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Salvator Rosa, La poesia, satira, /head>

Salvator Rosa

La poesia

Satira

Edizione di riferimento:

Satire e vita di Salvator Rosa con note di d'Anton Maria Salvini e d'altri Firenze Dai torchi di Attilio Tofani, con superior permesso, 1833

Le colonne spezzate, e i rotti marmi,

là tra i platani suoi divelti, e scossi

Fronton rimira all’echeggiar de’ carmi.                   3

Che da furore ascreo spinti, e commossi

s’odon ognor tanti poeti, e tanti,

che manco gente in Maratona armossi.                    6

Suonan per tutto le ribecche, e i canti,

e si vedon sol d’acque inebriati

i seguaci d’Apollo andar baccanti.                           9

Quei narra d’Eolo i prigionieri alati;

di Vulcano e di Marte antri, e foreste,

e dal giudice inferno i rei dannati.                           12

Questi in mezzo agl’incanti, e alle tempeste

canta i velli rapiti; altri descrive

di Teseo i fatti, e le pazzie d’oreste;                         15

La togate, e palliate argive

altri specola, e detta, e sempre astratto

affettate elegie compone, e scrive.                            18

Maggior poeta è chi più ha del matto;

tutti cantano omai le cose intese;

tutti di novità son privi affatto.                                 21

In tali accenti alte querele espresse

quel che nato in Aquino, i propri allori

nel suol d’Aurunca a coltivar si messe.                   24

Così di Pindo i violati onori

sferzar ne’ colli suoi sentì già Roma

del flagello maggior de’ prischi errori.                    27

Ed oggi il tosco mio guasto idioma

non avrà il suo Lucilio; oggi ch’ascende

ciascuno in Dirce a coronar la chioma?                    30

Non irrita il mio sdegno, e non mi offende

sola viltà di stile; a mille accuse

più possente cagione il cor m’accende.                   33

Troppo al secolo mio si son diffuse

le colpe de’ poeti; arse, e cadeo

la pianta virginal sacra alle muse.                            36

Tacer dunque non vuò, Nume Grineo,

tu mi detta la voce, e tu m’inspira

d’Archiloco il furore, e di Tirteo.                              39

Reggi la destra tu. Tolto alla lira

spinge dardo teban nervo canoro,

or che dai vizi altrui fomento ha l’ira.                      42

Conosco ben, che a saettar costoro

incurvar si dovria corno cidonio;

che lento esce lo stral d’arco sonoro.                        45

Credon questi trattar plettro bistonio:

né d’Eumolpo giammai cotanto odioso

il lapidato stil finse Petronio.                                    48

No, che tacer non vuo’: ma poi dubbioso

d’onde io muova il parlar rimango in forse,

tanto ho da dir, che incominciar non oso.               51

Sono l’infamie lor così trascorse,

che s’io ne vo’ cantar, le voci estreme

son dal silenzio in sull’uscir precorse.                    54

Offre alla mente mia ristretto insieme

un indistinto Caos vizi infiniti,

e di mille pazzie confuso il seme.                            57

Quindi i traslati, e i paralleli arditi:

le parole ampollose, e i detti oscuri,

di grandezze, e decoro i sensi usciti.                       60

Quindi i concetti o mal espressi, o duri,

con il capo di bestia il busto umano,

della lingua stroppiata i motti impuri.                    63

Dell’iperbol qui l’abuso insano,

colà gl’inverosimil scoperti,

lo stil per tutto effeminato, e vano:                          66

il delfin nelle selve, e nei deserti,

ed il cignal nel mare, e dentro ai fiumi;

gli affetti vili, e i latrocinj aperti.                              69

Prive di nobiltà, prive di lumi;

l’adulazioni, e le lascivie enormi,

l’empietà varso Iddio, verso i costumi.                   72

Di tante, e tante iniquità deformi

provo acceso e confuso, e sprone e freno;

sofferenza irritata a che più dormi?                         75

Non vedi tu, che tutto il mondo è pieno

di questa razza inutile, e molesta,

che i poeti produr sembra il terreno?                      78

Per Dio, poeti, io vo’ sonare a festa,

me non lusinga ambizion di gloria:

violenza moral mi sprona, e desta.                          81

Di passar per poeta io non ho boria;

vada in Cirra chi vuol, nulla mi preme

che sia scritta colà la mia memoria.                          84

Oh, che dolce follia di teste sceme!

sul più fallito, e sterile mestero

fondare il patrimonio della speme!                          87

Sopra un verso sudar l’alma e il pensiero,

acciò che sia con numero costrutto,

se ogni sostanza poi termina in zero.                       90

Fiori, e frondi che val sparger per tutto;

se al fin si vede degli autunni al giro,

che di Parnaso il fior non fa mai frutto?                  93

Con lusinghiero, e placido deliro

va il poeta spogliando Ermo, e Coaspe,

Sperchio, Bermio, Pettorsi, ormus e Tiro,               96

saccheggia il Tago, e sviscera l’idaspe,

e non si trova un soldo al far de’ conti

tra le Partiche gemme, e l’Arimaspe.                       99

Poeti, è ver che Apollo abita i monti;

ma questo non vuol dir che voi speriate

d’averci a posseder luoghi di monti.                           102

Ché possibil non è che voi troviate

tra quanti colli a Clavio il tempo eresse

i monti di San Spirto o di pietate.                                105

Io non so dove fondiate la messe,

s’altro seme non lo dà Clizio Dio,

che raccolta d’applausi, e di promesse.                   108

Superate la fame, e poi l’oblio;

che voi non manderete il grano a frangere,

se non prendete Cerere per Clio.                              111

Il vostro stato è troppo da compiangere,

mentre v’scolta ognun cigni dispersi

cantar per gloria, e per miseria piangere.               114

A che star tutto lì tra lettre immersi?

