I.
Narro un fatto raccontatomi da uno di Schio, che assistette, come crociato, nel 1848 alla famosa battaglia combattuta il 9 giugno sotto Vicenza, e lascio a lui la parola.
Il Feldmaresciallo conte Radetski, sconfitto da Piemontesi a Goito, si era ritirato nel più perfetto disordine, diretto verso la bassa del Veneto, per prender stanza a Montagnana.
Nel suo esercito in fuga c’era la confusione delle lingue; non si vedevano più brigate, reggimenti, battaglioni, squadroni, batterie; ma torme di Croati, d’Ungheresi, di Tedeschi, di Rumeni, e, pur troppo, d’Italiani: artiglieri e cacciatori, cavalieri e fanti tutti frammisti dal caso, imbrancati dalla conforme disposizione al correre od all’andare a rilento, trascinandosi a fatica, con o senza fucile, con o senza zaino, con o senza un pezzo di pagnotta da rosicchiare.
Ridottosi tutto quello sfasciume di guerra sotto Montagnana, il vecchio maresciallo pensò a ricomporlo; stabilite le stanze distinte per le diverse divisioni, ed in quelle, scompartiti i posti per le armi diverse, e per ogni arma il sito preciso per ciascuna brigata e per ogni reggimento, e rimessi così i gregari sotto l’azione diretta dei loro capi, egli trovossi di nuovo come il cavaliere che ha il suo cavallo in mano.
Rifatte le ordinanze, rifocillati i corpi stanchi, rinfrancati gli animi abbattuti, dopo pochi giorni si diresse contro Vicenza, ove una diecina, o poco più, di mille uomini stavano a difesa delle speranze degli Italiani. Le truppe del maresciallo oltrepassavano i quarantamila.
I difensori della città, crociati veneti, volontari romani e romagnoli, soldati svizzeri del papa, e soldati papalini regolari, quindici giorni prima avevano vedute le schiene dei nemici; non si spaventarono quindi di quel nembo che venia loro addosso; essi inoltre speravano nell’aiuto di Carlo Alberto, che non venne, a causa, si disse allora, di un divieto dell’Inghilterra, che il re non volle alienarsi, per non perdere in caso di disfatta ogni patrocinio diplomatico.
I Tedeschi attaccarono i colli Berici il 9 giugno, alle quattro e mezzo antimeridiane circa. Gli Italiani e gli Svizzeri combatterono quel giorno strenuamente, eccetto….. ma lasciamo le macchie, che nel racconto non c’entrano.
Verso le tre, le quattro o le cinque pomeridiane, chè non saprei dire precisamente, avevamo perdute le alture e ci ritiravamo verso la città coll’intenzione di farvi una difesa alla saragozzesca; i cittadini e le donne avevano già raccolti sassi e pietre per ogni finestra e per ogni abbaino; le tegole dei tetti si ammonticchiavano lungo le gronde delle case, per far grandine grossa sull’atteso nemico; non si facevano bollire caldaie d’olio, perchè l’olio non abbondava nelle dispense, a motivo del suo caro prezzo; ma non esito a credere che molte brave Vicentine facessero bollire dell’acqua nei paiuoli, per scottarne i nemici, come richiede ogni buona tradizione di difesa di città invasa.
Io era giunto passo passo, sempre facendo fuoco, all’ultima arcata del portico pel quale si scende dal santuario della Madonna del Monte, e mi ero posto, riluttante alla ritirata, dietro un pilastro per ricaricare il fucile, e spararlo contro i cacciatori Tirolesi che, discendendo d’arcata in arcata, ci inseguivano numerosi. Compiuta la carica, stava spiando e facendo capolino dal pilastro, per trovare il destro di fare un buon tiro, quando mi parve di sentire per l’aria, distinto nel frastuono del combattimento, un lontano suon di flauto suonare la notissima aria della Lucia:
Tu che a Dio spiegasti l’ali.
– Strano effetto dell’animo agitato! pensai tra me, certo che fosse un’illusione del senso dell’udito.
Sparai, e quindi cogli altri continuai a destra seguendo la falda del monte. Passando sotto una ripa credetti di udire ancora il suon del flauto, ma in quel momento avevo altro a pensare; i Tirolesi avevano occupato il palazzo Carcano e ci soffiavano dietro colle loro carabine. Per via incontrammo degli Svizzeri che scendevano dal monte, ci unimmo a loro, e poco dopo, visto il giardino di Maruso non occupato dal nemico, risalimmo assieme fin là, tanto da non entrare in città confessandoci vinti.
Salendo l’altura, riudii il flauto, e questa volta mi fermai, e potei decifrare distintamente il passo:
O bell’alma innamorata,
O bell’alma innamorata….
Il suono veniva dalle ultime case della città.
Era veramente cosa singolare che in quella giornata di tanta importanza per le sorti d’Italia, durante l’eccidio di tante vite e nello straordinario succedersi di sì terribili avvenimenti, ci fosse in città un uomo capace di suonare il flauto; stentavo a credere a’ miei orecchi: una palla tedesca che andò a ficcarsi, cantando anche quella, ma in diverso metro, nel tronco di un olmo vicino a me, mi richiamò alle esigenze più serie del momento.
