra. Io non mi sono altrimenti «fatto forte sull’approvazione de’ miei amici, nè sull’opera de’ miei aiutanti», come dice il Padre Branda. Perchè lo asserisce egli così senza provarlo? Onde lo ha egli saputo? E s’ei non è in caso di provarlo, perchè si pone egli imprudentemente a pericolo d’esser dichiarato un mentitore? Spontaneamente io ho scritto, ed egualmente seguiterò a farlo. Voi, o amico carissimo, e gli altri miei amici ed aiutanti, mi fate l’onore di credere che non mi occorra l’opera vostra, scrivendo contro alle opere fatte in questa occasione dal Padre Branda. Che se, dopo avere scritto alcuna cosa, vengo a voi per consiglio, io non solo in questa, ma in ogni altra occasione il farei; ed è secondo il precetto d’Orazio che ciò si faccia. Male per lo Padre Branda, che non vuole altri consiglieri che se stesso e ’l suo amor proprio. E gli amici, ch’egli ha, vogliono il suo male, non il suo bene; perciocchè, invece di avvertirlo e di consigliarlo, il palpano, l’encomiano e l’esaltano perfino sulla cima di quella piramide, ove lo ha collocato il suo finto Scolare, e alla quale l’illustre Zanotti crede che appena si accostino, fatto di tre un solo, il Cartesio, il Newton e il Leibnizio. Mi duole che il Padre Branda non si avvegga. che costoro, portandolo così eccessivamente in alto, non amano lui, ma amano se medesimi.

A voi parrà, amico carissimo, ch’io mi riscaldi alquanto su questo punto; ma io riscaldo più per quel che viene appresso che per quel che ho detto finora. Il Padre Branda, alla pagina 7, séguita a dirmi così: «So che voi vi fate forte sull’approvazione degli amici e più sull’opera de’ vostri aiutanti. Ma non vi accorgete che questi o vogliono la baia di voi, o si servono della vostra zampa per cavare la bruciata dal fuoco, o vi dan pascolo per farvi il loro zimbello? Badate a ciascuno di essi, e troverete che altri per vostra bocca si duole di una antica sua piaga, non bene ancora rimarginata; altri cerca pescare nel torbido; altri si getta da quella parte dove si fa gente ad ogni patto e condizione; altri ama il garbuglio, che fa pe’ malestanti», ecc. Vedete qual gentile carattere fa il Padre Branda a’ miei amici, tra’ quali voi medesimo siete compreso. Dunque voi, che tante volte mi protestaste di essermi veri e leali amici, vi abusate così del sagrosanto nome dell’amicizia per servire solamente a voi stessi? Io non meriterei più d’esservi amico, se il credessi. Lasciamo che il Padre Branda getti alla ventura ciò che in capo gli viene; e a noi sia testimonio delle nostre onorate intenzioni la nostra stessa coscienza. E qual miglior testimonio della coscienza d’un onest’uomo?

Osservate solamente a questo proposito o il coraggio o la smemorataggine del Padre Branda. In una Lettera da lui indirizzata al nostro Tanzi, si lamenta, alla pagina 4, ch’ei vada «male a proposito rimescolando le già finite letterarie quistioni», quando egli medesimo ciò ha fatto prima del Tanzi, come voi avete veduto nel passo da me poc’anzi citato; ove con un tratto pungente vien tra gli altri dipinto quel nostro amico, che, come il Branda dice, «per mia bocca si duole di una antica sua piaga, non bene ancora rimarginata». Ma torniamo ad esaminare i motivi da’ quali, contra il consiglio de’ più «dotti e prudenti», è stato indotto il Padre Branda a rispondermi in cose «tanto languide, frivole e dissipite».

«Voi sapete – dic’egli a pag. 8, – che l’impiego, nel quale tuttavia mi ritrovo, rendemi debitore del grado mio agli scolari miei, e costringemi a soddisfare alla giusta loro aspettazione, che rimarrebbe delusa se col mio tacere lasciassi luogo a qualche vastra milanteria – [sic]. Il Padre Branda ha procurato mai sempre di dare autorità alla iugiuriosa maniera del suo scrivere, citando gli obblighi del suo impiego. Così mi ricorda ch’ei facea nel tempo stesso ch’egli insultava il sig. canonico Irico.

Io so che la carica di Professore dell’Eloquenza, obbliga chiunque la copre a saper l’arte ch’egli insegna, ed a saper le lingue nelle quali egli scrive od ammaestra gli altri. So che il pubblico splendore di essa lo avverte d’essere circospetto, e di portarsi cautamente nelle cose che le appartengono, di modo che niuno abbia giammai a dolersi che, sotto l’ombra del pubblico impiego, si avventurino cose indegne della dottrina, e della gravità ch’esso richiede. Che se qualche professore per disgrazia cade in alcun fallo concernente alla sua carica, la ingenuità e la moderazione debbono riparare il torto ch’egli le ha fatto; non già l’ostinatezza, il mal talento e la contenzione. La nostra gioventù, alle sue mani affidata, non solamente da lui richiede prove di sapere, ma esempii di civilità [sic] e di buon costume: e il pubblico ha diritto di sgridarlo e di punirlo ancora, in caso ch’ei manchi in alcuna di questo cose. Questi sono i doveri, che dal Padre Branda richiede la sua carica: come gli abbia osservati, io lascerò che voi il giudichiate dalle opere ch’egli ha pubblicato finora. Tutt’altro consiglio adunque, dovrebb’egli prendere nella presente circostanza, o almeno tutt’altra foggia di scrivere.