Noto è alle genti anco idiote, e basse,

che non si fan lettre di cambio in versi.                   117

Giove io non leggo, cge sapienza amasse,

che quando il mondo ancor vagiva in culla

avea Minerva in capo, e se la trasse.                        120

Quest’applauso, che voi tanto trastulla,

dolc’è per chi vivendo, e l’ode, e il vede,

ma dopo morte non si sente nulla.                           123

È più dotto oggidì chi più possiede;

scienza senza denar cosa è da sciocchi,

e sudor di virtù non ha mercede.                             126

Per aver fama basta aver bajocchi;

che l’immortalità si stima un sogno;

son galli i ricchi, e i letterati allocchi.                       129

Quanto adesso vi dico io non trasogno;

da Pindo all’ospedal facil’è il varco;

poichè il saper è padre del bisogno.                        132

Gettate a terra la viola e l’arco,

che in quest’età d’ignorantoni, e Mimi

già s’adempì la profezia d’Ipparco.                         135

Presi già sono i luoghi più sublimi;

ed il proverbio pubblico risuona:

in ogni arte, e mestier beati i primi.                         138

Cangiato è il mondo, oh quanti ne minchiona

la foja della guerra, e della stampa,

la pania della Corte e d’Elicona!                               141

Sfortunato colui, che l’orme stampa

ne’ lidi di Libetro avidi e scarsi,

che vi stal mal per sempre, o non vi campa.           144

Torna il conto, o fratelli a spoetarsi:

cantan sino i ragazzi a bocca piena.

Che il poeta è il primiero a declinarsi.                    147

Con più d’un guidalesco in sulla schiena

ai nostri dì l’Aganippeo polledro

tanto smagrito è più, quant’ha più vena.                150

L’opere a partorir degne di cedro

vi conducon le stelle in qualche stalla,

perché un Cavallo è a voi Duce, e Sinedro.            153

Chi veglia sulle carte, oh quanto falla!

Che a lottar con fortuna in questi giorni

esser unto non val d’umor di Palla.                         156

Nè di Febo il calor riscalda i forni:

e se chiacchiere avete con la pala,

non s’empion d’Amaltea con queste i corni.           159

Il rimedio a non far vita sì mala

è ben dover, ch’oggi vi mostri, insegni

la formica imitar, non la cicala.                                 162

Non v’accorgete omai da tanti segni,

che nell’inferno della povertade

sono l’alme dannate i bell’ingegni?                          165

Chi di voi può mostrarmi una cittade,

ove una Musa sia grassa, e gradita,

se chiuse son le generose strade?                             168

Imparate qualch’arte, onde la vita

tragga il pan quotidiano, e poi cantate

quanto vi par La Bella Margherita.                          171

Passa la gioventude, e l’ore andate

la vecchiezza mendica di sostanza

bestemmia poi de la perduta etate.                          174

Il motto è noto, e cognito abbastanza.

A chi la povertà fitt’ha nell’ossa

refrigerante impiastro è la speranza.                       177

Non aspettate l’ultima percossa;

non fate più da sericani vermi

che stolti da per lor si fan a fossa.                             180

Appetir quel che offende uso è da infermi;

contro al vostro bisogno, al vostro male

il saper di saper son frali schermi.                           183

Ma volete un esempio naturale,

che la vostra sciocchezza esprima al vivo,

e rappresenti il vostro umor bestiale?                     186

Era volato un dì tutto giulivo

con un pezzo di cacio parmigiano

un corvo in cima ad un antico olivo.                        189

La volpe il vide, e s’accostò pian piano,

per farlo rimanere un bel somaro,

se il cacio gli potea cavar di mano.                          192

Ma perché tra di lor eran del paro

scaltri e furfanti, e come dir si suole,

era tra galeotto, e marinaro;                                       195

ella, che scorso avea tutte le scuole,

ed era masvigliacca in quintessenza,

cominciò verso lui con tai parole:                            198

gran maestra è di noi l’esperienza;

ella ci guida in questa bassa riva,

madre di veritade e di prudenza.                             201

Quando da un certo io predicar sentiva,

che la fama ha due facce, ed è fallace,

a maligna bugia l’attribuiva.                                     204

Ma ora l’occhio è testimon verace

di quanto udì l’orecchio, e ben conosco,

che questa fama è un animal mendace.                   207

Già, perché si dicea, che nero, e fosco

eri più della pece, e del carbone,

mi ti fingea spazzacamin di bosco.                          210

Ma quanto è falsa l’immaginazione;

tu sei più bianco che non è la neve,

e, pazza, io ti stimava un calabrone.                        213

Troppo gran danno la virtù riceve

da questa fama infame, e scellerata,

sempre bugiarda, appassionata, e leve.                  216

Perde teco, per Dio, la saponata:

tu sembri giusto tra coteste fronde,

tra le foglie di fico una giuncata;                              219

e se al candor la voce corrisponde,

ne incaco quanti cigni alzano il grido

là del Cefiso alle famose sponde.                             222

Se tu cantar sapessi, io me la rido

di quanti uccelli ha il mondo: eh! che tu sai

che in un bel corpo una bell’alma ha il nido.         225

Così disse la furba, e disse assai,

che il corvo d’ambizion gonfiato, e pregno

credè saper quel che non seppe mai.                       228

E per mostrar del canto il bell’ingegno

si compose, si scosse, e il fiato prese,

e a cantar cominciò sopra quel legno.                      231

Ma mentre egli stordia tutto il paese

col solito crà, crà, dal rostro aperto

cascò il formaggio, e la comar lo prese.                   234

Onde per farla da cantor esperto

si trovò digiun, come quel cane,

che lasciò il certo per segui l’incerto.                       237

Così di Pindo voi, musiche rane,

lasciate il proprio per l’appellativo,

e per voler gracchiar perdete il pane.                      240

Chè in vece d’un mestier fertile, e vivo,

dietro alla morta e steril Poesia

imparate a cantar sempre il passivo.                       243

E tal possesso ha in voi quest’eresia,

che per un po’ d’applauso ebri correte

a discoprir la vostra frenesia.                                    246

Balordi senza senno che voi siete!

