Edizione di riferimento:
Satire e vita di Salvator Rosa con note di d'Anton Maria Salvini e d'altri Firenze Dai torchi di Attilio Tofani, con superior permesso, 1833
Le colonne spezzate, e i rotti marmi,
là tra i platani suoi divelti, e scossi
Fronton rimira all’echeggiar de’ carmi. 3
Che da furore ascreo spinti, e commossi
s’odon ognor tanti poeti, e tanti,
che manco gente in Maratona armossi. 6
Suonan per tutto le ribecche, e i canti,
e si vedon sol d’acque inebriati
i seguaci d’Apollo andar baccanti. 9
Quei narra d’Eolo i prigionieri alati;
di Vulcano e di Marte antri, e foreste,
e dal giudice inferno i rei dannati. 12
Questi in mezzo agl’incanti, e alle tempeste
canta i velli rapiti; altri descrive
di Teseo i fatti, e le pazzie d’oreste; 15
La togate, e palliate argive
altri specola, e detta, e sempre astratto
affettate elegie compone, e scrive. 18
Maggior poeta è chi più ha del matto;
tutti cantano omai le cose intese;
tutti di novità son privi affatto. 21
In tali accenti alte querele espresse
quel che nato in Aquino, i propri allori
nel suol d’Aurunca a coltivar si messe. 24
Così di Pindo i violati onori
sferzar ne’ colli suoi sentì già Roma
del flagello maggior de’ prischi errori. 27
Ed oggi il tosco mio guasto idioma
non avrà il suo Lucilio; oggi ch’ascende
ciascuno in Dirce a coronar la chioma? 30
Non irrita il mio sdegno, e non mi offende
sola viltà di stile; a mille accuse
più possente cagione il cor m’accende. 33
Troppo al secolo mio si son diffuse
le colpe de’ poeti; arse, e cadeo
la pianta virginal sacra alle muse. 36
Tacer dunque non vuò, Nume Grineo,
tu mi detta la voce, e tu m’inspira
d’Archiloco il furore, e di Tirteo. 39
Reggi la destra tu. Tolto alla lira
spinge dardo teban nervo canoro,
or che dai vizi altrui fomento ha l’ira. 42
Conosco ben, che a saettar costoro
incurvar si dovria corno cidonio;
che lento esce lo stral d’arco sonoro. 45
Credon questi trattar plettro bistonio:
né d’Eumolpo giammai cotanto odioso
il lapidato stil finse Petronio. 48
No, che tacer non vuo’: ma poi dubbioso
d’onde io muova il parlar rimango in forse,
tanto ho da dir, che incominciar non oso. 51
Sono l’infamie lor così trascorse,
che s’io ne vo’ cantar, le voci estreme
son dal silenzio in sull’uscir precorse. 54
Offre alla mente mia ristretto insieme
un indistinto Caos vizi infiniti,
e di mille pazzie confuso il seme. 57
Quindi i traslati, e i paralleli arditi:
le parole ampollose, e i detti oscuri,
di grandezze, e decoro i sensi usciti. 60
Quindi i concetti o mal espressi, o duri,
con il capo di bestia il busto umano,
della lingua stroppiata i motti impuri. 63
Dell’iperbol qui l’abuso insano,
colà gl’inverosimil scoperti,
lo stil per tutto effeminato, e vano: 66
il delfin nelle selve, e nei deserti,
ed il cignal nel mare, e dentro ai fiumi;
gli affetti vili, e i latrocinj aperti. 69
Prive di nobiltà, prive di lumi;
l’adulazioni, e le lascivie enormi,
l’empietà varso Iddio, verso i costumi. 72
Di tante, e tante iniquità deformi
provo acceso e confuso, e sprone e freno;
sofferenza irritata a che più dormi? 75
Non vedi tu, che tutto il mondo è pieno
di questa razza inutile, e molesta,
che i poeti produr sembra il terreno? 78
Per Dio, poeti, io vo’ sonare a festa,
me non lusinga ambizion di gloria:
violenza moral mi sprona, e desta. 81
Di passar per poeta io non ho boria;
vada in Cirra chi vuol, nulla mi preme
che sia scritta colà la mia memoria. 84
Oh, che dolce follia di teste sceme!
sul più fallito, e sterile mestero
fondare il patrimonio della speme! 87
Sopra un verso sudar l’alma e il pensiero,
acciò che sia con numero costrutto,
se ogni sostanza poi termina in zero. 90
Fiori, e frondi che val sparger per tutto;
se al fin si vede degli autunni al giro,
che di Parnaso il fior non fa mai frutto? 93
Con lusinghiero, e placido deliro
va il poeta spogliando Ermo, e Coaspe,
Sperchio, Bermio, Pettorsi, ormus e Tiro, 96
saccheggia il Tago, e sviscera l’idaspe,
e non si trova un soldo al far de’ conti
tra le Partiche gemme, e l’Arimaspe. 99
Poeti, è ver che Apollo abita i monti;
ma questo non vuol dir che voi speriate
d’averci a posseder luoghi di monti. 102
Ché possibil non è che voi troviate
tra quanti colli a Clavio il tempo eresse
i monti di San Spirto o di pietate. 105
Io non so dove fondiate la messe,
s’altro seme non lo dà Clizio Dio,
che raccolta d’applausi, e di promesse. 108
Superate la fame, e poi l’oblio;
che voi non manderete il grano a frangere,
se non prendete Cerere per Clio. 111
Il vostro stato è troppo da compiangere,
mentre v’scolta ognun cigni dispersi
cantar per gloria, e per miseria piangere. 114
A che star tutto lì tra lettre immersi?
Noto è alle genti anco idiote, e basse,
che non si fan lettre di cambio in versi. 117
Giove io non leggo, cge sapienza amasse,
che quando il mondo ancor vagiva in culla
avea Minerva in capo, e se la trasse. 120
Quest’applauso, che voi tanto trastulla,
dolc’è per chi vivendo, e l’ode, e il vede,
ma dopo morte non si sente nulla. 123
È più dotto oggidì chi più possiede;
scienza senza denar cosa è da sciocchi,
e sudor di virtù non ha mercede. 126
Per aver fama basta aver bajocchi;
che l’immortalità si stima un sogno;
son galli i ricchi, e i letterati allocchi. 129
Quanto adesso vi dico io non trasogno;
da Pindo all’ospedal facil’è il varco;
poichè il saper è padre del bisogno. 132
Gettate a terra la viola e l’arco,
che in quest’età d’ignorantoni, e Mimi
già s’adempì la profezia d’Ipparco. 135
Presi già sono i luoghi più sublimi;
ed il proverbio pubblico risuona:
in ogni arte, e mestier beati i primi. 138
Cangiato è il mondo, oh quanti ne minchiona
la foja della guerra, e della stampa,
la pania della Corte e d’Elicona! 141
Sfortunato colui, che l’orme stampa
ne’ lidi di Libetro avidi e scarsi,
che vi stal mal per sempre, o non vi campa. 144
Torna il conto, o fratelli a spoetarsi:
cantan sino i ragazzi a bocca piena.
Che il poeta è il primiero a declinarsi. 147
Con più d’un guidalesco in sulla schiena
ai nostri dì l’Aganippeo polledro
tanto smagrito è più, quant’ha più vena. 150
L’opere a partorir degne di cedro
vi conducon le stelle in qualche stalla,
perché un Cavallo è a voi Duce, e Sinedro. 153
Chi veglia sulle carte, oh quanto falla!
Che a lottar con fortuna in questi giorni
esser unto non val d’umor di Palla. 156
Nè di Febo il calor riscalda i forni:
e se chiacchiere avete con la pala,
non s’empion d’Amaltea con queste i corni. 159
Il rimedio a non far vita sì mala
è ben dover, ch’oggi vi mostri, insegni
la formica imitar, non la cicala. 162
Non v’accorgete omai da tanti segni,
che nell’inferno della povertade
sono l’alme dannate i bell’ingegni? 165
Chi di voi può mostrarmi una cittade,
ove una Musa sia grassa, e gradita,
se chiuse son le generose strade? 168
Imparate qualch’arte, onde la vita
tragga il pan quotidiano, e poi cantate
quanto vi par La Bella Margherita. 171
Passa la gioventude, e l’ore andate
la vecchiezza mendica di sostanza
bestemmia poi de la perduta etate. 174
Il motto è noto, e cognito abbastanza.
A chi la povertà fitt’ha nell’ossa
refrigerante impiastro è la speranza. 177
Non aspettate l’ultima percossa;
non fate più da sericani vermi
che stolti da per lor si fan a fossa. 180
Appetir quel che offende uso è da infermi;
contro al vostro bisogno, al vostro male
il saper di saper son frali schermi. 183
Ma volete un esempio naturale,
che la vostra sciocchezza esprima al vivo,
e rappresenti il vostro umor bestiale? 186
Era volato un dì tutto giulivo
con un pezzo di cacio parmigiano
un corvo in cima ad un antico olivo. 189
La volpe il vide, e s’accostò pian piano,
per farlo rimanere un bel somaro,
se il cacio gli potea cavar di mano. 192
Ma perché tra di lor eran del paro
scaltri e furfanti, e come dir si suole,
era tra galeotto, e marinaro; 195
ella, che scorso avea tutte le scuole,
ed era masvigliacca in quintessenza,
cominciò verso lui con tai parole: 198
gran maestra è di noi l’esperienza;
ella ci guida in questa bassa riva,
madre di veritade e di prudenza. 201
Quando da un certo io predicar sentiva,
che la fama ha due facce, ed è fallace,
a maligna bugia l’attribuiva. 204
Ma ora l’occhio è testimon verace
di quanto udì l’orecchio, e ben conosco,
che questa fama è un animal mendace. 207
Già, perché si dicea, che nero, e fosco
eri più della pece, e del carbone,
mi ti fingea spazzacamin di bosco. 210
Ma quanto è falsa l’immaginazione;
tu sei più bianco che non è la neve,
e, pazza, io ti stimava un calabrone. 213
Troppo gran danno la virtù riceve
da questa fama infame, e scellerata,
sempre bugiarda, appassionata, e leve. 216
Perde teco, per Dio, la saponata:
tu sembri giusto tra coteste fronde,
tra le foglie di fico una giuncata; 219
e se al candor la voce corrisponde,
ne incaco quanti cigni alzano il grido
là del Cefiso alle famose sponde. 222
Se tu cantar sapessi, io me la rido
di quanti uccelli ha il mondo: eh! che tu sai
che in un bel corpo una bell’alma ha il nido. 225
Così disse la furba, e disse assai,
che il corvo d’ambizion gonfiato, e pregno
credè saper quel che non seppe mai. 228
E per mostrar del canto il bell’ingegno
si compose, si scosse, e il fiato prese,
e a cantar cominciò sopra quel legno. 231
Ma mentre egli stordia tutto il paese
col solito crà, crà, dal rostro aperto
cascò il formaggio, e la comar lo prese. 234
Onde per farla da cantor esperto
si trovò digiun, come quel cane,
che lasciò il certo per segui l’incerto. 237
Così di Pindo voi, musiche rane,
lasciate il proprio per l’appellativo,
e per voler gracchiar perdete il pane. 240
Chè in vece d’un mestier fertile, e vivo,
dietro alla morta e steril Poesia
imparate a cantar sempre il passivo. 243
E tal possesso ha in voi quest’eresia,
che per un po’ d’applauso ebri correte
a discoprir la vostra frenesia. 246
Balordi senza senno che voi siete!