Come è da supporsi, il nostro ritorno tumultuario al monte nel giardino di Maruso non approdò che alla morte di un certo numero di noi, e un po’ dopo ne fu forza riprendere la via verso porta Lupìa.
Giunti alla porta, e provando un’insuperabile ripugnanza a varcarla a branco con tanti altri che vi si cacciavano dentro a furia, tornammo indietro in molti, per andar ad occupare la stazione ferroviaria, che allora, mi pare, era ancora di legno, ed assai più vicina al Bacchiglione. Ivi ricominciammo a rispondere al fuoco del nemico.
Eravamo vicinissimi alle mura della città; il suono del flauto, che aveva cessato un momento, riprese, e siccome era più prossimo, si sentiva perfettamente chiaro e distinto nei più velati semitoni.
Suonava sempre la stessa canzone:
Tu che a Dio spiegasti l’ali.
Non si può dire che rabbia mi mettesse addosso quel pacifico ed inoffensivo strumento da fiato; mi era diventato più uggioso delle schioppettate.
C’erano nella stazione dei grandi cumuli di rotaie di ferro dinanzi a noi, dei mucchi di ghiaia, delle pietre: le palle venivan giù dal monte a grandine obbliqua, fischiando, miagolando, sibilando, battevano secco sulle rotaie facendole risuonare come campanelle, sollevavano ciottoli e pietruzze e frecciavano scheggie di legno in ogni senso; – ed il flauto suonava:
O bell’alma innamorata,
Ti rivolgi a me placata.
Il cannone ululava con un rombo che pareva il nitrito di un mostruoso cavallo, ogni momento cadeva morto qualcuno, si udivano imprecazioni, lamenti, scrosci di bombe; – ed il flauto continuava:
Teco ascenda il tuo fedel.
Il nemico calava dal monte in faccia a noi e si ingrossava vieppiù, la tempesta di piombo diventava sempre più fitta; – ed il flauto cominciava la seconda strofa:
Ah se l’ira dei mortali
Fece a noi sì lunga guerra.
Mio fratello, nella foga del tirare e ricaricare, aveva posta a rovescio la cartuccia, onde, andata dentro alla canna colla pallottola sotto e la polvere sopra, si affaccendava invano a rinnovare capsule, a ripulire con uno spillo il luminello, ed a riporvi della polvere ben granita e lustra; tirava e tirava e mai faceva fuoco; ad ogni prova diventava più rosso, imbestialiva dalla stizza e di tanto in tanto si volgeva dalla parte d’onde s’udiva l’arietta del flauto, quasi fosse quella la causa degli scatti a falso che gli si ripetevano da qualche poco. Mi guardò un tratto in volto, disposto a sfogare a parole il suo dispetto, ma non riuscì ad esprimere l’indegnazione e la sorpresa, prodotte in lui da quel suono, tanto poco adatto alla situazione, se non imprecando e maledicendo quell’ozioso che, mentre pendeva forse sopra la gentile Vicenza la distruzione e lo sterminio, era capace di studiare placidamente di musica nella sua stanza e ripassare una flebile canzone, un’arietta d’opera.
Accortosi dopo inutili tentativi dello sbaglio commesso, mio fratello dovette, in tutta pace, in mezzo alle schioppettate, levare la bacchetta dall’incassatura, cercare nella giberna il cavastracci, avvitarlo, ed estrarre, non senza fatica, la pallottola dalla canna; – ed intanto il flauto ripeteva l’arietta per la quarta volta.
Appena ebbe il fucile carico ed in ordine, mio fratello si voltò sbuffante d’ira verso la città per tirare nella direzione d’onde venivano i concerti del singolare flautista. Un volontario vicentino glielo impedì, e poi rivoltosi ad un altro volontario che gli era accanto:
– Senti, gli disse, il povero Gigio?
– Ma! poveretto! gli rispose quello puntando per tirare verso il monte.
Fra una schioppettata e l’altra, capii che quelli conoscevano il suonatore, che questi si chiamava Gigio, e che doveva essere infelice; rimanemmo poco anche nel possesso della stazione, e dopo un breve tentativo di resistenza, si dovette abbandonarla risolvendoci ad entrare in città assai diminuiti di numero.
I cacciatori austriaci occupavano tutte le finestre e le terrazze del palazzo Carcano, che distà meno di duecento metri da porta Lupia, e di là tiravano su quanti si riparavano correndo dentro alla città. Davanti alla porta c’era un mucchio di caduti, alcuni che si dimenavano come la coda della lucertola prima di prendere la immobilità perpetua; il cannone mandava di tratto in tratto a quella volta una spruzzata di mitraglia, ma non c’era altra via da passare: o bere od affogare. Bisognava transitare di lì. Studiai il momento per la brutta traversata, mi slanciai; la sorte mi favorì e passai illeso quella tanto desiderata soglia. In quel momento, dal monte, gli Austriaci aprivano il fuoco di una batteria di cannoni contro la città.