Ma segue a dire «ch’io il convinco di quest’obbligo suo (cioè di rispondere a me), accennandogli ch’ei vive del frutto delle nostre terre, che occupa una onorevole cattedra di umane lettere nelle nostre pubbliche scuole, ch’egli è stato creduto abile a reggere e ad amministrare i figliuoli del nostri cittadini, e che, a misura de’ servigii, ch’egli ha prestato alla nostra patria, è stato finora premiato ed onorato». Io non pretesi giammai di convincerlo di quest’obbligo ch’ei dice, scrivendo quelle parole. Il Padre Branda corrompe il sentimento anche di queste. Leggete la mia prima operetta alla pagina 4, e vi avvedrete ch’io con esse ho preteso di convincerlo unicamente dell’obbligo ch’egli ha di rispettare i Milanesi; e di riprenderlo perchè egli non abbia «corrisposto alla sua patria, con quell’affezione ch’essa lusingavasi di poter per avventura meritarsi da lui».

Quindi si fa strada a parlare un’altra volta del paese ov’io son nato, cioè di Bosisio; e faccendone [sia] un confronto con Milano, ov’è nato egli, improvvisamente e fuor del suo costume esco in una magnifica lode di questa città: la qual lode io non vi saprei dire quanto riesca affettata in bocca di lui, e in quel sito collocata e usata unicamente per fare scomparire a fronte di essa la piccola terra che a me ha dato i natali: il che è appunto come se altri scioccamente si sbracciasse a lodar la balena, perchè sembri piccolo il granchio. Io nondimeno ho mostrato di prendere in buona parte questa lode data alla nostra città, in uno Avvertimento ch’io pubblicai dopo aver ricevuta dal Padre Branda questa sua Lettera; il quale, se ben mi ricorda, credo di avervi mandato.

Da questo paragone di Milano con Bosisio deduce, al suo solito, il Padre Branda una mirabile conseguenza. Dice ch’io «non posso intendere quanto egli stimi ed ami la sua patria, perchè nato in paese ch’io posso bensì amare come mio nido, ma non celebrare come glorioso albergo e sede augusta di ogni virtù, di ogni lode, di ogni bel costume, di tutte le nobili arti». Notato che, alla sua foggia di ragionare, coloro che son nati a Bosisio, benchè da venti e più anni dimorino in Milano, non possono saper che cosa sia amor della patria, nè intender quanto ei l’ami e la stimi. In questo egli ha ragione; io non l’ho mai potuto intendere; ma ond’è che nè men quelli che nati sono in Milano non lo intendono punto? e credono anzi tutto il contrario, allorchè si risovvengono de’ biasimi ch’egli ha dati al sito, alla lingua, ai costumi, e insomma al materiale ed al formale del suo paese; e allorchè leggono quelle parole: «mi parevano, presso che non dissi», e «non mi ci posso più vedere»? E che debbo io intendore da queste parole ch’ei pur soggiugne qui abbasso in questa medesima Lettera: «Se fosse stato in poter mio, non mi sarei dipartito mai da quelle città di Toscana»? Ma andiamo avanti, ed accostiamoci, più presto che si possa, alla fine; perocchè a noi non dee importare di ciò che a lui piaccia di fare, purchè lasci in pace Milano e i Milanesi.

Pretende egli poi di ribattere quello avergl’io detto «ch’ei vive del frutto delle nostre terre», opponendo che, «essendo egli, la Dio mercè, aggregato ad un ordine religioso, vivrebbe egualmente in Milano de’ beni della sua Congregazione». Questo mi fa ricordare del Porco spinoso, che, insinuatosi nella tana della Volpe, a poco a poco ne la cacciò fuori, e se ne chiamava padrone. Perchè canta egli queste novelle, a questi tempi e in questa luce della verità? Ne domandi egli i suoi prudentissimi Correligiosi; e tutti unanimamente gli risponderanno che quanto essi possedono il debbono o a’ nostri clementissimi principi o al nostro pubblico o a’ nostri concittadini; e che, per quanto le loro forze comportano, cui procurano e sono obbligati di corrispondere al fine che questi hanno avuto, dando loro ricetto, sostentamento e protezione. Perchè dunque conta egli queste novelle, a questi tempi e in questa luce della verità? Io scommetterei che questo rimprovero è a lui rincresciuto più d’ogni altro ch’io gli abbia fatto nella mia Lettera; oppure non è punto ingiusto nè ingiurioso, come sono tant’altri  ch’egli ha fatto a me e agli altri onorati suoi avversarii.