Mentre andate morendo dalla fame,
d’immortalarvi vi persuadete. 249
E siete cisì grossi di legname,
che non udite ognun muoversi a riso
in sentirvi lodar le vostre dame. 252
Stelle gli occhi, arco il ciglio, e cielo il viso,
tuoni, e fulmini i detti, e lampi i guardi,
bocca mista d’Inferno e Paradiso. 255
Dir, che i sospiri son bombe e petardi,
pioggia d’oro i capei, fucina il petto,
ove il magnano amor temper i dardi; 258
ed ho visto, e sentito in un sonetto
dir d’una donna, cui puzzava il fiato,
arca d’arabi odor, muschio e zibetto. 261
Le metafore il sole han consumato,
e convertito in baccalà Nettuno
fu nomato da un certo il Dio salato. 264
Fin la Croce di Dio fu da taluno
chiamata Legno Santo: e pur costoro
sfidan l’Autor dell’Itaco Nessuno. 267
E dell’amata sua, con qual decoro,
i pidocchi colui cantando disse
sembran fere d’argento in campo d’oro. 270
E chi vuol creder ch’un ingegno uscisse,
dai gangheri sì fuora, e bagattelle
tanto arroganti di stampare ardisse? 273
Le nostre alme trattar bestie da selle:
mentre lor serba il Ciel da’ corpi sgombre
biada d’eternità, stalla di stelle. 276
E in pensarlo il pensier vien che s’adombre,
fare il sol divenir boia che tagli
colla scure de’ raggi il collo all’ombre. 279
Ma chi di tante bestie da sonagli
legger può le pazzie, se i lor libracci
delle risa d’ognun sono i bersagli? 282
Che da certi eruditi animalacci
giornalmente alle tenebre si danno
mille strambotti, e mille scartafacci: 285
e tale stima di sè stessi fanno,
e di tanta albagia vanno imbevuti,
ch’è molto mel della vergogna il danno. 288
Che per parer filosofi e saputo,
se ne van per le strade unti e bisunti
stracciati, sciatti, succidi, e barbuti: 291
con chiome rabbuffate, ed occhi smunti,
con scarpe tacconate, e collar storto,
ricamati di zaccare e trapunti. 294
Cada il giorno all’Occaso e sorga all’Orto,
sempre cogitabondi, e sempre astratti
hanno un color d’itterico, e di morto. 297
Discorron tra se stessi come matti,
facendo con la faccia, e con le mani
mille smorfie ridicole, e mille atti. 300
Per certi luoghi inusitati, e strani
si mordon l’ugne, e col greattarsi il capo
pensano ai Mammalucchi, e agl’Indiani, 303
e incerti di formar scanno o Priapo
con la rozza materia, che hanno in testa,
di pensiero in pensier si fan da capo; 306
con la mente impregnata, ed indigesta
senza aver fine alcuno, e senza scopo,
van borbottando in quella parte, e in questa. 309
Han di fantasmi un embrione e dopo
d’aver pensato, e ripensato un pezzo,
partoriscono i monti, e nasce un topo. 312
Che quando credi udir cose di prezzo,
e stai con una grande aspettazione,
gli senti dare in fraschiere da sezzo. 315
La fava con le mele, e col melone,
la ricotta coi ghiozzi, e colla zucca,
l’anguilla col savore, e col cardone. 318
Bovo d’Antona, Drusiana, e Cuccia
son le materie, onde l’altrui palpebre
ogni Scrittore infastidisce, e stucca; 321
anzi dal mal francese, e dalla febre,
e dall’istessa peste insin procacciano
ai nomi, all’opre lor vita celebre. 324
Questi son quei che a dissetar si cacciano
le labbra in mezzo al Caballin Condotto,
quasti i poeti son, che se l’allacciano. 327
Oh Febo, oh Febo, e dove sei condotto?
Questi gli studii son d’un grande cervello?
Sono questi i pensier d’un capo dotto? 330
Lodar le mosche, i grilli, e il ravanello,
ed altre scioccherie, ch’hanno composto
il Berni, il Mauro, il Lasca, ed il Burchiello. 333
Per sublimi materie hanno disposto,
dietro a Bion, Pittagora, ed Anatemio
lodar le rape, le cipolle, e il mosto. 336
In ogni frontispizio, ogni proemio
più di Clitorio han lodi le cantine;
che a un poeta è peccato esser abstemio: 339
e le penne più illustri, e pellegrine
van lodando i caratteri golosi,
con Eufrone il tinello e le cucine. 342
Quindi è, che i nomi lor sono gli Oziosi
gli Addormentati, i Rozzi, e gli Umoristi,
gl’Insensati, i Fantastici, e gli Ombrosi. 345
Quindi è, che dove appena eran già visti
nelle Accademie i lauri, e ne’ licei,
gli osti oggidì ne son provvisti. 348
Ite a dolervi poi, moderni Orfei,
che per i vostri affanni è già finita,
la razza degli Augusti, e de’ Pompei. 351
È che dalle Reggie era sbandita
la mendica virtù; ma i vostri modi,
hanno già la Poesia guasta, e avvilita. 354
E le vostre invenzioni, e gli episodi
son degne di taverne e lupanari:
e voi ne prenderete i premii e le lodi? 357
Altro ci vuol per farsi illustri e chiari,
che straccar tutto il dì Bembi, e Boccacci,
e Fabbriche del Mondo, e Dizionarj. 360
De’ vostri studj i gloriosi impacci.
L’occupazione de’ vostri ingegni aguzzi
fecondi han solo da schiccherar versacci. 363
Stirar con le tenaglie i concettuzzi,
attacconar le rime con la cera,
ad ogni accento far gli equivocuzzi: 366
aver dei grilli in capo una miniera,
far contrapposti ad ogni paroluccia,
e scrivere e stampar ogni chimera. 369
Dentro ai vostri versi oltre la buccia
legge giammai, più d’un la trova tale,
bisognosa d’impiastro, e delle gruccia. 372
E creder di lasciar nome immortale,
con portar frasche in Pindo, e unitamente
fare il somaro, il mulo, e il vetturale? 375
Chi cerca di piacer solo al presente,
non creda mai d’aver a far soggiorno
in mano ai dotti, e alla futura gente. 378
Anzi avrà culla, e tomba in un sol giorno:
chi stampa avverta, che all’oblio non sono
né barche, né cavalli da ritorno. 381
Componimento c’è che al primo suono
letto da chi lo fece, fa schiamazzo;
che sotto gli occhi poi non è più buono. 384
Eppur il mondo è sì balordo e pazzo,
e fatto gli occhi tanto ignorantoni,
chi non scerne dal rosso il paonazzo. 387
Applaude ai Bavj, ai Mevj arciasinoni,
che non avendo letto altro che Dante,
voglion far sopra i Tassi i Salomoni. 390
E con censura sciocca, ed arrogante
al poema immortal del gran Torquato
di contrapporre ardiscono il Morgante. 393
Oh troppo ardito stuol, mal consigliato!
che un ottuso cervel voglia trafiggere
chi men degli altri in poetare ha errato! 396
Non t’incruscar tant’oltre, o non t’affliggere
de’ carmi altrui, che il tuo latrar non muove:
se Infarinato sei vatti a far friggere 399
Son degli scarafaggi usate prove
d’aquila i parti ad invidiar rivolti,
il portar gli escrementi in grembo a Giove. 402
Anco alla prisca età furono molti,
che posposer l’Eneide ai versi d’Ennio:
secol non fu mai privo di stolti. 405
Torno, o poeti, a voi: dentro un biennio,
benché avvezzo con Verre, i furti vostri
non conterebbe il Correttor d’Erennio. 408
Oh vergogna, oh rossor de’ tempi nostri!
I sughi espressi dall’altrui fatiche
servono oggi di balsami, e d’inchiostri. 411
Credonsi di celar queste formiche,
ch’han per Febo, e per Clio, seggio, e caverna
il gran rubato alle caverne antiche: 414
e senza adoperar staccio, o lanterna
si distingue con breve osservazione,
la farina ch’è vecchia e la moderna. 417
Raro è quel libro, che non sia un centone
di cose a questo e quel tolte e rapite
sotto il pretesto dell’imitazione. 420
Aristofano, Orazio, ove siete ite
anime grandi? Ah per pietate, un poco
fuor de’ sepolcri in questa luce uscite. 423
Oh con quanta ragion vi chiamo, e invoco
che se oggi i furti recitar volessi,
Aristofano mio, verresti roco. 427
Orazio, e tu se questi Autor leggessi,
oh come grideresti: Or sì che ai panno
gli stracci illustri son cuciti spessi. 430
Che non badando al variar degli anni,
colla porpora Greca, e la Latina,
fanno vestiti da secondi Zanni 433
gl’Imitator in quest’età meschina,
che battezzasti già Pecore serve,
chiameresti uccellacci di rapina. 436
Delle cose già dette ognun si serve;
non già per imitarle, ma di peso
le trascrivon per sue, penne proterve. 439
E questa gente a travestirsi ha preso,
perché ne’ propri cenci ella s’avvede,
che in Pindo le saria l’andar conteso. 442
Per vivere immortal dansi alle prede,
senza pena temer gl’ingegni accorti;
che per vivere il furto si concede. 447
Né senza questo ancora han tutti i torti:
né s’apprezzano i vivi, e non si citano,
e passan solo le autorità dei morti. 450
E se citati son, gli scherni irritano,
né s’han per penne dgne, e teste gravi
quei, che su i Testi vecchi non s’aitano. 458
Povero Mondo mio, sono tuoi bravi
chi svaligia il compagno, e chi produce
le sentenze furate ai padri, agli avi: 461
e nelle stampe sol vive, e riluce
chi senza discrezion truffa, e rubacchia,
e chi le carte altrui spoglia, e traduce. 464
Quindi taluno insuperbisce, e gracchia,
che, s’avesse a depor le penne altrui,
resterebbe d’Esopo la cornacchia. 468
Stampansi i versi, e non si sa da cui;
e sebbene alla moda ogn’un li guarda,
si rinfaccian tra lor: Tu fosti: Io fui. 471
Per i moderni la fama è infingarda,
per gli antichi non ha stanchezza alcuna;
ogni accento, ogni peto è una bombarda. 474
La Fama è in somma un colpo di fortuna:
Burchiello, e Jacopone hanno il commento,
cotanto il mondo è regolato a luna: 477
e sono ognor cento bestiacce, e cento,
che sol ne’ libri altrui dall’anticaglia
del saper, del valor fanno argomento. 480
Ama questa vanissima canaglia
i rancidumi; e in Pindo mai non beve,
se di vieto non sa l’onda castaglia. 483
Nessuno stile è ponderoso e greve,
se tarlate e stantie non ha le forme,
e gli dan vita momentanea e leve. 486
Non biasmo già, che per esempi, e norme
prendi il Lazio, e la Grecia; anch’io divoto
le lor memorie adoro, e bacio l’orme. 489
Dico di quei, che sol di fango e loto,
usan certi modacci alla dantesca,
e speran di fuggir la man di Cloto. 492
Di barbarie servile e pedantesca
di lo Poesia cotanto è carca,
ch’è assai più dolce una canzon tedesca. 495
Ma qui il mio ciglio molto più s’inarca:
non è con loro alcuna voce etrusca,
se non è nel Boccaccio, o nel Petrarca;
e mentre vanno di parlare in busca,
i toscani mugnai legislatori,
gli trattano da porci con la Crusca. 498
Usan cotanti scrupoli, e rigori
sopra una voce, e poi non si vergognano
di mille sciocchi e madornali errori. 501
Sotto le stampe va ciò che si sognano,
senza che si riveda, e che si emendi,
perché solo a far grosso il libro agognano. 504
E se un’opera loro in man tu prendi,
mentre il jam satis ritrovar vorresti,
vedi per tutto il quidlibet audendi. 507
Sotto nomi speciosi, e manti onesti,
per occultar le presunzion ventose,
porta in fronte ogni libro i suoi protesti. 510
Chi dice, che scorrette, e licenziose
andavan le sue figlie, e perciò vuole
maritarle co’ torchi, e farle spose. 513
Un altro poscia si lamenta, e duole,
che un amico gli tolse la scrittura,
e l’ha contro sua voglia esposta al sole. 516
Quell’empiamente si dichiara, e giura,
che visti i parti suoi stroppiati, e offesi,
per paterna pietà ne tolse cura. 519
Questi, che per diletto i versi ha presi
per sottrarsi dal sonno i giorni estivi,
e ch’ha fatto quel libro in quattro mesi. 522
Oh che scuse affettate! oh che motivi!
