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Giosue Carducci Giacomo Leopardi deputato /head>

Giosue Carducci

GIACOMO LEOPARDI DEPUTATO

Edizione di riferimento

Prose di Giosue Carducci, Zanichelli, Bologna 1907

 

 

Di centenari, da quello di Dante in poi se n’è fatti e se ne fa troppi nel nostro paese: ma bisogna pur compatirla, questa povera Italia: pagana e cattolica nell’ossa, ell’ha bisogno di aver tuttavia delle feste e delle processioni; o di arvali e di santi, o di filosofi e di miscredenti, o di vergini martiri o di poeti, è lo stesso. E un po’ insieme di tutto questo si direbbe apparire, chi ben consideri, Giacomo Leopardi; il cui centenario si festeggierà in Recanati nel giugno del 1898. All’Italia, che, su ’l risorgere, pativa, eroica aspettante, le ultime battiture dei tempi, il Piceno, ne’ due massimi ingegni che mai producesse, Gioacchino Rossini e Giacomo Leopardi, diè anche i due massimi tipi della diversa attitudine e potenzialità, storia e destinazione di nostra gente; l’artista felicissimo e il piú sovranamente infelice. E pure chi ben pensi ed ami, benché profondamente persuaso che ambedue quelle eccessività del senso e dello spirito importino un manco di perfezione alla sana e degna ed equilibrata personalità umana, benché non meno persuaso che dalle manifestazioni di tali eccessività debbano del pari uscire effetti non de’ piú conducenti alla grandezza e gloria vera d’un popolo; e pure, dico, chi bene ami e pensi, se la conscienza gli permetta l’orgogliosa ipotesi della scelta tra’ due, piú tosto che la beatitudine del Giove olimpico della musica e della gastronomia vorrà eleggere la miseria sconsolata del giovine Job del pensiero e della poesia d’Italia. E quel Job, in quel giorno di giugno del 1898, che sarà splendido certamente di sole, e la giovine estate riderà, fiorente, serena, odorosa, per il bellissimo paese digradante a specchio dell’azzurro Adriatico, qualcuno potrà imaginarselo levarsi su, vivo, nella piazza del natio borgo selvaggio, co ’l penoso atteggiamento che già diede alla povera persona il povero scultore Ugolino Panichi, morto anch’ esso anzi tempo. E parrà udirlo rimessamente dire: – O duri umani, perché festeggiate il giorno del mio nascere, che fu principio a me d’ogni male? Meglio per me sarebbe stato non essere; ma non, è vero, per voi. Festeggiate, festeggiate: da poi che tutti, e voi del mio sangue, e voi della mia terra, e voi sacerdoti e institutori, e voi dottori e maestri, e voi donne ed amici, voi tutti, inconsci e tranquilli instrumenti della falsa e debole e crudele depravazione italiana, l’anima che Dio mi diede nobile e alta, l’intelligenza sortita dalla natura a vedere la intima fiammella del vero e del bene nei profondi dell’essere, voi la straziaste, la frangeste, la spremeste, come dell’olive e dell’uva si fa co ’l torchio; e del vino del mio sangue v’inebriaste e vi spalmaste con l’olio del mio cervello alle vostre dilettazioni. Eccomi. Io sono la vittima della postrema servitú d’ Italia.

Morte domanda

Chi nostro mal conobbe e non ghirlanda.

Voi godete; e siate liberi, se potete; ma per essere tali, odiate e scuotete da voi la falsità la vanità, la vigliaccheria dell’educazione e del pensiero, che fu la tabe de’ vostri vecchi. – Cosí io credo che parlerebbe Giacomo Leopardi agl’italiani, se i morti si curassero di far la predica ai mal vivi.

II.

Intanto il senatore Filippo Mariotti, mente e anima del centenario leopardiano, intende a trarne vantaggio per gli studi, raccogliendone la direzione e la condotta nella Deputazione di storia patria per le province del Piceno; dalla quale ha fatto deliberare con altre cose, la impressione d’un catalogo della biblioteca di casa Leopardi qual era al tempo di Giacomo e premi a chi metta insieme altro catalogo, descrittivo e ragionato degli sparsi manoscritti del poeta e una bibliografia leopardiana il piú che sia possibile ampia ed intera.