Soggiugne inoltre che «se io altro premio ed altra mercede del mio esercizio non ricavassi che quello che a lui rende la sua carica, presto presto cangerei mestiere e patria». Ma io gli rispondo che, purchè io ci avessi con che vivere, non lo farei. Vedete di che diversa natura siamo il Padre Branda ed io. So che la Patria è tenuta a dar sostentamento a’ suoi cittadini per esserne servita, e che questi sono tenuti a servirla per esserne sostentati, senza protenderne ulteriore mercede. Io non voglio ora entrare a disaminare se la cattedra del Padre Branda a lui renda o no qualche cosa direttamente. So bene ch’io mi vergognerei grandemente di pubblicar sì leggieri ed interessate proposizioni, e che, d’altra parte, s’io mi conoscessi abile ad adempir que’ doveri del pubblico professore de’ quali ho parlato sopra, mi riputerei a grande fortuna e ad altissimo onore di poter, senz’altra mercede veruna, servire alla mia patria in un posto per sè cotanto luminoso, e di vedere affidati alla mia direzione i giovani cittadini. Per altro, dicendola qui fra noi, di quale scandalo non debbono essere a’ buoni patriotti sì fatte Proposizioni? Che sarebbe della nostra città, veramente stata finora «albergo di ogni virtù e sede di tutte le nobili arti»? quale razza di cittadini avremmo noi, se tutti pensassero come imprudentemente mostra di pensare il Padre Branda? Guai a quella patria, i cui cittadini sono indifferenti per essa, e che con una stoica malvagia filosofia chiamano loro patria tutto il mondo, per non avere patria veruna.

«Per ultimo ha fatto risolvere il Padre Branda sopra la risposta ciò che in fine del suo secondo Dialogo fu scritto, cioè che delle cose ribalde ed insolenti, che si fossero pubblicate non sarebbesi fatto motto alcuno; ma, dove si portassero ragioni e si scrivesse in causa per alcuno contro le cose già stampate, sarebbesi a ciò soddisfatto per que’ medesimi scolar suoi e virtuosi giovanotti che ne’ primi due Dialoghi furono gl’interlocutori» io ho grande obbligazione al Padre Branda, perchè egli siesi voluto campiacere di dichiarar, col rispondermi, che le cose da me scritto non sono nè ribalde nè insolenti, e che «ho portato ragioni, ed ho scritto in causa contro le cose già stampate». Ben è vero che questa Lettera, che noi abbiamo sinora esaminata, non è già la Risposta, ma, come dicemmo, il preambolo di essa; ma, avendomi egli di già molte volte promesso pubblicamente di volermi rispondere, mostra ch’ei non riponga le cose mie tra ’l numero di quelle «ribalde ed insolenti, delle quali non sarebbesi fatto motto alcuno»; di che io sono estremamente contento.

Ad ogni modo, io non son contento ch’ei riponga in quel numero «il libro in lingua e versi milanesi» del sig. Balestrieri, perocchè mi pare che, ciò faccendo [sic], gli si usi ingiustizia. Osserviamo per un momento la nota posta al piè di quest’ultime due pagine.

Egli è vero ciò che il Padre Branda scrive, cioè che, anche prima che si stampasse, io lessi l’operetta del sig. Balestrieri, ch’egli ebbe la bontà di comunicarmi, a quella guisa che il Padre Branda comunicherà le sue cose all’«amatissimo suo collega» il Padre Barelli, e questi a lui vicendevolmente: ma io non vi ho trovati, come il Padre Branda dice, trascurati «i miei precetti di moderazione», nè mi tengo a vergogna nè ad infamia lo essere lodato in simili componimenti. Anzi, se la gloria dopo la morte fosse qualche cosa, io avrei piacere di avere a durare immortale in quella graziosa operetta, siccome vi durerà immortale il Padre Branda. Ho poscia veduto che i tre pubblici incorrotti e rispettabili Censori de’ libri, che l’hanno esaminata, sonosi conformati nelle loro rispettive approvazioni al giudizio ch’io ne avea già fatto, e mi son consolato che nè l’amicizia nè l’interesse della causa comune non abbiami fatto travvedere. Male adunque e molto imprudentemente ha operato il Padre Branda, tacciando di «famoso libello» quost’operetta del sig. Balestrieri, perocchè può sembrare ch’egli abbia in questa guisa offeso l’onestà e la giustizia degli stessi tre Censori, anzi i medesimi rispettivi tribunali nella persona de’ loro ministri. Che direbbe il Padre Branda se io gli mostrassi che non l’opera del sig. Balestrieri, ma questa sua medesima, Lettera è stata giudicata, da chi legittimamente giudicar ne potea, contumeliosa e contenente motteggi che offendono la fama d’un onest’uomo? Oh quanto è mai imprudente questo Religioso, quanto è mai imprudente!