Son figlie d’ambizion queste modestie;
perché ti stimi assai, così tu scrivi. 525
Ma peggio v’è: con danni, e con molestie
s’ascoltan negli studi, e ne’ collegi
legger al mondo umanità le bestie. 528
Stolidezza de’ principi, e de’ regi,
che senza distinzion mandano al pari
cogl’ingegni plebei gl’ingegni egregi. 531
Qual maraviglia è poi, che non s’impari?
Se i maestri son bufali ignoranti,
che possono insegnare agli scolari? 534
E son forzati i miseri studianti
di Quintiliano in cambio, e di Gorgìa
sentir ragghiare in cattedra i pedanti. 537
Da questo avvien, ch’Euterpe, e che Talìa
sono state stroppiate: ognun presume
in Pindo andar senza saper la via: 540
che delle scorte loro al cieco lume
mentre van dietro, d’Aganippe in vece
son condotti di Lete in riva al fiume. 543
Di questi sì, che veramente lece
affermar (come io lessi in un capitolo)
ch’han le lettre attaccate con la pece. 546
Io non voglio svoltar tutto il gomitolo
di certi cervellacci pellegrini,
che studian solamente a far il titolo; 549
onde i lor libri con quei nomi fini
a prima vista sembran titolati;
esaminati poi, son contadini. 552
Né potendo aspettar d’esser lodati
dal giudizio comune, escono alteri
da Sonetti e Canzoni accompagnati: 555
e n’empion da sè stessi i fogli interi
sotto nome d’Incognito, e d’Incerto,
e si dan de’ Virgili e degli Omeri. 558
V’è poi talun, ch’avendo l’occhio aperto,
rifiuta i primi parti co’ secondi,
e così da un error l’altro è scoperto. 561
Ma non so se più matti, o se più tondi,
se sian nel fare i libri, o dedicarli,
se più di errori, o adulazion fecondi. 564
Di tempo, o di destin più non si parli:
la colpa è lor, se non sapendo leggere,
servon per esca ai ragnateli, ai tarli. 567
Lor, non l’età, bisogneria correggere:
che in vece di lodar i Tolomei
fanno i poemi a quei, che non san reggere. 570
E insino i battilani, e i figulei
comprano da costor per quattro giuli
titol di Mecenati e, Semidei. 573
Un poeta non c’è che non aduli:
e col Samosateno, e con il Ceo
si mettono a cantar gli asini, e i muli. 576
Con poche monete un uom plebeo,
degno d’esser cantato in archiloici,
fa di sé rimbombar l’Ebro, e ‘l Peneo. 579
Ch’è dei Cinci adonta, e degli Stoici,
senza temer le lingue de’ Satirici,
s’inalzano i Tiberj in versi eroici: 582
egualmente da tragici, e da lirici
si fanno celebrare, e Claudio, e Vaccia,
e v’è chi per un pan fa penegirici, 585
a fabbricare elogi ognun si sbraccia,
e infino gli scolar s’odon da Socrati
i Tiranni adulare a faccia a faccia. 588
In lodar la virtù son tutti Arpocrati:
e di Busiri poi per avarizia
i Policrati scrivono e gli Isocrati. 591
Termine mai non ha questa malizia;
e dietro a Glauco, per empir la pancia,
tessono encomi insino all’ingiustizia. 594
Se vivesse colui, che la bilancia
non ben certa d’Astrea ridusse uguale,
a quanti sgraffieria gli occhi, e la guancia? 597
Non vi stupite più, se il gran morale
lusinghieri vi nomini e bugiardi;
e Teocrito, zucche senza sale. 600
Di Sparta già quegli animi gagliardi
della città per pubblico partito
scacciarono i cuochi e voi per infingardi: 603
e ciò con gran ragion fu stabilito,
perché se quegli incitano il palato,
attendon questi a lusingar l’udito. 606
L’istesso Omer dall’attico senato,
de’ poeti il maestro, il padre, il Dio,
fu tenuto per pazzo e condannato. 609
Oh risorgesse Atene al secol mio,
che seppe già con adequata pena
a i Demágori far pagare il fio! 612
loda i Tersiti Favorino, e a pena
ai principi moderni un figlio nasce,
che in augurj i cantor stancan la vena. 615
Quando Cintia falcia in ciel rinasce
ha da servir per cuna; e col zodiaco
hanno insieme le zone a far le fasce. 618
Quanti dal Messicano al Egiziaco
fiumi nobili son, quanti il Gangetico
lido ne spinge al mar, quanti il Siriaco; 621
tant’invitando va l’umor Poetico,
a battezzar talun, che per politica
cresce, e vive ateista, e muore eretico. 624
E canta in vece di adoprar la critica,
ch’ei porterà la trionfante croce
dalla terra giudea per la menfitica. 627
Che dalla Tule alla Tirintia foce,
reciderà le redivive teste
dall’eresia crescente all’idra atroce. 630
Che tralasciata la maggior celeste
ricalcheran gli abbondanti calli,
con Astrea le virtù profughe e meste. 633
Per innalzar a un Re statue, e cavalli
hanno fatto insino un certo letterato
sudare i fuochi a liquefar metalli; 636
e un altro per lodar certo soldato,
dopo aver detto - è un Ercole secondo, -
ed averlo ad un Marte assomigliato; 639
non parendogli aver toccato il fondo
soggiunse, e pose un po’ di più sù la Mira:
ai bronzi tuoi serve di palla il mondo. 642
Oh gran bestialità! come delira
l’umana mente! né a guarirla basta
quant’elleboro nasce in Anticira. 645
Divina Verità, quanto sei guasta,
da questi scioperati animi indigeni,
che del falso, e del ver fanno una pasta 648
predica per Atlanti, e per sostegni
della terra cadente uomini tali
che son rovine poi di stati, e regni, 654
se un principe s’ammoglia, oh quanti oh quali
si lasciano veder subito in frotta
epitalamj e cantici nuziali! 657
Ogni Poema poi mostra ininterrotta
di qualche grande la genealogia
dipinta in qualche scudo, o in qualche grotta. 660
E quel che fa spiccar questa pazzia
è che la razza effigiata e scolta
dichiaran sempre i maghi in profezia. 663
Ma se in costoro ogni virtute accolta
come dite, o Poeti; ond’è che ogn’uno
vi mira ignudi e lamentar vi ascolta? 666
se senza aita ogni scrittor digiuna
piange, per questi non han virtute; ovvero
quel Letterato e querulo, o importuno. 669
Deh cangiate oramai stile e pensiero,
e tralasciate tanta sfacciataggine!
Detti un giusto furore ai carmi il vero! 672
Chiate a dire il ver Sunio, o Timaggine;
giacchè l’uom tra gli obbrobri oggi s’alleva,
nè timor vi ritenga, o infingardaggine! 675
Dite di non saper qual più riceva
seguaci, o l’Alcorano, od il Vangelo,
o la strada di Roma, o di Geneva. 678
Dite che della fede è spento il zelo,
e che a prezzo d’un pan vender si vede
l’onor, la libertà, l’anima, il cielo: 681
che per tutto interesse ha posto il piede,
che dalla Tartarìa fino alla Betica
l’infame tirannia post’ha la sede: 684
ch’ogni Grande a far or suda, e frenetica;
e ch’han fatta nel cor sì dura cotica,
che la coscienza più non gli solletica. 687
Deh prendete, prendete in man la scotica,
serrate gli occhi; ed a chi tocca, tocca!
Provi il flagel questa canaglia zotica! 690
Tempo è ormai ch’Angerona apra la bocca
a rinnovar i Saturnali antichi,
or che i limiti il mal passa e trabocca. 693
Uscite fuor de’ favolosi intrichi,
accordate la cetra ai pianti ai gridi
di tante orfane, vedove, e mendichi! 696
Dite senza timor gli orridi stridi
della terra, che invan geme abbattuta,
spolpata affatto da’ tiranni infidi. 699
Dite la vita infame, e dissoluta,
che fanno tanti Roboam moderni;
la giustizia negata, e rivenduta. 702
Dite che a’ tribunali, e ne’ governi,
si mandan solo gli avoltoi rapaci:
e dite che l’oppression, dite gli scherni. 705
Dite l’usure, e tirannie voraci,
che fa sopra di noi la turba immensa
de’ vivi Faraoni, e degli Arsaci. 708
Dite, che sol da’ Principi si pensa
a bandir pesche e caccie: onde gli avari
sulla fame comune alzan la mensa: 711
che con muri, con fossi, e con ripari
ad onta delle leggi di natura,
chiuse han le selve, e confiscati i mari; 714
e che oltre ai danni di tempeste, e arsura,
un pover galantuom, che ha quattro zolle,
le paga al suo signor mezze in usura. 717
Dite, che v’è talun sì crudo e folle,
che sebben de’ vassalli il sangue ingoia,
l’ingorde voglie non ha mai satolle. 720
Dite che di vedere ognun s’annoia
ripiene le città di malfattori,
e non esservi poi se non un boia: 723
che ampio asilo per tutto hanno gli errori,
e che con danno, e pubblico cordoglio
mai si vedon puniti i traditori. 726
Dite che ognor degli Epuloni al soglio
i Lazzeri cadenti, e semivivi,
mangian pane di segala, e di loglio. 729
Dite, che il sangue giusto sgorga in rivi,
ch’esenti dalle pene in faccia al cielo
son gl’iniqui, ed i rei felici e vivi. 732
Queste cose v’inspiri un santo zelo;
nè state a dir quanto diletta e piace
chioma dorata sotto un bianco velo. 735
A che giova cantar Cintia e Salmace,
o di Dafne la fuga, o di Siringa,
i lamenti di Croco, o di Smilace? 738
Più sublime materia un dì vi spinga;
e si tralasci andar bugie cercando,
nè più follìe genio Dirceo vi finga! 741
E chi gli anni desìa passar cantando,
lodi Veturie in vece di Batilli,
sante sapienze, e non pazzie d’Orlando. 744
Che omai le valli al risuonar di Filli,
vedon sazi di pianti, e di sospiri
i sentieri d’Armida, e d’Amarilli. 747
Per i vestigi degli altrui deliri
ognun Clori ha nel cor, Lilla ne’ labri;
ognun canta di pene, e di martìri. 750
Imitan tutti, benchè rozzi e scabri,
Properzio, Alceo, Callimaco, e Catullo,
d’amorose follie maestri, e fabri. 753
Stilla l’ingegno a divenir trastullo
degli uomini dabbene, e ognun trattiensi
al suon d’Anacreonte e di Tibullo. 756
D’incontinente ardor gli Ovidj accensi,
vengon d’affetti rei figli figli lascivi
a stuzzicare, a imputtanire i sensi. 759
E degli scritti lor vani, e nocivi
nelle scuole Cinnarie, e di Cupido
studian le Frini a spennacchiar corrivi. 762
Perché diletti più, l’onesta Dido
si finge una sgualdrina; e per le chiese
serve per ufficiolo il Pastorfido. 765
Da qual donzella non son oggi intese
le Priapèe?[1] ed han virtù che alletta
l’opre, benchè impudiche, e le sospese. 768
De’ versi Fescennini ognun fa incetta,
e di Curzio la sordida Morneide
si vede sempre mai letta e riletta. 771
Son gl’ingegni oggidì da far Eneide,
quei che premendo di zaffate i calli,
scrivono la Vendemmia, e la Merdeide. 774
I lascivi Fallofori[2], e Itifalli[3],
con Inni scellerati e laudi oscene
si tiran dietro i vil Menandri, e i Galli. 777
Di voi, sacre Pimplee, timor mi tiene,
mentre vi veggio strucciolare in chiasso
al pazzo arbitrio di chi va, e chi viene. 780
L’orecchio aver bisognerìa di sasso,
per non sentir l’oscenità de’ motti,
ch’usan nel conversar sboccato e grasso. 783
Son questi insin nei pulpiti introdotti,
d’ond’è forzato, che un cristiano inghiozzi
le facezie dei Mimi, e degli Arlotti[4]. 786
Miserie inver da piangere a singhiozzi!