Ed egli primo dà l’esempio di cercare e trovare: oggi stesso (15 novembre) presenterà alla Deputazione adunata in Ascoli questo documento, ch’ei ricavò dall’archivio del Comune di Recanati e mi concede gentilmente per comunicarlo nella Nuova Antologia.

 

Nomina del deputato di Recanati all’Assemblea

dei deputati delle Provincie unite italiane.

 

GOVERNO PROVVISORIO DI MACERATA E PROVINCIA.

Recanati li xix maggio MDCCCXXXI.

 

Per disposizioni superiori il nobil uomo signor cavalier Filippo conte di Colloredo, gonfaloniere e presidente del Comitato, ha convocato il Consiglio da tenersi alle ore 22 di questo giorno nel pubblico palazzo.

Sono intervenuti li signori: Presidente del comitato, cavalier Filippo conte di Colloredo, gonfaloniere — Membri del comitato: conte Monaldo Leopardi, conte Pietro Galamini, Giuseppe Flamini - Consiglieri: Luigi Stanislao Galli, Antonio Condulmari, Giuseppe Sturani, Muzio Calcagni, Antonio Bettini, conte Ercole Mazzagalli, Lorenzo Orlandi, Domenico Fontana, Niccola Pintucci, Antonio Presuttini, Carlo Rabagli, Vincenzo Clementi, Placido Conti, Massimiliano Morosi, Giuseppe Pagliarini, Giuseppe Morici, Giuseppe Gatti Corsetti — Segretario, Camillo Frontoni.

Fu implorato il divino aiuto. Unica proposta. Per gli effetti del dispaccio del Comitato provvisorio di governo di Macerata, di cui si fa lettura, in data 17 corrente n. 1217, div. I (protocollo municipale n. 150) pervenuto soltanto alle ore 24 dello stesso giorno, fu convocato il Consiglio per il giorno di ieri, onde devenire a termini del dispaccio medesimo, alla elezione del deputato da spedirsi a Bologna.

Essendosi però riuniti dodici consiglieri soltanto, numero insufficiente a stabilire la legalità dell’atto, questo Comitato devenne alla risoluzione di ripetere gli inviti alli signori consiglieri, conforme hanno avuto effetto in data di ieri per l’adunanza consigliare da tenersi oggi alle ore 22 in questo pubblico palazzo. Giunta l’ora destinata ed intervenuti li signori consiglieri sopradescritti, inerentemente al dispaccio medesimo, si procede ora alla nomina del deputato distrettuale.

Sentito il desiderio unanime dei signori consiglieri, il sig. cav. gonfaloniere ha proposto per deputato il signor

Conte GIACOMO LEOPARDI,

ordinando che questa scelta venga portata allo scrutinio segreto per la completa sua legalità, non ostante la ripetuta generale acclamazione.

Ottenne ventuno voti favorevoli, nessun voto contrario.

Dopo ciò, rese grazie all’Altissimo, si è sciolta l’adunanza.

Il gonfaloniere presidente del Comitato

cav. Colloredo.

CAMILLO FRONTONI, segretario.

 

Dico vero: al primo leggere questo documento, il cuore mi fece un balzo, e non potei non pensare rallegrandomi meco: — Anche lui! anche lui! Nessuno de’ grandi ingegni di questo secolo sfuggì dunque al dovere di partecipare pur con l’opera alla rivoluzione italiana —. Ma, ahimè!, non lo scrittore per anche, sì l’uomo era già disfatto; ricordate la lettera del 15 decembre 1830 agli amici di Toscana: “Non mi vo’ piú dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena”. E la rivoluzione era già soffocata: a’ 21 marzo, Giacomo, prima di sapere della sua elezione, scriveva da Firenze al padre: “Oggi o dimani passano di qui quattromila austriaci diretti verso Forlí per la via dei monti”. Loreto e Recanati erano insorti il 18 febbraio: ma i comizi elettivi all’Assemblea nazionale delle province unite furono regolati con decreto 12 marzo del Governo provvisorio di Bologna, che stabilì per la provincia di Macerata otto rappresentanti; tre per Macerata, uno per Fabriano, uno per Recanati, uno per Loreto, uno per San Severino, uno per Camerino. E l’Assemblea era terminativamente convocata in Bologna per il 25; ma in Bologna il 21 erano gli Austriaci.

