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Isocrate - Operette morali - traduzione di Giacomo Leopardi /head>

Giacomo Leopardi

OPERETTE MORALI D’ISOCRATE

 Edizione di riferimento

Giacomo Leopardi, Tutte le opere, con introduzione di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, vol. I, Sansoni editore, Firenze 1969

 

"Le prime tre operette furono tradotte a Recanati dal 5 dic. 1824 al 12 gennaio 1825; l’orazione areopagitica dal 9 al 29 marzo  1825; il preambolo fu scritto a Bologna nel febbraio 1826 (vedi lettera allo Stella del 22 febbraio 1826). L’opera, che il Giordani giudicò « modello di perfezione in fatto di volgarizzamenti», avrebbe dovuto essere stampata nel volume progettato « scelta di moralisti greci tradotti » dell’editore Stella che non fu mai realizzata. Sull’autografo fra le carte napoletane c’è l’imprimatur della censura milanese. Questo testo segue l’edizione di Francesco Flora.

ISOCRATE.

Nacque nel 436 a. C. ad Atene, nel demo di Erchia, da un certo Teodoro, ricco fabbricante di strumenti musicali. Ricevette un'educazione accurata, fu scolaro di Prodico e dei retori Gorgia, Tisia e Teramene. Ebbe anche rapporti con la scuola socratica: alla fine del Fedro platonico Socrate presagisce per lui un grande avvenire. In séguito alla guerra del Peloponneso perdette quasi tutti i suoi beni e si dette allora, nel 402, alla professione di avvocato, scrivendo i discorsi per i clienti. Ma, poiché in tale attività non otteneva il successo sperato, preferì, dopo un decennio, volgersi ad altro campo. L'innata, invincibile timidezza e la voce troppo debole gl'impedirono di dedicarsi alla vita politica attiva; aprì una scuola di eloquenza, in principio a Chio, con nove scolari, poi, nel 388, ad Atene. Il corso durava da tre a quattro anni; ogni mese aveva luogo una gara di eloquenza, il cui premio consisteva in una corona. L'insegnamento voleva non solo dare precetti retorici, ma formare la cultura generale, educare alla sapienza pratica. Ben presto la scuola isocratea divenne famosa e oscurò quelle dei piú celebrati maestri, quali Policrate e Alcidamante. Molti dei discorsi di I. a noi giunti sono appunto esercitazioni composte da lui come modelli per i suoi scolari. Suoi allievi furono uomini di Stato come Timoteo e Laodamante, gli storici Eforo e Teopompo, i tragediografi Teodette e Astidamante, gli oratori Iseo, Licurgo, Eschine e Iperide. Fu in rapporti con personaggi eminenti, Evagora e Nicocle re di Cipro, Archidamo di Sparta e Filippo di Macedonia. Suo avversario fu Aristotele, che diceva esser cosa turpe lasciar parlare I. Questi aveva il culto della forma, dello stile rigoroso e impeccabile, a cui Alcidamante contrapponeva l'elogio dell'ardita improvvisazione. L'ideale politico di I., da lui esposto in varie opere, le quali risentono tutte delle differenti condizioni politiche degli anni in cui furono composte (Panegirico, Plataico, Sulla Pace, Areopagitico, Filippo, Panatenaico), fu l'unione degli Elleni contro i barbari, vagheggiata da lui prima sotto il binomio Atene-Sparta, l'una con la sua potenza navale, l'altra con quella terrestre; poi, quando queste due forze militari decaddero, sotto Filippo, che, sempre contro i barbari Persiani, avrebbe dovuto porsi a capo delle città greche. Una leggenda vuole che appunto dopo la battaglia di Cheronea I., quando vide distrutto, insieme con la libertà ateniese, il suo ideale, sia morto, a 98 anni, di crepacuore o si sia lasciato morire di fame. Sembra che, in realtà, una malattia gli abbia impedito di nutrirsi. Negli ultimi anni aveva sposato Platane, vedova del sofista Ippia e madre di Afareo, oratore e tragediografo.(V.D.F.)

(Diz. biog. degli Autori di tutti i tempi, Fabbri-Bompiani, Milano 1970)

indice

1 - Preambolo del volgarizzatore

2 - I - Avvertimenti morali a Demonico

3 - II - Discorso del Principato a Nicocle di Salamina

4 - III - Nicocle

5 - IV - Orazione areopagitica

 