Mentre andate morendo dalla fame,

d’immortalarvi vi persuadete.                                  249

E siete cisì grossi di legname,

che non udite ognun muoversi a riso

in sentirvi lodar le vostre dame.                               252

Stelle gli occhi, arco il ciglio, e cielo il viso,

tuoni, e fulmini i detti, e lampi i guardi,

bocca mista d’Inferno e Paradiso.                             255

Dir, che i sospiri son bombe e petardi,

pioggia d’oro i capei, fucina il petto,

ove il magnano amor temper i dardi;                      258

ed ho visto, e sentito in un sonetto

dir d’una donna, cui puzzava il fiato,

arca d’arabi odor, muschio e zibetto.                       261

Le metafore il sole han consumato,

e convertito in baccalà Nettuno

fu nomato da un certo il Dio salato.                            264

Fin la Croce di Dio fu da taluno

chiamata Legno Santo: e pur costoro

sfidan l’Autor dell’Itaco Nessuno.                              267

E dell’amata sua, con qual decoro,

i pidocchi colui cantando disse

sembran fere d’argento in campo d’oro.                  270

E chi vuol creder ch’un ingegno uscisse,

dai gangheri sì fuora, e bagattelle

tanto arroganti di stampare ardisse?                        273

Le nostre alme trattar bestie da selle:

mentre lor serba il Ciel da’ corpi sgombre

biada d’eternità, stalla di stelle.                                276

E in pensarlo il pensier vien che s’adombre,

fare il sol divenir boia che tagli

colla scure de’ raggi il collo all’ombre.                    279

Ma chi di tante bestie da sonagli

legger può le pazzie, se i lor libracci

delle risa d’ognun sono i bersagli?                          282

Che da certi eruditi animalacci

giornalmente alle tenebre si danno

mille strambotti, e mille scartafacci:                         285

e tale stima di sè stessi fanno,

e di tanta albagia vanno imbevuti,

ch’è molto mel della vergogna il danno.                 288

Che per parer filosofi e saputo,

se ne van per le strade unti e bisunti

stracciati, sciatti, succidi, e barbuti:                          291

con chiome rabbuffate, ed occhi smunti,

con scarpe tacconate, e collar storto,

ricamati di zaccare e trapunti.                                   294

Cada il giorno all’Occaso e sorga all’Orto,

sempre cogitabondi, e sempre astratti

hanno un color d’itterico, e di morto.                      297

Discorron tra se stessi come matti,

facendo con la faccia, e con le mani

mille smorfie ridicole, e mille atti.                           300

Per certi luoghi inusitati, e strani

si mordon l’ugne, e col greattarsi il capo

pensano ai Mammalucchi, e agl’Indiani,                 303

e incerti di formar scanno o Priapo

con la rozza materia, che hanno in testa,

di pensiero in pensier si fan da capo;                      306

con la mente impregnata, ed indigesta

senza aver fine alcuno, e senza scopo,

van borbottando in quella parte, e in questa.         309

Han di fantasmi un embrione e dopo

d’aver pensato, e ripensato un pezzo,

partoriscono i monti, e nasce un topo.                     312

Che quando credi udir cose di prezzo,

e stai con una grande aspettazione,

gli senti dare in fraschiere da sezzo.                        315

La fava con le mele, e col melone,

la ricotta coi ghiozzi, e colla zucca,

l’anguilla col savore, e col cardone.                         318

Bovo d’Antona, Drusiana, e Cuccia

son le materie, onde l’altrui palpebre

ogni Scrittore infastidisce, e stucca;                          321

anzi dal mal francese, e dalla febre,

e dall’istessa peste insin procacciano

ai nomi, all’opre lor vita celebre.                              324

Questi son quei che a dissetar si cacciano

le labbra in mezzo al Caballin Condotto,

quasti i poeti son, che se l’allacciano.                      327

Oh Febo, oh Febo, e dove sei condotto?

Questi gli studii son d’un grande cervello?

Sono questi i pensier d’un capo dotto?                   330

Lodar le mosche, i grilli, e il ravanello,

ed altre scioccherie, ch’hanno composto

il Berni, il Mauro, il Lasca, ed il Burchiello.           333

Per sublimi materie hanno disposto,

dietro a Bion, Pittagora, ed Anatemio

lodar le rape, le cipolle, e il mosto.                          336

In ogni frontispizio, ogni proemio

più di Clitorio han lodi le cantine;

che a un poeta è peccato esser abstemio:                339

e le penne più illustri, e pellegrine

van lodando i caratteri golosi,

con Eufrone il tinello e le cucine.                             342

Quindi è, che i nomi lor sono gli Oziosi

gli Addormentati, i Rozzi, e gli Umoristi,

gl’Insensati, i Fantastici, e gli Ombrosi.                   345

Quindi è, che dove appena eran già visti

nelle Accademie i lauri, e ne’ licei,

gli osti oggidì ne son provvisti.                                348

Ite a dolervi poi, moderni Orfei,

che per i vostri affanni è già finita,

la razza degli Augusti, e de’ Pompei.                      351

È che dalle Reggie era sbandita

la mendica virtù; ma i vostri modi,

hanno già la Poesia guasta, e avvilita.                     354

E le vostre invenzioni, e gli episodi

son degne di taverne e lupanari:

e voi ne prenderete i premii e le lodi?                     357

Altro ci vuol per farsi illustri e chiari,

che straccar tutto il dì Bembi, e Boccacci,

e Fabbriche del Mondo, e Dizionarj.                        360

De’ vostri studj i gloriosi impacci.