Ai 29 Giacomo scriveva da Firenze a Monaldo Leopardi queste parole, che mi paiono chiaramente accennare una sua risposta di renunzia a lettera di partecipazione pervenutagli dal Comitato di Recanati: “Mio caro papà. Spero ch’ella sarà contenta dell’acclusa, ch’ella suggellerà. Desidero però sommamente che la città e la provincia si scordino ora totalmente di me e de’ miei: creda per certo che non possono farci cosa piú vantaggiosa. Gli austriaci sono a Rimini”. Parole di colore oscuro paionmi quelle che ho riferite in corsivo. Che le dettava? Orgoglio gentilizio de’ Leopardi, in urto com’erano co ’l popolo e co ’l Comune? o dispetto del gobbetto di casa Leopardi, di cui i giovanotti e i ragazzi di Recanati avean fatto strazio e ora nel maggior bisogno la città ricorreva a lui? o simulazione del giovane liberale in conspetto al padre reazionario cui la nomina non poteva esser piaciuta? E pure egli stesso, il padre, aveva concorso a farla: egli stesso, che diceva il nato dolcissimo governo del governo del Papa, aveva deputato il figliuol suo maggiore ed illustre a rappresentare la rivoluzione, la rivoluzione che apertamente fino dall’8 febbraio proclamava cessato di fatto e per sempre di diritto il dominio temporale del romano pontefice. [1]

 

Ma torniamo al padre, del quale niente ho a disdire. La sera del 18 marzo il conte Monaldo aveva scritto al cognato marchese Carlo Antici in Roma:

Parmi di vedere un partito inclinato a nominare il mio figlio Giacomo. Procurerò di persuadere ch’egli, per quanto conosco il suo umore e pigrizia, non accetterà, e metterò ancora in vista che la elezione di un assente potrebbe sembrare un pretesto preso per non mandare nessuno. Quando però avrò detto tutto quello che mi conviene, lascerò fare.

E di nuovo ai 22 marzo :

 

Sabato 19 corrente fu adunato di nuovo il Consiglio onde nominare il deputato distrettuale all’Assemblea di Bologna, e, come io prevedeva, venne eletto a pieni voti mio figlio. Conoscendo il suo deciso amore per la tranquillità e ritiro, dissi apertamente, che non avrebbe accettato, ma si volle supporre che io parlassi per complimenti), e non mi diedero retta. Credo certo che Giacomo non andrà; ma, giacché la cosa ha camminato così, questa elezione ci darà tempo di maturarne un’altra, la quale fatta all’infretta e in momento di tanta incertezza avrebbe potato e forse dovuto cadere in soggetto poco adattato.

 

Questo fare per non fare, questo dire per non essere creduto, questo continuo sottintendere il tradimento, è di quell’arte che i moralisti gesuitanti chiamavano machiavellica, ed era lor propria ed essi ne fecero la pratica della depravazione italiana. Il fatto è che Monaldo Leopardi, questo paladino d’ogni cosa nera, invano tentato riabilitare (la parola è barbara quanto stolto il pensiero) dall’indifferenza retorica dei letterati in cui il difetto di cuore vorrebbe essere imparzialità e il difetto di mente tolleranza; sí, questo ammiratore ed emulo degli eviratori e de’ boia, aveva paura e commetteva un’azione falsa; per poi, dopo la pacificazione austriaca, liberarsi a un’orgia di furore contro il liberalismo e i liberali ne’ Dialoglretti sulle materie correnti nell’ anno 1831.

 

 

III.

 

Codesti Dialoghetti il conte Monaldo Leopardi li pubblicò con data 17 decembre 1831, con motto La verità tutta o niente, ma senza nome. E fin dal primo introduceva l’Europa a discorrere della sovranità del papa come l’aveva lasciata il trattato del 1815, così:

 

L’ Europa. Il Papa ha riavuto il suo stato?