&

PREAMBOLO DEL VOLGARIZZATORE

A leggere i buoni libri moderni volgarizzati dalle lingue straniere, solo che il volgarizzamento abbia fedeltà e chiarezza, si prova per lo più quello stesso diletto, o poco minore, che a leggere quei medesimi libri nelle lingue loro proprie. Ma nei volgarizzamenti che abbiamo, o che vengono giornalmente in luce, di buone e classiche scritture antiche, non solo non si prova diletto uguale a quello che danno le medesime opere, leggendole nelle lingue loro, ma né anco si sente diletto alcuno, anzi in quella vece un tedio infinito, eccetto al più in materie di storia e in poche altre simili. La cagione di questa differenza si è che nelle opere moderne lo stile è cosa piccolissima o niente, nelle antiche è grandissima parte o il tutto. Diceva Isocrate che nei ragionamenti degl’instituti e degli uffici, non sono da cercare le novità, perché nulla vi si può trovare d’inaspettato né d’incredibile né d’insolito; ma quello è da riputare di cotali scritti il più bello, nel quale sieno raccolti in sulla materia la più parte dei concetti che erano dispersi nelle menti degli uomini, questi più leggiadramente esposti che in alcuno altro. Ora, non in quel solo genere di componimento che si accenna in questo luogo d’Isocrate, ma in molti altri medesimamente, si può dire che gli antichi, facendosi a scrivere, si proponessero, non già di dir cose nuove né di esporre invenzioni o pensieri che appartenessero a loro più che agli altri, ma solo di dire acconciamente ed ornatamente e come non si sarebbe saputo dire dal volgo, quelle stesse cose che erano conosciute e pensate comunemente dagli uomini del loro tempo, eziandio volgari. Però, non che bastino ai volgarizzamenti delle opere dei Classici antichi la fedeltà e la chiarezza, ma esse opere non si possono dir veramente volgarizzate se nella traslazione non si è posto arte e cura somma circa la eccellenza dello stile, e se questa non vi risplende in ogni lato. Ed essendo tra i moderni generalmente la sottile ed intima arte dello stile pochissimo nota, e la squisita cura di esso oltremodo rara, non è maraviglia che per lo più in tutte o in quasi tutte le lingue, i volgarizzamenti che si hanno o che si crede avere dei libri classici antichi, sieno poco meno che intollerabili e impossibili a leggere interi.

I Francesi nella loro lingua presente, non avendo vera differenza di stili, e quell’uno che hanno, essendo di carattere diverso assai dagli stili antichi, non possono avere e non hanno veri volgarizzamenti di antichi libri classici: e volendone avere, converrebbe loro ricorrere a quel vecchio parlar francese, oggi dismesso e quasi morto, ma quanto a se bellissimo e potentissimo, come veramente veggiamo aver fatto poco addietro il Courier nel provarsi a ridurre in francese alcune parti di Erodoto. I Tedeschi hanno da poco addietro nella loro lingua (certo infinitamente varia, immensa, fecondissima, liberissima, onnipotente, come la greca) un buon numero di versioni di libri antichi che sono tenute dalla nazione in pregio grande, e che si dicono essere somigliantissime ai testi originali. Ma se elle abbiano quella eccellenza di stile che loro si richiederebbe, questo io non so. So bene che molte di esse rappresentano fedelissimamente l’ordine, il numero delle parole, l’andamento, il suono de’ periodi, e tutto il materiale della dicitura degli autori, di modo che, pur materialmente parlando, lo stile, anzi, per dir così, ancora la lingua di quelli, si trova trasportata di pianta in simili versioni: ma ciò non vuol dire che elle abbiano né perfezione né bontà di stile tedesco. Anzi io dico: o la lingua tedesca non ha carattere alcuno proprio, e ciò essendo, ella non è capace di bellezza di stile; o essa ha carattere proprio, e tali volgarizzamenti, condotti in ogni cosa secondo la consuetudine, la maniera, la forma di altre favelle, anco disparatissime dalla tedesca, non possono essere di bello stile tedesco.