Che al par de’ banchi ormai de’ saltinbanchi
vanta il pergamo ancora i suoi Scatozzi[5]. 789
Quando mai di cantar sarete stanchi
di dame e cavalier, d’armi e d’amore,
sprone d’impudicizie agli altrui fianchi? 792
A che mandar tante ignominie fuore,
e far proteste tutto quanto il die,
che s’oscena è la penna, è casto il cuore? 795
Tempi questi non son d’allegorie:
l’età, che corre di tre cose è infetta,
di malizia, ignoranza e poesie. 798
Sentito ho raccontar, che fu un trombetta
preso una volta da’ nemici in campo,
mentre stava suonando alla vedetta. 801
Il qual per ritrovar riparo o scampo,
dicea, che solamente egli suonava,
ma col suo ferro mai non tinse il campo. 804
Gli fu risposto allor, ch’ei meritava
maggior pena però, poichè suonando
alle stragi, al furor gli altri irritava. 807
Intendetemi voi, voi che cantando
siete cagion che la pietà vacilla,
e che il timor di Dio si ponga in bando. 810
Da voi, da voi negli animi si stilla
la peste d’infinite corruttele,
agl’incendi voi date esca e favilla. 813
Dite poi, che da un fiore e tosco mele
trae, secondo gl’istinti, o buoni, o rei,
ape benigna e vipera crudele. 816
Oh empj, iniqui, e quattro volte e sei;
pormi il tosco alla bocca, e poi, s’io pero,
dir che maligni fur gli affetti miei. 819
Questo è paralogismo menzognero:
non è simile al fiore il verso osceno,
nè men l’ape e la vipera ha il pensiero. 822
Non racchiudon quei fiori il tosco in seno,
ma sono indifferenti; ai vostri versi
è qualitade intrinseca il veleno: 825
nè l’ape e il serpe trae dai fiori aspersi
il tosco, e il miel per elezion; natura
gli spinge ad opre varie atti diversi. 828
Ma l’alma, ch’è di Dio copia, e figura,
libera nacque, e non soggiace a forza,
benchè legata in questa spoglia impura: 831
opera in sua ragione; e nulla sforza
l’arbitrio suo, che volontario elegge
ciò ch’essa fa nella terrena scorza: 834
ma perché danno a lei consiglio e legge,
nel riconoscer le cose, i sensi frali,
facilmente ella cade e mal si regge. 837
E voi, Sirene perfide e infernali,
le fabbricate con un rio diletto
il precipizio al piede, il vischio all’ali. 8
Non ha la poesia più d’un oggetto:
il dilettare è mezzo, ell’ha per fine
sedar la mente, e moderar l’affetto: 840
ella prima addolcì l’alme ferine,
e ne insegnò soave allettatrice
con favole sue l’opre divine: 8
ella, figlia di Dio, mostrò felice
il suo fattor al mondo; e poscia adulta
fu di filosofia madre e nutrice. 843
E in vece d’esser oggi ornata, e culta
di dottrine santissime, disposti
son sempre i vizj, e la ragion sepulta. 846
Anzi con esecrandi contrapposti
oggi il dar del divino è cosa trita
agli sporchi Aretini, agli Arïosti. 849
Dunque chi più la mente al vizio incita
avrà titol celeste? Ah venga meno,
e vanità sì rea resti sopita! 852
Udite un Agostin di Dio ripieno,
ch’ebri d’error vi pubblica e palesa,
e sacrileghi e pazzi un Damasceno. 855
L’iniqua Poesia la traccia ha presa
degli empj Machiavelli e degli Erasmi,
e di chi separò Cristo e la Chiesa. 858
A che vantar del cielo gli entusiasmi,
se con maniera più profana, e ria
da miniere d’onor traete i biasmi? 861
Scrivere a voi non par con leggiadria,
buffonacci, superbi e ateisti,
se non entrate in chiesa o in sagrestia. 864
D’alme dannate fa maggiori acquisti
per opra vostra il popolato inferno;
così Parnaso ancora ha gli Anticristi. 867
Pensate forse che il flagello eterno
non punisca le colpe, oppur credete
che degli eventi il caso abbia il governo? 870
Se la galea, l’esilio e le segrete,
e se la forca è poi l’ultima scena
ai poeti giammai, ben lo sapete. 873
Sfregiato il volto, e livida la schiena
a quanti han fatto dir con quel di Sorga[6],
che il furor letterario a guerra mena! 876
Deh cangiate tenor, e il mondo scorga
candor su i vostri fogli, e maestosa
la già morta pietade in voi risorga. 879
Sia dolce il vostro stile, onde gioiosa
corra la terra a lui; ma serbi intanto
nel dolce suo la medicina ascosa: 882
sia vago perché alletti; e casto, e santo
perché insegni il costume: è sol perfetto
quando diletta, ed ammaestra il canto. 885
Sia del vostro sudor virtù l’oggetto;
ché, mentre queste atrocità cantate,
d’un insano furor v’infiamma Aletto[7]. 888
Che se gli allori, e l’edere vantate,
è perché avete in testa un gran rottorio
e i fulmini del cielo in voi chiamate. 891
E poi, che giova aver plettro d’avorio,
se quasi ogni poeta in grembo al duolo
delle fatiche sue canta il mortorio? 894
A che di libri più crescer lo stuolo?
Purché insegnasse a vivere e morire,
soverchierebbe al mondo un libro solo. 897
Rimoderate dunque il vostro ardire;
ché rarissimi son quei, che si leggono,
ed un di mille ne suol riuscire. 900
All’immortalòità tutti non reggono:
tra le tarle e le polveri coperti
i libri, ed i licei perir si veggono. 903
La vostra fama è dubbia e i biasmi certi;
e in questi tempi sordidi, ed ingiusti
son pronti i Galbi[8] e i Mecenati incerti. 906
Perché a scorno de’ principi vetusti,
in vece di Catoni e Anassimandri,
s’amano gl’ignoranti e i bellimbusti; 909
e son gli Efestion[9] degli Alessandri
i becchi e i parasiti indegni e vili,
e prezzati i Taurei più che i Licandri: 912
e in cambio degli Orazi e de’ Virgili
danzano in Corte baldanzoi, e lieti
i branchi de’ Clisofi e de’ Cherili[10]. 915
Stiman più i Regi stolidi e indiscreti
d’un istrione o cantatrice i ghigno,
che il sudore de’ saggi e de’ poeti. 918
Ed apre sol de’ potentati i scrigni,
e quando più gli piace ottien udienza
chi porta i polli[11], e non chi porta i cigni[12]. 921
Spenta è già di quei grandi la semenza,
che in distinguere usaro ogni sapere
da i marroni al Maron[13] la differenza, 924
non speri il Mondo più di rivedere
l’eroe di Pella[14], che dormir fu visto,
e dell’opre d’Omer farsi origliere[15]. 927
Di dotti ognuno allor giva provvisto;
e vantava Artaserse un grand’impero
quando facea d’un letterato acquisto. 930
L’istesso Dionisio empio, e severo,
per le pubbliche vie di Siracusa,
a Platon fe’ da servo e da cocchiero. 933
Ma dove, dove mi trasporti, o Musa?