LItalia. Sì, lo ha riavuto.

L’Europa. Tutto?

L’Italia. Sì  tutto; meno un campetto di là dal Po.

L’Europa. Via, per un campetto.

L’Italia. Un campetto con trentamila abitanti.

L’Europa. Canchero, questo è un principato, non è un campetto. E perché glielo hanno levato?

L’Italia. Per attondare i dominii.

L’Europa. Cosa ci entra il tondo o il quadro sul mio e sul tuo ? ... E Avignone lo ha riavuto?

L’Italia. Di questo, mammina mia, non si parla. Avignone con tutte le sue dipendenze non torna piú.

L’Europa. E lo dite con questa disinvoltura? Un dominio della Santa Sede in cui sono ottanta terre o città e due o trecento mila abitanti non torna piú? Per qual motivo non le vien restituito?

L’Italia. Per usare una galanteria e una buona azione alla Francia.

L’Europa. Oh questa è bella davvero. Non basta che il diritto di proprietà venga sottomesso alla ragione del tondo, e si devono perdere gli stati ancora per complimento? E poi questi miei figliuoli i quali dispongono delle mie membra hanno forse molte obbligazioni alla Francia per farle un regaluccio di provincie come si dona ad una bella ragazza un mazzetto di gelsomini? ... Almeno il Papa avrà ricuperato i beni della Chiesa che non erano venduti?

L’Italia. Ha ricuperato certi scarti, ma il meglio è restato all’appannaggio del viceré d’Italia.

L’Europa. Come ci entra l’appannaggio del viceré quando non c’è piú il viceré? Quando uno perde l’impiego non può conservare il salario.

L’Italia. In questo non ci ho veduto chiaro; ma si è fatta una certa capriola, e i beni del vicereame sono passati al principe Bellabriglia [Beauharnais].

L’Europa. Dunque il figliastro del Còrso s’impappa una minestra di quattro o cinque milioni di scudi ?

L’ Italia. Come si aveva da fare ? Anche in questo ci entrava la civiltà, e se non si voleva pensare a lui bisognava almeno pensare alla moglie. Povera donna: si aveva da lasciare in camicia?

L’Europa. Chi lo avesse detto a san Pietro che il suo man­tello dovesse servire per fare i sottanini alle signore?

 

Come prosa, non è della peggio. L’ironia lucianesca, che ne’ Dialoghi del figliuolo mette tristezza, in questi Dialoghetti paterni si rileva e diverte, segnatamente dove si scarica su le ipocrisie e falsità de’ sovrani restaurati e restauratori; ma in generale il nobile conte fa scambietti e lazzi poco puliti da commedia dell’arte e ha grossolanità conventuali. Se non che, tornando all’argomento, con tali idee in corpo su i temporali diritti del papa, quella di votare per mandare il figliuolo a deputato nell’Assemblea delle province unite fu una vera furfanteria. Mi perdoni l’ombra di quel vantato galantuomo; ma il vocabolo è questo, e si trova nel vocabolario della Crusca, e non fa nessuna scorticatura alle pelli gentili: io séguito, una volta tanto, il suo stile.

Il quale, tra i grossi, che sono le migliaia, fece furore. I Dialoghetti andarono a ruba: sei edizioni in cento giorni: traduzioni in piú lingue. Il Nobili, editore pesarese, ne guadagnò duemila scudi: egli, il conte, a sua lode, non ne ebbe un centesimo. Orribili e mirabolane cose gridava Monaldo: moderazione giacobina del Congresso di Vienna: smembramento della Francia: diritto e ragione del Turco su’ Greci ribelli. Lamennais prese su ’l serio e onorò di lunghe confutazioni le trasonerie di cotesto Pirgopolinice della reazione alle quali l’Austria chiuse le sue frontiere.