Tutte le altre nazioni (intendo in questo discorso di parlare specialmente degli scritti in prosa) hanno piuttosto difetto che rarità di buoni e veri volgarizzamenti di libri antichi; non per incapacità delle loro lingue, come i Francesi, ma per poco studio e poca opera posta dagl’ingegni dintorno a sì fatto genere, o poca loro sufficienza a trattarlo. Certo, fuori della tedesca, niuna lingua moderna è più capace che la nostra di traduzioni perfette, o almeno eccellentissime, da qual si sia favella del mondo, ma dal latino e dal greco massimamente. Contuttociò, in questo particolare delle traduzioni, noi ci troviamo essere più poveri eziandio che gli altri. E ristringendoci ora a dire dei libri greci e latini, parrebbe che in quel secolo nel quale più che in alcuno altro fiorirono tra noi lo studio sì di queste due lingue e sì della propria italiana, voglio dire nel cinquecento, i nostri migliori ingegni avessero temuto, e perciò schifato, di tentare con volgarizzamenti le opere degli antichi di maggior conto. Le quali in quel secolo furono per verità recate nella nostra lingua quasi tutte, ma le più da uomini insufficienti e di poco valore. Ben si leggono con diletto, a cagion di esempio, le cose di Seneca e di Boezio volgarizzate dal Varchi, e quelle di Aristotele, del Nazianzeno, di san Cipriano dal Caro, e sono di ottimo stile e sì spedito e libero, che paiono anzi scritture originali che traduzioni. La qual cosa, dopo il cinquecento, mai nessuno Italiano, volgarizzando in prosa, non ha potuto ottenere, se non forse Gasparo Gozzi. Ma né san Cipriano né il Nazianzeno né Aristotele nella Rettorica né Boezio né Seneca sono esempi di bello stile, e in questa parte i predetti volgarizzamenti vincono senza alcun dubbio i dettati primitivi. Onde è molto da dolersi che questi e simili ingegni di quella età, contenti di quasi trastullarsi con tali scrittori di basso affare, si astenessero dal provarsi coi grandi e coi principali. Lascio stare il Livio del Nardi e il Tacito del Davanzati, ingegni ambedue non ordinari, ma dei quali al primo, come che ciò si fosse e per qual cagione, mancò la felicità nel successo, all’altro errò il giudizio nella scelta del modo. E molto meno mi fermerò a parlare dei nostri volgarizzatori del secolo decimoquarto; i quali assai più arditi de’ più dotti e valenti uomini del cinquecento, non temettero di arrischiarsi con Sallustio, con Livio, con Cicerone e con altri dei sommi; ma rozzissimi come erano nelle lingue antiche, e privi di ogni arte nella propria, quantunque forniti, solo per la fortunata condizione del loro tempo, di una bellissima consuetudine di parlare, riuscirono, non solo insulsi e noiosi presso che in tutto, ma in gran parte anche strani, ridicoli e, siccome non s’intesero essi medesimi, così non intelligibili altrui; e fecero opere che quanto sono pregiate per le voci e le locuzioni, tanto si dispregiano per lo stile e in quanto alla loro qualità di volgarizzamenti.

Ripigliando e conchiudendo del secolo decimosesto, lo stile di Marcello Adriani nei Morali di Plutarco non passa la mediocrità: nondimeno, risguardando che similmente lo stile di Plutarco, massime in quei Trattati, resta anzi di qua che di là dal mediocre, si potrebbe presumere che quello fosse un volgarizzamento bastevole a tali opere, se esso, per la poca scienza del greco avuta dall’Adriani e per la scorrezione dei testi greci usati, non fosse in troppo gran parte falso, e troppo abbondante di errori. Il simile si può dire intorno al volgarizzamento fatto dallo stesso Adriani del libro di Demetrio della elocuzione. Quanto si è al Longo del Caro, opera giovanile e non finita anche di limare e polire, quello stile pare a me poco pregevole e poco bello, e questo per la cagione medesima per la quale pare il contrario a molti, cioè per la copia, che a me riesce soverchia, degli ornamenti; né la elocuzione di Longo appena conforme all’indole della lingua greca, merita a lui titolo di scrittor classico.

Ora che direi dei nostri volgarizzamenti più moderni se io volessi qui distendermi maggiormente? Che direi, tra gli altri, degli Amori di Abrocome e d’Anzia del Salvini, i quali sono lodati io non so perché? dove io trovo, giusta il consueto del volgarizzare di quell’uomo, un dire né italiano né greco, ma fatto di un raccozzamento dell’uno e dell’altro in foggia mostruosa e barbara; e un andamento che sarebbe molto più acconcio a una versione interlineare. Che direi del Longino del Gori, che oltre alla trivialità dello stile e della lingua, non dico già è sparso, ma è composto tutto di errori d’intelligenza e d’interpretazione del testo greco? e tuttavia, non senza nostra vergogna, è riputato universalmente in Italia per volgarizzamento, non pur vero e buono, anzi egregio e classico!

Io penso che fosse per esser cosa molto conveniente se i dotti italiani, che hanno, come ho detto, una lingua dispostissima alle traduzioni dei libri classici degli antichi, attendessero a questo genere più che essi non fanno al presente e che non si è fatto tra noi per l’addietro, e gareggiassero, come fanno i Tedeschi, di produrvi opere perfette e che si meritassero il nome altresì di classiche. E questo sarebbe studio senza pericolo, e tanto più opportuno in Italia, quanto la conoscenza e la pratica delle lingue latina e greca sono cose molto più rare qui che in Germania e in altre parti. Ma poiché gl’Italiani oggi in universale non hanno, a voler dire il vero, alcun sentimento delle virtù e dei vizi del favellare e dello stile, e giudicano in queste materie per lo più a caso, confondendo il mediocre coll’ottimo, ed ancora il buono col tristo, e spesso anche l’ottimo col pessimo; che gloria agli autori o che piacere agli altri e, per dire in somma, che frutto potrebbe venire di sì fatte opere e dell’arte e della fatica infinita che si richieggono a procacciare la finezza della lingua e la perfezione dello stile che esse dovrebbero avere? A chi m’interrogasse in questo tal modo, io cercherei di fare qualche risposta, ma io non so bene ora quello che io direi.