L’occupazione de’ vostri ingegni aguzzi

fecondi han solo da schiccherar versacci.                363

Stirar con le tenaglie i concettuzzi,

attacconar le rime con la cera,

ad ogni accento far gli equivocuzzi:                        366

aver dei grilli in capo una miniera,

far contrapposti ad ogni paroluccia,

e scrivere e stampar ogni chimera.                           369

Dentro ai vostri versi oltre la buccia

legge giammai, più d’un la trova tale,

bisognosa d’impiastro, e delle gruccia.                   372

E creder di lasciar nome immortale,

con portar frasche in Pindo, e unitamente

fare il somaro, il mulo, e il vetturale?                      375

Chi cerca di piacer solo al presente,

non creda mai d’aver a far soggiorno

in mano ai dotti, e alla futura gente.                        378

Anzi avrà culla, e tomba in un sol giorno:

chi stampa avverta, che all’oblio non sono

né barche, né cavalli da ritorno.                                381

Componimento c’è che al primo suono

letto da chi lo fece, fa schiamazzo;

che sotto gli occhi poi non è più buono.                 384

Eppur il mondo è sì balordo e pazzo,

e fatto gli occhi tanto ignorantoni,

chi non scerne dal rosso il paonazzo.                      387

Applaude ai Bavj, ai Mevj arciasinoni,

che non avendo letto altro che Dante,

voglion far sopra i Tassi i Salomoni.                        390

E con censura sciocca, ed arrogante

al poema immortal del gran Torquato

di contrapporre ardiscono il Morgante.                  393

Oh troppo ardito stuol, mal consigliato!

che un ottuso cervel voglia trafiggere

chi men degli altri in poetare ha errato!                  396

Non t’incruscar tant’oltre, o non t’affliggere

de’ carmi altrui, che il tuo latrar non muove:

se Infarinato sei vatti a far friggere                            399

Son degli scarafaggi usate prove

d’aquila i parti ad invidiar rivolti,

il portar gli escrementi in grembo a Giove.            402

Anco alla prisca età furono molti,

che posposer l’Eneide ai versi d’Ennio:

secol non fu mai privo di stolti.                                405

Torno, o poeti, a voi: dentro un biennio,

benché avvezzo con Verre, i furti vostri

non conterebbe il Correttor d’Erennio.                    408

Oh vergogna, oh rossor de’ tempi nostri!

I sughi espressi dall’altrui fatiche

servono oggi di balsami, e d’inchiostri.                  411

Credonsi di celar queste formiche,

ch’han per Febo, e per Clio, seggio, e caverna

il gran rubato alle caverne antiche:                          414

e senza adoperar staccio, o lanterna

si distingue con breve osservazione,

la farina ch’è vecchia e la moderna.                          417

Raro è quel libro, che non sia un centone

di cose a questo e quel tolte e rapite

sotto il pretesto dell’imitazione.                                  420

Aristofano, Orazio, ove siete ite

anime grandi? Ah per pietate, un poco

fuor de’ sepolcri in questa luce uscite.                    423

Oh con quanta ragion vi chiamo, e invoco

che se oggi i furti recitar volessi,

Aristofano mio, verresti roco.                                    427

Orazio, e tu se questi Autor leggessi,

oh come grideresti: Or sì che ai panno

gli stracci illustri son cuciti spessi.                           430

Che non badando al variar degli anni,

colla porpora Greca, e la Latina,

fanno vestiti da secondi Zanni                                  433

gl’Imitator in quest’età meschina,

che battezzasti già Pecore serve,

chiameresti uccellacci di rapina.                               436

Delle cose già dette ognun si serve;

non già per imitarle, ma di peso

le trascrivon per sue, penne proterve.                     439

E questa gente a travestirsi ha preso,

perché ne’ propri cenci ella s’avvede,

che in Pindo le saria l’andar conteso.                       442

Per vivere immortal dansi alle prede,

senza pena temer gl’ingegni accorti;

che per vivere il furto si concede.                             447

Né senza questo ancora han tutti i torti:

né s’apprezzano i vivi, e non si citano,

e passan solo le autorità dei morti.                          450

E se citati son, gli scherni irritano,

né s’han per penne dgne, e teste gravi

quei, che su i Testi vecchi non s’aitano.                   458

Povero Mondo mio, sono tuoi bravi

chi svaligia il compagno, e chi produce

le sentenze furate ai padri, agli avi:                         461

e nelle stampe sol vive, e riluce

chi senza discrezion truffa, e rubacchia,

e chi le carte altrui spoglia, e traduce.                     464

Quindi taluno insuperbisce, e gracchia,

che, s’avesse a depor le penne altrui,

resterebbe d’Esopo la cornacchia.                            468

Stampansi i versi, e non si sa da cui;

e sebbene alla moda ogn’un li guarda,

si rinfaccian tra lor: Tu fosti: Io fui.                          471

Per i moderni la fama è infingarda,

per gli antichi non ha stanchezza alcuna;

ogni accento, ogni peto è una bombarda.               474

La Fama è in somma un colpo di fortuna:

Burchiello, e Jacopone hanno il commento,

cotanto il mondo è regolato a luna:                          477

e sono ognor cento bestiacce, e cento,

che sol ne’ libri altrui dall’anticaglia

del saper, del valor fanno argomento.                     480

Ama questa vanissima canaglia

i rancidumi; e in Pindo mai non beve,

se di vieto non sa l’onda castaglia.                           483

Nessuno stile è ponderoso e greve,

se tarlate e stantie non ha le forme,

e gli dan vita momentanea e leve.                            486

Non biasmo già, che per esempi, e norme

prendi il Lazio, e la Grecia; anch’io divoto

le lor memorie adoro, e bacio l’orme.                      489

Dico di quei, che sol di fango e loto,

usan certi modacci alla dantesca,

e speran di fuggir la man di Cloto.                          492

Di barbarie servile e pedantesca

di lo Poesia cotanto è carca,

ch’è assai più dolce una canzon tedesca.                495

Ma qui il mio ciglio molto più s’inarca:

non è con loro alcuna voce etrusca,

se non è nel Boccaccio, o nel Petrarca;                    

e mentre vanno di parlare in busca,

i toscani mugnai legislatori,

gli trattano da porci con la Crusca.                           498

Usan cotanti scrupoli, e rigori

sopra una voce, e poi non si vergognano

di mille sciocchi e madornali errori.                        501

Sotto le stampe va ciò che si sognano,

senza che si riveda, e che si emendi,

perché solo a far grosso il libro agognano.             504

E se un’opera loro in man tu prendi,

mentre il jam satis ritrovar vorresti,

vedi per tutto il quidlibet audendi.                              507

Sotto nomi speciosi, e manti onesti,

per occultar le presunzion ventose,

porta in fronte ogni libro i suoi protesti.                 510

Chi dice, che scorrette, e licenziose

andavan le sue figlie, e perciò vuole

maritarle co’ torchi, e farle spose.                             513

Un altro poscia si lamenta, e duole,

che un amico gli tolse la scrittura,

e l’ha contro sua voglia esposta al sole.                  516

Quell’empiamente si dichiara, e giura,

che visti i parti suoi stroppiati, e offesi,

per paterna pietà ne tolse cura.                                 519

Questi, che per diletto i versi ha presi

per sottrarsi dal sonno i giorni estivi,

e ch’ha fatto quel libro in quattro mesi.                   522

Oh che scuse affettate! oh che motivi!

Son figlie d’ambizion queste modestie;

perché ti stimi assai, così tu scrivi.                           525

Ma peggio v’è: con danni, e con molestie

s’ascoltan negli studi, e ne’ collegi

legger al mondo umanità le bestie.                          528

Stolidezza de’ principi, e de’ regi,

che senza distinzion mandano al pari

cogl’ingegni plebei gl’ingegni egregi.                     531

Qual maraviglia è poi, che non s’impari?

Se i maestri son bufali ignoranti,

che possono insegnare agli scolari?                         534

E son forzati i miseri studianti

di Quintiliano in cambio, e di Gorgìa

sentir ragghiare in cattedra i pedanti.                      537

Da questo avvien, ch’Euterpe, e che Talìa

sono state stroppiate: ognun presume

in Pindo andar senza saper la via:                            540

che delle scorte loro al cieco lume

mentre van dietro, d’Aganippe in vece

son condotti di Lete in riva al fiume.                       543

Di questi sì, che veramente lece

affermar (come io lessi in un capitolo)

ch’han le lettre attaccate con la pece.                        546

Io non voglio svoltar tutto il gomitolo

di certi cervellacci pellegrini,

che studian solamente a far il titolo;                        549

onde i lor libri con quei nomi fini

a prima vista sembran titolati;

esaminati poi, son contadini.                                    552

Né potendo aspettar d’esser lodati

dal giudizio comune, escono alteri

da Sonetti e Canzoni accompagnati:                        555

e n’empion da sè stessi i fogli interi

sotto nome d’Incognito, e d’Incerto,

e si dan de’ Virgili e degli Omeri.                            558

V’è poi talun, ch’avendo l’occhio aperto,

rifiuta i primi parti co’ secondi,

e così da un error l’altro è scoperto.                         561

Ma non so se più matti, o se più tondi,

se sian nel fare i libri, o dedicarli,

se più di errori, o adulazion fecondi.                      564

Di tempo, o di destin più non si parli:

la colpa è lor, se non sapendo leggere,

servon per esca ai ragnateli, ai tarli.                         567

Lor, non l’età, bisogneria correggere:

che in vece di lodar i Tolomei

fanno i poemi a quei, che non san reggere.             570

E insino i battilani, e i figulei

comprano da costor per quattro giuli

titol di Mecenati e, Semidei.                                      573

Un poeta non c’è che non aduli:

e col Samosateno, e con il Ceo

si mettono a cantar gli asini, e i muli.                      576

Con poche monete un uom plebeo,

degno d’esser cantato in archiloici,

fa di sé rimbombar l’Ebro, e ‘l Peneo.                      579

Ch’è dei Cinci adonta, e degli Stoici,

senza temer le lingue de’ Satirici,

s’inalzano i Tiberj in versi eroici:                              582

egualmente da tragici, e da lirici

si fanno celebrare, e Claudio, e Vaccia,

e v’è chi per un pan fa penegirici,                            585

a fabbricare elogi ognun si sbraccia,

e infino gli scolar s’odon da Socrati

i Tiranni adulare a faccia a faccia.                             588

In lodar la virtù son tutti Arpocrati:

e di Busiri poi per avarizia

i Policrati scrivono e gli Isocrati.                              591

Termine mai non ha questa malizia;

e dietro a Glauco, per empir la pancia,

tessono encomi insino all’ingiustizia.                      594

Se vivesse colui, che la bilancia

non ben certa d’Astrea ridusse uguale,

a quanti sgraffieria gli occhi, e la guancia?             597

Non vi stupite più, se il gran morale

lusinghieri vi nomini e bugiardi;