In questo mezzo dei Dialoghi e delle Operette morali del conte Giacomo figliuolo a pena si pispigliava in Italia; e il Manzoni volle poi giustificarsi dell’ avere lodato al Sainte-Beuve quel libretto come il meglio scritto in prosa da un gran pezzo in Italia. L’Italia attribuiva al poeta i Dialoghetti del conte padre. Era troppo. A’ 12 maggio del 1832 Giacomo Leopardi dichiarava al direttore dell’Antologia: "Non sono autore del libro che molti mi attribuiscono intitolato Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831. Vi prego a pubblicare nel vostro degno giornale questa dichiarazione. E di tutto cuore vi abbraccio e vi saluto„. E quindici giorni dopo scriveva al padre cosí:

 

Ella dove sapere che, atteso l’identità del nome e atteso l’esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l’ha fatto assai generalmente attribuire a me. A Roma.... due terzi del pubblico lo credevano mio; ed io non mi era appena nominato o fatto nominare in qualunque luogo che ero salutato come autore dei Dialoghetti. In Toscana poi tutti quelli che lo credevano di Leopardi ( e non di Canosa o d’altri ai quali è stato attribuito) lo credevano mio. A Lucca il libro correva sotto il mio nome. Si dice che egli abbia operato grandi conversioni per mezzo di questa credenza....; e il duca di Modena, che probabilmente sa la verità della cosa, nondimeno dice pubblicamente che l’autore son io, che ho cambiato opinione, che mi sono convertito, che cosí fece il Monti, che cosí fanno i bravi uomini. E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, altri apostasia ecc. ecc. Io ho esitato quattro mesi, e infine mi son deciso a parlare per due cagioni. L’una, che mi è parso indegno l’usurpare in certo modo ciò ch’ è dovuto ad altri, e massimamente a lei. Non son io l’uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. Se il romanzo di Manzoni fosse stato attribuito a me, io non dopo quattro mesi, ma, il giorno che l’avessi saputo, avrei messo mano a smentire questa voce in tutti i giornali. L’ altra, che io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito né di essere assomigliato al Monti, ecc. Io non sono stato mai né irreligioso né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano ne Dialoghetti, e che io rispetto in lei e in chiunque li professa di buona fede, non sono stati però mai tali ch’io dovessi né debba né voglia disapprovarli. Il mio onore esigeva ch’io dichiarassi di non aver punto mutato opinioni; e questo è ciò ch’io ho inteso di fare ed ho fatto (per quanto oggi è possibile) in alcuni giornali. In altri non mi è stato permesso.

 

Piú esplicitamente aveva scritto, il 15 maggio, a Roma, al cugino Gius. Melchiorri, cosí:

 

Lo stesso mio padre troverà giustissimo ch’io non mi usurpi l onore ch’è dovuto a lui. D’altronde io non ne posso piú, propriamente piú. Non voglio piú comparire con questa macchia sul viso, d’aver fatto Quell’infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Qui tutti lo credono mio, perché Leopardi n’é l’autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l’autore son io. Fin il governo [toscano, s’intende] mi è divenuto poco amico per causa di quei sozzi fanatici dialoguzzi. A Roma io non poteva piú nominarmi o essere nominato in nessun luogo  che non sentissi dire : ah, l’autore dei dialoghetli. Impossibile ch’io ti narri tutti gli scorni che ho dovuto soffrire per quel libro. A Lucca il libro corre sotto il mio nome. Io stampo in tutti i giornali d’Italia la mia dichiarazione: essa esce a momenti in quei di Toscana. In Francia ne mando una molto piú strepitosa.

 

Dello scrivere strepitosamente in Francia non so; né credo ne facesse nulla. Ma graziosissima, considerato l’umore delle bestie, è una risposta, trovata tra le carte leopardiane napoletane, dei preti scriventi la famigerata Voce della Verità:

 

Modena, li 31 maggio 1832.

DIREZIONE

della

GAZZETTA DELL’ITALIA CENTRALE

LA VOCE DELLA VERITÀ.

A chi fra noi non ignora il nome di V. S., è troppo noto aver Lei dedicato il suo bellissimo ingegno a tutt’altra causa che a quella sí potentemente ed imperterritamente sostenuta dall’incomparabile autore dei Dialoghetti: onde ne pare che tornerebbe affettata e superflua la pubblicazione della protesta da Lei spedita. Ci desideriamo quindi migliori occasioni per manifestarle in effetto la nostra disposizione a servirla.