OPERETTE MORALI D’ISOCRATE

&

I

AVVERTIMENTI MORALI A DEMONICO

In molte cose, o Demonico, si vede essere non piccola varietà dai pensieri degli uomini buoni e d’assai a quelli delle persone triste e da poco, ma molto più si discorda l’una dall’altra gente nell’uso dell’amicizia. Perocché questi si sforzano di fare onore agli amici allora solamente che gli hanno dinanzi, quelli anco da lontano gli amano; e le familiarità dei tristi in piccolo tempo si sciolgono, ma le amicizie dei buoni nessuno spazio di tempo è bastevole a scancellarle. Adunque stimando essere conveniente che gli uomini desiderosi di fama e dediti alle lettere piglino a imitare non mica i tristi ma i buoni, mandoti donando questo discorso in segno così dell’amicizia che è tra noi due, come della dimestichezza ch’io ebbi già con Ipponico. Perocché bene è ragionevole che i figliuoli succedano nelle amicizie dei padri siccome nelle sostanze. Veggo ancora che la fortuna e il tempo ci favoriscono e ci sono a proposito, atteso che tu sei vago d’imparare, io procaccio d’insegnare altrui, e tu di presente attendi a filosofare, io sto indirizzando gli altri in questa medesima opera.

Quelli per tanto che scrivono ai loro amici certi tali discorsi per muovergli allo studio della eloquenza, fanno cosa buona, ma essi però non si adoperano intorno alla parte principale della letteratura. Coloro che ai giovanetti porgono di quegli avvertimenti e consigli che riguardano non a fargli esercitare nella eloquenza, ma sì a fargli venire in grado che essi, in quanto ai costumi, sieno riputati buoni e bennati, riescono di tanto maggiore utilità che non fanno gli altri sopraddetti, quanto che questi gli spronano allo studio del dire, quelli danno ordine e modo ai loro costumi. Onde io per tal cagione appigliandomi a questo secondo genere di scrittura, intendo proporti a quali cose debbano i giovanetti volgere il desiderio, quali azioni schifare, con quali uomini usare, come governare la loro vita. Ed abbi per fermo che solo per questa via la quale io m’ingegnerò di mostrarti, sono potuti gli uomini veramente giungere alla virtù, bene assai più pregevole e più durabile che qualunque altro. La bellezza o per età si consuma o si guasta per malattia. La ricchezza serve più alla tristizia ed alla dappocaggine che alla bontà ed al valore, come quella che dà luogo ed agio al vivere ozioso e che invita i giovani alle voluttà del corpo. La forza congiunta colla saviezza suole essere di profitto, ma divisa da quella è usata piuttosto di nuocere a chi la possiede; e come ella adorna il corpo di chi la esercita, così reca impedimento alla coltura dell’animo. Sola di tutti i beni la virtù vera e pura invecchia insieme con quelli nei quali nata, crebbe altresì con loro; questa val più che la ricchezza, fa più frutto che la nobiltà; per questa si rendono possibili quelle cose che sono impossibili altrimenti, quelle che sono spaventose alla moltitudine, essa intrepida le sostiene; reputa la oziosità vergogna, l’affaticarsi lode.

Ciò si comprende agevolmente dalle imprese d’Ercole e di Teseo, la virtù dei quali fece le opere loro tanto gloriose, che la memoria di quelle anco dalla eternità intiera non potrà essere spenta. Ma oltre di questo, se tu ricorderai col pensiero i costumi e i portamenti di tuo padre, avrai per tal modo un bello e domestico esempio di quello a che io mi propongo di confortarti. Perocché tuo padre non ebbe in piccolo conto l’essere virtuoso, non visse una vita pigra e codarda, anzi esercitava il corpo colle fatiche, coll’animo sosteneva fortemente i pericoli. Non amava le ricchezze fuori di modo, ma usando come mortale i beni che aveva, a un medesimo tempo teneva tanta cura delle cose sue, come se fosse stato immortale. Non fu nel tenore della sua vita abbietto e spregevole, anzi amatore dell’onesto e del decoroso, anzi magnifico, ed agli amici cortese e largo. Faceva più conto di quelli che lo amavano e si adoperavano per lui, che di chi gli era congiunto di parentela, perocché stimava che in quanto all’amicizia, valesse più la natura che la legge, i costumi che il sangue, la elezione volontaria che la necessità. Il tempo mi verrebbe meno se io volessi annoverare tutti i suoi fatti. In altre occasioni ci proveremo di esporli accuratamente. Ora ho voluto farti, come a dire, un abbozzo della sua natura, nel quale mirando, come in uno esempio, ti conviene regolare e formare la propria vita, proponendoti i costumi d’Ipponico quasi per legge, e facendoti imitatore della virtù paterna. Imperocché gran vergogna sarebbe che, dove i pittori si studiano di ritrarre le persone belle, i figliuoli non imitassero i genitori buoni. E sta sicuro che egli non si conviene tanto a nessuno atleta di esercitarsi per combattere cogli avversari, quanto a te di porre ogni studio per avere a essere buon concorrente d’Ipponico nei costumi e negl’instituti della vita. Ma di una sì fatta cosa è impossibile venire a capo, chi non abbia l’animo pieno di molti e begli ammaestramenti; essendo che, siccome colle temperate fatiche i corpi, così gli animi per natura si migliorano coi buoni ragionamenti dei letterati. Per le quali cose io mi sforzerò di mostrarti succintamente con quali instituti io creda che tu possa fare nella virtù il progresso maggiore, ed essere più riputato e lodato da tutti gli uomini.