L’orecchio ha il mondo sol per Lesbia e Taide:
ragionar di virtude oggi non s’usa. 936
Solo invaghita di Batillo e Laide,
stufa è di versi quest’età che corre:
secoli da fuggir nella Tebaide[16];
Tempi più da tacer, che da comporre. 940
Note
________________________
[1] - Priapee - composizioni oscene fatte in onore del dio Priapo, quali son quelle che van falsamente sotto nome di Virgilio, e da Giuseppe Scaligero, o dalla scuola sono stimate essere una raccolta di poeti antichi
[2] - Fallofori - ministri del dio Priapo, che portavano in processione il suo gigantesco membro
[3] - Itifalli - soprannomi di Priapi, quasi membri impetuosi e gagliardi, e da tal nome ancora son chiamati alcuni versi detti itifallici, soliti cantarsi nelle composizioni in onore di Priapo
[4] - Arlotti: siintende per il piovano Arlotto Mainardi, di cui erano noti i motti e le facezie
[5] - Scatozzi - cioè ecclesiastici ignoranti
[6] - quel di Sorga - Orazio Flacco, poeta latino
[7] - Aletto - furia infernale (v. Dante)
[8] - i Galbi - allude alla grande avarizia di Sergio Galba e all’incontro alla protezione che Mecenate aveva specialmente dei poeti
[9] - Efestione - uno dei capitani dell’esercito di Alessandro, molto amato dal suo generale
[10] - Cherilo - cattivo poeta greco
[11] - porta i polli - portare i polli in modo figurato vuol dire fare il ruffiano
[12] - cigni - uccelli che cantano dolcemente: sinonimo di poeta
[13] - Maron - cognome del poeta Virgilio
[14] - eroe di Pella - Alessandro Magno, originario di Pella in Macedonia: fu chiamato iuvenis pellacus
[15] - origliere - guanciale: narra la leggenda che Alessandro dormisse con l’opera di Omera per guanciale, sotto il capo
[16] - Tebaide - zona di Tebe in Egitto, sinonimo di solitudine
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© 1996 - Tutti i diritti sono riservati Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi Ultimo aggiornamento: 10 febbraio 2011 |
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Edizione di riferimento:
Satire e vita di Salvator Rosa con note di d'Anton Maria Salvini e d'altri Firenze Dai torchi di Attilio Tofani, con superior permesso, 1833
Le colonne spezzate, e i rotti marmi,
là tra i platani suoi divelti, e scossi
Fronton rimira all’echeggiar de’ carmi. 3
Che da furore ascreo spinti, e commossi
s’odon ognor tanti poeti, e tanti,
che manco gente in Maratona armossi. 6
Suonan per tutto le ribecche, e i canti,
e si vedon sol d’acque inebriati
i seguaci d’Apollo andar baccanti. 9
Quei narra d’Eolo i prigionieri alati;
di Vulcano e di Marte antri, e foreste,
e dal giudice inferno i rei dannati. 12
Questi in mezzo agl’incanti, e alle tempeste
canta i velli rapiti; altri descrive
di Teseo i fatti, e le pazzie d’oreste; 15
La togate, e palliate argive
altri specola, e detta, e sempre astratto
affettate elegie compone, e scrive. 18
Maggior poeta è chi più ha del matto;
tutti cantano omai le cose intese;
tutti di novità son privi affatto. 21
In tali accenti alte querele espresse
quel che nato in Aquino, i propri allori
nel suol d’Aurunca a coltivar si messe. 24
Così di Pindo i violati onori
sferzar ne’ colli suoi sentì già Roma
del flagello maggior de’ prischi errori. 27
Ed oggi il tosco mio guasto idioma
non avrà il suo Lucilio; oggi ch’ascende
ciascuno in Dirce a coronar la chioma? 30
Non irrita il mio sdegno, e non mi offende
sola viltà di stile; a mille accuse
più possente cagione il cor m’accende. 33
Troppo al secolo mio si son diffuse
le colpe de’ poeti; arse, e cadeo
la pianta virginal sacra alle muse. 36
Tacer dunque non vuò, Nume Grineo,
tu mi detta la voce, e tu m’inspira
d’Archiloco il furore, e di Tirteo. 39
Reggi la destra tu. Tolto alla lira
spinge dardo teban nervo canoro,
or che dai vizi altrui fomento ha l’ira. 42
Conosco ben, che a saettar costoro
incurvar si dovria corno cidonio;
che lento esce lo stral d’arco sonoro. 45
Credon questi trattar plettro bistonio:
né d’Eumolpo giammai cotanto odioso
il lapidato stil finse Petronio. 48
No, che tacer non vuo’: ma poi dubbioso
d’onde io muova il parlar rimango in forse,
tanto ho da dir, che incominciar non oso. 51
Sono l’infamie lor così trascorse,
che s’io ne vo’ cantar, le voci estreme
son dal silenzio in sull’uscir precorse. 54
Offre alla mente mia ristretto insieme
un indistinto Caos vizi infiniti,
e di mille pazzie confuso il seme. 57
Quindi i traslati, e i paralleli arditi:
le parole ampollose, e i detti oscuri,
di grandezze, e decoro i sensi usciti. 60
Quindi i concetti o mal espressi, o duri,
con il capo di bestia il busto umano,
della lingua stroppiata i motti impuri. 63
Dell’iperbol qui l’abuso insano,
colà gl’inverosimil scoperti,
lo stil per tutto effeminato, e vano: 66
il delfin nelle selve, e nei deserti,
ed il cignal nel mare, e dentro ai fiumi;
gli affetti vili, e i latrocinj aperti. 69
Prive di nobiltà, prive di lumi;
l’adulazioni, e le lascivie enormi,
l’empietà varso Iddio, verso i costumi. 72
Di tante, e tante iniquità deformi
provo acceso e confuso, e sprone e freno;
sofferenza irritata a che più dormi? 75
Non vedi tu, che tutto il mondo è pieno
di questa razza inutile, e molesta,
che i poeti produr sembra il terreno? 78
Per Dio, poeti, io vo’ sonare a festa,
me non lusinga ambizion di gloria:
violenza moral mi sprona, e desta. 81
Di passar per poeta io non ho boria;
vada in Cirra chi vuol, nulla mi preme
che sia scritta colà la mia memoria. 84
Oh, che dolce follia di teste sceme!
sul più fallito, e sterile mestero
fondare il patrimonio della speme! 87
Sopra un verso sudar l’alma e il pensiero,
acciò che sia con numero costrutto,
se ogni sostanza poi termina in zero. 90
Fiori, e frondi che val sparger per tutto;
se al fin si vede degli autunni al giro,
che di Parnaso il fior non fa mai frutto? 93
Con lusinghiero, e placido deliro
va il poeta spogliando Ermo, e Coaspe,
Sperchio, Bermio, Pettorsi, ormus e Tiro, 96
saccheggia il Tago, e sviscera l’idaspe,
e non si trova un soldo al far de’ conti
tra le Partiche gemme, e l’Arimaspe. 99
Poeti, è ver che Apollo abita i monti;
ma questo non vuol dir che voi speriate
d’averci a posseder luoghi di monti. 102
Ché possibil non è che voi troviate
tra quanti colli a Clavio il tempo eresse
i monti di San Spirto o di pietate. 105
Io non so dove fondiate la messe,
s’altro seme non lo dà Clizio Dio,
che raccolta d’applausi, e di promesse. 108
Superate la fame, e poi l’oblio;
che voi non manderete il grano a frangere,
se non prendete Cerere per Clio. 111
Il vostro stato è troppo da compiangere,
mentre v’scolta ognun cigni dispersi
cantar per gloria, e per miseria piangere. 114
A che star tutto lì tra lettre immersi?
Noto è alle genti anco idiote, e basse,
che non si fan lettre di cambio in versi. 117
Giove io non leggo, cge sapienza amasse,
che quando il mondo ancor vagiva in culla
avea Minerva in capo, e se la trasse. 120
Quest’applauso, che voi tanto trastulla,
dolc’è per chi vivendo, e l’ode, e il vede,
ma dopo morte non si sente nulla. 123
È più dotto oggidì chi più possiede;
scienza senza denar cosa è da sciocchi,
e sudor di virtù non ha mercede. 126
Per aver fama basta aver bajocchi;
che l’immortalità si stima un sogno;
son galli i ricchi, e i letterati allocchi. 129
Quanto adesso vi dico io non trasogno;
da Pindo all’ospedal facil’è il varco;
poichè il saper è padre del bisogno. 132
Gettate a terra la viola e l’arco,
che in quest’età d’ignorantoni, e Mimi
già s’adempì la profezia d’Ipparco. 135
Presi già sono i luoghi più sublimi;
ed il proverbio pubblico risuona:
in ogni arte, e mestier beati i primi. 138
Cangiato è il mondo, oh quanti ne minchiona
la foja della guerra, e della stampa,
la pania della Corte e d’Elicona! 141
Sfortunato colui, che l’orme stampa
ne’ lidi di Libetro avidi e scarsi,
che vi stal mal per sempre, o non vi campa. 144
Torna il conto, o fratelli a spoetarsi:
cantan sino i ragazzi a bocca piena.
Che il poeta è il primiero a declinarsi. 147
Con più d’un guidalesco in sulla schiena
ai nostri dì l’Aganippeo polledro
tanto smagrito è più, quant’ha più vena. 150
L’opere a partorir degne di cedro
vi conducon le stelle in qualche stalla,
perché un Cavallo è a voi Duce, e Sinedro. 153
Chi veglia sulle carte, oh quanto falla!
Che a lottar con fortuna in questi giorni
esser unto non val d’umor di Palla. 156
Nè di Febo il calor riscalda i forni:
e se chiacchiere avete con la pala,
non s’empion d’Amaltea con queste i corni. 159
Il rimedio a non far vita sì mala
è ben dover, ch’oggi vi mostri, insegni
la formica imitar, non la cicala. 162
Non v’accorgete omai da tanti segni,
che nell’inferno della povertade
sono l’alme dannate i bell’ingegni? 165
Chi di voi può mostrarmi una cittade,
ove una Musa sia grassa, e gradita,
se chiuse son le generose strade? 168
Imparate qualch’arte, onde la vita
tragga il pan quotidiano, e poi cantate
quanto vi par La Bella Margherita. 171
Passa la gioventude, e l’ore andate
la vecchiezza mendica di sostanza
bestemmia poi de la perduta etate. 174
Il motto è noto, e cognito abbastanza.
A chi la povertà fitt’ha nell’ossa
refrigerante impiastro è la speranza. 177
Non aspettate l’ultima percossa;
non fate più da sericani vermi
che stolti da per lor si fan a fossa. 180
Appetir quel che offende uso è da infermi;
contro al vostro bisogno, al vostro male
il saper di saper son frali schermi. 183
Ma volete un esempio naturale,
che la vostra sciocchezza esprima al vivo,
e rappresenti il vostro umor bestiale? 186
Era volato un dì tutto giulivo
con un pezzo di cacio parmigiano
un corvo in cima ad un antico olivo. 189
La volpe il vide, e s’accostò pian piano,
per farlo rimanere un bel somaro,
se il cacio gli potea cavar di mano. 192
Ma perché tra di lor eran del paro
scaltri e furfanti, e come dir si suole,
era tra galeotto, e marinaro; 195
ella, che scorso avea tutte le scuole,
ed era masvigliacca in quintessenza,
cominciò verso lui con tai parole: 198
gran maestra è di noi l’esperienza;
ella ci guida in questa bassa riva,
madre di veritade e di prudenza. 201
Quando da un certo io predicar sentiva,
che la fama ha due facce, ed è fallace,
a maligna bugia l’attribuiva. 204
Ma ora l’occhio è testimon verace
di quanto udì l’orecchio, e ben conosco,
che questa fama è un animal mendace. 207
Già, perché si dicea, che nero, e fosco
eri più della pece, e del carbone,
mi ti fingea spazzacamin di bosco. 210
Ma quanto è falsa l’immaginazione;
tu sei più bianco che non è la neve,
e, pazza, io ti stimava un calabrone. 213
Troppo gran danno la virtù riceve
da questa fama infame, e scellerata,
sempre bugiarda, appassionata, e leve. 216
Perde teco, per Dio, la saponata:
tu sembri giusto tra coteste fronde,
tra le foglie di fico una giuncata; 219
e se al candor la voce corrisponde,
ne incaco quanti cigni alzano il grido
là del Cefiso alle famose sponde. 222
Se tu cantar sapessi, io me la rido
di quanti uccelli ha il mondo: eh! che tu sai
che in un bel corpo una bell’alma ha il nido. 225
Così disse la furba, e disse assai,
che il corvo d’ambizion gonfiato, e pregno
credè saper quel che non seppe mai. 228
E per mostrar del canto il bell’ingegno
si compose, si scosse, e il fiato prese,
e a cantar cominciò sopra quel legno. 231
Ma mentre egli stordia tutto il paese
col solito crà, crà, dal rostro aperto
cascò il formaggio, e la comar lo prese. 234
Onde per farla da cantor esperto
si trovò digiun, come quel cane,
che lasciò il certo per segui l’incerto. 237
Così di Pindo voi, musiche rane,
lasciate il proprio per l’appellativo,
e per voler gracchiar perdete il pane. 240
Chè in vece d’un mestier fertile, e vivo,
dietro alla morta e steril Poesia
imparate a cantar sempre il passivo. 243
E tal possesso ha in voi quest’eresia,
che per un po’ d’applauso ebri correte
a discoprir la vostra frenesia. 246
Balordi senza senno che voi siete!