e Teocrito, zucche senza sale.                                    600

Di Sparta già quegli animi  gagliardi

della città per pubblico partito

scacciarono i cuochi e voi per infingardi:                603

e ciò con gran ragion fu stabilito,

perché se quegli incitano il palato,

attendon questi a lusingar l’udito.                           606

L’istesso Omer dall’attico senato,

de’ poeti il maestro, il padre, il Dio,

fu tenuto per pazzo e condannato.                           609

Oh risorgesse Atene al secol mio,

che seppe già con adequata pena

a i Demágori far pagare il fio!                                   612

loda i Tersiti Favorino, e a pena

ai principi moderni un figlio nasce,

che in augurj i cantor stancan la vena.                     615

Quando Cintia falcia in ciel rinasce

ha da servir per cuna; e col zodiaco

hanno insieme le zone a far le fasce.                        618

Quanti dal Messicano al Egiziaco

fiumi nobili son, quanti il Gangetico

lido ne spinge al mar, quanti il Siriaco;                   621

tant’invitando va l’umor Poetico,

a battezzar talun, che per politica

cresce, e vive ateista, e muore eretico.                     624

E canta in vece di adoprar la critica,

ch’ei porterà la trionfante croce

dalla terra giudea per la menfitica.                          627

Che dalla Tule alla Tirintia foce,

reciderà le redivive teste

dall’eresia crescente all’idra atroce.                         630

Che tralasciata la maggior celeste

ricalcheran gli abbondanti calli,

con Astrea le virtù profughe e meste.                      633

Per innalzar a un Re statue, e cavalli

hanno fatto insino un certo letterato

sudare i fuochi a liquefar metalli;                            636

e un altro per lodar certo soldato,

dopo aver detto - è un Ercole secondo, -

ed averlo ad un Marte assomigliato;                       639

non parendogli aver toccato il fondo

soggiunse, e pose un po’ di più sù la Mira:

ai bronzi tuoi serve di palla il mondo.                    642

Oh gran bestialità! come delira

l’umana mente! né a guarirla basta

quant’elleboro nasce in Anticira.                              645

Divina Verità, quanto sei guasta,

da questi scioperati animi indigeni,

che del falso, e del ver fanno una pasta                   648

predica per Atlanti, e per sostegni

della terra cadente uomini tali

che son rovine poi di stati, e regni,                          654

se un principe s’ammoglia, oh quanti oh quali

si lasciano veder subito in frotta

epitalamj e cantici nuziali!                                         657

Ogni Poema poi mostra ininterrotta

di qualche grande la genealogia

dipinta in qualche scudo, o in qualche grotta.       660

E quel che fa spiccar questa pazzia

è che la razza effigiata e scolta

dichiaran sempre i maghi in profezia.                     663

Ma se in costoro ogni virtute accolta

come dite, o Poeti; ond’è che ogn’uno

vi mira ignudi e lamentar vi ascolta?                       666

se senza aita ogni scrittor digiuna

piange, per questi non han virtute; ovvero

quel Letterato e querulo, o importuno.                   669

Deh cangiate oramai stile e pensiero,

e tralasciate tanta sfacciataggine!

Detti un giusto furore ai carmi il vero!                    672

Chiate a dire il ver Sunio, o Timaggine;

giacchè l’uom tra gli obbrobri oggi s’alleva,

nè timor vi ritenga, o infingardaggine!                    675

Dite di non saper qual più riceva

seguaci, o l’Alcorano, od il Vangelo,

o la strada di Roma, o di Geneva.                            678

Dite che della fede è spento il zelo,

e che a prezzo d’un pan vender si vede

l’onor, la libertà, l’anima, il cielo:                             681

che per tutto interesse ha posto il piede,

che dalla Tartarìa fino alla Betica

l’infame tirannia post’ha la sede:                              684

ch’ogni Grande a far or suda, e frenetica;

e ch’han fatta nel cor sì dura cotica,

che la coscienza più non gli solletica.                      687

Deh prendete, prendete in man la scotica,

serrate gli occhi; ed a chi tocca, tocca!

Provi il flagel questa canaglia zotica!                      690

Tempo è ormai ch’Angerona apra la bocca

a rinnovar i Saturnali antichi,

or che i limiti il mal passa e trabocca.                      693

Uscite fuor de’ favolosi intrichi,

accordate la cetra ai pianti ai gridi

di tante orfane, vedove, e mendichi!                        696

Dite senza timor gli orridi stridi

della terra, che invan geme abbattuta,

spolpata affatto da’ tiranni infidi.                             699

Dite la vita infame, e dissoluta,

che fanno tanti Roboam moderni;

la giustizia negata, e rivenduta.                                702

Dite che a’ tribunali, e ne’ governi,

si mandan solo gli avoltoi rapaci:

e dite che l’oppression, dite gli scherni.                  705

Dite l’usure, e tirannie voraci,

che fa sopra di noi la turba immensa

de’ vivi Faraoni, e degli Arsaci.                                708

Dite, che sol da’ Principi si pensa

a bandir pesche e caccie: onde gli avari

sulla fame comune alzan la mensa:                          711

che con muri, con fossi, e con ripari

ad onta delle leggi di natura,

chiuse han le selve, e confiscati i mari;                    714

e che oltre ai danni di tempeste, e arsura,

un pover galantuom, che ha quattro zolle,

le paga al suo signor mezze in usura.                     717

Dite, che v’è talun sì crudo e folle,

che sebben de’ vassalli il sangue ingoia,

l’ingorde voglie non ha mai satolle.                         720

Dite che di vedere ognun s’annoia

ripiene le città di malfattori,

e non esservi poi se non un boia:                             723

che ampio asilo per tutto hanno gli errori,

e che con danno, e pubblico cordoglio

mai si vedon puniti i traditori.                                  726

Dite che ognor degli Epuloni al soglio

i Lazzeri cadenti, e semivivi,

mangian pane di segala, e di loglio.                        729

Dite, che il sangue giusto sgorga in rivi,

ch’esenti dalle pene in faccia al cielo

son gl’iniqui, ed i rei felici e vivi.                             732

Queste cose v’inspiri un santo zelo;

nè state a dir quanto diletta e piace

chioma dorata sotto un bianco velo.                        735

A che giova cantar Cintia e Salmace,

o di Dafne la fuga, o di Siringa,

i lamenti di Croco, o di Smilace?                              738

Più sublime materia un dì vi spinga;