Primieramente osserva ogni debito di pietà verso gli Dei, non solo con sacrificare, ma con mantenere i giuramenti, la qual cosa è indizio di costumi onesti e buoni, laddove il sacrificare è segno di ricchezza. Onoragli in qualunque tempo, ma specialmente insieme colla città, donde a un’ora medesima tu ti mostrerai pietoso verso di quelli ed ossequioso alle leggi.

Circa i genitori pòrtati in quel modo appunto, come tu vorresti che i tuoi figliuoli si portassero verso di te.

Degli esercizi del corpo fa di usare quelli che giovano alla sanità, non quelli che conducono alla robustezza, e questo ti verrà fatto se piglierai per costume di rimanerti dalla fatica innanzi che tu non la possa più sostenere.

Guardati dal ridere smoderato e dalla baldanza nel parlare, perché quello è proprio degli sciocchi e questa dei pazzi.

Pensa che quelle cose che sono vergogna a farle non sono anche oneste a dirle.

Avvezzati a dimostrarti di una cera non mica accigliata, ma sì pensierosa e grave, perché da quella si acquista nome di superbo, da questa di assennato.

Fa ragione che ti si convenga sopra tutto di essere composto, verecondo, giusto, temperante; perocché la costumatezza dei giovani pare che consista principalmente in queste cose.

Non isperar mai, commessa un’azione brutta, che ella abbia a restare occulta. Imperocché quando ella rimanesse nascosta a tutti gli altri, sarebbe pur manifesta a te medesimo.

Temi Iddio. Onora chi ti generò. Abbi verecondia degli amici. Ubbidisci alle leggi.

Attendi a procacciare di quei diletti che sono congiunti all’onore e alla lode, perocché il piacere accompagnato coll’onesto è cosa ottima, altrimenti è la peggior cosa del mondo.

Fa di tenerti libero da qualsivoglia imputazione, eziandio falsa; perché il più della gente non sanno la verità delle cose e guardano alla opinione.

Governati in maniera come se ogni tuo fatto fosse per essere conosciuto da tutti gli uomini. Perocché se anco avrai facoltà di nasconderlo di presente, verrà tempo che egli si risaprà.

Volendo avere una buona riputazione, ingegnati massimamente di non far cosa che tu fossi per biasimare in altri che la facessero.

Molte cose saprai se tu sarai vago di sapere. Conservati coll’esercizio le cognizioni acquistate, e fa ogni diligenza d’imparare quello che tu non sai, considerando che non men brutta cosa è a non apprendere un buono ammaestramento che tu abbi udito, che a non accettare un dono che ti sia pòrto da un amico. Quel tempo che avrai libero dai negozi, spendilo nello ascoltare i letterati, e per tal modo t’interverrà di apprendere agevolmente quello che dagli altri fu trovato con difficoltà. E hai da tenere per certo che di così fatte cose sono molte che l’averle imparate val più di molte ricchezze, atteso che queste mancano in poco d’ora, ma quello si è un bene che resta sempre. Perciocché, di tutti gli averi, solo la sapienza non è sottoposta a potersi perdere. Non ti rincresca di pigliare un lungo cammino per andare a trovar quelli che fanno professione d’insegnar qualche cosa utile, perché certo egli è una vergogna a pensare che i mercatanti per accrescere le loro sostanze valichino tanti mari, e i giovani non sostengano di fare un poco strada per terra, a fine di migliorare le loro menti.

Dimóstrati nei modi gentile e compagnevole, al che si appartiene il salutare, l’interrogare e simili, di proprio moto; nelle parole attabile, al che si aspetta l’essere nei colloqui facile e famigliare. Usa cortesemente con chicchessia, ma dimesticamente solo coi migliori. Così gli uni non ti vorranno male e gli altri ti diventeranno amici. Non volerti intrattenere né molto spesso colle medesime persone, né molto lungamente sopra le stesse materie, perché tutto sazia a lungo andare.