Il flauto non aveva cessato un istante di suonare, ma dopo le poche parole che io aveva udite scambiare dai due crociati vicino a me, quell’aria mi faceva tutt’altro effetto di prima, e l’udiva con un senso d’inesplicabile compassione che riusciva a manifestarsi nel mio animo in quel trambusto di forti sensazioni eccitate dal combattimento. Avevo fatti pochi passi dentro Vicenza quando, dopo avere suonato:
Se divisi fummo in terra,
il flauto s’interruppe ad un tratto:
Ad onta che tanti gravi casi mi si svolgessero attorno, mi fermai ad ascoltare un buon minuto, ma non udii più nessun suono. Quel crociato che aveva parlato di Gigio, era entrato meco e si era fermato anch’esso all’interrompersi dell’arietta: non udendo più nulla, aggrottò le ciglia, impallidì, si guardò attorno, cercando probabilmente il compagno col quale aveva discorso poco prima, e lo scorse disteso morto sulla soglia della porta. Lo fissò qualche istante, poi si diresse correndo verso le case dalle quali si era udito il suon del flauto, ed io corsi alla caserma di S. Francesco d’onde si poteva tirare sul nemico che tentasse di prendere porta Lupia, e dove trovai già incominciato il fuoco, al quale presi parte finchè gli Austriaci cessarono di tirare. Andai di là a porta Padova, ove si combattè sino alle 10 pom. respingendo l’attacco del Thurn-Taxis, che pagò colla vita il suo tentativo per prendere quella porta; quindi stracco morto andai a dormire ospitato in casa del dott. Zamboni. L’indomani uscivamo di città cogli onori militari, con armi e bagaglio, e liberi di recarci a schiere, come eravamo, ove ci piacesse, ed unirci a chi combatteva gli Austriaci.
Giunti a Badia, parte dei crociati si diresse su Venezia, parte sopra Ferrara onde recarsi pei ducati in Lombardia; io era tra questi. Ad Occhiobello dovemmo far sosta, aspettando il permesso del Cardinale Legato di Ferrara per transitare il Po. Accostai all’osteria quel volontario che conosceva il misterioso Gigio, mi legai seco in grande dimestichezza, ed il giorno 13, mentre seduti sull’argine del Po aspettavamo il permesso di transito, gli chiesi:
– Chi era quel Gigio che suonava il flauto tanto placidamente mentre noi si combatteva?
– Gigio! poveretto! era mio cugino, e suonò quel dì per l’ultima volta la sua eterna canzone del
Tu che a Dio spiegasti l’ali.
Era un’anima bella; vuoi che ti racconti la sua storia?
– Non cerco altro dacchè ti conosco.
– Ti soddisfo subito.
II.
Non so se conosci quel libraio che è in fondo al Corso, vicino all’Isola, a sinistra, accanto alla casa di Palladio. Ha una botteguccia lunga e stretta, che apre un andito cieco, ed egli rassomiglia alla sua bottega per essere piccolo, sottile, mal tenuto e taciturno, come quella è angusta, oscura e polverosa. Quell’ometto burbero, chiuso, insaccato alla vecchia, che mostra assai più anni che non ha, è il sior Antonio Golpato, mio zio e babbo di Gigio. Questi invece sortì un’indole amorosa, disposta al conversare, all’espansione, alla luce e tenne tutto dalla madre, dicono quelli che la conobbero. Quand’egli ebbe compiuto colla quarta il corso elementare, fu posto dal padre in bottega, per servire la clientela degli scolari, e prepararsi a succedergli. Messo lì, il povero ragazzo che non conobbe mai la mamma, e che non sentì parlare il padre che di rado, per borbottare contro i tempi nuovi e contro la gioventù di adesso, trovatosi perso, e come un uccello in muta all’oscuro, cercò fra i vicini qualche amicizia. A destra c’era il ciabattino, attiguo a questi un arrotino, a sinistra un falegname ed un parrucchiere; provò i padroni ed i garzoni, ma non trovò tra quelli nessuno che gli convenisse; chi parlava del vino e chi delle serve, chi dei numeri del lotto e chi delle boccie. Egli avea altri gusti.
La bottega è detta libreria per tradizione, ma a tempo mio non ebbe smercio che di carta, penne, inchiostro, libri scolastici e libri da messa. In una scansia, in alto, tutt’all’ingiro, c’è però un vecchio fondo di libreria, con alcune edizioni del secolo scorso del Bertoldo, del Guerrin Meschino, di Robinson Crosuè, della Filotea, dei Reali di Francia, colle opere del Metastasio, più due o tre volumi del Filicaja, e del Frugoni, La Gerusalemme del Tasso, e la Vita di Napoleone.
Gigio cercò lassù un conforto ed un raggio di luce. Incominciò colla Storia di Napoleone, ma letta metà del primo volume, tutto quel guazzabuglio di stati generali, di Parlamento, di terzo stato, di imposte, di finanze, di Sieyès e di Turgot gli fecero riporre il primo accanto agli altri trentanove tomi dell’opera; egli non avea capito un’acca di tutta quella roba.
Aveva sedici anni.