Lascio tutte le ingiurie ch’egli scaglia contra il sig. Balestrieri, il quale non ha fatto altro che deridere gli ultimi scritti di lui. Già avrete veduto nel mio Avvertimento, com’egli il chiama «bocca succida, lorda, stomacosa e maledica, e insomma uomo di un carattere molto defforme»; e m’immagino che voi avrete detto fra voi medesimo: – Possibile, che questo benedetto Padre si sia già dimenticato di quelle sue spietate Lettere contra l’Irico, nelle quali non ci è sorta di feritrici espressioni di cui egli non siasi contro di lui servito! E quest’uomo, che per abito ha sempre scritto in simile guisa, ardisce ora di dichiarar pubblicamente, contra il giudizio de’ tribunali, per famosi libelli, le opere di chi, oltraggiato da lui, s’è contentato di deridere e di schernire la maniera dello scrivere e del ragionare di una sola sua operetta? –

Io non mi maraviglio meno di voi, o amico gentilissimo; e torno a dire che mi rincresce altamente che il Padre Branda faccia sì gran torto alla sua onestà ed alla sua virtù, seguitando pure a scriver di simili cose. Anzi io lascerei volentieri di più parlare, e non iscriverei più nulla, se quanto mi preme l’onor suo non mi dovesse premere anche il mio. Io desidero ancora vivamente ch’egli, o lasci di più stampare, o il faccia in tutt’altra maniera che non ha fatto finora; perciocchè è incredibile lo scandolo e il malo esempio che ne debbono avere i nostri giovani, che frequentano la sua scuola, I quali, leggendo simili cose, e sapendo che il lor Padre Maestro le ha composte, possono apprendere ad imitarle quandochessia. Anzi ci sarebbe pericolo che altri potesse dir de’ nostri scolari ciò che Crasso, presso Cicerone, dicea di quelli di Roma, i quali «non altro apprendevano che la sfrontatezza sotto a certi nuovi maestri», ch’ei fece poi levare, essendo Censore, con un suo editto, acciocchè, com’ei dice, «non venissero rintuzzati gl’ingegni de’ giovanetti e non si corroborasse l’impudenza»: imperciocchè ei non capiva «che altro potessero imparare da simile sorta di maestri, fuorchè a divenir temerarii; la qual cosa, eziandio unita con molto buone parti, merita per se medesima d’esser fuggita a tutto potere». Io non dico già (intendetemi bene) che il Padre Branda insegni direttamente tali cose; io oltraggerei di troppo i suoi savii costumi; ma dico bensì che la maniera del suo scrivere può indirettamente insegnar questo.

Ed eccovi per una parte abbondantemente soddisfatto, o amico carissimo, di ciò che con tanta istanza mi avete richiesto. Qualora io abbia altrettanto di ozio quanto ne ho avuto in questi dì, parlerovvi della Lettera dello Scolare, uscita in difesa del suo maestro, e alla quale il Padre Branda ha fatto, in una sua Lettera diretta al Tanzi, questo insopportabile encomio: «Così è, non sono per tal modo abbandonato nella mia causa, che non si trovi alcuno il quale abbia voluto prendere la mia difesa contro la Lettera del Parini, e con tale dirittura di discorso, e con tanto accorgimento, e con tanta grazia e forza, che ne disgrado quanti libri sono finora usciti contro di me; e pago qualcosa, se dappoichè ad attaccar meco battaglia

Tertius e coelo cecidit Cato,

che siete voi, signor Tanzi, spremendo e lambiccando tutti i libri che sonosi pubblicati, n’esce tanto di sale quanto ne ha quella sola Lettera. E solo potrei dolcemente querelarmi d’un così valoroso e gentile spirito», ec.

Voi vedrete, a suo tempo, quale accecamento si richiegga a voler lodare un tal libro, del quale senza dubbio lo autor medesimo si è vergognato: perciocchè non vi ha posto in fronte il suo uome, alla stessa guisa che fanno tutti gli altri fautori del Padre Branda. Nondimeno, acciocchè voi cominciate ad assaggiare quale razza di autore si sia meritato una sì straordinaria ed amplissima lode dal Padre Branda, eccovi una piccola prova della sua maniera di scrivere e di ragionare. Da sole due dello mie accuse protende costui di difendere il suo Padre Maestro. Prima, vuole ch’ei non abbia offese le donne; secondo, ch’ei non abbia offesi i dotti e letterati Milanesi. Udite alcuni del suoi argomenti.

«Il mio maestro ha biasimato in genere tutte le donne di Milano: dunque non ne ha offeso veruna» (pag. 10).

«Il triangolo è una figura di tre lati; le diverse spezie de’ triangoli non si possono dolere di questa deffinizione: dunque le donne milanesi non si possono dolere che il Padre Branda le abbia ingiuriate» (pag. 11).

«Epimenide Cnossio disse de’ eretesi in genere che erano ventri pigri, male bestie e lingue mordaci: dunque non fece loro ingiuria» (pag. 13).

Dopo questi maravigliosi argomenti conchiude dicendo: «Ma egli (il Padre Branda) si dichiara e non si dichiara; confessa e non confessa. E le ragioni sono assai sottili e inviluppate».