e si tralasci andar bugie cercando,

nè più follìe genio Dirceo vi finga!                           741

E chi gli anni desìa passar cantando,

lodi Veturie in vece di Batilli,

sante sapienze, e non pazzie d’Orlando.                 744

Che omai le valli al risuonar di Filli,

vedon sazi di pianti, e di sospiri

i sentieri d’Armida, e d’Amarilli.                             747

Per i vestigi degli altrui deliri

ognun Clori ha nel cor, Lilla ne’ labri;

ognun canta di pene, e di martìri.                            750

Imitan tutti, benchè rozzi e scabri,

Properzio, Alceo, Callimaco, e Catullo,

d’amorose follie maestri, e fabri.                              753

Stilla l’ingegno a divenir trastullo

degli uomini dabbene, e ognun trattiensi

al suon d’Anacreonte e di Tibullo.                           756

D’incontinente ardor gli Ovidj accensi,

vengon d’affetti rei figli figli lascivi

a stuzzicare, a imputtanire i sensi.                           759

E degli scritti lor vani, e nocivi

nelle scuole Cinnarie, e di Cupido

studian le Frini a spennacchiar corrivi.                   762

Perché diletti più, l’onesta Dido

si finge una sgualdrina; e per le chiese

serve per ufficiolo il Pastorfido.                               765

Da qual donzella non son oggi intese

le Priapèe?[1] ed han virtù che alletta

l’opre, benchè impudiche, e le sospese.                  768

De’ versi Fescennini ognun fa incetta,

e di Curzio la sordida Morneide

si vede sempre mai letta e riletta.                             771

Son gl’ingegni oggidì da far Eneide,

quei che premendo di zaffate i calli,

scrivono la Vendemmia, e la Merdeide.                 774

I lascivi Fallofori[2], e Itifalli[3],

con Inni scellerati e laudi oscene

si tiran dietro i vil Menandri, e i Galli.                    777

Di voi, sacre Pimplee, timor mi tiene,

mentre vi veggio strucciolare in chiasso

al pazzo arbitrio di chi va, e chi viene.                    780

L’orecchio aver bisognerìa di sasso,

per non sentir l’oscenità de’ motti,

ch’usan nel conversar sboccato e grasso.                 783

Son questi insin nei pulpiti introdotti,

d’ond’è forzato, che un cristiano inghiozzi

le facezie dei Mimi, e degli Arlotti[4].                        786

Miserie inver da piangere a singhiozzi!

Che al par de’ banchi ormai de’ saltinbanchi

vanta il pergamo ancora i suoi Scatozzi[5].                789

Quando mai di cantar sarete stanchi

di dame e cavalier, d’armi e d’amore,

sprone d’impudicizie agli altrui fianchi?                792

A che mandar tante ignominie fuore,

e far proteste tutto quanto il die,

che s’oscena è la penna, è casto il cuore?                795

Tempi questi non son d’allegorie:

l’età, che corre di tre cose è infetta,

di malizia, ignoranza e poesie.                                 798

Sentito ho raccontar, che fu un trombetta

preso una volta da’ nemici in campo,

mentre stava suonando alla vedetta.                       801

Il qual per ritrovar riparo o scampo,

dicea, che solamente egli suonava,

ma col suo ferro mai non tinse il campo.                804

Gli fu risposto allor, ch’ei meritava

maggior pena però, poichè suonando

alle stragi, al furor gli altri irritava.                          807

Intendetemi voi, voi che cantando

siete cagion che la pietà vacilla,

e che il timor di Dio si ponga in bando.                  810

Da voi, da voi negli animi si stilla

la peste d’infinite corruttele,

agl’incendi voi date esca e favilla.                            813

Dite poi, che da un fiore e tosco mele

trae, secondo gl’istinti, o buoni, o rei,

ape benigna e vipera crudele.                                   816

Oh empj, iniqui, e quattro volte e sei;

pormi il tosco alla bocca, e poi, s’io pero,

dir che maligni fur gli affetti miei.                           819

Questo è paralogismo menzognero:

non è simile al fiore il verso osceno,

nè men l’ape e la vipera ha il pensiero.                   822

Non racchiudon quei fiori il tosco in seno,

ma sono indifferenti; ai vostri versi

è qualitade intrinseca il veleno:                                825

nè l’ape e il serpe trae dai fiori aspersi

il tosco, e il miel per elezion; natura

gli spinge ad opre varie atti diversi.                        828

Ma l’alma, ch’è di Dio copia, e figura,

libera nacque, e non soggiace a forza,

benchè legata in questa spoglia impura:                 831

opera in sua ragione; e nulla sforza

l’arbitrio suo, che volontario elegge

ciò ch’essa fa nella terrena scorza:                            834

ma perché danno a lei consiglio e legge,

nel riconoscer le cose, i sensi frali,

facilmente ella cade e mal si regge.                          837

E voi, Sirene perfide e infernali,

le fabbricate con un rio diletto

il precipizio al piede, il vischio all’ali.                    8

Non ha la poesia più d’un oggetto:

il dilettare è mezzo, ell’ha per fine

sedar la mente, e moderar l’affetto:                          840

ella prima addolcì l’alme ferine,

e ne insegnò soave allettatrice

con favole sue l’opre divine:                                     8

ella, figlia di Dio, mostrò felice

il suo fattor al mondo; e poscia adulta

fu di filosofia madre e nutrice.                                  843

E in vece d’esser oggi ornata, e culta

di dottrine santissime, disposti

son sempre i vizj, e la ragion sepulta.                     846

Anzi con esecrandi contrapposti

oggi il dar del divino è cosa trita

agli sporchi Aretini, agli Arïosti.                              849

Dunque chi più la mente al vizio incita

avrà titol celeste? Ah venga meno,

e vanità sì rea resti sopita!                                         852

Udite un Agostin di Dio ripieno,

ch’ebri d’error vi pubblica e palesa,

e sacrileghi e pazzi un Damasceno.                         855

L’iniqua Poesia la traccia ha presa

degli empj Machiavelli e degli Erasmi,

e di chi separò Cristo e la Chiesa.                             858

A che vantar del cielo gli entusiasmi,

se con maniera più profana, e ria

da miniere d’onor traete i biasmi?                            861

Scrivere a voi non par con leggiadria,

buffonacci, superbi e ateisti,

se non entrate in chiesa o in sagrestia.                     864

D’alme dannate fa maggiori acquisti

per opra vostra il popolato inferno;