Mentre andate morendo dalla fame,
d’immortalarvi vi persuadete. 249
E siete cisì grossi di legname,
che non udite ognun muoversi a riso
in sentirvi lodar le vostre dame. 252
Stelle gli occhi, arco il ciglio, e cielo il viso,
tuoni, e fulmini i detti, e lampi i guardi,
bocca mista d’Inferno e Paradiso. 255
Dir, che i sospiri son bombe e petardi,
pioggia d’oro i capei, fucina il petto,
ove il magnano amor temper i dardi; 258
ed ho visto, e sentito in un sonetto
dir d’una donna, cui puzzava il fiato,
arca d’arabi odor, muschio e zibetto. 261
Le metafore il sole han consumato,
e convertito in baccalà Nettuno
fu nomato da un certo il Dio salato. 264
Fin la Croce di Dio fu da taluno
chiamata Legno Santo: e pur costoro
sfidan l’Autor dell’Itaco Nessuno. 267
E dell’amata sua, con qual decoro,
i pidocchi colui cantando disse
sembran fere d’argento in campo d’oro. 270
E chi vuol creder ch’un ingegno uscisse,
dai gangheri sì fuora, e bagattelle
tanto arroganti di stampare ardisse? 273
Le nostre alme trattar bestie da selle:
mentre lor serba il Ciel da’ corpi sgombre
biada d’eternità, stalla di stelle. 276
E in pensarlo il pensier vien che s’adombre,
fare il sol divenir boia che tagli
colla scure de’ raggi il collo all’ombre. 279
Ma chi di tante bestie da sonagli
legger può le pazzie, se i lor libracci
delle risa d’ognun sono i bersagli? 282
Che da certi eruditi animalacci
giornalmente alle tenebre si danno
mille strambotti, e mille scartafacci: 285
e tale stima di sè stessi fanno,
e di tanta albagia vanno imbevuti,
ch’è molto mel della vergogna il danno. 288
Che per parer filosofi e saputo,
se ne van per le strade unti e bisunti
stracciati, sciatti, succidi, e barbuti: 291
con chiome rabbuffate, ed occhi smunti,
con scarpe tacconate, e collar storto,
ricamati di zaccare e trapunti. 294
Cada il giorno all’Occaso e sorga all’Orto,
sempre cogitabondi, e sempre astratti
hanno un color d’itterico, e di morto. 297
Discorron tra se stessi come matti,
facendo con la faccia, e con le mani
mille smorfie ridicole, e mille atti. 300
Per certi luoghi inusitati, e strani
si mordon l’ugne, e col greattarsi il capo
pensano ai Mammalucchi, e agl’Indiani, 303
e incerti di formar scanno o Priapo
con la rozza materia, che hanno in testa,
di pensiero in pensier si fan da capo; 306
con la mente impregnata, ed indigesta
senza aver fine alcuno, e senza scopo,
van borbottando in quella parte, e in questa. 309
Han di fantasmi un embrione e dopo
d’aver pensato, e ripensato un pezzo,
partoriscono i monti, e nasce un topo. 312
Che quando credi udir cose di prezzo,
e stai con una grande aspettazione,
gli senti dare in fraschiere da sezzo. 315
La fava con le mele, e col melone,
la ricotta coi ghiozzi, e colla zucca,
l’anguilla col savore, e col cardone. 318
Bovo d’Antona, Drusiana, e Cuccia
son le materie, onde l’altrui palpebre
ogni Scrittore infastidisce, e stucca; 321
anzi dal mal francese, e dalla febre,
e dall’istessa peste insin procacciano
ai nomi, all’opre lor vita celebre. 324
Questi son quei che a dissetar si cacciano
le labbra in mezzo al Caballin Condotto,
quasti i poeti son, che se l’allacciano. 327
Oh Febo, oh Febo, e dove sei condotto?
Questi gli studii son d’un grande cervello?
Sono questi i pensier d’un capo dotto? 330
Lodar le mosche, i grilli, e il ravanello,
ed altre scioccherie, ch’hanno composto
il Berni, il Mauro, il Lasca, ed il Burchiello. 333
Per sublimi materie hanno disposto,
dietro a Bion, Pittagora, ed Anatemio
lodar le rape, le cipolle, e il mosto. 336
In ogni frontispizio, ogni proemio
più di Clitorio han lodi le cantine;
che a un poeta è peccato esser abstemio: 339
e le penne più illustri, e pellegrine
van lodando i caratteri golosi,
con Eufrone il tinello e le cucine. 342
Quindi è, che i nomi lor sono gli Oziosi
gli Addormentati, i Rozzi, e gli Umoristi,
gl’Insensati, i Fantastici, e gli Ombrosi. 345
Quindi è, che dove appena eran già visti
nelle Accademie i lauri, e ne’ licei,
gli osti oggidì ne son provvisti. 348
Ite a dolervi poi, moderni Orfei,
che per i vostri affanni è già finita,
la razza degli Augusti, e de’ Pompei. 351
È che dalle Reggie era sbandita
la mendica virtù; ma i vostri modi,
hanno già la Poesia guasta, e avvilita. 354
E le vostre invenzioni, e gli episodi
son degne di taverne e lupanari:
e voi ne prenderete i premii e le lodi? 357
Altro ci vuol per farsi illustri e chiari,
che straccar tutto il dì Bembi, e Boccacci,
e Fabbriche del Mondo, e Dizionarj. 360
De’ vostri studj i gloriosi impacci.
L’occupazione de’ vostri ingegni aguzzi
fecondi han solo da schiccherar versacci. 363
Stirar con le tenaglie i concettuzzi,
attacconar le rime con la cera,
ad ogni accento far gli equivocuzzi: 366
aver dei grilli in capo una miniera,
far contrapposti ad ogni paroluccia,
e scrivere e stampar ogni chimera. 369
Dentro ai vostri versi oltre la buccia
legge giammai, più d’un la trova tale,
bisognosa d’impiastro, e delle gruccia. 372
E creder di lasciar nome immortale,
con portar frasche in Pindo, e unitamente
fare il somaro, il mulo, e il vetturale? 375
Chi cerca di piacer solo al presente,
non creda mai d’aver a far soggiorno
in mano ai dotti, e alla futura gente. 378
Anzi avrà culla, e tomba in un sol giorno:
chi stampa avverta, che all’oblio non sono
né barche, né cavalli da ritorno. 381
Componimento c’è che al primo suono
letto da chi lo fece, fa schiamazzo;
che sotto gli occhi poi non è più buono. 384
Eppur il mondo è sì balordo e pazzo,
e fatto gli occhi tanto ignorantoni,
chi non scerne dal rosso il paonazzo. 387
Applaude ai Bavj, ai Mevj arciasinoni,
che non avendo letto altro che Dante,
voglion far sopra i Tassi i Salomoni. 390
E con censura sciocca, ed arrogante
al poema immortal del gran Torquato
di contrapporre ardiscono il Morgante. 393
Oh troppo ardito stuol, mal consigliato!
che un ottuso cervel voglia trafiggere
chi men degli altri in poetare ha errato! 396
Non t’incruscar tant’oltre, o non t’affliggere
de’ carmi altrui, che il tuo latrar non muove:
se Infarinato sei vatti a far friggere 399
Son degli scarafaggi usate prove
d’aquila i parti ad invidiar rivolti,
il portar gli escrementi in grembo a Giove. 402
Anco alla prisca età furono molti,
che posposer l’Eneide ai versi d’Ennio:
secol non fu mai privo di stolti. 405
Torno, o poeti, a voi: dentro un biennio,
benché avvezzo con Verre, i furti vostri
non conterebbe il Correttor d’Erennio. 408
Oh vergogna, oh rossor de’ tempi nostri!
I sughi espressi dall’altrui fatiche
servono oggi di balsami, e d’inchiostri. 411
Credonsi di celar queste formiche,
ch’han per Febo, e per Clio, seggio, e caverna
il gran rubato alle caverne antiche: 414
e senza adoperar staccio, o lanterna
si distingue con breve osservazione,
la farina ch’è vecchia e la moderna. 417
Raro è quel libro, che non sia un centone
di cose a questo e quel tolte e rapite
sotto il pretesto dell’imitazione. 420
Aristofano, Orazio, ove siete ite
anime grandi? Ah per pietate, un poco
fuor de’ sepolcri in questa luce uscite. 423
Oh con quanta ragion vi chiamo, e invoco
che se oggi i furti recitar volessi,
Aristofano mio, verresti roco. 427
Orazio, e tu se questi Autor leggessi,
oh come grideresti: Or sì che ai panno
gli stracci illustri son cuciti spessi. 430
Che non badando al variar degli anni,
colla porpora Greca, e la Latina,
fanno vestiti da secondi Zanni 433
gl’Imitator in quest’età meschina,
che battezzasti già Pecore serve,
chiameresti uccellacci di rapina. 436
Delle cose già dette ognun si serve;
non già per imitarle, ma di peso
le trascrivon per sue, penne proterve. 439
E questa gente a travestirsi ha preso,
perché ne’ propri cenci ella s’avvede,
che in Pindo le saria l’andar conteso. 442
Per vivere immortal dansi alle prede,
senza pena temer gl’ingegni accorti;
che per vivere il furto si concede. 447
Né senza questo ancora han tutti i torti:
né s’apprezzano i vivi, e non si citano,
e passan solo le autorità dei morti. 450
E se citati son, gli scherni irritano,
né s’han per penne dgne, e teste gravi
quei, che su i Testi vecchi non s’aitano. 458
Povero Mondo mio, sono tuoi bravi
chi svaligia il compagno, e chi produce
le sentenze furate ai padri, agli avi: 461
e nelle stampe sol vive, e riluce
chi senza discrezion truffa, e rubacchia,
e chi le carte altrui spoglia, e traduce. 464
Quindi taluno insuperbisce, e gracchia,
che, s’avesse a depor le penne altrui,
resterebbe d’Esopo la cornacchia. 468
Stampansi i versi, e non si sa da cui;
e sebbene alla moda ogn’un li guarda,
si rinfaccian tra lor: Tu fosti: Io fui. 471
Per i moderni la fama è infingarda,
per gli antichi non ha stanchezza alcuna;
ogni accento, ogni peto è una bombarda. 474
La Fama è in somma un colpo di fortuna:
Burchiello, e Jacopone hanno il commento,
cotanto il mondo è regolato a luna: 477
e sono ognor cento bestiacce, e cento,
che sol ne’ libri altrui dall’anticaglia
del saper, del valor fanno argomento. 480
Ama questa vanissima canaglia
i rancidumi; e in Pindo mai non beve,
se di vieto non sa l’onda castaglia. 483
Nessuno stile è ponderoso e greve,
se tarlate e stantie non ha le forme,
e gli dan vita momentanea e leve. 486
Non biasmo già, che per esempi, e norme
prendi il Lazio, e la Grecia; anch’io divoto
le lor memorie adoro, e bacio l’orme. 489
Dico di quei, che sol di fango e loto,
usan certi modacci alla dantesca,
e speran di fuggir la man di Cloto. 492
Di barbarie servile e pedantesca
di lo Poesia cotanto è carca,
ch’è assai più dolce una canzon tedesca. 495
Ma qui il mio ciglio molto più s’inarca:
non è con loro alcuna voce etrusca,
se non è nel Boccaccio, o nel Petrarca;
e mentre vanno di parlare in busca,
i toscani mugnai legislatori,
gli trattano da porci con la Crusca. 498
Usan cotanti scrupoli, e rigori
sopra una voce, e poi non si vergognano
di mille sciocchi e madornali errori. 501
Sotto le stampe va ciò che si sognano,
senza che si riveda, e che si emendi,
perché solo a far grosso il libro agognano. 504
E se un’opera loro in man tu prendi,
mentre il jam satis ritrovar vorresti,
vedi per tutto il quidlibet audendi. 507
Sotto nomi speciosi, e manti onesti,
per occultar le presunzion ventose,
porta in fronte ogni libro i suoi protesti. 510
Chi dice, che scorrette, e licenziose
andavan le sue figlie, e perciò vuole
maritarle co’ torchi, e farle spose. 513
Un altro poscia si lamenta, e duole,
che un amico gli tolse la scrittura,
e l’ha contro sua voglia esposta al sole. 516
Quell’empiamente si dichiara, e giura,
che visti i parti suoi stroppiati, e offesi,
per paterna pietà ne tolse cura. 519
Questi, che per diletto i versi ha presi
per sottrarsi dal sonno i giorni estivi,
e ch’ha fatto quel libro in quattro mesi. 522
Oh che scuse affettate! oh che motivi!