Circa l’altro punto della mia difesa, altro non fa questo grazioso Scolarino che servirsi male a proposito d’un pensiero dell’illustre e modestissimo sig. Francesco Maria Zanotti, per aver campo di dire che il sig. Tanzi, il sig. Balestrieri e qualche altro Milanese che compone nella propria lingua, tanto meritano il nome di dotti quanto «un legnaiuolo od un cuoco»; e per conchiudere che io «sarò costretto a riverir singolarmente il Padre Branda fra quelli che più si accostano alla idea del perfetto filosofo», cioè, come già abbiamo detto, fra il Cartesio, il Newton e il Leibnitz. Tutto questo, con somma modestia e con sommo giudizio, lo ha manifestamente encomiato il Padre Branda; e, fingendo di non accorgersi delle smoderate lodi che il suo Scolare gli ha dato, senza punto schermirsene, tutto quanto approva amplissimamente. Eppure il Padre Branda è quegli che, nella sua prima Lettera al sig. Tanzi, mi burla, insieme agli altri, delle vere ma modeste lodi, ch’io ho date a’ miei amici, non già come ad amici, ma come ad uomini degnissimi di quelle lodi, e di più, non tanto per lo costume loro, quanto per la loro dottrina.

Male potranno salvarsi da questa burla del Padre Branda i miei amici medesimi, i quali si sono compiaciuti di darmi qualche lode, appoggiati a niun fondamento ed a niuna autorità; ma io farò cadere la burla del Padre Branda sopra tutt’altri, e me ne libererò io.

Godrannosi questa burla per le lodi, che io ho dato al sig. Balestrieri ed al sig. Tanzi, il sig. conte Mazzucchelli, «uno de’ primi letterati d’Italia», lo abate Saverio Quadrio, il sig. conte Senatore Reggente Verri, e tanti altri insigni e dotti uomini, i quali hanno prima di me lodato assai questi due miei amici.[1]

Non dubito che anche il Padre Branda non sia in caso di poter produrre di simili testimonianze in proprio favore, o stampato o manoscritte; perchè il conosciuto merito di lui non mi lascia[2] luogo a un tale dubbio. In ogni caso potranno bastare le lodi magnifiche dategli dall’Anonimo di Piacenza, dal suo finto Scolaro, dal suo Amico, dal sig. Bencivegna del Mazzo, e da altri sì fatti scrittori, de’ quali vi parlerò ad altre tempo.

Allora vi mostrerò principalmente quale sia la urbanità e la morale della succennata opera dello Scolare, e, avendo ozio, vi scriverò molte altre cose, delle quali parte v’ha a far ridere, e parte v’ha a movere a sdegno perocchè voi siete uomo giudizioso ed onorato. State sano.
Allora è che costoro, ringalluzzandosi, e di versificatori credendosi divenuti veramente poeti, così fanatici si dimostrano per amore della poesia, che null’arte stimano potersi accostare a quella, non che paragonare. A questi debbono accompagnarsi alcuni altri, i quali, essendo pur di qualche mezzano valore in quest’arte, di buona fede sono persuasi dell’eccellenza ed importanza di essa, e ragionano di que’ lor sonetti e di quelle lor canzoncine, non già in maniera di passatempo, ma con quella gravità ch’altri discorrerebbe del piano d’una campagna o della spedizione d’una colonia.

L’altra parte di coloro che sogliono dar giudizio sopra la poesia son quelli che, applicati essendo ad alcuna delle scienze o delle arti più utili, con troppa severità condannano questa e tengonla a vile, come quella che punto non serve agli umani bisogni, ch’è vano trattenimento di gente oziosa e il cui merito in altro non consiste fuorchè in una foggia di parlare diversa dal linguaggio comune.

Ora oserò io sperare di potere far sì che, l’una di queste due parti scendendo alquanto, e l’altra alquanto salendo, s’incontrino in un giusto mezzo, che colla ragione consenta e colla verità? Io non credo di poter ciò meglio ottenere che coll’esaminare per poco in che consista la poesia.

E per lasciare da un lato le dispute che si sono fatte per deffinire quest’arte, io credo, appoggiandomi all’autorità de’ migliori maestri, esser la poesia l’arte d’imitare o di dipingere in versi le cose in modo che sien mossi gli affetti di chi legge od ascolta, acciocchè ne nasca diletto. Questo è il principal fine della poesia, e di qui ha avuto cominciamento.

Da questa deffinizione appare che l’arte poetica non è già così vana come vogliono i suoi nemici; i quali, se questa vogliono condannare, condannar debbono egualmente la pittura, la statuaria e le altre consimili arti di puro diletto, le quali presso tutte le colte genti in sommo pregio si tengono, e per le quali mille valenti artefici si sono renduti immortali.

Mi si potrebbe rispondere che il piacere che in noi vien prodotto dalla poesia non nasce già da motivi intrinseci a quella, ma dalla sola opinione, la quale, veggendo esattamente descritte le tali e tali cose secondo le regole che gli uomini hanno convenuto di stabilire a quest’arte, gode di vederle adempiute. Ma chi ben considera filosoficamente quest’arte e la natura del cuore amano, ben tosto s’avvede che non dall’opinione degli uomini, ma da fisiche sorgenti deriva quel piacere che dal poeta ci vien ministrato.

Per rimanere convinto di ciò, egli è mestieri di prima riflettere a quanto sono per dire. Tutte le arti, che sono di un’assoluta necessità al viver dell’uomo, sono state comuni ad ogni tempo e ad ogni nazione, come sono l’agricoltura e la caccia. Ma, perciocchè l’uomo non solo ama di vivere ma eziandio di vivere lietamente, così non è stato pago di aver ciò solamente che il mantiene; ma ha procurato ancora ciò che il diletta. Adunque non solo le arti che sono assolutamente necessarie, ma quelle ancora che per loro natura e non per la sola opinione vagliono a dilettarci, sono state in ogni tempo comuni a tutte le genti: e si dee dire che questo, perciò appunto che son state sempre comuni ad ogni popolo, non per l’opinione che in ogni paese è diversa, ma per una reale impressione, che tuttavia, e di lor natura, fanno sopra il cuor nostro, vengano a recarci diletto.