Pei redattori della Voce della Verità

CESARE CALVANI.

Al mobile e chiarissimo Signore

il signor conte Giacomo Leopardi

FIRENZE.

 

 

IV.

 

Il duca di Modena potè fare a Giacomo Leopardi il torto di scambiare il padre per lui, ma l’Italia ebbe sempre fedele il suo doloroso poeta: l’Italia che di quella gran tristezza che sono i Paralipomeni, sola ispirazione lasciata al deputato di Recanati dal Trentuno, non volle ricordare che le contraddizioni.

 

Se fosse Italia ancor per poco sciolta

Regina torneria la terza volta.

 

Non piú né meglio pensavano e scrivevano gli autori del Primato e della Terza Roma. E i vecchi liberali consolavano i loro odii ripetendo,

 

Noi, disse il general, siam birri appunto

D’Europa e boia, e professiam quest’arte:

 

e i giovani fremevano e si armavano già in pensiero per le giornate dell’aprile e del giugno 1849 leggendo:

 

Di Roma là sotto l’eccelse moli,

Pigmeo, la fronte spensierata alzando,

Percote i monumenti al mondo soli

Con sua verghetta il corpo dondolando.

 

Ma già fin dal 1820 la vecchia Austria aveva fiutato di che sapesse la canzone ad Angelo Mai monsignore.

 

Questa poesia odora di quello spirito di fatale liberalismo che pare abbia accecato qualche infelice regione del nostro suolo. Sotto le spoglie di un altro oggetto, cioè di quello della decadenza dell’itala letteratura,.... si vorrebbe forse tentar di propagarne il veleno nelle nostre provincie. Questo è uno di quei malefici libricciuoli, che per esser di poco volume e di poco costo, può esser letto da tutti, tanto piú apparendo sotto un titolo improprio ed a prima giunta non allarmante. Io sarei quindi del rispettoso sentimento che quest’operetta dovess’essere soppressa.

 

Cosí un confidente, o censore che fosse, scriveva, il 7 agosto, al direttore di polizia in Venezia; e il 21 da Monza l’arciduca Ranieri viceré del Lombardo-Veneto ordinava al conte Strassoldo presidente del governo di Milano: “Essendo questa poesia scritta nel senso dei liberalismo ed avendo la tendenza a rafforzare i malintenzionati nelle loro malvage viste, essa vuolsi per ciò tosto proibire e tagliare la via all’introduzione di contrabbando ed alla diffusione„. Vent’anni dopo, nel ’41, la stessa polizia austriaca proibiva una edizione fiorentina de’ Canti per “irreligiosità e principii antisociali„ [2].

Anche dopo il 1849, durò, anzi crebbe, l’efficacia politica del Leopardi su la gioventù. Nel libro di Raffaele De Cesare intitolato Una famiglia di patriotti e, singolar documento di quanto temessero del poeta i nostri tiranni, una sentenza del pretore di Reggio Calabria, che condannava nel 1856 a mille ducati di multa Pietro Merlino barbiere, “colpevole di detenzione di un libro proibito intitolato Canti di Giacomo Leopardi„. Ciò che sentissero del Leopardi i giovani nel 1859, lo ritrasse benissimo quel buon Marco Monnier, che tanto amò e degnamente esaltò il povero grande poeta: “Inchinatevi davanti a quest’omicciattolo gracile e malaticcio che non vedeva che campi di battaglia e che evocava un’Italia di giganti. – Con Manzoni in chiesa – dicevano gl’Italiani, ed aggiungevano: – Con Leopardi alla guerra„.