I Reali di Francia gli convennero di più, e Buovo d’Antona, Fioravante, Lionello, Drusiana, Galleana, Berta cominciarono ad aprirgli la mente ad un mondo che rispondea, meglio di quanto lo circondava, alle propensioni dell’animo suo gentile. Lesse il Tasso, ed il Metastasio, con entusiasmo crescente, e per dirla in breve, in un inverno divorò tutti quei volumi di poesia e d’ascetica che coronavano gli scaffali della sua prigione, coltivando la sua natura, casta e generosa, di religione e di cavalleria, e mettendosi senz’accorgersene l’animo assai più alto che non fosse la sua condizione. In quell’inverno, si può dire che egli si portasse fuori della realtà in corpo e in anima, e perdesse di vista quanto lo circondava. Difatti serviva gli avventori in negozio quasi macchinalmente, non parlava, si può dire, con nessuno, era sempre intento alle sue letture e solo conversava volentieri meco la sera, perchè lo lasciavo dire dei suoi libri, e discorrere di quanto avea letto durante il giorno.
In primavera suo padre cominciò a lasciarlo in libertà per due o tre ore al dopo pranzo; egli allora pigliava seco un libro, e saliva i colli Berici leggendo, e guardando i campi. Quelle passeggiate gli faceano un gran bene; egli si sviluppava rigoglioso, come una pianta sovrabbondante di succhi, con tutte le appassionate ingenuità della più pura e casta adolescenza: tutta quella poesia di che s’era nutrito durante l’inverno, con una tinta d’ascetismo, gli ribolliva in cuore, traboccava. Egli sentiva la primavera della vita.
Un giorno suo padre gli diede un involto da portare al palazzo de’Scrovegno; consegnatolo al servo scendeva le scale, quando fu richiamato da una cameriera. La signora contessa lo voleva; seguì quella ragazza e fu introdotto in un salotto moderatamente rischiarato da un gran finestrone, riccamente addobbato di tende di broccato e di veli. Al primo affacciarsi egli non vide che quadri, tappezzerie istoriate, stipi d’ebano e d’avorio, ninnoli d’oro e d’argento, candelabri di bronzo, sedie che gli sembrarono tanti troni, ed in mezzo a tante ricche cose una vecchia signora che lo guardava con benevolenza.
– Fatti avanti, bel ragazzo, vien qua, gli disse la signora.
Egli fece tre o quattro passi e tornò a fermarsi.
– Dirai a tuo padre che si è scordato di mettere nella nota il libro da messa che ho comperato per la mia figlioccia. – Hai capito?
Gigio avea visto venire dal fondo del salotto la contessina Annetta, la più bella fanciulla di Vicenza, un vero portento di splendida bellezza e di tipo aristocratico, ed era rimasto a bocca aperta, senza respiro, colpito come da un’apparizione fantasmagorica, giacchè non aveva mai visto niente di simile, ed in un ambiente come quello di quel salotto. Egli non rispose, stando a guardare come un villano avrebbe guardato il Papa in pontificale.
– Che hai, ragazzo, non mi rispondi? disse sorridendo la contessa, accortasi dello stordimento del povero figliuolo.
Questi, fattosi rosso come una bragia, si affrettò a dire materialmente:
– Sissignora.
– Sissignora che cosa? Che ti ho detto?
– Mi ha detto di dire a papà che si è scordato di mettere sulla nota….
– Che cosa? di’ su.
Egli stette zitto, non avea capito più in là.
– Ah stordito, che non istai attento a quello che ti si dice.
La contessina allora si fece avanti in tutta la sua bellezza, ed uscendo dalla penombra che regnava in quasi tutto il salotto, avvicinandosi a lui venne a porsi dentro la luce diretta del finestrone; egli fece istintivamente un passo indietro, provava una specie di tremore, gli parea aver davanti, compendiate in una, tutte le regine e le principesse, e le gentildonne e le sante delle sue letture… Quella creatura straordinaria gli sorrideva benigna, ed accostatasi a lui al punto di fargli sentire il profumo de’ suoi capelli d’oro, gli diceva:
– Mamma ha detto che manca nella nota il libro da messa che regalò alla figlioccia. Ha capito?
– Sissignora, rispose a mezza voce, tirando il fiato con un sospiro tanto naturale ed ingenuo, che fece ridere mamma e figliuola.
– Va pure, ragazzo mio, gli disse la contessa, va.
Egli uscì all’indietro, inchinandosi come in chiesa, ed inciampando.
Quando fu in istrada si guardò attorno per racapezzarsi, perchè non sapea più dove si fosse; poi invece d’andare a bottega, andò a pigliar aria sotto i bei viali di Campo Marzo.
Da quel giorno tentò il possibile per rivedere la contessina Annetta. Riuscito a conoscere l’ora nella quale le signore Scrovegno si recavano a messa la domenica, un poco prima correva ad appostarsi sotto il voltone d’un palazzo, nascondendosi nel vano d’una porta laterale, dove aspettava ansioso che venisse a passare. In quel suo nascondiglio contava i secondi: eccola, ora viene….. era altra gente; – è qui adesso, è lei, – e la vedeva, come in una lanterna magica, passare altiera e gentile con lento passo, accanto alla mamma. Allora si tenea la mano sul petto, perchè il cuore gli batteva affannosamente, e talvolta, appena intravista la fanciulla, chiudeva gli occhi.