Son figlie d’ambizion queste modestie;
perché ti stimi assai, così tu scrivi. 525
Ma peggio v’è: con danni, e con molestie
s’ascoltan negli studi, e ne’ collegi
legger al mondo umanità le bestie. 528
Stolidezza de’ principi, e de’ regi,
che senza distinzion mandano al pari
cogl’ingegni plebei gl’ingegni egregi. 531
Qual maraviglia è poi, che non s’impari?
Se i maestri son bufali ignoranti,
che possono insegnare agli scolari? 534
E son forzati i miseri studianti
di Quintiliano in cambio, e di Gorgìa
sentir ragghiare in cattedra i pedanti. 537
Da questo avvien, ch’Euterpe, e che Talìa
sono state stroppiate: ognun presume
in Pindo andar senza saper la via: 540
che delle scorte loro al cieco lume
mentre van dietro, d’Aganippe in vece
son condotti di Lete in riva al fiume. 543
Di questi sì, che veramente lece
affermar (come io lessi in un capitolo)
ch’han le lettre attaccate con la pece. 546
Io non voglio svoltar tutto il gomitolo
di certi cervellacci pellegrini,
che studian solamente a far il titolo; 549
onde i lor libri con quei nomi fini
a prima vista sembran titolati;
esaminati poi, son contadini. 552
Né potendo aspettar d’esser lodati
dal giudizio comune, escono alteri
da Sonetti e Canzoni accompagnati: 555
e n’empion da sè stessi i fogli interi
sotto nome d’Incognito, e d’Incerto,
e si dan de’ Virgili e degli Omeri. 558
V’è poi talun, ch’avendo l’occhio aperto,
rifiuta i primi parti co’ secondi,
e così da un error l’altro è scoperto. 561
Ma non so se più matti, o se più tondi,
se sian nel fare i libri, o dedicarli,
se più di errori, o adulazion fecondi. 564
Di tempo, o di destin più non si parli:
la colpa è lor, se non sapendo leggere,
servon per esca ai ragnateli, ai tarli. 567
Lor, non l’età, bisogneria correggere:
che in vece di lodar i Tolomei
fanno i poemi a quei, che non san reggere. 570
E insino i battilani, e i figulei
comprano da costor per quattro giuli
titol di Mecenati e, Semidei. 573
Un poeta non c’è che non aduli:
e col Samosateno, e con il Ceo
si mettono a cantar gli asini, e i muli. 576
Con poche monete un uom plebeo,
degno d’esser cantato in archiloici,
fa di sé rimbombar l’Ebro, e ‘l Peneo. 579
Ch’è dei Cinci adonta, e degli Stoici,
senza temer le lingue de’ Satirici,
s’inalzano i Tiberj in versi eroici: 582
egualmente da tragici, e da lirici
si fanno celebrare, e Claudio, e Vaccia,
e v’è chi per un pan fa penegirici, 585
a fabbricare elogi ognun si sbraccia,
e infino gli scolar s’odon da Socrati
i Tiranni adulare a faccia a faccia. 588
In lodar la virtù son tutti Arpocrati:
e di Busiri poi per avarizia
i Policrati scrivono e gli Isocrati. 591
Termine mai non ha questa malizia;
e dietro a Glauco, per empir la pancia,
tessono encomi insino all’ingiustizia. 594
Se vivesse colui, che la bilancia
non ben certa d’Astrea ridusse uguale,
a quanti sgraffieria gli occhi, e la guancia? 597
Non vi stupite più, se il gran morale
lusinghieri vi nomini e bugiardi;
e Teocrito, zucche senza sale. 600
Di Sparta già quegli animi gagliardi
della città per pubblico partito
scacciarono i cuochi e voi per infingardi: 603
e ciò con gran ragion fu stabilito,
perché se quegli incitano il palato,
attendon questi a lusingar l’udito. 606
L’istesso Omer dall’attico senato,
de’ poeti il maestro, il padre, il Dio,
fu tenuto per pazzo e condannato. 609
Oh risorgesse Atene al secol mio,
che seppe già con adequata pena
a i Demágori far pagare il fio! 612
loda i Tersiti Favorino, e a pena
ai principi moderni un figlio nasce,
che in augurj i cantor stancan la vena. 615
Quando Cintia falcia in ciel rinasce
ha da servir per cuna; e col zodiaco
hanno insieme le zone a far le fasce. 618
Quanti dal Messicano al Egiziaco
fiumi nobili son, quanti il Gangetico
lido ne spinge al mar, quanti il Siriaco; 621
tant’invitando va l’umor Poetico,
a battezzar talun, che per politica
cresce, e vive ateista, e muore eretico. 624
E canta in vece di adoprar la critica,
ch’ei porterà la trionfante croce
dalla terra giudea per la menfitica. 627
Che dalla Tule alla Tirintia foce,
reciderà le redivive teste
dall’eresia crescente all’idra atroce. 630
Che tralasciata la maggior celeste
ricalcheran gli abbondanti calli,
con Astrea le virtù profughe e meste. 633
Per innalzar a un Re statue, e cavalli
hanno fatto insino un certo letterato
sudare i fuochi a liquefar metalli; 636
e un altro per lodar certo soldato,
dopo aver detto - è un Ercole secondo, -
ed averlo ad un Marte assomigliato; 639
non parendogli aver toccato il fondo
soggiunse, e pose un po’ di più sù la Mira:
ai bronzi tuoi serve di palla il mondo. 642
Oh gran bestialità! come delira
l’umana mente! né a guarirla basta
quant’elleboro nasce in Anticira. 645
Divina Verità, quanto sei guasta,
da questi scioperati animi indigeni,
che del falso, e del ver fanno una pasta 648
predica per Atlanti, e per sostegni
della terra cadente uomini tali
che son rovine poi di stati, e regni, 654
se un principe s’ammoglia, oh quanti oh quali
si lasciano veder subito in frotta
epitalamj e cantici nuziali! 657
Ogni Poema poi mostra ininterrotta
di qualche grande la genealogia
dipinta in qualche scudo, o in qualche grotta. 660
E quel che fa spiccar questa pazzia
è che la razza effigiata e scolta
dichiaran sempre i maghi in profezia. 663
Ma se in costoro ogni virtute accolta
come dite, o Poeti; ond’è che ogn’uno
vi mira ignudi e lamentar vi ascolta? 666
se senza aita ogni scrittor digiuna
piange, per questi non han virtute; ovvero
quel Letterato e querulo, o importuno. 669
Deh cangiate oramai stile e pensiero,
e tralasciate tanta sfacciataggine!
Detti un giusto furore ai carmi il vero! 672
Chiate a dire il ver Sunio, o Timaggine;
giacchè l’uom tra gli obbrobri oggi s’alleva,
nè timor vi ritenga, o infingardaggine! 675
Dite di non saper qual più riceva
seguaci, o l’Alcorano, od il Vangelo,
o la strada di Roma, o di Geneva. 678
Dite che della fede è spento il zelo,
e che a prezzo d’un pan vender si vede
l’onor, la libertà, l’anima, il cielo: 681
che per tutto interesse ha posto il piede,
che dalla Tartarìa fino alla Betica
l’infame tirannia post’ha la sede: 684
ch’ogni Grande a far or suda, e frenetica;
e ch’han fatta nel cor sì dura cotica,
che la coscienza più non gli solletica. 687
Deh prendete, prendete in man la scotica,
serrate gli occhi; ed a chi tocca, tocca!
Provi il flagel questa canaglia zotica! 690
Tempo è ormai ch’Angerona apra la bocca
a rinnovar i Saturnali antichi,
or che i limiti il mal passa e trabocca. 693
Uscite fuor de’ favolosi intrichi,
accordate la cetra ai pianti ai gridi
di tante orfane, vedove, e mendichi! 696
Dite senza timor gli orridi stridi
della terra, che invan geme abbattuta,
spolpata affatto da’ tiranni infidi. 699
Dite la vita infame, e dissoluta,
che fanno tanti Roboam moderni;
la giustizia negata, e rivenduta. 702
Dite che a’ tribunali, e ne’ governi,
si mandan solo gli avoltoi rapaci:
e dite che l’oppression, dite gli scherni. 705
Dite l’usure, e tirannie voraci,
che fa sopra di noi la turba immensa
de’ vivi Faraoni, e degli Arsaci. 708
Dite, che sol da’ Principi si pensa
a bandir pesche e caccie: onde gli avari
sulla fame comune alzan la mensa: 711
che con muri, con fossi, e con ripari
ad onta delle leggi di natura,
chiuse han le selve, e confiscati i mari; 714
e che oltre ai danni di tempeste, e arsura,
un pover galantuom, che ha quattro zolle,
le paga al suo signor mezze in usura. 717
Dite, che v’è talun sì crudo e folle,
che sebben de’ vassalli il sangue ingoia,
l’ingorde voglie non ha mai satolle. 720
Dite che di vedere ognun s’annoia
ripiene le città di malfattori,
e non esservi poi se non un boia: 723
che ampio asilo per tutto hanno gli errori,
e che con danno, e pubblico cordoglio
mai si vedon puniti i traditori. 726
Dite che ognor degli Epuloni al soglio
i Lazzeri cadenti, e semivivi,
mangian pane di segala, e di loglio. 729
Dite, che il sangue giusto sgorga in rivi,
ch’esenti dalle pene in faccia al cielo
son gl’iniqui, ed i rei felici e vivi. 732
Queste cose v’inspiri un santo zelo;
nè state a dir quanto diletta e piace
chioma dorata sotto un bianco velo. 735
A che giova cantar Cintia e Salmace,
o di Dafne la fuga, o di Siringa,
i lamenti di Croco, o di Smilace? 738
Più sublime materia un dì vi spinga;
e si tralasci andar bugie cercando,
nè più follìe genio Dirceo vi finga! 741
E chi gli anni desìa passar cantando,
lodi Veturie in vece di Batilli,
sante sapienze, e non pazzie d’Orlando. 744
Che omai le valli al risuonar di Filli,
vedon sazi di pianti, e di sospiri
i sentieri d’Armida, e d’Amarilli. 747
Per i vestigi degli altrui deliri
ognun Clori ha nel cor, Lilla ne’ labri;
ognun canta di pene, e di martìri. 750
Imitan tutti, benchè rozzi e scabri,
Properzio, Alceo, Callimaco, e Catullo,
d’amorose follie maestri, e fabri. 753
Stilla l’ingegno a divenir trastullo
degli uomini dabbene, e ognun trattiensi
al suon d’Anacreonte e di Tibullo. 756
D’incontinente ardor gli Ovidj accensi,
vengon d’affetti rei figli figli lascivi
a stuzzicare, a imputtanire i sensi. 759
E degli scritti lor vani, e nocivi
nelle scuole Cinnarie, e di Cupido
studian le Frini a spennacchiar corrivi. 762
Perché diletti più, l’onesta Dido
si finge una sgualdrina; e per le chiese
serve per ufficiolo il Pastorfido. 765
Da qual donzella non son oggi intese
le Priapèe?[1] ed han virtù che alletta
l’opre, benchè impudiche, e le sospese. 768
De’ versi Fescennini ognun fa incetta,
e di Curzio la sordida Morneide
si vede sempre mai letta e riletta. 771
Son gl’ingegni oggidì da far Eneide,
quei che premendo di zaffate i calli,
scrivono la Vendemmia, e la Merdeide. 774
I lascivi Fallofori[2], e Itifalli[3],
con Inni scellerati e laudi oscene
si tiran dietro i vil Menandri, e i Galli. 777
Di voi, sacre Pimplee, timor mi tiene,
mentre vi veggio strucciolare in chiasso
al pazzo arbitrio di chi va, e chi viene. 780
L’orecchio aver bisognerìa di sasso,
per non sentir l’oscenità de’ motti,
ch’usan nel conversar sboccato e grasso. 783
Son questi insin nei pulpiti introdotti,
d’ond’è forzato, che un cristiano inghiozzi
le facezie dei Mimi, e degli Arlotti[4]. 786
Miserie inver da piangere a singhiozzi!