Tanto più universali sono poi state sempremai quelle arti dilettevoli al soccorso delle quali non bisognano stranieri mezzi, ma la mente basta, o gli organi dell’uomo stesso: perciò comuni a quanti popoli abitano la superficie della terra furon sempre il canto, la danza, e, nulla meno di queste, la poesia.
Cominciando dagli Ebrei fino agli ultimi popoli della terra, tutti quanti hanno avuto i loro poeti. Nè parlo io solo delle nazioni ch’ebber riputazione delle meglio illuminate, ma delle barbare ancora, anzi delle selvagge, presso alle quali non pur veruna scienza, ma niuna delle belle arti è fiorita giammai. Ci rimangono ancora memorie o graziosi frammenti della poesia degli antichi Galli, de’ Celti e degli Sciti. Lungo sarebbe chi parlar volesse delle poesie degli Arabi, de’ Turchi, de’ Persiani, degl’Indiani, delle quali molte veder possiamo tradotte nella lor lingua dagl’Inglesi e da’ Francesi. È pur conosciuta da’ viaggiatori la poesia della China, del Giappone, de’ Norvegi, de’ Lapponi, degl’Islandesi, che in materia di furore poetico sono fra gli altri popoli singolari. Fino a’ selvaggi dell’America, che non hanno verun culto di religione, conoscono la poesia.

Questa sola universalità adunque di essa, siccome dimostra non esser la poesia una di quelle arti che dall’uno all’altro popolo si sono comunicate, ma che sembra in certo modo appartenere all’essenza dell’uomo; così a me par bastevole per se medesima a dimostrare che un vero, reale e fisico diletto produca la poesia nel cuore umano; non potendo giammai essere universale ciò che non è per sè bene, ma soltanto lo è relativamente.

Ma io odo interrogarmi: E in che consiste egli adunque e d’onde nasce cotesto piacere o diletto, che in noi produce la poesia?

Se noi ricorriamo all’origine di quest’arte, egli è certo che non altronde che da un dolce e forte affetto dell’animo debb’esser nata, siccome da un dolce e forte affetto dell’animo debbono esser nate la musica e la danza. La benefica natura ha dato all’uomo certi segni, sempre costanti ed uniformi in tutti i popoli del mondo, onde poter esprimere al di fuori il dolore o il piacere. Tutti i popoli sospirano, piangono, gridano, allorchè provano un’affezione che dispiace alla lor anima; e tutti i popoli egualmente saltano, ridono, cantano, allorchè provano un’affezione che alla loro anima piace. Per mezzo di questi segni la medesima passione che agita l’uno, fa passaggio al cuore dell’altro che n’è spettatore; e a misura che questi più o men teme, o più o meno spera la cagione del piacere o del dispiacere del compagno, ne viene più o meno agitato. L’anima nostra, che ama di esser sempre in azione e in movimento, niente più abborre che la noia; e quindi è che volentieri si presenta a tutti gli oggetti che senza suo danno metter la possano in movimento; e, qualora non ha occasione di dover temere per sè, sente piacere così de’ lieti come degl’infelici spettacoli. Per questa ragione è che i Romani non provavano minor gioia dall’essere spettatori de’ giuochi florali, dell’ovazione, e de’ trionfi, che del combattimento de’ gladiatori. Il che proveremmo noi medesimi se la religione non avesse più raddolciti i nostri costumi, se la carità non ci facesse tener per una parte di noi medesimi que’ meschini che già venivano sagrificati al diletto del popolo, se le nostre leggi non ci facessero abborrire in tali spettacoli l’ingiustizia; e se finalmente il tempo non ce ne avesse disavvezzati. Bene il proviamo nondimeno negli altri spettacoli, quantunque infelici, ove non concorrano questi motivi. Chi è di noi che non senta, misto alla compassione, anello il piacere al veder di lontano una battaglia, un vascello nella burrasca, un incendio o la morte d’un giustiziato? Perchè crediamo noi che tanto popolo accorra a somiglianti spettacoli? E non ci diletta egualmente, come l’aspetto d’una deliziosa e fiorita collina, l’ispido, il nudo, il desolato, l’orrido d’una montagna, d’un diserto, o d’una caverna?

Ora, que’ primi uomini che a ragionar si posero sopra le cose, osservato avendo che così i segni del dolore come que’ del piacere recan diletto a chi li mira, eccitando ne’ cuori le stesse passioni, non fino a quel grado però che le sentiva colui onde primamente provengono i medesimi segni, si diedero ad imitarli, giudicando che l’imitazione, quanto s’allontanerebbe dalla cagion del dolore, tanto s’avvicinerebbe al puro e solo piacere.