Lungo la via che conduce dal palazzo Scrovegno a Santa Corona, ove si recavano quelle signore, Gigio avea stabilito tre osservatorii di quel genere: appena passata la bella Annetta, davanti al primo portone, per altra via egli correva al secondo a provarvi le stesse ambascie ammirative di esaltata adorazione, e poi al terzo; quindi entrava in chiesa, collocandosi nella navata opposta a quella sotto la quale stavano le Scrovegno, ed assai lontano da loro. Egli era religiosissimo, ascoltava divotamente la messa, e di quando in quando guardando a traverso un brulichìo di teste, vedeva quella bellissima contessina inchinata in preghiera; egli era felice in quei momenti, benchè essa non si fosse mai accorta di lui.
Una mattina, impedito in casa, avea troppo tardato ad andare incontro alle signore, si recò quindi subito alla chiesa, credendo che vi fossero già; ma visto che non erano ancor giunte, uscì. Aperta la porta e scappato di chiesa coll’impeto di persona che ha fretta, si trovò sulla soglia in mezzo alla folla proprio faccia a faccia colla bella fanciulla; l’urtò anzi un pochino, e le loro vesti si toccarono, e i loro volti si sfiorarono. Cosa provasse in quel momento, egli stesso non seppe mai dirmi; vide la bella sorridere e poi non vide più nulla per qualche secondo. Quella mattina non fu tanto felice come l’altre; le preghiere gli si confondevano nella mente, gli veniva a tratti come voglia di piangere, e guardava sempre dalla parte ove stava quella creatura che signoreggiava l’animo suo. Verso il finire della messa, la vide volgersi dalla sua parte, ed egli si affrettò ad abbassare il capo, temendo d’essere da lei scoperto a guardarla; sicchè non seppe se l’avesse visto.
Dopo quella domenica gl’intervalli tra festa e festa gli parvero troppo lunghi e cominciò a gironzare intorno al palazzo nascostamente come una spia, nella speranza di vederla affacciata a qualche finestra; ma ciò gli avveniva di rado.
Una sera però tornò a casa come fuori di sè, passò tutta la notte a lume spento alla finestra della sua camera; la notte era scura, non c’era luna nè stelle, non avea nessuna bella vista davanti a sè, perchè quella finestra dava sopra un angusto cortiletto: era precisamente come se stesse affacciato in fondo ad un pozzo profondo, eppure era felice, tanto felice che non sapea più che fosse l’ora di dormire, nè che fosse notte, nè che i suoi sguardi si fissassero nelle tenebre.
Quella sera avea veduto più volte alla finestra la contessina, credendo come al solito di non esser veduto; ma nel momento d’andarsene, quando rivolgeva per l’ultima volta lo sguardo a quella finestra, la bella fanciulla s’era affacciata, gli avea sorriso, proprio a lui avea sorriso; ed anzi avrebbe giurato che gli avea fatto come un saluto col capo. La cosa gli sembrava impossibile, ma la mente gli presentava sempre davanti quella finestra, quel volto sorridente, quegli occhi che lo guardavano, e quel movimento di testa che corrisponde ad un tacito saluto.
Una sera una cameriera della contessina venne di nascosto a lui, e gli consegnò una bella rosa dicendogli:
– Prenda, sior Gigio, gliela manda la contessina, pregandolo di serbarla per amor suo.
La cameriera se n’era già andata che egli era ancora lì sul marciapiede, come Don Bartolo, colla rosa in mano. Nelle sere susseguenti fu salutato ancora due volte dalla finestra, e per lui non ci fu più dubbio che non fosse dessa.
In quei giorni pareva uno smemorato, suo padre avea sempre motivo di rimproverarlo per qualche sbadataggine; egli mangiava poco, dimagrava, era come in uno stato di beatitudine febbrile, pensava sempre a lei e se la vedea sempre davanti.
In carnevale una sera venne ancora a lui la cameriera e gli disse:
– Stanotte c’è festa da ballo al palazzo; la signorina è spiacentissima d’essere corteggiata da tanti vagheggini che non l’interessano punto, mentre non potrà vedere la sola persona che vorrebbe avere vicina. Vi prega di passeggiare sotto le finestre stanotte, onde possa vedervi di tanto in tanto; essa dice che sarà per lei una gran consolazione.