Che al par de’ banchi ormai de’ saltinbanchi
vanta il pergamo ancora i suoi Scatozzi[5]. 789
Quando mai di cantar sarete stanchi
di dame e cavalier, d’armi e d’amore,
sprone d’impudicizie agli altrui fianchi? 792
A che mandar tante ignominie fuore,
e far proteste tutto quanto il die,
che s’oscena è la penna, è casto il cuore? 795
Tempi questi non son d’allegorie:
l’età, che corre di tre cose è infetta,
di malizia, ignoranza e poesie. 798
Sentito ho raccontar, che fu un trombetta
preso una volta da’ nemici in campo,
mentre stava suonando alla vedetta. 801
Il qual per ritrovar riparo o scampo,
dicea, che solamente egli suonava,
ma col suo ferro mai non tinse il campo. 804
Gli fu risposto allor, ch’ei meritava
maggior pena però, poichè suonando
alle stragi, al furor gli altri irritava. 807
Intendetemi voi, voi che cantando
siete cagion che la pietà vacilla,
e che il timor di Dio si ponga in bando. 810
Da voi, da voi negli animi si stilla
la peste d’infinite corruttele,
agl’incendi voi date esca e favilla. 813
Dite poi, che da un fiore e tosco mele
trae, secondo gl’istinti, o buoni, o rei,
ape benigna e vipera crudele. 816
Oh empj, iniqui, e quattro volte e sei;
pormi il tosco alla bocca, e poi, s’io pero,
dir che maligni fur gli affetti miei. 819
Questo è paralogismo menzognero:
non è simile al fiore il verso osceno,
nè men l’ape e la vipera ha il pensiero. 822
Non racchiudon quei fiori il tosco in seno,
ma sono indifferenti; ai vostri versi
è qualitade intrinseca il veleno: 825
nè l’ape e il serpe trae dai fiori aspersi
il tosco, e il miel per elezion; natura
gli spinge ad opre varie atti diversi. 828
Ma l’alma, ch’è di Dio copia, e figura,
libera nacque, e non soggiace a forza,
benchè legata in questa spoglia impura: 831
opera in sua ragione; e nulla sforza
l’arbitrio suo, che volontario elegge
ciò ch’essa fa nella terrena scorza: 834
ma perché danno a lei consiglio e legge,
nel riconoscer le cose, i sensi frali,
facilmente ella cade e mal si regge. 837
E voi, Sirene perfide e infernali,
le fabbricate con un rio diletto
il precipizio al piede, il vischio all’ali. 8
Non ha la poesia più d’un oggetto:
il dilettare è mezzo, ell’ha per fine
sedar la mente, e moderar l’affetto: 840
ella prima addolcì l’alme ferine,
e ne insegnò soave allettatrice
con favole sue l’opre divine: 8
ella, figlia di Dio, mostrò felice
il suo fattor al mondo; e poscia adulta
fu di filosofia madre e nutrice. 843
E in vece d’esser oggi ornata, e culta
di dottrine santissime, disposti
son sempre i vizj, e la ragion sepulta. 846
Anzi con esecrandi contrapposti
oggi il dar del divino è cosa trita
agli sporchi Aretini, agli Arïosti. 849
Dunque chi più la mente al vizio incita
avrà titol celeste? Ah venga meno,
e vanità sì rea resti sopita! 852
Udite un Agostin di Dio ripieno,
ch’ebri d’error vi pubblica e palesa,
e sacrileghi e pazzi un Damasceno. 855
L’iniqua Poesia la traccia ha presa
degli empj Machiavelli e degli Erasmi,
e di chi separò Cristo e la Chiesa. 858
A che vantar del cielo gli entusiasmi,
se con maniera più profana, e ria
da miniere d’onor traete i biasmi? 861
Scrivere a voi non par con leggiadria,
buffonacci, superbi e ateisti,
se non entrate in chiesa o in sagrestia. 864
D’alme dannate fa maggiori acquisti
per opra vostra il popolato inferno;
così Parnaso ancora ha gli Anticristi. 867
Pensate forse che il flagello eterno
non punisca le colpe, oppur credete
che degli eventi il caso abbia il governo? 870
Se la galea, l’esilio e le segrete,
e se la forca è poi l’ultima scena
ai poeti giammai, ben lo sapete. 873
Sfregiato il volto, e livida la schiena
a quanti han fatto dir con quel di Sorga[6],
che il furor letterario a guerra mena! 876
Deh cangiate tenor, e il mondo scorga
candor su i vostri fogli, e maestosa
la già morta pietade in voi risorga. 879
Sia dolce il vostro stile, onde gioiosa
corra la terra a lui; ma serbi intanto
nel dolce suo la medicina ascosa: 882
sia vago perché alletti; e casto, e santo
perché insegni il costume: è sol perfetto
quando diletta, ed ammaestra il canto. 885
Sia del vostro sudor virtù l’oggetto;
ché, mentre queste atrocità cantate,
d’un insano furor v’infiamma Aletto[7]. 888
Che se gli allori, e l’edere vantate,
è perché avete in testa un gran rottorio
e i fulmini del cielo in voi chiamate. 891
E poi, che giova aver plettro d’avorio,
se quasi ogni poeta in grembo al duolo
delle fatiche sue canta il mortorio? 894
A che di libri più crescer lo stuolo?
Purché insegnasse a vivere e morire,
soverchierebbe al mondo un libro solo. 897
Rimoderate dunque il vostro ardire;
ché rarissimi son quei, che si leggono,
ed un di mille ne suol riuscire. 900
All’immortalòità tutti non reggono:
tra le tarle e le polveri coperti
i libri, ed i licei perir si veggono. 903
La vostra fama è dubbia e i biasmi certi;
e in questi tempi sordidi, ed ingiusti
son pronti i Galbi[8] e i Mecenati incerti. 906
Perché a scorno de’ principi vetusti,
in vece di Catoni e Anassimandri,
s’amano gl’ignoranti e i bellimbusti; 909
e son gli Efestion[9] degli Alessandri
i becchi e i parasiti indegni e vili,
e prezzati i Taurei più che i Licandri: 912
e in cambio degli Orazi e de’ Virgili
danzano in Corte baldanzoi, e lieti
i branchi de’ Clisofi e de’ Cherili[10]. 915
Stiman più i Regi stolidi e indiscreti
d’un istrione o cantatrice i ghigno,
che il sudore de’ saggi e de’ poeti. 918
Ed apre sol de’ potentati i scrigni,
e quando più gli piace ottien udienza
chi porta i polli[11], e non chi porta i cigni[12]. 921
Spenta è già di quei grandi la semenza,
che in distinguere usaro ogni sapere
da i marroni al Maron[13] la differenza, 924
non speri il Mondo più di rivedere
l’eroe di Pella[14], che dormir fu visto,
e dell’opre d’Omer farsi origliere[15]. 927
Di dotti ognuno allor giva provvisto;
e vantava Artaserse un grand’impero
quando facea d’un letterato acquisto. 930
L’istesso Dionisio empio, e severo,
per le pubbliche vie di Siracusa,
a Platon fe’ da servo e da cocchiero. 933
Ma dove, dove mi trasporti, o Musa?
L’orecchio ha il mondo sol per Lesbia e Taide:
ragionar di virtude oggi non s’usa. 936
Solo invaghita di Batillo e Laide,
stufa è di versi quest’età che corre:
secoli da fuggir nella Tebaide[16];
Tempi più da tacer, che da comporre. 940
Note
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[1] - Priapee - composizioni oscene fatte in onore del dio Priapo, quali son quelle che van falsamente sotto nome di Virgilio, e da Giuseppe Scaligero, o dalla scuola sono stimate essere una raccolta di poeti antichi
[2] - Fallofori - ministri del dio Priapo, che portavano in processione il suo gigantesco membro
[3] - Itifalli - soprannomi di Priapi, quasi membri impetuosi e gagliardi, e da tal nome ancora son chiamati alcuni versi detti itifallici, soliti cantarsi nelle composizioni in onore di Priapo
[4] - Arlotti: siintende per il piovano Arlotto Mainardi, di cui erano noti i motti e le facezie
[5] - Scatozzi - cioè ecclesiastici ignoranti
[6] - quel di Sorga - Orazio Flacco, poeta latino
[7] - Aletto - furia infernale (v. Dante)
[8] - i Galbi - allude alla grande avarizia di Sergio Galba e all’incontro alla protezione che Mecenate aveva specialmente dei poeti
[9] - Efestione - uno dei capitani dell’esercito di Alessandro, molto amato dal suo generale
[10] - Cherilo - cattivo poeta greco
[11] - porta i polli - portare i polli in modo figurato vuol dire fare il ruffiano
[12] - cigni - uccelli che cantano dolcemente: sinonimo di poeta
[13] - Maron - cognome del poeta Virgilio
[14] - eroe di Pella - Alessandro Magno, originario di Pella in Macedonia: fu chiamato iuvenis pellacus
[15] - origliere - guanciale: narra la leggenda che Alessandro dormisse con l’opera di Omera per guanciale, sotto il capo
[16] - Tebaide - zona di Tebe in Egitto, sinonimo di solitudine
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© 1996 - Tutti i diritti sono riservati Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi Ultimo aggiornamento: 10 febbraio 2011 |