Di tratto in tratto pigliati qualche fatica volontariamente per assuefarti, sicché tu possa reggere a quelle che ti converrà pigliare per necessità.

Sfòrzati di signoreggiare tutte quelle passioni dalle quali si disdice all’uomo di essere signoreggiato; ciò sono la cupidigia della roba, l’ira, la sensualità, la tristezza. Ed egli ti avverrà di signoreggiarle se tu reputerai per guadagno quelle cose per le quali tu sarai, non più ricco, ma più pregiato; se per li mancamenti degli altri tu non ti adirerai più di quello che tu vorresti che gli altri si adirassero teco ove tu fallassi; se giudicherai star male e disconvenirsi all’uomo comandare ai famigli e servire alle libidini; se in ogni tuo sinistro ti rivolgerai per la mente le calamità degli altri e la condizione della tua natura.

Metti più diligenza in serbare i depositi, per dir così, di parole, che quelli di danari; perciocché ogni uomo da bene dee dare a vedere che più fede si meritino i suoi costumi che i suoi giuramenti.

Fa conto che egli bisogna così diffidarsi dei tristi come fidarsi dei buoni.

Non comunicare i segreti a chicchessia, salvo se il tacerli non fosse utile a quelli a cui tu gli rivelassi, non meno che a te proprio.

Non pigliare a far giuramento se non se per l’una delle due cause, o di liberarti da una imputazione ignominiosa, o di salvare un amico da qualche pericolo. Ma per causa di danari o di roba non voler mai giurare a nessuno iddio, se bene tu fossi per farlo con verità; perché la gente penserebbe che tu spergiurassi o che tu ti movessi per avarizia.

Non ti obbligar per amico a nessuno che tu non abbia indagato il modo come egli sarà proceduto verso gli amici accostatiglisi prima, perché non hai da aspettare che egli ti riesca diverso da quello che avrà fatto a loro. A prendere le amicizie si vuole andare a rilento, ma prese, sforzarsi di conservarle, perch’egli è disdicevole parimente a non avere nessuno amico e a mutargli spesso. Non si vuol fare esperienza degli amici con proprio danno, né starsene senz’avergli provati. Per questo tu dei fingere alcun bisogno che tu non abbi, e comunicare agli amici alcuna cosa la quale si possa divulgare, e raccomandarla che se l’abbiano in segreto. Così, quando essi ti manchino, tu non ne riceverai nocumento, e quando non ti manchino, tu gli conoscerai meglio. Giudicagli massimamente secondo che ti riescono nelle sventure e nei pericoli che ti occorrono, essendo che egli si conosce l’oro nel fuoco e gli amici nelle avversità. Per la tua parte, tu procederai verso loro nel miglior modo, se non aspetterai che essi ti richieggano, ma spontaneamente, quando lor farà di mestieri, gli aiuterai. E pensa che a lasciarsi vincere dagli amici nei benefizi è cosa non manco vituperevole che a lasciarsi superare nelle offese dagl’inimici. Abbi in molto pregio non solamente quelli de’ tuoi familiari che si attristano del tuo male, ma eziandio quelli che non si attristano del tuo bene, imperocché sono molti che pigliano dispiacere delle avversità dell’amico, e nelle prosperità gli hanno invidia. Degli amici assenti fanne menzione coi presenti alcuna volta, acciocché questi pensino che, eziandio lontani, tu non mancherai d’avergli a memoria.

Nel vestire segui la eleganza e la magnificenza, ma non le attillature e le squisitezze.

Non amar che la roba ti soprabbondi ma sì bene di usarla moderatamente. Fatti beffe di quelli che vanno dietro alle ricchezze e non sono buoni a servirsi di quel che hanno, perché questi tali sono come chi avesse un cavallo bellissimo e non sapesse cavalcare. In somma ingegnati di sapere e goder le ricchezze ed usarle bene. E fa molto conto della tua roba per due rispetti: l’uno, per poter pagare, occorrendo, una multa grossa; l’altro, per poterne sovvenire a un amico d’assai che fosse in qualche miseria. Per ogni altro rispetto non volerla stimare più che mezzanamente.

Abbiti per lieto e pago della tua condizione: tuttavia cerca di vantaggiarti.

Non rimproverare a persona del mondo una sua mala ventura; perché la fortuna è comune e l’avvenire incerto.

Fa beneficio ai buoni. Perocché se un uomo da bene ci ha obbligo di un servigio, egli è come avere un bel capitale riposto. A giovare ai malvagi, t’interverrà come a quelli che danno mangiare ai cani altrui, perché questi abbaiano non meno a chi porge loro che agli altri, e i malvagi fanno parimente ingiuria a chi gli benefica e a chi gli offende.

Non altrimenti abbi in odio chi ti adula che chi t’inganna, perché gli uni e gli altri, se tu li credi, ti nocciono. Se tu accarezzerai quegli amici che ti gratificheranno in cose cattive e brutte, tu non ne avrai di quelli che per fin di bene si mettano a pericolo di venirti in odio.