L’inverno quell’anno fu rigidissimo e quella notte delle più fredde, con un palmo di neve per terra. Egli però non mancò all’invito: appena s’accorse che suo padre avea preso sonno, piano piano, col cuore in sussulto, uscì quatto quatto di casa e fu a camminare sul marciapiede dirimpetto al palazzo Scrovegno. Sentiva la musica, vedea le finestre riboccanti di luce, e le ombre che si succedevano e sparivano alle vetrate. Di quando in quando gli parea che la sua divina contessina si affacciasse a guardare, ma il freddo gelava sulla faccia interna dei vetri l’alito dei danzatori, coprendo le lastre di bei fogliami cristallini, e di ricche palme, che toglievano la trasparenza al vetro, sicchè non poteva discernere nè volti nè fattezze. Egli non pertanto passò la notte sul marciapiede, pestando la neve, sentendo dapprima poco o nulla il freddo, ma con grande sofferenza a cominciare dalle quattro del mattino. Erano passate le sei ed egli trovavasi sempre allo stesso posto, fatto violetto dal freddo, ma beato: durante la notte, tre o quattro volte, ad un finestrino del pian terreno, s’erano aperte le imposte, ed egli vi avea visto sventolare un fazzoletto bianco. Sul far del giorno, ecco aprirsi tutto largo il gran balcone e la contessina affacciarsi coperta di ricca pelliccia con cappuccio; dietro di lei si mostrarono altre due signorine, la cameriera ed un giovinotto alto che diresse a Gigio queste crudeli parole:
– Dica, signor martuffo, mi saprebbe dire che tempo farà oggi?
La contessina scappò dentro dando in uno scoppio di risa, la cameriera e le altre signorine l’imitarono, e quel giovine signore si ritirò esso pure, dopo averlo salutato in questi termini:
– Buon passeggio, poetico sior Gigetto, la si diverta, noi andiamo a letto.
Il disgraziato restò di sasso per un momento, poi se n’andò a casa barcollando come un ubbriaco. Suo padre era già escito, come il solito, per recarsi ad ascoltare la prima messa, ma la vecchia serva che aveva allevato Gigio e l’amava come fosse suo, fu spaventata in vederlo tornare a casa, a quell’ora, pallido come un morto, coi diaccioli ai capelli ed alle sopracciglia, bersi d’un fiato una gran tazza d’acqua gelata, e ritirarsi in camera senza dirle una parola. La buona vecchia stette un po’ sopra pensiero, poi entrò, ma non riescì a fargli aprir bocca per quanto amore mettesse nell’interrogarlo. S’era già spogliato e coricato, gettando qua e là scarpe e vesti; stava supino colla faccia come sepolta nel guanciale, avea la testa che ardeva e fumava, mani e piedi gelati; la povera donna corse in cucina, ove avea l’acqua quasi bollente pel caffè, ne riempì una bottiglia che collocò ben tappata ai piedi di Gigio e s’affrettò a casa mia per avvertirmi di quanto succedeva.
III.
Quando giunse a me la vecchia, tutta trafelata, ero ancora a letto; mi vestii in fretta e furia, corsi da un medico e lo condussi a casa di Gigio, ove la serva mi avea preceduto. Gigio era in preda ad una febbre delle più cocenti, il medico gli fece un abbondante salasso, e poi se ne andò promettendo di tornare due ore dopo, come difatti tornò: io rimasi al capezzale.
La malattia durò quasi un mese, poi, guarito a forza di salassi, trovavasi tanto estenuato che metteva spavento; mangiava pochissimo e per nutrirlo si dovette ricorrere a brodi ristretti d’una singolare densità.
Egli avea nascosto con tanta cura tutti i suoi maneggi d’innamorato, che nessuno ne sapea nulla, mentre poi a nessuno sarebbe caduto in mente che quel povero ragazzo, così modesto, di santi costumi, d’umile condizione, e che vestiva goffamente, potesse essersi innamorato, e creduto corrisposto dalla contessina Annetta Scrovegno. Il dottore m’avea detto:
– Cercate di scoprire qualche cosa; questo ragazzo ha una malattia morale, e deve aver avuto un grandissimo dispiacere.
Mi provai in cento modi ad interrogarlo: dapprima resistette, ma alla fine mi raccontò tutto. Non è a dire s’io facessi ogni sforzo per consolarlo, egli pure si adoperava a vincere la propria tristezza e si faceva violenza per mangiare; ma, tant’è, la guarigione progrediva lentamente, e non uscì di casa che dopo tre mesi di malattia.
Durante la convalescenza la contessina Annetta, che era promessa sposa al giovine conte Participazio di Venezia, quello stesso che aveva deriso dal balcone il povero Gigio, fu colta dalla miliare, malattia che allora infieriva, e superò la crisi di quel male; ma quando tutti la credevano fuori di pericolo, ricadde, collo sviluppo di altra malattia più grave.
Gigio nelle sue passeggiate poco a poco, non dirò riacquistando salute, ma un po’ di forza, si dirigeva volentieri verso il palazzo Scrovegno, fermandosi a chiacchierare da un pasticciere che abitava quasi dirimpetto.
– Gigio, tu torni a sconvolgerti la testa, non andare da quella parte; la sola vista di quei luoghi ti rinnova i dispiaceri passati.
– No, sai, non ti dirò che non ci penso più, ma sento che tutto il mio amore è svanito, e mi compiaccio a provarlo a me stesso, col riconoscere appunto che la vista di quel palazzo non mi fa nessun effetto.
Era giunto il momento del raccolto dei bozzoli, ed io che assistevo mio padre commissionario per filatori di seta, avea poco o nessun tempo da dedicare all’amico. Mi consolai però vedendolo rimettersi un poco; mangiava, beveva, era taciturno ed irrequieto, ma s’era rinforzato assai di gambe, e resisteva a delle lunghe passeggiate a Campo Marzo, senza accusare stanchezza. Dissimulava tanto bene il cuor suo, che io accolsi le più belle speranze.