così Parnaso ancora ha gli Anticristi.                       867

Pensate forse che il flagello eterno

non punisca le colpe, oppur credete

che degli eventi il caso abbia il governo?                 870

Se la galea, l’esilio e le segrete,

e se la forca è poi l’ultima scena

ai poeti giammai, ben lo sapete.                                 873

Sfregiato il volto, e livida la schiena

a quanti han fatto dir con quel di Sorga[6],

che il furor letterario a guerra mena!                        876

Deh cangiate tenor, e il mondo scorga

candor su i vostri fogli, e maestosa

la già morta pietade in voi risorga.                           879

Sia dolce il vostro stile, onde gioiosa

corra la terra a lui; ma serbi intanto

nel dolce suo la medicina ascosa:                             882

sia vago perché alletti; e casto, e santo

perché insegni il costume: è sol perfetto

quando diletta, ed ammaestra il canto.                   885

Sia del vostro sudor virtù l’oggetto;

ché, mentre queste atrocità cantate,

d’un insano furor v’infiamma Aletto[7].                 888

Che se gli allori, e l’edere vantate,

è perché avete in testa un gran rottorio

e i fulmini del cielo in voi chiamate.                        891

E poi, che giova aver plettro d’avorio,

se quasi ogni poeta in grembo al duolo

delle fatiche sue canta il mortorio?                          894

A che di libri più crescer lo stuolo?

Purché insegnasse a vivere e morire,

soverchierebbe al mondo un libro solo.                  897

Rimoderate dunque il vostro ardire;

ché rarissimi son quei, che si leggono,

ed un di mille ne suol riuscire.                                  900

All’immortalòità tutti non reggono:

tra le tarle e le polveri coperti

i libri, ed i licei perir si veggono.                              903

La vostra fama è dubbia e i biasmi certi;

e in questi tempi sordidi, ed ingiusti

son pronti i Galbi[8] e i Mecenati incerti.                906

Perché a scorno de’ principi vetusti,

in vece di Catoni e Anassimandri,

s’amano gl’ignoranti e i bellimbusti;                       909

e son gli Efestion[9] degli Alessandri

i becchi e i parasiti indegni e vili,

e prezzati i Taurei più che i Licandri:                      912

e in cambio degli Orazi e de’ Virgili

danzano in Corte baldanzoi, e lieti

i branchi de’ Clisofi e de’ Cherili[10].                       915

Stiman più i Regi stolidi e indiscreti

d’un istrione o cantatrice i ghigno,

che il sudore de’ saggi e de’ poeti.                            918

Ed apre sol de’ potentati i scrigni,

e quando più gli piace ottien udienza

chi porta i polli[11], e non chi porta i cigni[12].      921

Spenta è già di quei grandi la semenza,

che in distinguere usaro ogni sapere

da i marroni al Maron[13] la differenza,                  924

non speri il Mondo più di rivedere

l’eroe di Pella[14], che dormir fu visto,

e dell’opre d’Omer farsi origliere[15].                      927

Di dotti ognuno allor giva provvisto;

e vantava Artaserse un grand’impero

quando facea d’un letterato acquisto.                      930

L’istesso Dionisio empio, e severo,

per le pubbliche vie di Siracusa,

a Platon fe’ da servo e da cocchiero.                        933

Ma dove, dove mi trasporti, o Musa?

L’orecchio ha il mondo sol per Lesbia e Taide:

ragionar di virtude oggi non s’usa.                          936

Solo invaghita di Batillo e Laide,

stufa è di versi quest’età che corre:

secoli da fuggir nella Tebaide[16];

Tempi più da tacer, che da comporre.               940

Note

________________________

[1] - Priapee - composizioni oscene fatte in onore del dio Priapo, quali son quelle che van falsamente sotto nome di Virgilio, e da Giuseppe Scaligero, o dalla scuola sono stimate essere una raccolta di poeti antichi

[2] - Fallofori - ministri del dio Priapo, che portavano in processione il suo gigantesco membro

[3] - Itifalli - soprannomi di Priapi, quasi membri impetuosi e gagliardi, e da tal nome ancora son chiamati alcuni versi detti itifallici, soliti cantarsi nelle composizioni in onore di Priapo

[4] - Arlotti: siintende per il piovano Arlotto Mainardi, di cui erano noti i motti e le facezie

[5] - Scatozzi - cioè ecclesiastici ignoranti

[6] - quel di Sorga - Orazio Flacco, poeta latino

[7] - Aletto - furia infernale (v. Dante)

[8] - i Galbi - allude alla grande avarizia di Sergio Galba e all’incontro alla protezione che Mecenate aveva specialmente dei poeti

[9] - Efestione - uno dei capitani dell’esercito di Alessandro, molto amato dal suo generale

[10] - Cherilo - cattivo poeta greco

[11] - porta i polli - portare i polli in modo figurato vuol dire fare il ruffiano

[12] - cigni - uccelli che cantano dolcemente: sinonimo di poeta

[13] - Maron - cognome del poeta Virgilio

[14] - eroe di Pella - Alessandro Magno, originario di Pella in Macedonia: fu chiamato iuvenis pellacus

[15] - origliere - guanciale: narra la leggenda che Alessandro dormisse con l’opera di Omera per guanciale, sotto il capo

[16] - Tebaide - zona di Tebe in Egitto, sinonimo di solitudine

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Ultimo aggiornamento: 10 febbraio 2011