Così essi applicaronsi ad imitare le giaciture e i movimenti del corpo dell’uomo appassionato, e ne composere il ballo; le diverse modulazioni della voce, e ne fecero la musica; i sentimenti e le parole, e ne nacque la poesia.

Come però i segni dell’uomo appassionato sono sempre più veementi, più forti e, per così dir, più scolpiti che non son quelli dell’uomo che trovasi in calma, così riescono tali le parole e l’espressioni. Quindi è che la poesia ha un linguaggio diverso da quello della prosa, che esprime più arditamente e più sensibilmente i nostri pensieri, e vien sostenuto dalle immagini e da certi tratti più vivaci e lampeggianti: in guisa che corre tra il linguaggio della prosa e quello della poesia lo stesso divario che corre tra l’uomo che riflette e discorre, e tra l’uomo ch’è commosso ed agitato, le cui Idee sogliono essere più rapide e, per così dire, dipinte a più sfacciati colori. Perciò il linguaggio della poesia è così naturale come quel della prosa; e quindi è che sì l’uno come l’altro sono sempre stati comuni ad ogni nazione.

Da questa teorica, che forse può parer troppo lunga, ma ch’è, al mio credere, necessaria per ben capire che cosa sia l’arte poetica, facilmente altri può dedurre se sia o no vero e reale diletto, o se dalla sola opinione dipendano o no que’ dolci movimenti d’ira, di nausea, d’abbominazione, d’orrore, d’amore, d’odio, di tèma, di speranza, di compassione, di sospetto, di disprezzo, di maraviglia, che pruova nel suo cuore colui che assiso nella platea vede da eccellenti attori rappresentarsi la Merope, o che in un’amabile solitudine osserva gli effetti sempre diversi dell’illustre amante di Laura, i sublimi capricci e grotteschi di Dante, le gelosie di Bradamante, le lusinghe d’Alcina, i furori di Rinaldo, le tenerezze d’Erminia, e simili.

Egli è adunque certissimo che la poesia è un’arte atta per se medesima a dilettarci, coll’imitar ch’ella fa della natura e coll’eccitare in noi le passioni ch’ella copia dal vero. E questo è un pregio non vano, non ideale, non puerile dell’arte stessa.

Le si aggiungono nondimeno altri pregi non manco reali di questo. La versificazione, lo stile, la lingua e simili, che formano la parte meccanica di lei, non meritano meno d’esser considerate; ma noi per ora le tralasceremo, bastandomi che sia chiaro come la poesia abbia facoltà di piacerne per via del sentimento, ch’è la parte più nobile, anzi l’anima e lo spirito di quest’arte.

Che se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo risponderei ch’ella non è già necessaria come il pane, nè utile come l’asino o il bue; ma che, con tutto ciò, bene usata, può essere d’un vantaggio considerevole alla società. E, benchè io sia d’opinione che l’instituto del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare, nulladimeno son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare assaissimo. Lascio che tutto ciò che ne reca onesto piacere si può veramente dire a noi vantaggioso; conciossiachè, essendo certo che utile è ciò che contribuisce a render l’uomo felice, utili a ragione si posson chiamare quell’arti che contribuiscono a renderne felici col dilettarci in alcuni momenti della nostra vita.

Ma la Poesia può ancora esser utile a quella guisa che utili sono la religione, le leggi e la politica. E non in vano si gloriano i poeti che la loro arte abbia contribuito a raccoglier insieme i dispersi mortali sotto le graziose allegorie d’Anfione e d’Orfeo. Omero ha pure insegnato, molto imperfettamente bensì, ma pure quanto era permesso alla sua stagione, la condotta delle cose militari, e i primi capitani della Grecia hanno fatto sopra l’Iliade i loro studii; di che mi possono essere buoni testimoni Platone, Aristotele, Plutarco ed altri autori. Nè sono da dimenticarsi i cantici militari di Tirteo, che infiammarono e spinsero alla vittoria gli sconfitti Spartani, e che per pubblico decreto cantavansi in ogni guerra dinanzi alla tenda del capitano. Esiodo ha insegnata l’agricoltura, ed altri altre arti o sia fisiche o sia morali.

Egli è certo che la poesia, movendo in noi le passioni, può valere a farci prendere abborrimento al vizio, dipingendocene la turpezza, e a farci amar la virtù, imitandone la beltà. E che altro fa il poeta che ciò, collo introdurre sulla scena i caratteri lodevoli e vituperevoli delle persone? Per qual altro motivo crediamo noi che tanto ben regolate repubbliche mantenessero dell’erario comune i teatri? solamente per lo piccolo fine di dare al popolo divertimento? Troppo male noi penseremmo delle saggie ed illuminate menti de’ loro legislatori. Il loro intento si fu di spargere, per mezzo della scena,
i sentimenti di probità, di fede, di amicizia, di gloria, di amor della patria, ne’ lor cittadini; e finalmente di tener lontano dall’ozio il popolo, in modo che non gli restasse tempo da pensare a dannosi macchinamenti contro al governo, e perchè, trattenuto in quelli onesti sollazzi, non si desse in preda de’ vizii alla società perniciosi. Ciò ch’io ho detto de’ componimenti teatrali, si può dir colla debita proporzione ancora d’ogni altro genere di poesia.

