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Bruno Biral, Il significato di Natura in Leopardi /head>

Bruno Biral

Il significato di «natura»

[in Leopardi]

Edizione di riferimento:

Bruno Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Piccola biblioteca Einaudi, Filologia. Linguistica. Critica letteraria, Torino 1974.

Il Leopardi ebbe la ventura di incontrare ben presto sulla propria strada lo schema settecentesco di «natura–ragione» che godeva di un’enorme autorità. La contrapposizione era troppo seducente perché potesse sfuggire alla sua stretta un giovane poeta che aveva bisogno di giustificare delusione e inganni. Il Leopardi, che nel 1818 polemizzava con la letteratura romantica e che spregiava l’Italia della Restaurazione, aveva tutti i motivi per farla sua e per collocarla alla cima dei suoi pensieri.

La ragione profonda era questa: credere che esiste una realtà primaria che non viene mai meno e che opera sempre il bene. Questa realtà si chiama la «Natura»: se gli uomini si rivolgono a lei, prendono coscienza di quello che essi dovrebbero essere.

La prima rottura con il pesante ambiente paterno avvenne nel periodo in cui Giacomo si legò d’amicizia con il Giordani, e nel 1818 nacque la canzone di spiriti liberali All’Italia. Ma la rivolta contro le idee tradizionali si matura nel 1819, che è l’anno della crisi e della tentata fuga da Recanati. «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo», scrisse al padre. Fuori di Recanati sperava di incontrarsi con la gloria e la libertà. Trattenuto nella casa paterna e incapace di rassegnazione, confortò i suoi giorni creandosi un’immagine della natura che rappresentasse quelle speranze che per sé non credeva più realizzabili.

Il clima spirituale di Recanati, dove non viveva nessun spirito libero, avrebbe potuto risospingere il giovane poeta verso la soluzione cristiana: egli invece contemplando quella remota natura che conobbero gli antichi, prende i primi contatti con la filosofia del xviii secolo. Il suo destino filosofico è segnato.

Per spiegare i mali del secolo in cui vive – cioè la tristezza e il dolore che sono espressi nei testi delle letterature europee, e l’inerzia dell’Italia politicamente asservita – egli si serve di un rigido dualismo: la natura è buona, la ragione è corruttrice; gli antichi virtuosi e felici, i moderni ignavi ed egoisti. La ragione ha spento le forze vitali dell’uomo; la società moderna è profondamente ammalata per colpa della ragione che ha cacciato in bando la poesia, i miti, le generose illusioni. «La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola» [1].

È tanta la fede in questo schema, nel quale egli calava come in uno stampo ben adatto le proprie esperienze personali, che la contrapposizione non viene mai sottoposta a critica. Il ragionare del Leopardi ha il carattere dogmatico proprio di colui che non si cura di sviscerare i fatti, ma che dei fatti si serve per riproporre e rafforzare lo schema prediletto.

Nelle pagine dello Zibaldone per interi anni, con esasperata insistenza, il poeta traccia due linee progressivamente divergenti: la ragione aggrava sempre più l’esilio dell’uomo dalla natura. Lo sviluppo della ragione accompagna e s’intreccia con la degradazione della società. Il poeta cerca una qualche tregua ai suoi disinganni contemplando quel remotissimo punto ideale in cui l’uomo era ancora figlio innocente della natura. Nell’umanità primitiva trasferisce i cari ricordi della sua fanciullezza.

«Ma nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la terra, maravigliandosene sopra modo e riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che vasti, ma infiniti, così di grandezza come di maestà e di leggiadria, pascendosi oltre a ciò di lietissime speranze, e traendo da ciascun sentimento della loro vita incredibili diletti, crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di felicità» [2].

L’esperienza, la scienza, la complicata società moderna hanno profondamente alterato la struttura spirituale dell’uomo che non è più capace di concepire profondi sentimenti. Il giovane Leopardi pensa che l’uomo non può vivere senza un rapporto intenso con la natura dalla quale ricava tutta la sua vita affettiva e fantastica; e perciò pensa che questo rapporto dovrebbe essere ricostruito. Ma non è in grado di darci se non qualche raro e vago cenno sui modi che potrebbero riformare la corrotta società; ed allude alla necessità di istituire feste pubbliche, giochi nazionali, ricompense agli uomini virtuosi; e rimprovera i principi moderni perché non sanno servirsi delle passioni proprie dei giovani e non considerano come fondamentale il valore del corpo. Riconosce che con la Rivoluzione francese si ebbe in Europa un principio di risorgimento per cui gli uomini sentirono la forza della natura e furono animati da passioni grandi e generose; ma il poeta, che trova sempre nuove prove dell’inevitabile infelicità dei moderni, non crede che nel mondo maturino germi per una possibile redenzione. I popoli sono impotenti [3]. Guarda con orrore il volto del suo secolo. Bastino alcuni giudizi: «secol morto; inonorata, immonda plebe; obbrobriosa etate; gravi e luttuosi tempi; vergognosa età» [4]. A tutta l’Italia, all’intera società europea estende i caratteri della pigra e misera Recanati. È un vecchio edificio guasto che bisogna diroccare e ricostruire pietra su pietra: questo il pensiero del Leopardi, il quale non si stanca di indicarci i misfatti della ragione e della società moderna. Mentre contempla e rimpiange l’antica felicità perduta, la sua natura assume i caratteri di una figurazione mitica. Aveva bisogno di una filosofia che esaltasse la vita e predicasse la virtù. Alla natura attribuisce sentimenti, volizioni, fini. Ugo Foscolo invece respinse costantemente la contrapposizione di natura–società; e per questo fu meno disilluso e più disposto ad un’accettazione della legge della forza che domina il reale.

Sembra opportuno a questo punto fare il nome del Rousseau, che è uno dei maestri, in forma indiretta più che diretta, del giovane Leopardi: il Rousseau ha lanciato in tutta l’Europa il mito suggestivo dello stato di natura. Però il filosofo ha un’idea ben chiara che lo salva da un immobilismo contemplativo:  «Non è compito lieve distinguere gli elementi originari dagli artificiali nell’attuale natura dell’uomo, e conoscere bene uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai...» [5] Lo studio dello stato naturale è messo quindi al servizio di una sicura e adeguatacomprensione dei tempi presenti e di una visione proiettata nel futuro. Difatti il Rousseau con uno sforzo faticoso perviene all’Emilio e alla teoria del Contratto sociale con la quale pone le basi per la creazione di uno stato moderno basato sulla sovranità della legge. Egli pensa che per liberarsi dalla corruzione di una società egoistica e violenta sia necessario delineare un nuovo tipo d’uomo, il cittadino futuro. L’uomo primitivo pertanto non è una remota realtà storica da vagheggiare e rimpiangere, ma un esempio ideale, una norma per la riorganizzazione della società.

Nell’animo del Leopardi si agita con prepotenza, ma confusamente, un’ansia per una realtà che potrebbe nascere solo da un profondo sconvolgimento. Vorrebbe poter partecipare ad una resurrezione morale e patriottica dell’Italia, come ci attestano le Canzoni e il suo progetto di vite di grandi capitani [6]; ma alla fine domina l’idea che la realtà fangosa respinga ogni forma di azione, e perciò egli rivolge ancora la sua passione alla natura antica, che diventa il necessario sostegno della sua aspra polemica. La natura leopardiana è l’antitesi della società contemporanea. Egli impugna il concetto di natura come un’arma violenta. Volgendosi indietro alla beata epoca classica, si commuove esaltando la figura di Virginia che versa eroicamente il suo sangue per la libertà di Roma; ma nelle pagine dello Zibaldone degli anni 1820–21 non c’è alcun cenno esplicito ai moti carbonari di Napoli e del Piemonte. Troviamo invece una svalutazione della monarchia costituzionale, che è considerata un male minore per prevenire un male peggiore: una medicina che tiene in vita un corpo senza restituirgli l’originaria salute [7].

Il Leopardi corre su di una strada pericolosa; ma intanto, in questo primo periodo della sua riflessione, affronta il problema religioso. Ben presto si rende consapevole dell’opposizione irriducibile fra il cristianesimo e le virtù sulle quali è fondata la felice civiltà degli antichi: la civiltà classica è la più alta manifestazione e incarnazione della natura stessa. Egli ben presto sottopone a critica l’etica cristiana che impone all’uomo lo spirito di rinuncia e di mortificazione.

Le pagine dello Zibaldone sono ben chiare: il Leopardi, tormentato nel corpo e nell’animo, rifiuta ogni evasione religiosa. Egli resiste alla ventata di restaurazione cattolica che percorre l’intera Europa stremata dalle guerre napoleoniche e soffocata da governi illiberali. Se nel 1819 pensa a dieci Inni cristiani, questo progetto rimane sulla carta e l’unico realizzato, l’Inno ai Patriarchi, è una vi. sione poetica della vita e della beatitudine dell’uomo primitivo.

Si leggano le fittissime pagine del 1821 : è chiaro che il tema che occupa il centro del suo animo è l’esaltazione della vita e la polemica contro l’ascetismo. La «natura» leopardiana ripudia il famoso detto di san Paolo: « Castigo corpus meum et in servitutem redigo». In altre pagine leggiamo: «Un corpo debole non può ospitare nessuna forte passione»; «Io riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran cangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno» [8].

I principî religiosi perdono rapidamente incidenza nel suo animo. In particolare modo la cosiddetta «teoria del piacere» si deve considerare una dichiarazione polemica contro le imposizioni della morale cristiana. Il senso di nullità delle cose e l’insufficienza dei beni del mondo non derivano – come insegna la dottrina della Chiesa e come ripete il Pascal – dal fatto che Dio è l’unica realtà da amare incondizionatamente; bensì dal desiderio infinito di piacere che è proprio dell’uomo come gli è proprio il pensiero e il respiro; ed il piacere cui aspira è di ordine materiale, sensibile. E alla teoria del piacere si aggiungerà un quadro sempre più cupo della degradazione contemporanea dal quale sgorgheranno le considerazioni intorno al suicidio, che diventa atto ben legittimo od anche eroico se inteso, come fa Bruto, come protesta contro un ordinamento di cose iniquo rivolto a mortificare l’uomo. «Il suicidio è contro natura. Ma viviamo noi secondo natura? Non l’abbiamo al tutto abbandonata per seguir la ragione?» [9]. Agli apologisti cattolici, in particolare al Lamennais, che sostengono che la necessità della religione si deduce agevolmente dall’infelicità della condizione umana, il Leopardi risponde prontamente che l’uomo è infelice nella società progredita; ma nello stato di natura, per il quale fu creato, l’uomo non ebbe bisogno di idee religiose. Nemmeno il deismo francese ha presa nel suo animo. Nella natura leopardiana non c’è posto per una religione che annunci un regno celeste. La felicità che l’uomo desidera incessantemente è una felicità che conviene alla sua realtà corporea e temporale. Gli antichi curavano soprattutto il corpo, ed erano felici; il cristianesimo e le filosofie metafisiche che ripropongono antiche astrazioni, parlano sempre di spirito, e gli uomini moderni sono infelici. L’antispiritualismo diventa l’atteggiamento fondamentale con cui il Leopardi definisce la sua avversione al secolo xix. Qualunque sia l’aspetto della società ch’egli esamini, conclude che i tempi sono arrivati ad una «misera spiritualizzazione» di tutte le cose, frutto della cognizione del vero, della civiltà, dell’esilio dalla natura [10].

La natura leopardiana è autosufficiente. Il destino dell’uomo si compie su questo mondo. Finché il poeta è fiducioso nella natura provvida e amante si dedica a giustificare il male, il quale non può che essere un accidente nell’ordine universale. Se la società non serve più all’uomo, se questa avvilisce e deforma, vuol dire che la natura non aveva decretato che l’uomo costituisse società complesse. Le prime società furono larghissime, dice il Leopardi; e l’uomo si muoveva a tutto suo agio, senza patire limitazioni, non esistendo alcun contrasto fra l’interesse individuale e quello collettivo. Ma nelle società moderne che per le loro dimensioni sono diventate strette, l’individuo si sente soffocato entro il fitto intreccio dei rapporti sociali. L’antico equilibrio è stato spezzato a tutto danno dell’individuo costretto in uno spazio ridottissimo. Il poeta crede di dimostrare che la natura ha opposto gagliardissimi ostacoli allo sviluppo abnorme delle organizzazioni umane; se poi l’uomo è pervenuto al moderno incivilimento forzando i limiti che gli garantivano un benessere, l’infelicità è un portato dell’uomo stesso e non è affatto inerente al sistema della natura. L’ordinamento universale non può non essere buono. Il poeta dà prova di ingegnosa abilità nel respingere tutte le obiezioni che gli si fanno incontro. Le vecchie e amate fedi si difendono anche con giochi di astuzia. In una pagina dell’8 gennaio 1822 leggiamo questa perentoria ed entusiastica affermazione: «E pure è certo che più facilmente potremo annoverare le arene del mare di quello di trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all’uso si dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile». Dietro i suoi sottili argomenti dobbiamo vedere un bisogno di credere in una realtà assoluta intelligibile all’uomo. Scrive che la natura ha creato l’uomo perfetto, il più perfetto degli animali; ma poiché degli animali è anche il più adattabile, circostanze per lui eccezionali lo hanno a poco a poco allontanato dai confini di quel beato regno al quale era destinato. Il paradiso terrestre è perduto per atti di prevaricazione. Corruptio optimi pessima. Il Leopardi continua a difendersi con una ben fragile distinzione: la natura avrebbe fornito all’uomo due tipi di disposizioni: disposizioni ad essere, e disposizioni a poter essere,. Con le prime l’uomo acquista le qualità legittime, convenienti al posto che deve occupare nel mondo; ma le seconde possono sviluppare qualità in deciso contrasto con le intenzioni della natura [11]. Il Leopardi con tenacia si tiene aggrappato alla credenza che la natura è madre amorosa che opera secondo un piano armonico e provvidenziale. Per questo, mentre dai testi francesi del secolo xviii apprende il sensismo e gli pare di scoprire una terra seducente, rifiuta la concezione razionalistica e meccanicistica. Questa filosofia moderna vuole insegnargli che la natura è costruita come una grandiosa macchina, come un perfetto orologio i cui congegni e movimenti hanno una perfezione matematica che è traducibile in numeri. Egli accusa il meccanicismo di essere una visione angusta che sopprime ogni idea di bellezza, che atrofizza i sentimenti. Risponde che la natura non è affatto una macchina, ma uno stupendo sistema di forme armoniche che cooperano ad un fine universale [12].

Il poeta si consola dei suoi mali e dei mali del secolo avendo questa fiducia; e finché resiste la sua fede, permane anche sotterranea la speranza che l’uomo un giorno possa risalire la china ed essere restituito al suo naturale destino. «“A noi soli incombe il toglier via dal sistema della natura quegl’inconvenienti accidentali che derivano dalla nostra propria accidentale corruzione, cioè opposizione colle altre parti del detto sistema, e coll’ordine voluto dalla natura riguardo a noi” (20 ottobre 1821). Scrive che il compito del filosofo è di intendere il “tutto di essa [natura], il fine e il rapporto scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo tutto, e l’intenzion vera e profonda della natura... la cagion finale del suo essere e del suo esser tale, il perché ella abbia così disposto e così formato le sue parti...”» (22 agosto 1823).

Gli pare ben povera cosa, frutto di una civiltà lucida ma intristita, ridurre lo studio della natura ad una semplice osservazione e misurazione dei fenomeni. Ripetutamente e con vivacità afferma che il vero interprete non è affatto lo scienziato che analizza e adopera i numeri, ma il poeta che con la forza dell’immaginazione sa cogliere i legami profondi della natura e intuisce come essa è « ordinata a produrre un effetto poetico generale».

Se vogliamo renderci conto dell’abisso che separava la galileiana concezione quantitativa della natura dalla visione del poeta, ricorriamo alla canzone Alla Primavera (1822) che a sua volta ci rimanda ad un vecchio rimpianto: «Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi! quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane, ecc. » [13].

Contro il razionalismo e il meccanicismo cosmico il Leopardi rivendica il valore primario dell’uomo e del sentimento. Era però inevitabile che la stessa personale esperienza del dolore agisse come un forte corrosivo introducendo dubbi angosciosi e provocando la sua mente ad indagare più a fondo. Egli avverte anzitutto che quella piena consapevolezza che proviene dall’uso della ragione che si erge ardita a fissare l’universo, dona all’uomo dignità e grande forza morale, anche se le verità conquistate sono dolorose [14]. La ferita dovette sanguinare quando si risvegliò dal profondo inganno: costretto a trarre dal sensismo tutte le necessarie conseguenze antimetafisiche, il giovanile schema di natura–ragione, già da tempo logorato, cadde in frantumi. Il lungo percorso faticoso è tracciato mese per mese nelle pagine dello Zibaldone: il Montesquieu anzitutto gli ha fornito le armi per distruggere il mondo delle idee platoniche e dei valori assoluti; la teoria copernicana gli ha dimostrato che una grande conquista scientifica demolisce tutta l’impalcatura della vecchia metafisica antropocentrica; dagli ideologista ha appreso che i limiti delle nostre idee coincidono con i limiti della materia: dunque, se egli accetta come incontestabili le conquiste della scienza e della filosofia moderna, alla fine dovrà abbandonare il suo finalismo e modificare il giudizio intorno ai compiti della ragione. D’altra parte, se la natura ha permesso che l’uomo si distaccasse dal primitivo stato cui era stato assegnato, la natura non agisce seguendo un piano provvidenziale. Questa natura crea l’uomo e lo abbandona indifferente nella gran selva degli avvenimenti. Il meccanicismo settecentesco gli offre da tempo l’idea di una natura che non conosce volizioni e fini e che si muove secondo leggi cieche e inesorabili. È venuto il momento decisivo dell’esperienza leopardiana.

Se la ragione dimostra che non è più possibile credere ai disegni provvidenziali della natura, bisogna passare il guado ed accettare proprio quella filosofia per lungo tempo e con tanto sdegno respinta. Il Leopardi rinnega la tenace fede finalistica, sconsacrando, come dice lo Zottoli, la sua bella e generosa natura [15]. Le cause finali sono relegate nel bagaglio delle misere illusioni giovanili. Amaro inganno. Ora egli è certo che la natura opera per leggi meccaniche: essa non tiene in nessun conto il destino dell’uomo e nega che la vita abbia un significato.

Siamo arrivati all’annodi 1824, in cui scrive il Dialogo della Natura e di un Islandese, lì Leopardi è convinto di tenere in mano la prova filosofica che dimostra la universale e necessaria miseria umana [16].

Ha raggiunto il Leopardi una vera soluzione? La nuova filosofia abbracciata modifica e risana la condizione spirituale del poeta?

Il meccanicismo non crea una rassegnata accettazione, ma determina una insanabile lacerazione. Chi ha sempre sognato che l’uomo ha bisogno di un rapporto vitale con la natura, non può diventare uno spettatore disinteressato dei movimenti della natura meccanica nella quale non trovano posto né il bene né il male, né l’ordine né il disordine. Il Leopardi che ha scritto la canzone Ad Angelo Mai e che ha creato le figure di Bruto e di Saffo che si rivoltano contro il destino, ha ben cattivi precedenti per una coerenza filosofica. Egli è del tutto incapace di ricavare dal materialismo meccanicistico, come norma di vita, la conclusione che tutto il reale è necessario e che non può essere, nemmeno di un’oncia, diverso da quello che è. In effetti il Leopardi si libera dalle tormentose difficoltà del finalismo per cadere nella contemplazione inorridita delle cieche operazioni della natura.

Il Foscolo invece è assai più disposto ad accettare, anche sul piano psicologico–morale, le conseguenze di una visione meccanicistica. Così egli scrive l’8 maggio 1809 da Pavia: «Tutto quello che è dev’essere; e se non dovesse essere, non sarebbe. Io mi acquieto in questo assioma dettatomi dal senso comune, ma che non trovo mai scritto nelle dottrine de’ filosofi. Le distinzioni di diritto e di fatto, di natura e di società, di ragione e di passione guastano ogni verità: tutto è uno, indivisibile, incomprensibile, e non è se non perché dev’essere» [17].

Il Leopardi accetta il meccanicismo, ed in certi momenti si rende ben conto, come risulta da pagine dello Zibaldone, che deve esser accettata senza riserve la realtà tutta che è necessaria; ma poi si riporta di slancio sulla vecchia strada e torna a distinguere il bene e il male, il diritto e il fatto, e la sua meditazione si affanna senza tregua sulle contraddizioni e assurdità del reale.

«Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile... Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male?» Così il 17 maggio 1829: il Leopardi manda in frantumi la sua filosofia materialistica. Proprio qui si svela la tragica vicenda intellettuale del poeta il quale, riscoperto attraverso un personale processo il concetto settecentesco di natura meccanica, impone a questa natura un segno negativo. Il meccanicismo poteva offrirgli una visione scientifica e razionale atta a liberarlo dalla logorante ricerca delle cause finali; ma il poeta riafferma che la natura nega i valori che renderebbero positiva la vita e continua a credere ostinatamente che l’uomo deve giudicare secondo il proprio certissimo criterio: sub specie hominis [18].

Rompe perfino la linea di una lirica che tutti i critici moderni definiscono pura per introdurre un giudizio e una rampogna:

O natura, o natura,

perché non rendi poi

quel che prometti allor? Perché di tanto

inganni i figli tuoi? [19].

Il Leopardi è stato sospinto a speculare sulla natura da una profonda esigenza morale, dal bisogno di liberarsi almeno con una fede dai mali del secolo. Ora viene a conoscere che la natura stessa necessariamente genera il male, in quanto si cura di fornire soltanto l’esistenza, ma non fornisce le condizioni adatte alla vera vita degli individui. La natura provvede a se stessa ed è estranea alle sorti degli esseri creati. Il poeta si ribella e la chiama matrigna. Il meccanicismo nelle sue mani diventa la prova indubitabile della necessaria infelicità. Ricordiamo: l’Islandese fuggitivo ha patito il caldo dei tropici, il freddo polare, l’incostanza dei climi, l’insidia delle bestie selvatiche e dei morbi. Egli si lamenta e accusa perché non merita tante persecuzioni; ma così lo rimbecca la Natura impietosa: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità... E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei...» [20]. Una simile risposta irritata e beffarda colpisce come uria sferzata il volto dell’uomo. La natura, congegno perfetto nei suoi movimenti, non contiene alcun valore. Altri possono contemplarla come un meraviglioso orologio, ma il poeta la vede come un mostruoso ingranaggio che stritola individui e specie intere. Se per un coerente materialista il compito dell’uomo è di capire la necessità degli accadimenti e di uniformarsi alle leggi della natura, il romantico Leopardi crede che il proprio dovere sia di assumere un’intransigente posizione morale. Egli si indigna, protesta, accusa. Rifiuta di riconoscere quell’ordinamento. Tiene gli occhi ansiosi fissi sulla Causa prima, sulla Natura–matrigna, e per questo diventa ancor più radicale il suo disinteresse per il volto concreto, per i problemi politici della società i cui mali, per legge stessa di natura, risultano immedicabili. D’ora in poi il Leopardi parlerà sempre in termini assoluti, disprezzando l’idea che la storia, luogo delle contingenze, sia perfettibile. Egli concepisce soltanto due grandi personaggi-antagonisti: la natura e l’uomo. Null’altro. Nel Dialogo di Tristano e di un amico dichiara polemicamente contro l’ottimismo del secolo che la sua filosofia è dolorosa, ma vera [21]. Vera, perché la ragione dimostra che la natura opera per leggi meccaniche; dolorosa, perché l’uomo che ha il bisogno insopprimibile di amare e di essere amato e di sentirsi perciò in armonia con le cose, non può accettare l’estraneità della natura. La conoscenza della verità è dolore. Ecco la posizione drammatica del Leopardi che si serve dell’antitesi Natura–matrigna per definire la condizione di un uomo che, prima di ogni rapporto con il secolo e la società, si trova solo in faccia alla natura onnipotente, sbigottito ed angosciato perché non è più possibile trovare un rapporto fra individuo ed Essere, fra finito ed Infinito. Gli eroi solenni e solitari come Bruto e Saffo o travestiti di semplicità come il povero pastore dell’Asia hanno bisogno di una risposta, ma sanno che la loro parola appassionata si raggela nel vuoto. In un mondo che non restituisce alcun messaggio l’individualismo leopardiano tocca l’espressione più tragica.

Ma alla fine, sulla soglia della morte, sentí urgere un’idea alla quale diede corpo nella Ginestra. Il poeta si aprí un varco fra le asprezze della sua polemica antiliberale e intravvide il termine dimenticato e disprezzato: la società umana.

Nello Zibaldone, il 2 gennaio 1829, aveva scritto una nota che contiene una vaga anticipazione: «La mia filosofia, non solo è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia... La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi, ec.». Proprio il fatto che questa idea abbia fruttificato soltanto nell’estremo periodo napoletano, indica che il Leopardi con fatica si riavvicinò a quel concetto di società che nella sua ininterrotta polemica individualistica aveva dissolto già prima del 1824; e successivamente aveva negato che la società avesse una sua autonomia di movimento rispetto all’onnipotenza maligna della natura [22]. Gli fu utile, forse decisivo, il lungo conflitto che ebbe con i liberali dell’ambiente fiorentino. Poteva finalmente rispondere a chi lo aveva accusato di aver soltanto dei principi distruttivi.

«Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservare di continuo me stesso, cioè l’uomo in sé, e similmente i suoi rapporti con il resto della natura». Preziose parole del poeta in una lettera al Vieusseux del 4 marzo 1826 [23].

Il Leopardi, cresciuto in una biblioteca e nutritosi di studi classici in una piccola cittadina, è un solitario; tuttavia avverte acutamente la stanchezza e la sfiducia cadute sull’Italia negli anni della Restaurazione. La sua prima canzone All’Italia è un appassionato atto di accusa. Volendo trovare una spiegazione per le condizioni spirituali contemporanee, applica lo schema di natura–ragione; e la conseguenza è quella già sottolineata: mentre contempla con occhi sognanti e dolorosi la natura antica, si prepara la strada per una dura solitudine, per una contrapposizione totale con il suo secolo; e nella foga polemica, nella volontà di ribellione il poeta passa il segno e afferma e ripete che l’uomo non era destinato per uno stato sociale. La cultura classica è rivissuta da lui con fortissimo sentimento; ma da questa cultura trae valori assoluti che non è in grado di piegare e di adattare alla realtà. Finché vive in Recanati è un Jacopo Ortis più inesperto e più dottrinario di quello foscoliano. «Ho bisogno di amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita». Così al fratello Carlo in una lettera del 25 novembre 1822. Non potendo placare in nessuna azione effettiva il suo caldissimo desiderio di vivere, ideale e reale permangono in una netta contrapposizione. La realtà storica per Giacomo ha un volto desolatamente uniforme ed un unico colore: il piccolo selvaggio borgo di Recanati si configura come simbolo e non già come una rara eccezione nel mortificante deserto del secolo. E quando uscito da Recanati, dopo l’elaborazione delle Operette morali, ha più ampi contatti con il mondo cittadino, si convince di essere uno dei rari uomini che hanno il coraggio di guardare in faccia la realtà, i cui mali sono da imputare non alla società, ma unicamente alla natura che domina negativamente sulla stessa società. A Firenze si accorge di aver intorno a sé uomini rivolti ad interessi pratici, fiduciosi nelle idee moderne. Il Vieusseux crede nella perfettibilità perciò svolge con entusiasmo la sua opera di organizzatore della cultura pensando che il secolo xix è il «secolo delle scienze morali, economiche e politiche e delle scienze naturali ed esatte» [24]. Il Leopardi rimane disorientato, addolorato. Il poeta non comprende le parole del secolo, l’utilità dei giornali, la scienza della statistica perché egli dai suoi studi ha ricavato che i soli rimedi con cui l’uomo può fugacemente allontanare i mali personali e collettivi sono il sentimento, il gusto del bello, il desiderio di un’azione epica. Quando sente parlare di economia e di attività pratiche per il miglioramento della società, volge attorno uno sguardo attonito, sorride senza indulgenza, poi si sdegna. Ritiene che sia sciocca illusione parlare di masse felici quando gli individui sono tutti soggetti alla legge iniqua della sconfitta nel duro scontro con la realtà.

Con l’amico Giordani così si sfoga contro il circolo fiorentino: «In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratutura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi... mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi, e umilmente domando se la felicità de’ popoli si può dare senza la felicità degli individui. I quali sono condannati all’infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso...» (24 luglio 1828). Umilmente domando: scrive il Leopardi. Qui c’è la sicurezza e l’orgoglio di chi si è affaticato per molti anni sul concetto negativo di natura. Ricordiamo anche che egli aveva salutato l’affermarsi dell’industria moderna e l’inizio dell’era delle macchine con la corrosiva e poco felice ironia moralistica della Proposta di Premi fatta dall’Accademia dei Sillografi. Non possiamo certo leggere questa operetta come una critica profetica della civiltà industriale negatrice di valori; ci troviamo invece in presenza di un atteggiamento conservatore, che è il riflesso di un’economia arretrata e agricola.

Sono ben chiari i limiti della cultura del Leopardi, la quale non fu nemmeno sfiorata dal fecondo principio vichiano che la repubblica di Platone si ricava dalla feccia di Romolo. Fra i liberali dell’ambiente fiorentino e il solitario Leopardi era inevitabile la rottura. Egli diventa aggressivo, sarcastico. «Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole...» [25].

Ma non dobbiamo farci trarre in inganno dai particolari duri modi con cui sono formulate le negazioni leopardiane. È da respingere senz’altro il noto giudizio di Benedetto Croce che nel poeta vede addirittura i tratti ottusi e retrivi del padre Monaldo [26]. Questo giudizio – a dir il vero, assai male accolto – rappresenta la più grave incomprensione che il Leopardi abbia patito, e ci ricorda da vicino quella del Tommaseo. Tutto il discorso che abbiamo condotto non solo ci autorizza, ma ci obbliga ad affermare che il naturalismo leopardiano racchiude una posizione originale che sta agli antipodi di quella reazionaria del padre. Il Croce, si capisce, era intollerante di ogni limite naturalistico. Ma da tempo una sentenza ci insegna che dentro gli otri vecchi può ribollire un vino nuovo che spezzerà l’angusta prigione; così nelle formule filosofiche e nei miti poetici leopardiani dobbiamo sentir fremere quell’ansia di liberazione totale che il poeta non seppe esprimere in termini convenienti: quell’ansia di liberazione dalla quale fu sospinto negli anni giovanili a fantasticare intorno ad una natura madre casta e provvidente. E quella stessa ansia lo costrinse ad interpretare come negazione il meccanicismo materialistico e a creare la tragica figurazione romantica di una Natura–matrigna. Il Leopardi nella sostanza è il più moderno e rivoluzionario dei romantici. Dentro il concetto di natura riversò la sua carica passionale e ideale, e le sue negazioni sono il rifiuto della realtà del male e la rivendicazione per l’uomo del diritto alla piena realizzazione del suo essere. Il Croce dimenticò totalmente le profonde parole del De Sanctis: «Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare» [27].

Il poeta nelle canzoni giovanili gridò contro il secolo corrotto, esprimendo in versi di cupa tristezza, ai limiti della disperazione, la sua ansia di rinnovamento morale e la sua volontà di vivere; questa stessa ansia e volontà, in termini di violenta contrapposizione, rivolse contro la natura meccanica rifiutando di sottoporsi alla sua legge. «Vi dico francamente che io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti...» [28]. L’opera del Leopardi sottintende che lo sviluppo storico europeo era giunto ad una svolta per cui si rendeva necessario ridiscutere ex novo, partendo da zero, il problema dell’uomo nel mondo, perché erano crollate definitivamente sotto l’arma della ragione critica tutte le mitologie e filosofie che fino allora avevano giustificato le contraddizioni del reale.

Monaldo avrebbe voluto che il figlio chinasse il capo. Monaldo è l’uomo della Controriforma, sentimentalmente legato al sistema tolemaico che può garantire sicure gerarchie sulla terra. Il poeta respinge fermamente proprio quell’aspetto del secolo per cui il padre scende in lizza a battagliare: lo spiritualismo e l’alleanza del trono con l’altare. Giacomo si pone contro le folte schiere dei tradizionalisti e di quanti avevano perduto il significato della filosofia razionalistica del secolo xviii. La concezione materialistica gli impone non il semplice ripudio dello schema giovanile natura–ragione; ma bensì la rivalutazione del pensiero moderno che ha liberato l’uomo dal dogmatismo e dalle astrazioni metafisiche. Il suo concetto di natura, contro la teologia cristiana, nega l’esistenza di una mente superiore ordinatrice e di una provvidenza divina. Fin dal suo Discorso sopra lo stato dei costumi italiani egli preannuncia, con una condanna esplicita del periodo medievale, quella posizione che farà sua con estrema consapevolezza soprattutto dopo il 1830. «Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi... Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono proccura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia nata, si può dire, non ancor sono due secoli...» [29].

Se nella sua accesa fase finalistica il filosofo al quale pensava come modello da proporre contro gli eccessi del matematicismo settecentesco era il filosofo–poeta, già in una nota del 17 ottobre 1826 rimprovera ai mistici vecchi e nuovi di ricorrere «alla gran prova del sentimento», ripudiando la ragione e i fatti; e Platone e Pitagora, in opposizione ad Aristotele, vengono definiti «non ragionatori».

Allontanandosi definitivamente da Recanati nel 1830, il suo atteggiamento antispiritualista è sempre più consapevole ed intransigente. Sotto le spoglie di Tristano, a Firenze, dichiara di non voler vivere di speranze ultraterrene: «credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate det mondo».

Analoga testimonianza lasciò scritta nella lettera ben nota al De Sinner del 24 maggio 1832: «Quels que soient mes malheurs... j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lache résignation». Si ricordino i versi dell’ultima strofe di Amore e Morte (1832):

Me certo troverai...

erta la fronte, armato,

e renitente al fato,

la man che flagellando si colora

nel mio sangue innocente,

non ricolmar di lode,

non benedir, com’usa

per antica viltà l’umana gente;...

Gli intenti che lo guidarono nella composizione dei Paralipomeni furono complessi, e non generoso l’atteggiamento del poeta che volle collocarsi, come saggio amareggiato e deridente, al di sopra della mischia politica, colpendo aspramente anche i liberali; ma è ben facile riconoscere che il poema ha le radici in una forte polemica dottrinaria. Per questo acquista primaria importanza la grottesca parodia della sopravvivenza delle ombre degli animali che tutti vengono accolti, dalla balena fino al più microscopico insetto, in distinti sotterranei averni.

Nella famosa strofa della Ginestra contro il secolo « superbo e sciocco» che ha abbandonato la strada tracciata dal naturalismo del Rinascimento, l’invettiva colpisce le tendenze filosofiche e dogmatiche le quali vorrebbero cancellare i grandiosi risultati del pensiero laico e della scienza moderna, la cui prima pietra è stata posta da Copernico che ha detronizzato la terra dalla sua sede aristotelica [30].

Nel quinto dei suoi Pensieri nega validità a quel «consenso delle genti» al quale ricorrono i filosofi tradizionalisti quando affrontano argomenti che superano la ragione umana: «È assurdo l’addurre quello che chiamano consenso delle genti nelle quistioni metafisiche: del qual consenso non si fa nessuna stima nelle cose fisiche, e sottoposte ai sensi; come per esempio nella quistione del movimento della terra, e in mille altre» [31].

Una lettera del Gioberti al Leopardi costituisce un prezioso documento. «Io professava allora un puro teismo, e su di questo in tanto differiva dalle vostre opinioni filosofiche, in quanto voi tenevate che ogni concetto della mente umana nasca dalla sensazione, e si contenga in essa, e io credeva che vi sieno alcuni concetti primitivi, naturali, universali, che non si possano dedurre dalla sensazione, e ridurre agli elementi di essa».

La lettera deve essere interpretata come un discreto invito perché il poeta rivedesse le proprie idee materialistiche; tanto è vero che il Gioberti metteva in evidenza come l’adesione intima e profonda alla fede cattolica, cui era ritornato, aveva procurato al suo animo già tormentato una sicura pace. «I fastidi, le amaritudini, i terrori, la malinconia, che altre volte mi tormentavano, e di cui parmi avervi fatto parola, sono svaniti...» [32].

È grave danno il non possedere la risposta del Leopardi. Ma La ginestra, in forma autorevole e definitiva, sostituisce e compensa ogni altra risposta. Ripropone il materialismo leopardiano, fondendolo però con un nuovo principio positivo. Il «verace saper» – di cui parla il poeta al verso 151 – è, sì, la consapevolezza dell’irrimediabile miseria dell’uomo abbandonato ai casi della natura non provvida; ma da questa consapevolezza nascono i supremi valori che bisogna realizzare nella società umana:

l’onesto e retto conversar cittadino, e giustizia e pietade [33].

In tal modo nella Ginestra la filosofia dolorosa, ma vera diventa operante: l’ideale della fratellanza universale costituisce un elemento intermedio che attenua il ferreo antagonismo fra quei due termini contrapposti – individuo misero e natura onnipotente – che avevano così profondamente affaticato e lacerato l’animo del poeta.

Poco dopo la morte lo colse; e noi dobbiamo dolerci che il suo pensiero sia stato stroncato, forse, all’inizio di un nuovo processo.

Postilla 1.

Sergio Solmi nega che esista un passaggio da una concezione finalistica ad una severa ed angosciata visione di una natura meccanica, che provvede unicamente a conservare se stessa, incurante della sorte degli individui. Egli afferma che le due ideologie coesistono intrecciandosi e che la seconda non può cancellare la prima; anzi nell’ultimo periodo leopardiano esse «procedono addirittura gomito a gomito». Eppure bisogna proprio tener ferme la distinzione cronologica e la frattura insanabile, anche se nelle pagine dello Zibaldone o in qualche poesia possono registrarsi oscillazioni o imprecisioni di termini. In questo senso ha già risposto al Solmi il Timpanaro ribadendo che la seconda concezione «segna il tramonto della prima » [34]

Mi sia lecito citare una giovanile tesi leopardiana – purtroppo appena accennata senza ulteriori sviluppi – che ci dimostra quanto ripugni in quel periodo al poeta l’interpretazione razionalistica e meccanica della natura: interpretazione che esige il metodo matematico. Egli si oppone avvertendo che la natura non può essere concepita come realtà misurabile in quanto essa agisce e crea senza esser vincolata da leggi fisse di rigorosa precisione.

«Dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una vera imperfezione... »

Per il Leopardi la natura contraddice sempre la ragione, e perciò la norma costante e il metodo matematico appartengono alla sfera della ragione e non già ai disegni della natura inesauribile creatrice. La natura non conosce leggi rigorose; al contrario in essa domina l’appresso a poco, il facilmente, l’andare alla buona; e soltanto così, la natura lascia largo margine all’imprevisto, all’accidentale, all’inconveniente: senza intaccare il suo ordinamento generale che è buono.

Il Leopardi è riuscito a trovare una soluzione che lo soddisfa: per questa via può giustificare i mali e i disastri che sono indipendenti dall’azione degli uomini. Rientrano evidentemente in quella vasta zona in cui non vale il rigore, ma l’appresso a poco, e per questo lasciano assai imbarazzati quei filosofi che vorrebbero che la natura si comportasse in modo univoco, seguendo i criteri della loro ragione: «... danno tanto da fare quei mali ai filosofi, i quali non vedono come possano aver luogo nell’opera della natura» (Zib., I, pp. 440–41. I corsivi sono nel testo).

Ma quei mali e disastri nella fase materialistica sono giudicati gravissime contraddizioni della natura la quale non avendo alcun piano finalistico, riversa i suoi effetti, che sono misfatti, a danno dei miseri mortali. Contro questa natura matrigna deve essere rivolta un’implacabile protesta. Essa è il male che trionfa e sul quale nessuno trionferà. Essa è Arimane.

Prolunghiamo il discorso e rileggiamo la Palinodia dove esplicitamente, con parole di alto sdegno, il Leopardi afferma che la natura impone all’interno della società la sua forza malvagia. Ma tutto il Settecento – agnostici, deisti, materialisti – aveva parlato di una legge di natura sulla quale si fonda per l’uomo il sentimento del giusto, dell’onesto, della pietà. Le posizioni possono essere diverse, ma la concordanza è amplissima. Voltaire riprende e ribadisce concetti che sono comuni: l’amore di sé è necessario per la conservazione della specie, ma è altrettanto naturale e necessaria la disposizione alla benevolenza e alla compassione.

Il Leopardi cancella questa legge, perché la sua natura meccanica provvede soltanto a se stessa. Non esistono limiti né correttivi all’egoismo naturale che esplode proprio nel terreno della società dove il più forte impone il suo incontrastato dominio.

Riproduco un testo di Voltaire con due personaggi: la Natura e un Filosofo (vedi la voce «Natura», Quesiti sull’Enciclopedia, 1771, in Voltaire, Scritti filosofici, II, a cura di P. Serini, Laterza, 1972, p. 628).

Il dialogo rimanda immediatamente il lettore al Dialogo della Natura e di un Islandese. Ma confrontando i due testi, nella luce più evidente vediamo l’abisso che separa un atteggiamento agnostico settecentesco dalla posizione del Leopardi pervenuto nella sua fase materialistica ad una certezza assoluta.

la natura. Io sono tutto quel che è: come potrebbe cogliermi un essere come te, che sei solo un’infima parte di me? Accontentatevi, o atomi miei figli, di vedere alcuni atomi che vi circondano, di bere alcune gocce del mio latte, di vegetare qualche momento sul mio seno, e di morire senz’aver conosciuto la vostra madre e la vostra nutrice!

il filosofo. Mia cara madre, dimmi un po’ perché esisti, perché esiste qualcosa?

la natura. Ti risponderò quel che da tanti secoli rispondo a quanti m’interrogano intorno ai primi principî: «Non ne so nulla».

il filosofo. Il niente varrebbe meglio di questa molteplicità di esistenze fatte per esser continuamente dissolte, di questa moltitudine di animali nati e riproducentisi per divorarne altri ed essere a loro volta divorati, di questa folla di esseri senzienti formati per provare tante sensazioni dolorose e questa folla di intelligenze che così di rado intendon ragione? A che pro tutto questo, Natura?

la natura. Interroga chi mi ha fatta.

Il dialogo del Voltaire si svolge in un tono quasi bonario; ma le domande che assillano il Filosofo riproducono nella sostanza il concetto leopardiano di una natura che genera per uccidere, ciclo eterno di produzione e di distruzione.

Ma il Voltaire che si rifiuta di risolvere il problema, vuole colpire anzitutto la boria dei dotti che pretendono di conoscere le ragioni ultime dell’universo ed intanto inventano romanzi, pure parole, contraddicendosi a vicenda. Voltaire dalla piccolezza dell’uomo non trae conseguenze inquietanti, perché è inutile e persino dannoso porsi problemi che sono insolubili. Egli vuole riportare gli uomini ad interessarsi di quel vastissimo regno dove la ragione deve operare attivamente: il regno della storia e delle istituzioni. Nelle pagine del Micromégas un gruppo di metafisici in un piccolo vascello discutono a vuoto, e sono risibili.

Per il Leopardi invece, nel cui animo non si attenua mai il bisogno di una realtà che sia compartecipe alle vicende umane, il ciclo di produzione e di distruzione, che è fine a se stesso, comprova che la natura contraddittoria impone all’uomo di vivere in una perpetua contraddizione.

Il risultato finale cui perviene la ragione fa orrore. « Orribile mistero delle cose e della esistenza universale».

Postilla 2.

«L’accusa rivolta alla natura non è in contraddizione con la nozione di natura benigna, propizia alla felicità degli uomini, né c’è evoluzione tra un concetto e l’altro». Così Neuro Bonifazi, al quale non si può chiedere una diversa valutazione perché compie una ricerca che lo porta assai lontano dai problemi culturali dei tempi leopardiani. Egli scava nella poesia discendendo fino alle pulsioni primordiali costitutive del profondo, le quali non possono non permanere identiche, e perciò non permettono lo svolgersi di una storia. I Canti possono tutti collocarsi sullo stesso piano, perché in tutti si rinnova la vicenda di morte-vita, di colpa-innocenza; e il discorso sulla morte è sempre un discorso di vita. Quindi natura benigna e natura matrigna sono termini equivalenti. Né possono lasciare nell’animo del lettore tracce di segno diverso.

« La poesia leopardiana si estende nel giro di una ventina d’anni senza una vera storia, senza reali mutamenti e conversioni, ma generandosi continuamente, e nello stesso modo, da un’unica azione fondamentale del suo pensiero... È un meccanismo ripetitivo, una “ripercussione o riflesso della immagine antica”».

Il Bonifazi procede dimostrando di conoscere da maestro gli strumenti di cui si serve, che lo portano ad un’interpretazione in cui il dramma trova sempre la conciliazione e i conflitti originari approdano all’equilibrio, alla pace. Una poesia catartica. Ma se l’indagine muove non dal cuore privato, ma dalla storia concreta in cui il Leopardi visse, studiò, reagì, allora i risultati che s’incidono nell’animo del lettore sono assai diversi e lungo è il percorso che conduce alla Ginestra; e la poesia leopardiana nel suo complesso denuncia la crisi drammatica di una cultura, un ostacolo formidabile che l’uomo moderno si trova di fronte.

È lecita alla fine una domanda: deve esserci una ragione di fondo per cui il Leopardi scelse la faccia della morte per cantare la vita. Perché fu il primo a fare questa scelta, e nessuno poi in termini così costanti, perentori, implacabili come i suoi?

(neuro bonifazi, Le lettere infedeli, Officina edizione, Roma 1976, pp. 198–227).

Ma c’è chi si disinteressa completamente del cuore e della morte, delle idee e della storia. G. Leonelli in brevi pagine su «Paragone» scavalca di molto il vecchio calligrafismo della « Ronda » e facendo propria, per suoi stretti interessi privati, la più vecchia tesi del Mallarmé che aspira all’Assoluto liberandosi dalle impurità delle contingenze, legge le Operette Morali come il lucidissimo poema del Nulla. Il Leopardi ha rimosso tutta la realtà avendola vanificata, e non potendo pronunciare nessuna parola intorno a questa perché il non-essere, la pura assenza, non sono predicabili, converte in contenuto la stessa scrittura: il linguaggio diventa il vero protagonista che sfrutta al suo servizio la Metafora, la Ridondanza, la Ripetizione, l’Arabesco ecc.. Da tali premesse il Leonelli tira una conclusione che, a dir il vero, non manca di coerenza: le Operette Morali attendono ancora, dopo tante generazioni e lavorio critico, il vero lettore. Il Leonelli intanto ha aperto la strada e ci invita tutti a fare dei progressi. Una mia richiesta forse cade nel vuoto: crede proprio l’autore che la rimozione della realtà sia stata indolore? Che la vanificazione ottenuta con l’intervento della Ragione possa essere una semplice operazione letteraria, da tavolino? Che nelle Operette non vi sia traccia incisa di un dramma tormentoso?

A questo interrogativo, scopertamente arcaico, il Leonelli con eleganza ribatte: «La scrittura leopardiana rivolge su se stessa le sue funzioni, riassorbe ogni potenziale forza centrifuga, esaltando un intenso centripetismo formale».

Al di sotto di questa interpretazione è ben lecito ritenere che esista l’idea che la letteratura nei tempi moderni non abbia nulla da dire, perché il suo compito è il silenzio sulla realtà. Se la letteratura è destinata a durare, allora essa è pura letterarietà, un sapiente gioco di Cavalli, di Alfieri, di Regine e Pedine che si muovono perché l’osservatore passi un po’ del suo noioso tempo.

(Giuseppe leonelli, Le «Operette morali» e le illusioni della scrittura, «Paragone», Letteratura, 1975, 306, pp. 58–61).

Note

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[1] Zib., I, p. 19.

[2] Storia del genere umano (1824), in Poesie e Prose, I, p. 811.

[3] « Il ritrovare e procacciare la felicità destinata dalla natura all’uomo, non è più opera del privato neanche per se solo... Il dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita; il rinnovare le illusioni perdute ecc. ecc. è opera de’ potenti» (Zib., I, p. 205).

[4] Dalla canzone Ad Angelo Mai (1820) e dalla canzone Nelle nozze della sorella Paolina ( 1821 ).

[5] Sull’origine dell’ineguaglianza, a cura di V. Gerratana, Roma 1968, p. 88.

[6] Poesie e Prose, I, p. 698. Pensava anche ad una vita del generale Kosciuszko, oppure del generale Paoli, difensore della Corsica. «Si potrebbe dire che mi duole che un tal uomo non sia mio compatriota [Kosciuszko] ... volendo celebrare un uomo illustre per vero ed efficace amor patrio, non l’ho trovato in questi tempi in Italia, e m’è convenuto ricorrere agli stranieri» (ibid., p. 692). Questi progetti sono da collocarsi tra il 1819-20.

[7] Zib., I, p. 438.

[8] Ibid., pp. 170,180, 249.

[9] Ibid.,p. 1240.

[10] Zib., I, p. 676.

[11] Per l’adattabilità vedi ibid., p. 1529; e ibid., II, pp. 159-60 (luglio 1823); per le disposizioni, ibid., pp. 4x5-19 (settembre 1823).

[12] « A questo punto, - disse la Marchesa, - la filosofia è diventata affatto Meccanica. - Per l’appunto Meccanica, - risposi io, sicché credo che ella se stimi offesa. Si vuole che l’universo non sia in grande se non ciò che è un Oriuolo in piccolo, e che tutto in esso succeda per via di movimenti regolati che dipendano dalla organizzazione delle parti...» (fontenelle, Trattenimenti sulla pluralità de’ mondi, a p. 9 dell’edizione italiana che il Leopardi possedeva nella biblioteca).

Il Leopardi è pronto a rispondere che gli schemi matematici dello scienziato sono troppo angusti per contenere la prepotente e fantasiosa vitalità della natura. « Ora colui che ignora il poetico della natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi non conosce assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo di essere» (Zib., I, p. 1169).

Solo il simile comprende il suo simile e il grande poetico della natura può essere inteso solo dall’immaginazione e dalla sensibilità, facoltà donate dalla natura di cui l’uomo è parte, e perciò associato alle belle, meravigliose sue forme.

[13] Zib., I,p. 94.

[14] Ibid., II, pp. 301-2 (12 agosto 1823).

[15] A. zottoli, Leopardi, Bari 1947, pp. 150 e 184.

[16] La netta dichiarazione materialistica è contenuta nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, che è dell’autunno del 1825. Rivalutato il pensiero moderno che ha svelato la verità, viene anche fortemente indebolita la contrapposizione globale fra antichi e moderni, cioè fra civiltà e corruzione; e difatti il Leopardi pensò che bisognasse considerarle due civiltà distinte, ciascuna con caratteri e principi costitutivi propri (21 marzo 1826). La civiltà moderna è considerata un risorgimento dalla barbarie medievale: lo strumento della liberazione è stato il pensiero scientifico e filosofico. Intendo dire che l’esigenza della battaglia ideologica nella quale il Leopardi s’impegnerà sempre più, soprattutto dopo il 1830, oscurò e rese inattiva l’idea della superiorità degli antichi rispetto ai moderni. L’interesse del poeta si concentrò tutto sugli sviluppi dell’epoca moderna e perciò il termine che misura la decadenza della cultura e della vitalità del secolo xix non è più il mondo antico, ma la coraggiosa filosofia del secolo xviii.

[17] Gli stessi concetti sono svolti nella lezione pavese Sull’origine e i limiti della giustizia, dove troviamo anche scritto: « le leggi dell’universo vogliono che si faccia quello che si fa» (Lezioni, articoli di critica e di polemica, Edizione nazionale, voi. VII, 1933, p. 179).

[18] Vedi.il mio saggio Le due facce del «sistema di Stratone», a p.133.

[19] A Silvia (1828). In un canto che riassume con limpidezza le sue dolorose vicende morali - Il risorgimento - non poteva mancare un cenno alla terribile verità filosofica cui era pervenuto. («So che natura è sorda, | che miserar non sa. | Che non del ben sollecita | fu, ma dell’esser solo...» vv. 117-24). Aspro e beffardo il linguaggio rivolto alla natura nella seconda parte della Quiete dopo la tempesta (1829) e nel canto Sopra un basso rilievo antico sepolcrale (1834-35) dal v. 44 alla fine.

Nel Canto notturno di un pastore errante (1829-30) il poeta può inventare un tono sommesso e affettuoso perché assume le vesti di una persona ingenua che si esprime ancora, interrogando, con il linguaggio del finalismo.

[20] Poesie e Prose, I, p. 887.

[21] Al De Sinner il 24 maggio 1832 scrisse di esser stato condotto dalle sue ricerche filosofiche, e non già dai suoi mali, à une philosophie désespérante. Vedi Lettere, p. 1033.

[22] A questo proposito vedi il mio saggio Materialismo e progressismo, a p. 155.

[23] Ma vedi anche, a proposito di questa dichiarazione, un importante passo autobiografico in Zib., II, pp. 964-65, del 12 maggio 1825. «Quegli che al contrario ha l’abito della solitudine, pochissimo s’interessa, pochissimo è mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di sé cogli uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario moltissimo l’interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono per lui il primo luogo... l’interessa la speculazione e cognizione di se stesso come se stesso; degli uomini come parte dell’universo; della natura, del mondo, dell’esistenza, cose per lui (ed effettivamente) ben più gravi che i più profondi soggetti relativi alla società » (I corsivi sono miei).

[24] Parole del Vieusseux in una lettera del 18 novembre 1824. La lettera è ripresa dallo studio del Ciampini, ed era stata indirizzata dal Vieusseux ad una persona che gli aveva suggerito di pubblicare un volume di poesie (r. ciampini, Gian Pietro Vieusseux: i suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici, Einaudi 1953, p. 197).

[25] Dialogo di Tristano e di un amico, in Poesie e Prose, I, p. 1025

[26] Poesia e non poesia, Bari 1950, pp. 97-113.

[27] Schopenhauer e Leopardi, in Saggi critici, a cura di L. Russo, voi. II, Bari 1953, p. 184.

[28] Dialogo di Tristano e di un amico cit., p. 1027. Nell’abbozzo dell’inno Ad Arimane il poeta sfida la stessa divinità malvagia: «Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ec. » (Poesie e Prose, I, p. 435)

[29] Poesie e Prose, II, pp. 578-79.

[30] La difesa della filosofia razionalistica del secolo xviii è contenuta non solo nei vv. 52-86 della Ginestra, ma anche nei Paralipomeni. Si vedano in particolare le ottave 15-16 del canto IV. Sull’ideologia che regge l’intero poemetto si veda lo studio di G. savarese, Saggio sui «Paralipomeni», Firenze 1967.

[31] Contro il presunto « universal consenso » circa i premi e le pene in una vita futura, vedi Paralipomeni, VIII, 10-15. Ma anche in Zib., II, pp. 11.11-13, del 9 aprile 1827.

[32] Torino, 2 aprile 1830, in G. leopardi, Epistolario, a cura di F. Moroncini, Firenze, voi. V, pp. 274-77.

[33] È quasi superfluo, in questi anni, ricordare l’importanza sia del saggio di E. Luporini, Leopardi progressivo che risale al 1947 sia di quello, altrettanto noto e citato per ragioni diverse, di W. Binni La nuova poetica leopardiana, Firenze 1947; 19714) - La rivalutazione della Ginestra fatta dal Luporini fu però preceduta dalle pagine di L. Salvatorelli, in Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 19495, pp. 207-10. Si tenga presente che la parte che riguarda il Leopardi, interamente rifatta utilizzando Zibaldone, apparve nella 2a edizione che è del 1940. Una netta svalutazione della Ginestra aveva dato molti anni prima M. porena, in Il pessimismo di G. Leopardi, pubblicato sulla «Rassegna», 1923; ed ora in Scritti leopardiani, Bologna 1960, pp. 174-78. Conviene ricordare anche l’interpretazione fortemente riduttiva che dà il Bigongiari dell’appello alla solidarietà: il critico fiorentino, in polemica contro eventuali sostenitori di «una specie di socialismo avanti lettera», considera l’appello inserito nella Ginestra come un bisogno di personale consolazione che ebbe il Leopardi già predisposto alla morte e che voleva morire con una sua intima giustificazione (p. bigongiari, Leopardi, Firenze 1962, p. 281; ed ora a p. 260 della nuova edizione, Firenze 1976, dove è riproposta una specie di analogia tra la Ginestra e la difesa delle leggi fatta da Socrate nel’Apologia: in quanto l’uno e l’altro testo servono ad affrontare la morte con una stoica indifferenza. Cioè bisogna leggere al negativo quello che viene detto al positivo con tanta chiarezza). Nel saggio di S. Timpanaro, Il pensiero del Leopardi puoi vedere consenso, ma anche limitazioni o dissenso con l’impostazione data dal Luporini (Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1967, pp. 172-76).

Il Timpanaro riprende il discorso sull’eccezionale importanza filosofica della Ginestra - illuminismo per tutti - in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, «Belfagor», n. 2, 1976, p. 193.

[34] Sergio solmi, Scritti leopardiani, Milano 1969, pp. 108-21.

S. Timpanaro, Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1969, 2° ed., pp. 396-407.

Concorda nel distinguere le due fasi anche Franco Ferrucci il quale avverte che ad un certo momento c’imbattiamo «nell’atto di nascita del sistema del male assoluto», poiché il Leopardi abbandona l’idea del male come corruzione o come male accidentale. Accetta la data del 1824. Suggerisce giustamente di usare la definizione di male assoluto al posto della vecchia e un po’ logora etichetta di pessimismo cosmico. Ma tutto il discorso confluisce ancora una volta in una tesi di fondo che non è accettabile: il Ferrucci vorrebbe dimostrare che il Leopardi coltivò un’ideologia da carcerato costruendosi una prigione nella quale si trova a suo agio. Le Operette morali e lo stesso materialismo gli servirebbero come sbarramento teoretico che chiude l’universo in una perfetta glaciazione. Il materialismo pessimistico sarebbe una fittizia filosofìa per nascondere ai propri occhi il movimento della società e per difendersi da ogni coinvolgimento, (f. Ferrucci, Addio al Parnaso, Bompiani 1971, pp. 99-140). A questa tesi reagì con forte polemica S. Timpanaro in «Belfagor» n. 1, gennaio 1972, pp. 100-8, sostenendo che la tesi reazionaria del Ferrucci sarebbe stata bene accolta anche dal Croce che avrebbe finalmente visto rivalutato il suo famoso, e contraddetto, saggio sul Leopardi.

È necessario alla fine segnalare un vasto saggio di Luigi Blasucci sulla ideologia delle Operette morali: saggio ricco di idee, problemi, discussioni. L’autore ritiene che il Dialogo della Natura e di un Islandese sia di eccezionale rilievo e di rottura nel contesto delle altre prose, perché rappresenta un’esplicita adesione ad un pessimismo materialistico integrale, riconfermato poi dal Cantico del Gallo silvestre (La posizione ideologica delle Operette morali, in «Critica e storia letteraria», studi offerti a M. Fubini, Liviana, Padova 1970, pp. 621-72).

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Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 24 maggio 2008