La malattia della contessina s’aggravò al punto da mettere in forse la sua vita. Io volli vedere Gigio e corsi alla sua bottega; mi parve più rosso del solito, un po’ più smunto e cogli occhi più brillanti: mi parlò di cento cose diverse con una disinvoltura forzata. Che fare! Appena toccatogli il tasto della bella Annetta, cambiò colore, ma pretese che non pensava più a lei che ad altra persona, affermandomi d’essere perfettamente guarito; io però tornai al mio studio, ove avea molto da fare, coll’animo addolorato, e pieno d’apprensione.
Due giorni dopo l’ammalata era agli estremi. Sentii che si stava per recarle il viatico; lasciai lo studio e corsi verso il palazzo, certo d’incontrarvi mio cugino, ma non c’era. Lo cercavo invano cogli occhi, ma quando la processione guidata dal chierico che suonava il campanello voltò l’angolo, m’accorsi che teneva dietro al prete portando il lampione astato; mi levai il cappello, entrai nel palazzo cogli altri, e cercai di condur via quel poveretto che mi pareva in preda ad una esaltazione nervosa, ma egli non mi vedeva nemmeno. Montai le scale anch’io, ed unitomi a quelli che penetrarono nella camera dell’ammalata, mi inginocchiai accanto a mio cugino. La contessina giaceva in un ricco letto tutto a coltri di seta, sotto un padiglione di sciamito a fiori, colla parte superiore del corpo sostenuta da un monte di cuscini; era molto emaciata, avea i capelli biondi raccolti in una reticella e pareva uno di quegli angeli magri magri, che si vedono in certe pitture antiche. Dall’altra parte del letto c’era sua madre e la cameriera; nella stanza i servi inginocchiati, e le donne di servizio. Ricevette l’eucarestia con divozione, poi volse gli occhi agli astanti, e vide Gigio.
Forse all’aspetto di quel bellissimo giovinetto consunto dall’amore che le portava, e che mostrava sul volto le traccie di fuoco d’una febbre inestinguibile, l’animo suo si vergognò della turpe canzonatura colla quale l’avea deriso; forse lì, in punto di morte, le si rivelò il senso dell’eguaglianza umana, ed indovinò tutta la poesia che aveva elevato fino a lei l’animo gentile di quel povero mercantuccio; forse, incontrando lo sguardo pieno di venerazione, d’affetto, d’elevatezza del poveretto che pregava appiè del letto per la sua salute, un sentimento nuovo si risvegliava nell’animo suo. Comunque fosse, essa arrossì leggermente, lo guardò un poco, gli sorrise, ma questa volta davvero, con un sorriso sincero, cordiale, intenerito, e lasciò cadere la bella testa sul cuscino. Guardai Gigio, e mi parve trasfigurato, una lagrima gli tremolava nello sguardo, ed un’aura di contentezza e di consolazione gli rasserenava il volto infiammato; io piangevo come un bambino, ma non fui notato, perocchè molti piangessero in quel momento la prevista morte della bella contessina.
Usciti di là, Gigio si trattenne in chiesa ad orare per un pezzo, ed io dovetti lasciarlo per non irritare di troppo mio padre, mancando allo studio.
L’indomani mattina andai a casa di mio cugino assai per tempo. Avevano cambiato dimora, ed erano andati a stare verso le mura di Porta Lupia. Lo trovai in piedi, il letto non era stato tocco, egli stava alla finestra ed era raggiante di contentezza. Mi corse incontro tutto allegro, e mi disse:
– Sai? è stata qui poco fa.
– Chi?
– Annetta! Chi altri dunque?
– Come! Annetta è stata qui? Ho sentito, è vero, che da iersera sta molto meglio, ma è impossibile che sia stata qui.
– Eppure c’è stata; appena morta è venuta da me.
Un dubbio orribile mi nacque nell’animo, guardai Gigio, aveva lo sguardo fisso, gli occhi infossati, ed un’espressione di volto singolare. Gli presi le mani e gli dissi:
– Senti, Gigio, non t’esaltare, la contessina Annetta sta un po’ meglio, e da mezzanotte in poi è andata sempre migliorando; il dottore anzi la ritiene definitivamente fuori pericolo.
– Che bestia! Credi ai dottori tu; io ti dico che è bell’e morta, e che è venuta qui da me, poco fa, tutta vestita di bianco, coi suoi bei capelli biondi disciolti che le cadevano sino a terra; è entrata nella mia stanza senza farsi aprire, mi ha detto: «Povero Gigio, hai sofferto tanto, ora non soffrirai più. Vedi, quaggiù non ci potevamo fidanzare, io era una grandissima signora, tu un povero mercantello da nulla; io parto, vado avanti, ti vado ad aspettare, e presto saremo fidanzati, sei contento?» Io me le inginocchiai ai piedi tremando, essa s’inchinò, e mi baciò sulla fronte, e sugli occhi; i suoi capelli si riversarono sopra di me e mi coprirono tutto il corpo, come di un velo d’oro, poi se ne andò, com’era venuta, senz’aprir la porta.