Nel conversare dimostrati umano e trattabile, che è cosa che piace a tutti; non duro, non disdegnoso, che non lo possono patire appena gli schiavi. A volere esser trattabile e conversevole, ti bisogna fuggire la ritrosia, non istare troppo in sui punti, non appiccar lite per ogni cosa; quando altri si adira, eziandio se a torto, non te gli avventar fieramente addosso colle parole, ma cedergli in su quel suo caldo, poi riposato quell’impeto, allora riprenderlo; non trattar gravemente le cose da ridere, né pigliare in giuoco le gravi, imperocché tutto quello che è fuor di luogo rincresce sempre; e quando tu fai piacere agli altri, non farlo spiacevolmente, a uso di molti, che ben fanno servigio agli amici, ma con mal garbo e come di mala voglia; e non esser vago di querelare altrui, che è cosa molesta, né di riprendere, che suole irritare gli animi.

Dalle compagnie del bere guardati più che puoi. Ma occorrendoti di trovarti a qualcuna, levati su prima di esserne alterato, perocché la mente che sia stravolta dal vino è simile a un carro, il quale, perduto il cocchiere, non avendo chi lo indirizzi, è tirato qua e là scompigliatamente. E così quella, per avere l’intelletto guasto, incorre in mille disordini.

Tu dèi sentire e operare più che umanamente, con essere generoso e magnanimo; ma tu hai da procedere come uomo, con fare un misurato uso delle tue facoltà.

Considera che la scienza e la erudizione tanto è più da anteporre all’essere degl’idioti, quanto che tutte le altre cose cattive si usano con profitto proprio, ma la ignoranza sola è di pregiudizio a coloro che l’hanno in se. Ai quali spesse volte accade che avendo offeso altrui con parole, essi ne portano pena di fatto.

Volendo entrare in amicizia con qualcuno, tocca una cosa o un’altra in lode di quello a tali che gliel rapportino. Perocché la lode è seme di amicizia, siccome di nimistà il biasimo.

Nel deliberare proponti dinanzi agli occhi, quasi come esempi, le cose passate, e pigliane argomento delle future. Imperciocché la via più spedita a conoscere le cose occulte, si è di farne giudizio dalle palesi. Delibera adagio ed eseguisci spacciatamente. E ricordati che i due beni maggiori che possa aver l’uomo al mondo, sono, da Dio la buona fortuna, e da se medesimo il buon consiglio. In caso che tu volessi conferire di alcuna tua faccenda con uno amico, e ti vergognassi a favellargliene apertamente, favella mostrando che egli sia fatto d’altri, e per questo modo ti verrà conosciuto il parere dell’amico senza scoprirti. Quando tu sei per chieder consiglio ad alcuno sopra i casi tuoi, guarda innanzi tutto come egli si è governato nei casi propri; perché quelli che nei fatti loro provveggono male, non troveranno mai buon partito nei fatti d’altri. A procedere poi consigliatamente in ogni negozio t’indurrà sopra ogni altra cosa il pensiero dei mali che nascono dalla inconsiderazione, nel modo che egli si ha più cura della sanità quando altri si ricorda dei patimenti che porta seco la mala abitudine corporale.

Imita i costumi dei principi, e va dietro a quelle medesime cose a cui vanno essi; perch’egli parrà che tu gli approvi e che tu li reputi per esempi da seguitare; onde t’interverrà che la moltitudine ti avrà maggiore opinione, e la grazia di quelli ti verrà conservata meglio. Anco le leggi state poste dai principi ti si convengono osservare, ma tu dei far conto che la legge più forte di qualunque altra, sieno i costumi di essi principi; atteso che siccome a quelli che vivono laddove il reggimento è del popolo, bisogna gratificare alla moltitudine, così quelli che dimorano laddove è monarchia, deggiono coltivare il re.

Assunto a qualche magistrato, non volerti servire di gente trista a nessuno ufficio, imperocché le persone daranno la colpa a te del male che faranno quelli. Procaccia di uscire delle amministrazioni pubbliche non più ricco di prima, ma più lodato, perciocché la lode dell’universale val iù che non poche ricchezze.

Non intervenire a misfatti e non pigliarne a patrocinare, perché altri penserà che tu faccia di cotali azioni quali saranno quelle agli operatori delle quali tu t’impaccerai di dare aiuto.

Fa di condurti in grado tale, che tu possa avvantaggiarti dagli altri se tu volessi, ma contentati della condizione uguale alla loro. Acciocché tu mostri di seguitare il giusto, non per impotenza, ma per moderazione d’animo.