Un anno appresso, la consecrazione patriottica del poeta fu fatta con un nobilissimo decreto dato in Ancona a’ 3 novembre del 1860 da Lorenzo Valerio, commissario generale nelle province delle Marche, in nome di Sua Maestà il re Vittorio Emanuele II:

 

Veduto il manifesto del Comitato Nazionale centrale delle Marche col quale si propone un monumento per soscrizione privata alla memoria di GIACOMO LEOPARDI;

Facendo plauso al pensiero di sciogliere questo debito verso il grande concittadino nel momento in cui le provincie che lo videro nascere s’apprestano a far uso del loro diritto politico ed a concorrere nella grande opera dell’Unità Italiana, che fu la visione continua di quell’altissimo intelletto;

Considerando che il Governo fa omaggio alla maestà della Nazione riconoscendo la fama dei grandi uomini la quale è patrimonio nazionale, e che onora sé stesso onorando l’ingegno, primo fra le umane potenze;

Considerando che in Giacomo Leopardi si congiunsero le facoltà dell’immaginazione, della memoria e del raziocinio in sí rara contemperanza da farne un grande filosofo, un erudito meraviglioso ed un poeta sovrano;

Considerando che, se non è suscettiva d’imitazione l’altezza dell’ingegno la quale è dono di Dio, è però degno d’un Governo nazionale il proclamare e porre in esempio alla gioventù il sommo affetto alla patria e la tenacità del volere, onde Giacomo Leopardi in una vita breve, sofferente e incontaminata, vinse tutti gli ostacoli che la natura e i tempi gli opponevano;

In virtù dei poteri conferitigli col decreto reale 12 settembre 1860

 

decreta:

 

Articolo unico. — Il Governo concorre per la somma di lire cono nell’ erezione di un monumento alla memoria di Giacomo

Leopardi; e ciò per attestato di reverenza al nome insigne, e segno di affetto alle provincie delle Marche, di cui egli è la piú grande moderna illustrazione.

 

Non faccio commenti. Come eravamo degni del gran nome d’Italia e che forza d’idealità avevamo in que’ giorni gloriosi!

 

16 novembre 1696.

 

Note

____________________________

 

[1] [Dando a ristampare nel presente libro queste mie pagine, sono ben contento d’avermi a ricredere del sospetto accidioso in cui le parole oscure del poeta mi avean fatto cadere. Non dispetti non orgogli non infingimenti, ma verità di cose e dignità di sensi ispirarono la responsiva di Giacomo Leopardi al Comitato di Recanati, la quale o copia della quale fu ritrovata a questi ultimi giorni [25 ott. 1897 ] tra le carte leopardiane lasciate in eredità da Ant. Ranieri.

 

Illustrissimo Comitato,

 

Sono infinitamente sensibile all’onore fattomi dalle Vostre Signorie illustrissime e dal Consiglio di codesta città, di eleggermi a loro rappresentante nell’Assemblea Nazionale che era per tenersi a Bologna, secondo mi viene notificato dal loro venerato dispaccio del 21 cadente. Suppongo ora le SS. VV. informate della occupazione di Bologna fatta già molti giorni addietro dalle truppe austriache, e della partenza del Governo provvisorio da quella città per porre la sua residenza in luogo piú sicuro. Di questo luogo, il quale anco sembra cambiarsi di giorno in giorno, non è facile qui aver notizia precisa, e impossibile poi sarebbe ottenere passaporti a quella volta. Le circostanze cambiate rendono dunque, almeno per il momento, ineseguibili le disposizioni delle SS. VV. ill.me a me relative, ma non distruggono né la gratitudine ben viva che io sento alla confidenza dimostratami da esse SS. VV., né il desiderio ardentissimo di servire cotesta mia patria, a qualunque mio costo e fatica, ogni qualvolta che lo consentano i tempi e che l’opera mia non paia dover essere, come in questo caso, del tutto fuori di luogo.

Sono con profondo rispetto

delle Signorie Vostre Ill.me

Firenze, 29 marzo 183I.

  um.o d.mo obb.mo s.re

GIACOMO LEOPARDI.

All’ Ill.mo e nobilissimo

Comitato di Governo Provvisorio di

RECANATI.

[2] A. D’ANCONA, xv giugno mdccclxxvii, Città di Castello, Lapi: e Man. di letter. Ital., v (Firenze, Barbera, 1895) pag. 177. Anche, e più: F. Lampertico, La canzone di G. L. ad A. M. e la censura, Vicenza, Burato, per nozze, 1888.

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Ultimo aggiornamento: 20 dicembre 2011

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