Egli diceva queste cose come se avesse detto che faceva bel tempo, o che i bei colli che si vedevano dalla finestra erano verdeggianti.
– Però, soggiunse cangiando tono e maniere, ho dette queste cose a te che mi sei amico, ed hai un bel cuore; non le ridirai a nessuno, – e, conchiuse alzando la mano con tono enfatico:
Non gettar la margherita
Sotto il grugno del maial.
Quindi con fare del tutto disinvolto, soggiunse:
– Ma io mi perdo in ciancie, si fa tardi, bisogna che vada ad aprire il negozio.
Io era diventato come uno stupido. Per via egli non diede più nessun segno di dissennatezza: giunto alla bottega l’aprì, e servì i primi che si presentarono, come avrei potuto farlo io stesso.
Un mese dopo, giorno per giorno, comperò una quantità di fiori, e li portò al sepolcro della famiglia Scrovegno, e così fece tutti i mesi, sempre alla stessa data.
Era pazzo? od avea la sola idea fissa della morte della contessina? Non saprei dirlo; io lo condussi un giorno ad una passeggiata di Campo Marzo, ove la contessina, che era perfettamente ristabilita, c’era, e gliela mostrai. La guardò con indifferenza come guardava le altre donne.
– Eccola, vedi che è viva: è lei sì o no?
– No, mi rispose, e si mise a zufolare l’aria della Lucia.
La vide più volte da sè; anzi si potrebbe dubitare che la contessina, venuta a cognizione del tristo caso, per la notizia dei fiori portati al sepolcro della sua famiglia, siasi mostrata a lui deliberatamente, essendo una volta, cosa non mai avvenuta prima, entrata in persona nella botteguccia del Golpato a comperarvi un libro di divozione, ma egli la trattò come trattava ormai tutti gli avventori, e come trattava anche me e suo padre: a monosillabi, lasciando cadere tutte le interrogazioni complicate. Egli dimagrava tutti i giorni, disseccando al punto da ridursi alle apparenze d’uno scheletro, benchè mangiasse sempre di buon appetito. Sapeva un po’ suonare di flauto, e tutte le mattine appena alzato, e tutte le sere appena entrato in camera, suonava ripetutamente l’aria:
Tu che a Dio spiegasti l’ali.
Il giorno della battaglia rimase a casa tutto il dì, e non fece che suonare la stessa aria. Una delle prime cannonate tirate dagli austriaci sulla città, colpì lo stipite della sua finestra e glielo gettò contro, cogliendolo al petto. Egli rimase morto sul colpo, ed io che corsi a lui, sospettando questa disgrazia, per aver sentito cessare la canzone prima che fosse terminata, lo trovai cadavere. Sopra il tavolino c’era un astuccio con dentro una rosa disseccata.
– E la contessina?
– La contessina, il giorno dopo ricevuto il viatico, pregò sua madre che le cangiasse la cameriera, ebbe una lunga convalescenza, seppe dei fiori che tutti i mesi il povero Gigio recava ove egli la credea sepolta, ed ogni mese volle un mazzo di quei fiori; una sua amica glieli faceva tenere mandandoglieli come suoi.
Guarita, dichiarò che non voleva ancora andar a marito; tutte le istanze dei parenti e del fidanzato conte Participazio non valsero a piegarla a diverso consiglio, e da allegra e spensierata che era, divenne melanconica e seria in modo singolare.
Qui finì il racconto del cugino.
Nel 1866 io tornai a Schio dopo diciott’anni di emigrazione. Invitato nel 1867 dai reduci delle patrie battaglie di Vicenza alla cerimonia funebre pei morti del 9 giugno 1848, notai in chiesa una bellissima signora a bruno. Recatomi in altra occasione a Vicenza, ed andato al cimitero, vidi la stessa signora uscirne ed andarsene in carrozza. Chiesi di lei al guardiano.
– Quella, mi disse, è la contessina Annetta Scrovegno, la mamma dei poverelli, una signora che ha rifiutato i più bei partiti. Mi ricordai allora del povero Gigio, e domandai discretamente al guardiano dei morti cosa fosse venuta a fare al cimitero la contessina.
– Le è forse morta la madre?
– La madre sua è morta da dieci anni, ma essa veniva anche prima a visitare ed infiorare quella sepoltura che può distinguere anche da qui, per la bellezza delle piante che la circondano.
Andai a vedere la sepoltura indicata. Vi si leggeva:
QUI GIACE
LUIGI GOLPATO
UCCISO A 18 ANNI DA UNA BOMBA
NEL 9 GIUGNO 1848
PACE ALL’ANIMA SUA
CHE FU POCO LIETA
IN VITA.
Il sepolcro aveva il giardinetto più fiorito e meglio tenuto; ci si vedea la cura di un’affezione sempre viva: era proprio, mi si passi la parola, la tomba più tiepida del cimitero. La sera rividi alla passeggiata la bella contessina in carrozza e mi uscì di bocca istintivamente il verso di Dante:
Amor che a nullo amato amar perdona.