Abbi più cara una povertà congiunta colla giustizia, che una ricchezza ingiusta. Perocché le ricchezze non giovano all’uomo se non solamente in vita, dove che la giustizia ci fa gloriosi anche dopo morte; e di quelle partecipano ancora i malvagi, ma di questa non possono mai essere a parte. Non avere invidia a nessuno il quale tu vegga far guadagno per via d’ingiustizia, ma piuttosto ama ed onora quelli che scapitano per amore della rettitudine. Imperocché i giusti, quando nessun altro vantaggio abbiano dagl’iniqui, certamente gli vincono nelle buone speranze.

Abbi cura di tutto ciò che ti si appartiene, ma sopra tutto di addestrare ed esercitare il senno tuo proprio. Cosa grandissima, contenuta in una picciolissima, si è in un corpo umano una mente buona.

Ama e proccura l’uso delle fatiche nel corpo, la sapienza nell’animo, acciocché tu possa coll’uno recare ad effetto le risoluzioni prese, coll’altro conoscere i partiti migliori.

Nessun detto mai ti esca di bocca, che tu non lo abbi considerato prima nel tuo pensiero; contro all’usanza di molti, nei quali la lingua precorre all’intendimento.

Se niuna cosa umana reputerai stabile e ferma, tu non sarai troppo lieto nella fortuna prospera né soverchiamente tristo nella contraria.

Non si vuol favellare se non solamente in due casi: o quando la necessità lo richiede, o quando altri ha piena contezza di ciò che egli è per dire; poiché solo in questi due casi meglio è parlare che tacersi; dove al contrario in tutti gli altri, meglio è il silenzio che la favella.

Rallégrati delle prosperità e dolgati degl’infortuni moderatamente, ma non lasciare scorgere agli altri né quella tua letizia né questo dolore; perché certo ella è cosa stoltissima tener le robe riposte e celate in casa, e andar coll’animo scoperto e visibile a tutti.

Guàrdati più dalla mala fama che dai pericoli, essendo che egli si convenga ai tristi e agli sciocchi temere la fine della vita, agli uomini buoni e savi temere di essere sottoposti all’infamia vivendo. Ingegnati sì bene di vivere in sicurtà. Ma in caso che egli ti avvenga di correre alcun pericolo, cerca nella guerra quello scampo che è congiunto alla buona, non quello che alla cattiva fama. Perciocché tutti parimente ci condannò il fato a morire, ma solo ai valorosi e buoni assegnò la natura un fine onorato.

E non ti maravigliare se molte delle cose dette di sopra non sono acconce alla età nella quale ti ritrovi ora; perciocché ancora io lo sapeva bene, ma ti ho voluto in una scrittura medesima porgere di quei consigli che si confacessero alla tua vita presente, e lasciarti di quelli che si appartenessero alla futura. Dei quali, come sarà tempo, tu conoscerai facilmente la opportunità, ma non così di leggeri troverai chi si faccia con animo benevolo a consigliarti. Perciò m’è paruto non lasciar cosa alcuna indietro di quelle che mi sovvenissero da proporti a osservare, a fine che tu non avessi a procacciar da altri quelle che mancassero qui, ma nella occorrenza tu le potessi cavare da questo ragionamento, come da un ripostiglio.

Io sarei tenuto agli Dei come di un beneficio grande se la opinione che ho di te non riuscisse vana. Noi veggiamo la più parte degli altri, siccome tra i cibi anteporre i più dilettevoli ai più salubri, così degli amici accostarsi a quelli che si fanno loro compagni nelle opere biasimevoli, piuttosto che a quelli che gli avvertono ed ammoniscono. Ma riguardando alla diligenza e prontezza che tu dimostri negli altri tuoi studi ed esercizi, io mi persuado che tu sia d’opinione e d’animo contrario a costoro: imperciocché uno che da se stesso s’induce a seguitare le cose buone, è da credere che abbia in grado coloro che lo esortano alla virtù.

Ed all’amore delle cose onorate questa considerazione sopra ogni altra t’infiammerà, che da quelle noi riceviamo i diletti più puri e più veraci del mondo. Perciocché nell’uso della infingardaggine e della lussuria, tosto i dolori e le molestie s’appigliano e si mescolano alle dolcezze, ma dall’esercizio della virtù e dalla modestia della vita, sempre si raccolgono piaceri schietti e durabili. E dove da quelle altre cose prima riceviamo il piacere e poscia il contrario, da queste all’incontro dopo i travagli si riportano le dolcezze. Ora in ciascheduna cosa noi sentiamo il fine assai più che non abbiamo a memoria il cominciamento, e la maggior parte delle azioni si fanno, non per se, ma per rispetto di quello che ne dee nascere.

Considera altresì che agli sciocchi e da poco è lecito operare a caso, per aversi eletta insino da principio questa cotal maniera di vita; ma quelli che vogliono parere assennati e valenti non possono mancare di attendere alla virtù, o bisogna loro incorrere nella riprensione di molti. