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Giacomo Leopardi - Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato "Analisi delle idee ad uso della gioventù /head>

Giacomo Leopardi

Dialogo filosofico

SOPRA UN MODERNO LIBRO INTITOLATO

"ANALISI DELLE IDEE AD USO DELLA GIOVENTÙ"

1812

Edizione di riferimento

Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici e Emanuele Trevi, edizione integrale, i Mammut, Newton Compton, Roma 1997

http://www.bibliotecaitaliana.it:6336/dynaweb/bibit/autori/l/leopardi/

... Dominus Deus meus ... docet manus meas

ad proelium, et digitos meos ad bellum.

Psalm. CXLIII.

Prefazione

Il celebre Algarotti compose dialoghi ad immitazione di Fontenelle, uno ne scrissi io ad immitazione di Roberti. Questi fe' il Dialogo sopra il lusso per difendere un suo libro; io questo composi per confutare un Libro altrui. L'errore, il quale và tacitamente insinuandosi per ogni dove, di non pochi le menti ha guaste, ed i cuori, ma ferma però rimane tuttora, e rimarrà sempre la religione. Gli empj seduttori non giugneranno giammai a distruggerla, nè la sparsa maligna zizania potrà mai fare inaridire la eletta piantagione di Cristo. Uomini perduti assalgono invano la inespugnabile ròcca di Sion, che salda sempre resisterà questa agli urti, e agli sforzi degli empj. Ma non in vano però cercan questi di corrompere lo spirito di uomini creduli alle favole, ed alle menzogne, ahi non invano! che, bevendo non pochi a fonti avvelenate si lascian miseramente sedurre, e cadono ne' lacci tesi loro dall'empietà. Ad impedire cotesta sì fatale seduzione sforzaronsi uomini illuminati di svelare le trame degli empj, di manifestare gli errori degl'increduli, e di porre in chiaro la verità della cristiana religione. Nè ciò facendo, essi mostrarono di temer per la fede, la quale immobile, ed inconcussa vedrà in breve perir dispregiati, e i sofismi ed i sali, e le satire e le bestemie de' libertini, ma solo temer mostrarono per i fedeli, i quali, nell'animo già disposti dalle passioni alla incredulità non possono gran fatto per sè medesimi resistere alle incantatrici lusinghe di libertinaggio. Destossi però lo zelo de' veri cattolici, e de' filosofi immacolati, i quali con ogni industria investigati i fonti dell'empietà, ed esaminate le objezioni degl'increduli, quelli additarono, e queste disciolsero rendendo a tutti palesi le arti, e la follia de' libertini. Si mostrino, gridava un vigilante pastore, si mostrino al popolo fedele le volpi, che devastano la vigna eletta del Signore; si scuoprano le insidie tese da' lupi rapaci al gregge santo di Dio, onde non sia questo oppresso dalla nequizia, vinto dalla malignità, adescato dalla frode. Ad onta però degli sforzi de' veri sapienti, non cessano gli empj libertini di spargere il veleno ne' loro scritti e di far guerra alla religione. La verità non può non dispiacere a quelli, i quali odiano la austerità de' precetti e la severità delle massime, e bramano di viver sempre a seconda della propria volontà. La natura dell'uomo proclive al vizio, ed alla voluttà non ama la legge, e desidera però il libertino di persuadersi della falsità della religione. Schiavo sempre delle passioni egli non può riconoscersi immortale senza vedersi obligato a tener queste in freno; egli non può riconoscersi libero senza vedersi costretto ad obbedire alle leggi; cerca però di mostrare la mortalità della sua anima, e la forza di una tiranna necessità. Si deride perciò la fede dei semplici, si condanna la pretesa superstizione de' fedeli, e si lancian dardi infetti di veleno a cuori retti ed immacolati. Qual verità vi è sì santa, e sì divina che impugnata non abbiano ampiamente gl'increduli spiriti irreligiosi? Con alta cervice corsero quasi folli giganti ad abbattere il trono di Dio, e la di lui provvidenza negando in prima ardiron poi negarne perfin la esistenza. L'anima umana ad immagine creata del supremo Creatore e poco agli angeli inferiore nella sublimità dell'essenza finsero materiale, e mortale, nè vollero nell'uomo riconoscere quell'incorruttibile sostanza per la quale sappiamo, operiamo, e vogliamo, lasciando così libero il campo ed aperto alle loro passioni. Ma gridino pur questi ed esclamino contro la verità degli ecclesiastici dogmi, faccian pompa di vani argomenti, ed ingannevoli sofismi; immota resterà sempre ed inconcussa la cattolica religione, la quale vedrassi ognor trionfare di tutte le objezioni de' falsi sapienti, e degli increduli sfrontati.

Nel numero dei primi si è l'autore di un moderno libro intitolato Analisi delle idèe ad uso della gioventù. Pone egli in campo la questione se l'anima dell'uomo sia, o nò dotata di libertà, e fondato sopra inconcludenti ragioni e fallaci argomenti a sostener prende la negativa. Sebbene io non credessi, che un tale libercolo fosse per arrecare gran danno agli animi neppure degli inesperti, non volli nondimeno lasciar senza risposta le objezioni che in esso vengono esposte. Nè già questa mia tenue produzione consecrar volli tutta alla confutazione del nominato opuscolo, ma in essa riprodussi in scena gran parte degli argomenti opposti da' libertini alla umana libertà, a' quali risposi attenendomi sempre al parere de' più savj filosofi. Vedransi [peraltro] pertanto in codesto dialogo confutati Obbes, Spinosa, Collins, Bayle, Elvezio, e con questi, altri fatalisti; in ultimo tentai di mostrar l'assurdità di quella proposizione dell'autore dell'Analisi delle idee, che trovasi nel capo terzo della decima sezione cioè, che i bruti son ragionevoli.

Fra tutti i componimenti di diverso genere elessi il dialogo, come quello che sembrommi assai acconcio ad ammollir la materia per se stessa aspra, e scabrosa, e render le ragioni e gli argomenti più intelligibili e chiari.

Gravissimi scrittori han fatto uso del dialogo: fra gli antichi Platone, Plutarco, Marco Tullio Cicerone, Fabio Quintiliano, Luciano Samosatense, S. Giustino filosofo e martire, S. Gregorio Magno papa, e trà i moderni Addisson, Regnault, Fontenelle, Courcillon di Dangeau, Fenelon, Pluche, Algarotti, Roberti, Muzzarelli, ed altri molti scrisser dialoghi. Mosso dall'autorità di tutti cotesti luminari delle scienze, preferii il dialogo ad ogni componimento di diverso genere. Benedica il cielo questa tenue mia produzione, e serva essa a mostrare, che «Via impiorum tenebrosa: nesciunt ubi corruant».

In una ricca e florida città della Italia non priva di fecondi genj felici ed adorna di quanto può render la umana società più gioconda e fiorente, trovavasi un letterato sì per l'aspetto, che per la età grave, e per i non mai intralasciati studj, sapiente, il quale solitario per costume, ma non perciò meno abile ad intrattenersi con garbo, e con brio in qualunque socievol giro i lunghi giorni passava in seno alle lettere, e trà le filosofiche meditazioni, quali però compiaceasi troncar di tratto in tratto, sollevando l'animo affaticato, o col far parte ad altrui di sua dottrina, o col trattenersi, come solea, in un crocchio erudito di dotte persone a lui per amicizia congiunte. Or questi dunque entrò un dì ad una pubblica bottega di libri, ove, richiesto il librajo se alcuna nuova produzione possedesse per avventura, mostrògli esso un opuscolo testè venuto in luce, al quale leggeasi in fronte il titolo Analisi delle idèe. Ah, esclamò quì con qualche disdegno il nostro letterato cui non era ignoto nè lo spirito dell'operetta, nè quel dell'autore, si è questo il misero parto di un ingegno felice per se medesimo, ma occupato da falsi principj e da pregiudicievoli opinioni. Stava appunto in un angolo della bottega leggendo le ricerche di Collins sulla libertà, un giovane di nobile condizione, dotato di spirito, ma guasto nel cuore, il quale, scevro essendo di cure, e di affari, e lasciato in balìa del proprio giovanile talento, dato erasi alla lettura di quei libri che più frequentemente udìa nominarsi dalle bocche de' libertini, onde poi nei caffè e ne' pubblici ridotti facea pompa di superficiale erudizione, e di principj apparati alla scuola dell'ignoranza, e dell'errore. Era egli pienamente istrutto delle massime del Dizionario filosofico, e dell'Emilio, e in parte ancora di quelle dell'antica Enciclopedia. Le lettere poi turche, cinesi, persiane, peruviane, giudee, il Dizionario di Bayle, il Sistema della natura, ed il Contratto sociale erano per lui libri di semplice passatempo coi quali intertenendosi, e come conversando, veniva sempre maggiormente ad imbeversi delle massime del libertinaggio. Non eragli per niun conto ignoto il libretto di cui trattavasi, il quale anzi vedendolo in gran parte consentaneo alle massime de' suoi più favoriti scrittori, avea nel suo cuore approvato, e lodato ancora più volte pubblicamente.

Stimossi egli dunque tenuto a prevenire l'impressione, che far poteano per avventura le parole del nostro filosofo nell'animo degli astanti, e sorgendo però dalla sua scranna postosi in una non disconvenevole attitudine di rincontro al letterato, Io reputo, disse, a voi sconosciuto cotesto libretto, il quale non è al certo per mio avviso qual voi lo chiamate, opera di corrotto spirito e di mente sedotta ed illusa. Maravigliò il letterato in udir le parole del giovane gentiluomo, ed a lui rivolto a non picciol pregio, rispose, ascriver debbesi di quest'opuscolo l'aver tratto al partito del suo scrittore un uomo qual voi siete di tanta penetrazione dotato e di ogni cognizione adorno. Tuttavia soggiunse pregovi ad escusarmi se non dubito di asserire esser voi nell'inganno. Date una occhiata all'articolo secondo del cap. 5 dell'ottava sezione, e restarete, come io spero, pienamente convinto della verità di quanto affermai. Ben' Io mi attendea di esser quà ridotto, rispose il giovane, nè però trovo ragione di riprovare un tale articolo. Afferma quivi il nostro scrittore, che è un inganno il credere l'uomo dotato di libertà, nè è questo per mio avviso un errore per lo meno evidentemente manifesto, il quale esser possa valevole a farci credere pernicioso l'intero opuscolo. Ben si avvidde il nostro letterato che la differenza tutto l'aspetto prendea di scolastica disputa metafisica, nè perciò volle ritrarsene, ma conosciuto il carattere del giovane [galantuomo] gentiluomo, nè disperando di ridurlo in breve ora alla cognizione del vero, non vorrei, ripigliò, sembrarvi un indiscreto se reco innanzi un argomento da scuola. Intendiamo in prima per libertà non altro, che una facoltà di eleggere; ciò posto, e non esperimentate voi nelle vostre volizioni e nolizioni cotesta facoltà elettiva? E non vi sentite voi prima di operare in egual potere di appigliarvi a questo, o a quel partito? E non conoscete voi allorchè operate, che è in vostra balìa il continuar l'azione, o il sospenderla? Più volte vi sarà accaduto di udire un fanciullino ripreso per qualsivoglia mancamento addur mille ragioni in sua difesa, non mai però vi sarà avvenuto di udirne alcuno allegar per sua scusa una forza interna, che ad operar lo costrinse, eppur vi è noto, che il linguaggio di un bambino si è quello appunto, che dalla natura medesima viengli insegnato. Voi non potrete negarmi di aver ben spesso nel vostro cuore sentito un tal quale sdegno contro voi stesso, qualora non bene riuscirono le vostre intraprese, il quale sdegno non da altro potè essere originato, che dalla viva cognizione, che avevate voi della vostra libertà, in virtù della quale era in vostra balìa l'operar diversamente. Che se un interno sentimento reso vi avesse persuaso della necessità in cui eravate di operare in quella guisa appunto, nella quale realmente operaste, stato sarebbe affatto irragionevole quel senso di sdegno, che contro voi medesimo sperimentaste più volte. Questo interno sentimento diffatto, sì conspicuamente manifesto fu sufficiente a render persuaso della propria libertà uno dei più empj filosofi del passato secolo, il celebre G. Giacomo Rousseau, il quale, ad onta del suo spirito sempre nimico della verità, non potè non conoscere la nobiltà della sostanza che lo animava, e confessandola libera, confessolla eziandio spirituale. "Anima abbietta, esclama egli, tu vuoi invano avvilirti; il tuo genio contraddice a' tuoi principii, il tuo cuore smentisce la tua dottrina, e l'abuso medesimo delle tue facoltà prova a tuo dispetto la loro eccellenza". Ecco il bel trionfo della verità. Colui, che chiama i dogmi del Vangelo ripugnanti alla ragione dell'uomo, colui, che tante dottrine sparge alla società perniciose e al buon costume, non può non sottomettersi alla forza della verità, e si confessa libero.

Pregovi ad escusarmi, soggiunse qui il letterato, se troppo volli far pompa di parole. Incolpatene l'ampiezza dell'argomento, e cotesto vostro spirito forte, che assai debole mostrossi indiscretamente ricusando di abbracciare la favorita opinione de' più cebri fautori del libertinaggio. Che se altri argomenti bramaste ancora a persuadervi della vostra libertà, osservate, vi prego il potere, che noi abbiamo di ritenere il fiato, e di interrompere l'azione del respirare. Qual cosa più mecanica di questa natural funzione? e qual cosa perciò più atta a dimostrarci la nostra libertà, quanto il potere che abbiam noi di sospenderla? Si trasse, sì dicendo, di tasca il letterato una elegante scatola piena di morbida polvere fragrante, quale offerta in giro agli astanti. Io, proseguì, son libero al presente di appressar questa polve alle narici, o di rifiutarla, e voi pur lo siete o signore, ed un interno sentimento vel dimostra per modo, che senza, direi, quasi lottar con voi stesso, egli vi è impossibile il negarlo. Qual proposizione adunque più manifestamente falsa di quella, che va a ridurci ad un pirronismo universale, negando ciò, di cui l'intima cognizione, e la cotidiana esperienza tuttodì ci fa certi? Ma questa esperienza appunto favorevole alla libertà dell'uomo, interruppe il giovane, si è quella che non vuolsi ammettere per niun conto da alcun sensato filosofo. Se diffatto un interno sentimento ci mostrasse ad evidenza la nostra libertà, come potrebbono aver luogo cotante dispute e dissensioni per inspiegar la natura del libero arbitrio e per assegnarne la teoria? Qual difficoltà potrebbe esservi mai a comprender ciò, che una cotidiana esperienza ci facesse tutto giorno manifesto? Io non potrei non farmi beffe di tutti i filosofi, che tanti dubbj muovono sopra una cosa chiara per sè medesima, e palese qual voi la dite. Pregovi, rispose il filosofo, ad escusarmi, se non temo di affermare esser la vostra obiezione affatto insufficiente. Voi ponete per fondamento del vostro raziocinio questo principio cioè, che intorno ad un fatto chiaro ed evidente non può esservi division di pareri e contrarietà di partiti. Osservate però le assurde conseguenze, che da tal principio derivano. Voi non conoscete l'intima natura del pensiero, dovrete dunque secondo la vostra massima riputare un inganno il credere che facciam noi di pensare. Voi ignorate la certa causa della inerzia de' corpi, dovrete dunque negarla o dubitarne. Voi vi ritrovate nello istesso imbarazzo in riguardo alla universale attrazione, dovete dunque crederla una chimera, giacchè se dell'esistenza di questa forza, e di quella della inerzia [gravità], e del pensiero ci facesse persuasi la cotidiana nostra esperienza tutto ciò, che ad essa appartiene esser ci dovrebbe, secondo il vostro principio, manifestamente palese. Non credo al certo, che a fronte di tante assurdità vogliate ancora stimare la vostra obiezione valevole ad abbattere il nostro argomento, della cui forza furono e son tuttora sì persuase le genti tutte, che alcuna nazione non fuvvi giammai, la quale ponesse in dubbio la umana libertà. Vi è ben noto infatti qual cura abbian mai sempre avuta i popoli ancor più barbari di esser regolati da savie leggi e convenevoli, persuasi del potere che avean essi di osservarle e del volontario delitto, che commettevano coloro che trasgredivanle, dalla quale persuasione derivavan poi e i premj stabiliti per i fedeli osservatori delle prescritte leggi, e le pene decretate per i trasgressori delle medesime. Sin dagli antichi tempi Licurgo a Sparta, Dragone e Solone ad Atene, Zaleuco a' locresi, Caronda ai turii dettaron leggi, e sembrò [sembraron] quasi, che le città della Grecia contrastassero fra loro pel vanto di esser meglio governate, come già fra loro contrastarono per l'onore di aver dato alla luce il principe degli epici greci, l'insigne poeta Omero. I romani non trovarono tra loro uomo alcuno atto a prescrivergli delle savie, e giuste leggi, e loro convenne però mandare a raccorre nella Grecia quelle, che migliori erano riputate, e queste diligentemente compilate da' decemviri ed esposte in dodici tavole, furono solennemente da' romani accettate per regola della propria libertà. Nè vo' qui far menzione della cura ch'ebbero gli antichi egiziani e babilonesi e persiani, ed ebrei precipuamente di essere con prudenti leggi regolati, giacchè reputovi bastantemente persuaso di questa verità, cioè, che nazione alcuna non dubitò giammai della libertà dell'uomo. Or dunque, se egli è vero, come afferma M. Tullio, e come asseriscono con essolui i più sensati filosofi, che il consenso di tutte le genti dee considerarsi mai sempre come una legge di natura, voi ben vedete, che il dubitare dell'umana libertà è affatto irragionevole. Ma è egli forse impossibile, che le genti tutte abbiano prestato il loro consentimento a un errore? rispose il giovane gentiluomo questo è ciò che i fautori dell'umana libertà non dimostrano, e questo è ciò, che lor converrebbe dimostrare. Coloro, che credono impossibile, che tutti gli uomini s'ingannino non avvertono, che la verità del loro assioma non è bastantemente manifesta, che può esser negata, o combattuta, che ha insomma bisogno di dimostrazione: finalmente il vostro argomento tratto dal consenso di tutte le azioni, potrà esser sufficiente ad appagare chi è già intimamente persuaso della verità del libero arbitrio, non già degli spiriti forti, pe' quali delle prove di tal fatta non hanno tutta la necessaria virtù. Ma l'autorità di questi spiriti forti, rispose il letterato, è forse tale da poter contrabbilanciare quella di ogni nazione? Tutti i più sapienti filosofi de' passati secoli hanno riconosciuta la libertà dell'uomo, ed un pugno di esseri insensati si avanza a contraddir loro, e pretende co' suoi miserabili argomenti convincer di errore il mondo tutto. Qual cosa più atta a dimostrare l'accecamento de' libertini, di questa folle presunzione? e dovrà dunque appellarsi secolo illuminato quello, che sprezza l'autorità di tutti i secoli anteriori? A queste parole un tal quale sdegno letterario videsi apparir sulla fronte, e negli occhi del giovane gentiluomo, il quale, ecco disse, le conseguenze del vostro principio. L'immortale astronomo, il celebre Giovanni Keplero scuopre due leggi astronomiche dimostrate con tutta la fisica evidenza, le quali lo fanno risguardare come il padre dell'astronomia: ma possibile che l'autorità di un sol uomo sia tale da bilanciare quella di tutti gli antichi filosofi i quali, o non conobbero o non ammisero coteste leggi? L'immortale Niccola Copernico dopo mille osservazioni e ricerche, dà finalmente alla luce un sistema astronomico, il quale può dirsi l'unico, che atto sia a spiegare adeguatamente i fenomeni celesti: ma possibile che l'autorità di un solo possa venir contrapposta a quella di tutti quasi gli antichi filosofi, i quali ammisero bene spesso dei sistemi affatto opposti a quello di questo astronomo? Il grande Isacco Newton, dopo assidui studi e reiterate esperienze, pubblica un Sistema di fisica ignoto in gran parte ai secoli anteriori; sistema, che solo è capace di render pago un saggio indagatore delle leggi naturali: ma possibile che l'autorità di un uomo solo valga a superar quella di quasi tutti gli antichi sapienti, i quali nelle loro ipotesi altro d'ordinario non fecero che opporsi all'opinione di questo fisico? Ecco dunque dal vostro principio distrutti, e il sistema di Copernico e quello di Newton, e le leggi di Keplero, e con esse tutte le ipotesi di recente invenzione, che approvate non furono dagli antichi sapienti. Gran differenza rispose il letterato passa tra le fisiche verità e le metafisiche; giacchè noi d'ordinario dobbiamo la scoperta di quelle alle osservazioni, ed agli sperimenti, e non siam debitori della conoscenza di queste, che alla nostra ragione. D'altronde poi, soggiunse, non potrà già mai per mio avviso ritrovarsi a favore di una ipotesi di fisica quell'unanime consentimento di opinioni, che ritrovasi a favore dell'umana libertà, giacchè, se questa dote si tolga al nostro spirito, conviene accusare d'ingiustizia i più sapienti legislatori, i più savi prìncipi, e tutti insomma coloro, i quali punirono i malfattori, e premiarono i virtuosi; sebbene però dir potrebbesi a loro escusazione, che essendo eglino agenti necessari, non poterono non punire il delitto, e non premiare la virtù, cosa che verrebbe a gettarci in un mare di dubbiezze, ed in un oscurissimo caos di confusione, dalla quale sarebbe impossibile il disbrigarsi, perchè appunto è impossibile sostituire il falso alla verità. Si scosse a queste parole il giovane, e Togliendo ancora, disse, il libero arbitrio all'uomo, può e deve egli dirsi colpevole qualora le leggi trasgredisca. Nella ipotesi, di fatto, che l'uomo sia libero, egli pecca disubbidendo alle leggi, perchè volontariamente determinasi a trasgredirle, e nella ipotesi che l'uomo sia privo di libertà, pecca egli altresì, perchè per non escusabile mancanza di esame e riflessione ha stimato bene ciò che era male in realtà. Per questa ragione appunto l'autore dell'Analisi delle idee togliendo all'uomo la libertà, non toglie ad esso la facoltà di meritare, e demeritare. Ma come può mai l'uomo, interruppe il letterato, trattenersi a suo agio nell'esame di diversi partiti, che al suo intelletto si presentano, se egli è in tutto dipendente dalla necessità tiranna inesorabile, e funesta regolatrice delle umane operazioni? Poniamo, che presentandosi all'intelletto dell'uomo alcuna cosa sotto l'aspetto di bene egli, come buona riguardandola, sebbene tale realmente non sia, riguardi come bene altresì il passare senza permetter altro esame all'operazione, in tal caso egli dovrà necessariamente secondo il principio dell'autore dell'Analisi delle idee ammettere quella sì decantata matura riflessione, e considerazione, ed ecco giustificato ogni reo, e convinto d'ingiustizia ogni punitor del delitto, se già non voleste come lo Spinosa, permettere ai prìncipi, ed ai giudici di punire e togliere dal mondo gli scelerati, non come colpevoli per sè medesimi, ma come putridi membri, e dannosi alla società. Noi dunque tolta all'uomo la libertà non possiamo non ammettere in tutta la sua estensione il dogma orribile del fatalismo chiamato dall'Elvezio principio distruttivo di ogni religione, e dal medesimo poi con ogni impegno sostenuto, e difeso. Voi ben vedete, che tolta all'uomo la facoltà di meritare, e demeritare, la quale non può appartenere per niun modo ad un agente necessario viene gittata a terra la morale filosofia, la quale precipuamente è fondata [troppo] sul dogma certissimo del libero arbitrio, e distrutti i principii di questa necessarissima scienza, che altro possiam noi aspettarci, se non di precipitare nel baratro di una totale indipendenza, e di un funesto abbandonamento nelle braccia della tiranna necessità? Meritamente cantò un antico poeta, che il dono più grande, che abbia Iddio fatto all'uomo nel trarlo dal nulla fu la libertà, ed invero non può certamente ammettersi la divina infinita provvidenza, qualora non si ammetta il libero arbitrio non potendo questa accordarsi per niun modo con quella fatale necessità distruggitrice di ogni legge e perturbatrice di ogni ordine, che ammettono stoltamente i libertini. Questa providenza appunto, disse il giovane gentiluomo, distrugge la umana libertà anzichè comprovarla. E diffatto, non può non accadere quello, che Iddio preordinò, e ciò ammesso, voi ben vedete che non può l'uomo a sua posta appigliarsi a questo, o a quel partito, dovendo necessariamente operar mai sempre a seconda dei divini immutabili decreti. Per questa ragione appunto un antico filosofo saggiamente affermò, che se vuole ammettersi la divina providenza, l'uomo non può chiamarsi libero. Lo stesso può dirsi della divina prescienza, la quale fa sì, che l'uomo agir non possa se non in quel modo, in cui l'Ente supremo sin dal principio de' secoli previdde dover egli agire. Egli è impossibile diffatto, che l'uomo agisca in un modo diverso da quello in cui sa Dio dover egli agire, giacchè altramente errato avrebbe l'Essere supremo, e non sarebbe però infinitamente perfetto. L'umana libertà non può dunque per niun modo accordarsi coi divini decreti e colla divina infallibile prescienza.

Il vostro argomento rispose il letterato è quello appunto sul quale sogliono fondarsi precipuamente gl'impugnatori dell'umana libertà. Per poco però, che voi riflettiate su di esso, non potrete non conoscere l'errore, in cui questi ritrovansi. Nè certo voglio io negare il di già stabilito ordine di cause, affermo bensì che da questo non vien tolta, anzi neppure offesa in modo alcuno la umana libertà. E difatto, non è egli evidente che le volizioni dell'uomo, e le di lui nolizioni sono appunto comprese in cotesta predeterminata serie di cause? Non è egli evidente, che Dio ebbe sempre presenti all'intelletto le volontà dell'uomo, ed a seconda di queste regolò, e preordinò le cose tutte? Non è egli evidente in conseguenza, che i divini inalterabili decreti non sono per conto alcuno contrarj alla umana libertà? E per ciò che riguarda la divina prescienza voi non sarete, io spero, restìo ad accordarmi, che le umane determinazioni non han luogo perchè Dio le ha prevedute, e che l'Ente supremo conoscendo l'uso, ch'è per far l'uomo della propria libertà, non fa a questa violenza mentre l'uomo liberamente si determina mosso da quelle cause appunto, che Dio previdde dover cagionare la sua libera determinazione. Tanta è l'evidenza di questa verità, cioè, che la divina prescienza non influisce in conto alcuno sulle umane operazioni, che lo stesso autore dell'Analisi delle idee non potè non conoscerla e non confessarla.

Comunque ciò sia, ripigliò il giovane gentiluomo, egli è certo che, se la volontà vuol determinatamente una cosa, ella è mossa da qualche cagione a volerla. Or posta la causa sufficiente è necessario, che segua l'effetto, giacchè se ciò non fosse, altra causa ricercherebbesi a produrlo, ed in conseguenza non sarìa stata la prima cagione sufficiente. Dunque la volontà dell'uomo non può non voler ciò, che vuole.

Questo istesso argomento, rispose il letterato, conobbe già, e dissipò un antico cristiano filosofo persecutore valorosissimo della incredulità e del libertinaggio. Or dunque secondo egli afferma, e con essolui tutti i sensati autori, non ogni cagion sufficiente produce necessariamente l'effetto potendo essa talvolta venire impedita, e ciò scorgiamo talora nelle cause naturali le quali sebben producano d'ordinario il loro effetto, possono nondimeno venir talvolta impedite. Così quella cagione, la quale serve a determinare la umana volontà a volere alcuna cosa soffre bene spesso impedimento per parte della volontà medesima, la quale può, o rimuovere l'intelletto dalla considerazione, che la induce a volere, o applicarlo a considerare sotto certi riguardi come cattiva quella cosa, che buona apparisce al primo aspetto. Voi ben vedete adunque, che il proposto argomento non è per niun modo valevole a distruggere la umana libertà, non potendo affermarsi, che ogni sufficiente cagione il suo effetto necessariamente produca e che per conseguenza quella cognizione, che ha ciascuno dalla propria libertà non è altrimenti erronea, e fallace come pretendono i libertini.

L'uomo, disse il giovane, si reputa libero, perchè delle sue volizioni e nolizioni è consapevole, nè pensa mai alla cagion vera, dalla quale è indotto a volere o non volere, ad appetire o a rifiutare. Figuriamoci noi una pietra, che cada precipitevole dall'alto, ed immaginiamoci ancora, che cotesta pietra pensi, e conosca di sforzarsi per perservare nel suo moto: essa si stimerà senza dubbio affatto libera, e perchè la sua volontà non disapprova il di lei moto, crederà, che questo non abbia luogo, se non perchè ella lo vuole. In cotesto sasso appunto noi dobbiam ravvisare l'immagine di un uomo, che si reputa libero, giacchè l'umana libertà non consiste in altro, che nella ignoranza in cui sono gli uomini circa la vera causa, che li spinge ad operare.

Sebbene, rispose il letterato io non ardisca vantarmi di conoscere i pensieri de' sassi, oso dir nondimeno, che cotesta pietra, se unitamente alla facoltà di pensare avesse quella eziandio di ragionare, non istenterebbe a conoscersi affatto dipendente, ed in conseguenza non libera. Ed infatti il vivo sentimento, che abbiam noi della nostra libertà non deriva, che dalla persuasione in cui siamo di potere operare in quella guisa che più ci piace, e di non agire che in virtù di una affatto libera determinazione. Noi conosciamo, per cagion di esempio, nell'eleggere di camminare, che era in nostro potere l'eleggere di riposare, e che possiamo ancor se vogliamo rimanere in riposo, ma ciò non conoscerebbe il sasso, nè in sè ritroverebbe il potere di eleggere, e però non potrebbe non avvedersi della sua totale dipendenza. Non può dunque la vostra obiezione distruggere, anzi neppure indebolire il fortissimo argomento tratto dalla cotidiana luminosa esperienza, che tutto giorno ci mostra la nostra libertà. Ma cotesta esperienza disse il giovane gentiluomo è ella poi qual voi dite valevole a dimostrarci la nostra libertà? Sommi uomini ne dubitarono, ed io non posso non dubitarne con essi. Sembrami anzi che lungi dal comprovare il libero arbitrio, essa non faccia che cancellarne l'idea nel nostro intelletto. Diamo una occhiata ai giudizi dell'anima umana, e non potremo non avvederci della necessità in cui ella è di giudicar vera una proposizione qualora conosca la unione del predicato con il soggetto. Osserviamo le nostre idee, e vedremo, che queste vengono in noi prodotte dall'impressione che fanno gli esterni oggetti negli organi sensorii, della quale impressione ci è impossibile impedire l'effetto. Eccoci dunque affatto privi di libertà, e per ciò che riguarda le nostre idee, e per ciò che appartiene a' nostri giudizi. La verità di quanto affermai vien comprovata dalla cotidiana esperienza, la quale evidentemente ci mostra, che noi, allorquando conosciamo la congiunzione del predicato con il soggetto non possiamo giudicar falsa una proposizione, e non possiamo giudicarne vera alcuna, allorchè vediamo disconvenire il predicato al soggetto. La stessa esperienza ci mostra, che non è in nostra balìa il far sì, che le impressioni fatte dagli oggetti esterni ne' sensi non producano in noi delle idee, e che noi non siamo almen per questa parte signori dei nostri pensieri. Come può dunque affermarsi che la nostra cotidiana esperienza ci rende certi della umana libertà, se in cambio di ciò essa non fa che persuaderci della nostra totale dipendenza nell'operare?

Ma, rispose il letterato, io sostengo l'uomo libero, non in quanto può conoscere, ma in quanto può volere, o non volere. Che se pur bramate di ritrovar nell'uomo la libertà ancora per ciò che riguarda le idee, ed i giudizi della sua mente, ravvisatela nel potere che ha egli di applicare, o distogliere l'intelletto dalla considerazione delle proposizioni, e nella facoltà, che ha esso altresì d'impedire l'azione degli esterni oggetti sopra i suoi organi sensòri, o col distrarre il senso dall'oggetto, o col servirsi di qualsivoglia altro mezzo conveniente. Certo non vi verrà fatto giammai di valervi a difendere la vostra proposizione dell'arme de' vostri istessi avversari, cioè dell'argomento invincibile tratto dalla universale esperienza, la quale da tutti i sapienti fu mai stimata favorevole alla umana libertà. Ma per libertà, disse il giovane gentiluomo, certo non può intendersi che un'assoluta indifferenza di equilibrio, la quale faccia sì che l'esser libero non abbia alcuna ragione di determinarsi, anteriore alla determinazione. Or ciò posto, come può mai ammettersi nell'uomo il libero arbitrio, se ciascun vede manifestamente, che cotesta indifferenza manca assolutamente ad esso mentre, il desiderio della felicità essendo l'unico scopo di tutti i suoi pensieri, e di tutte le sue azioni egli non può non tender mai sempre al conseguimento della medesima? Voi ben vedete, che non potendo l'uomo scegliere il male, come male, nè rifiutare il bene, come bene, egli non può dirsi assolutamente indifferente, e però non può chiamarsi libero, seguendo la promessa definizione della libertà. Gli uomini hanno un bel gridare di esser liberi, essi non possono non avvedersi della necessità in cui sono di sceglier sempre il meglio, e di rifiutare il peggio. Taluno per dimostrare talvolta la propria libertà, avrà forse scelto ciò, che se gli presentava sotto l'aspetto di male, ma in tal caso egli cessò di riguardar la cosa come cattiva, e non la elesse, che in vista della soddisfazione che provava, credendo di poter mostrare la propria libertà. Crederà l'uomo bene spesso di aver abbracciato il male come male, ed egli non avrà fatto che lasciare un bene per seguirne uno maggiore. E diffatto, come potrebbe egli mai veduto il bene, e conosciuto il male appigliarsi a questo piuttosto che a quello, e seguire a considerarlo come male, se tutte le sue azioni non possono non tendere mai sempre all'acquisto della felicità, della quale il male è il distruttore? Or dunque, se l'uomo non è determinato che da una causa, la quale necessariamente lo determina, e non può non cagionare tutte le sue risoluzioni, convien confessare che la idea, ch'egli si forma della propria libertà è affatto chimerica, e non è che un sogno. Ecco l'argomento invincibile de' fatalisti, il qual è da se solo bastevole a dissipare tutte le obiezioni degli avversari, e, su questo appunto fondato l'autore dell'Analisi delle idee ragionevolmente asserì, che è un inganno il creder l'uomo dotato di libertà.

Essendo questo argomento come voi dite, rispose il letterato, l'Achille dei fautori della necessità, mi permetterete di cominciar da lungi a combatterlo, e di condannare in prima la idea del libero arbitrio, che si formano i libertini. Il celebre Leibnizio rigetta giustamente la nozione della libertà, che vien proposta dall'autore dell'Origine del male, la quale appunto è quella, che sogliono d'ordinario ammettere i fatalisti. Il libero arbitrio adunque, secondo i più sapienti filosofi, non è che una facoltà di eleggere. Or questa facoltà ha per fondamento l'amor necessario del bene ossia di quella felicità al desiderio della quale siamo spinti dalla natura medesima, per modo che ci si rende impossibile il bramare il male ed il fuggire il bene. Ed ecco, voi mi dite, l'uomo non libero, giacchè egli non può determinarsi ad abbracciare il male come male, e ad odiare il bene come bene. Ma, io rispondo, il libero arbitrio non consiste nel potere fuggire il bene il quale è sempre il necessario motivo, che determina l'anima umana a volere, nè nel potere amare il male, ma consiste nell'esercizio della ragione e nell'uso del raziocinio, e però la radice dell'umana libertà dicesi essere nell'intelletto. Ed ecco il metodo, col quale gli uomini procedono nelle loro operazioni. L'anima dal necessario amore della felicità determinata ad uno, come dicesi nelle scuole, cioè, risoluta di seguir sempre il bene, e schifare il male, è indifferente, e indeterminata per riguardo agli oggetti particolari. Considera dunque l'intelletto i diversi partiti, che se gli propongono, esamina, confronta, ragiona con totale indifferenza, e a seconda de' suoi lumi giudica finalmente uno de' disaminati partiti degno di essere abbracciato. Quindi con una specie d'impero, il quale non è, che un atto di ragione, proponelo alla volontà, che mossa dall'amor del bene, tostamente lo elegge. Ed ecco dalla ragionevolezza dell'uomo dimostrata la di lui libertà e dissipato e disciolto ogni sofisma de' fatalisti, ed ecco altresì spiegata la vera origine del merito e demerito; nè vale il dire, che facendo l'uomo libero, egli non potrebbe nè meritare nè demeritare, perchè, operando egli sempre mosso dal desiderio della felicità nel trasgredir le leggi, non farebbe, che seguire il naturale istinto, che lo spinge ad amare il bene benchè apparente, mentre rispondo che l'uomo, essendo ragionevole, non può non distinguere il bene apparente, dal bene reale, e però colpevole dee dirsi, se il male reale abbraccia sotto ragione di bene apparente. Ma bene mi avveggo di essere un indiscreto nell'intrattenervi con sì lunghe seccaggini e sottigliezze. Voi però non potete non istimarmi degno di ogni escusazione, giacchè un agente necessario, quale io sono secondo il vostro principio, non può non obbedire ai comandi dell'immutabil destino arbitro dispotico delle umane operazioni.

Fecero plauso gli astanti a queste parole del letterato, ed il giovane Io voglio, disse, accordarvi ancora, che l'uomo sia libero e che l'autore dell'Analisi delle idee abbia errato nell'asserire, che è un inganno il crederlo dotato di libertà: sarà questo finalmente un errore, il quale esser non può da se solo capace di rendere disprezzabile l'opera intera.

Io non vo', disse il letterato, far qui una minuta analisi di cotesto libercolo, osserverò solamente che nel capitolo III della X sezione l'autore dell'Analisi delle idee prende a sostenere una proposizione affatto assurda, cioè, che i bruti son ragionevoli. Nulla di più probabile rispose il giovane. Noi vediamo diffatto, che han le bestie molte e belle cognizioni, le quali sempre si accrescerebbono se fossero i bruti più strettamente uniti insieme in società, e se avessero alcuna passion dominante la quale eccitasse il genio, e producesse l'eroismo. Noi scorgiamo nei bruti de' grandi indizi di ragionevolezza, la quale ci sarebbe vieppiù manifesta, se i bruti avessero linguaggio, o per meglio dire se non lo avessero troppo limitato. L'essere eglino privi di ozio è ancora una cagione del poco, o niuno accrescimento delle loro cognizioni. A tutto ciò si aggiunge la mancanza della stampa, senza la quale è ad essi impossibile perfezionare le proprie idee, e moltiplicare i propri lumi. Noi però, disse il letterato, non dobbiamo certamente dolerci di cotesta mancanza, mentre veggiamo non di rado uscire alla pubblica luce de' libri, che degni sarebbono delle tipografie e delle biblioteche de' bruti. Nel numero di questi può per la stravaganza delle opinioni che contiene porsi l'opuscolo dell'Analisi delle idee. E dove ci troveremmo noi mai se le bestie fossero dotate di ragione? La terra tutta diverrebbe un teatro di devastazione e di orrore. Non pochi sono i bruti per natura feroci, e di sangue avidi, e di stragi. Ora qual danno potrebbero essi apportare all'uman genere se dotati fossero di ragione! Innoltre le bestie procederon sempre, e procedon tutt'ora col metodo stesso nelle loro operazioni; ed il ragno non ha mai cangiato nulla nel lavoro della sua tela; e la rondine costruisce ora il suo nido, come lo costruì al principio del mondo, ed il castoro fabbrica ora la sua abitazione come fabbricavala sessanta secoli fa. Ma possibile, che degli esseri ragionevoli non abbiano mai cangiato nulla nel loro metodo di operare? Certo l'opinione dell'autor dell'Analisi delle idee porta seco mille assurdità, e mille stravaganti conseguenze. Nè voglio io ora combattere il mostruoso sistema esposto da m. Elvezio nel suo libro Dello spirito, nel quale afferma, che le bestie hanno meno industria, e men sapere, che l'uomo, solo perchè son privi degli organi necessari a maneggiare gli stromenti, a far delle scoperte, ed a perfezionare in tal modo le loro idee. Egli in due solenni pubbliche ritrattazioni condannò gli errori de' quali abbonda il libro Dello spirito: volesse il cielo che un tale esempio seguisse l'autore dell'Analisi delle idee, se pur tanto è necessario al disinganno del pubblico. Ma ciò che egli forse non è per fare, io faccio al presente, rispose il giovane gentiluomo. Ben conosco di aver presa a sostenere una causa debolissima a fronte di un fortissimo avversario. Andrò però consolandomi della mia sconfitta in quel modo in cui sarassi consolato Annibale, col pensiero cioè di non aver ceduto che ad uno Scipione. Sorrise a queste parole il letterato, il quale, avvedendosi che il sole avea già di non poco oltrepassato il meriggio, lietamente accomiatossi dal giovane gentiluomo inviandosi poi frettoloso a desinare al domestico albergo.

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Ultimo aggiornamento: 02 febbraio 2010

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