Se la poesia dunque è tale, come io, scorrendola per varii capi, ho dimostrato, e come a chi spassionatamente la esamina dee comparire, onde proviene che a’ di nostri, e spezialmente in Italia, incontra tanti disprezzatori? Se io ho a dire la verità, io temo che ciò proceda non già dal difetto dell’arte, nè dei valenti coltivatori di essa.

Per bene avvederci dell’origine di questo disprezzo prendiamone un esempio dalla medicina. Questa scienza ha forse ora tanti contradditori e tanti disprezzatori quanti ne ha la poesia. Niuna cosa è più facile dell’asserire che una persona ha il tal male, nè dello scrivere una ricetta ; così nulla è di più agevole che il misurare alcuno parole e il chiuderlo In uno spazio determinato. Quindi è che al mondo si trovano tanti ciarlatani, che di medico il nome si usurpano o loro si concede gratis, e tanti versificatori che da sè assumono il nome di poeta, o loro per certa trascuraggine vien conceduto dalla moltitudine, che non pensa più oltre.

Basta che un giovine sia pervenuto a poter presentarvi una cattiva prosa frastagliata in versi, che, più non pensando alla preziosità che la pietra richiede, commendiamo qualunque vile selce o macigno, perchè il maestro ha saputo segarlo. Noi non istiamo ad esaminare se l’artefice di quella pietra ci abbia saputo formare una Venere degna d’esser collocata in una reale galleria, ovveramente un passatoio o un termine da piantarsi a partire il campo di Damone da quello di Tirsi.

Son come i cigni anco i poeti rari,
Poeti che non sien del nome indegni,
(Orlando Furioso XXXV, 33.) disse già l’Ariosto. Eppure noi veggiamo tuttodì uscir delle scuole un numero di gioventù che con quattro sonetti pretende di meritarsi il nome di poeta, e si trova chi loro il concede. Una mediocre osservazione della gramatica, la legittimità delle rime, un pensiero che non sia affatto ridicolo bastano per far sì che ogni monaca che si seppellisce, che ogni moglie che becca un marito, che ogni bue che prenda la laurea, ricorrano a voi. Sì tosto che soli quattordici de’ tuoi versi possono ottener l’onore d’essere ammessi in una raccolta, eccoti diventato poeta.

Le scuole pubbliche istesse contribuiscono a disonorare la poesia. Non contento, chi lor presiede, d’insegnar male le arti che servir debbono d’introduzione al viver civile, si sbraccia nel volere che gli scolari diventino poeti. E perchè questo mai? E a che può bisognare nel mondo ad un giovine un’arte ch’è di puro piacere? perchè adunque non si ammaestra quivi ancora la gioventù nella musica e nella pittura? Frattanto ecco il danno che ne proviene. Si fa perdere per qualche anno la metà della giornata ai giovani che sono quivi adunati, in una inutile o seccagginosa occupazione. Molti di essi, che hanno dalla natura qualche disposizione maggiore al verseggiare, trascurano il più importante dell’eloquenza, e, invaghiti di se medesimi, da se stessi si applaudiscono; un puerile amore di gloria gli accende; e, qualora escano dall’erudito ginnasio, innamorati de’ vezzi della poesia ma senza bastevoli doti da poterne godere giammai, odiando ogni scienza ed ogni arte necessaria al viver civile, rimangono a carico de’ lor genitori, si rendono ridicoli a’ lor compagni meglio consigliati, e, se mai producono alcuna cosa, servono di trastullo alle persone o si assicurano le fischiate della posterità. Questo gran numero di verseggiatori, adunque, è la cagione per cui da molte altronde savie persone viene in sì piccol conto tenuta la poesia. Nè meno cooperano a ciò molti, per altro valorosi, rimatori, i quali vengono ammirati bensì, ma non piacciono.

Il poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto della poesia, dee toccare e muovere; e, per ottener ciò, dee prima esser tócco e mosso egli medesimo. Perciò non ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e legista.

Non a torto si dice che il poeta dee nascere. Egli dee aver sortito dalla natura una certa disposizione degli organi e un certo temperamento che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e dilicata, le impressioni degli oggetti esteriori; imperocchè come potrebbe dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi per un certo modo grossolano ed ottuso le avesse ricevuto?

La poesia che consiste nel puro torno del pensiero, nella eleganza dell’espressione, nell’armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il sono.

Ora che dovremo dire della nostra presente poesia italiana? Infinite cose ci sarebbero a dire. Ma perciocchè il tempo è venuto meno al buon volere, permettetemi ch’io rimetta ad altra occasione li discorrervene a lungo. Frattanto io spero che verrà a ragionarvi meglio di me, e di più importanti cose che queste non sono, qualche altro degli Accademici, cui l’esempio dell’abate Soresi e di me abbia rianimato a continovare un esercizio, che ci può essere nello stesso tempo utile e piacevole, quale è questo delle Lezioni private: di maniera che, se noi non vi abbiamo giovato o dilettato col recitarvi le cose nostre, possiam lusingarci almeno di averlo fatto coll’eccitamento datovi, acciocchè, ogni mese almeno, ci trattenghiate con qualche vostro lavoro.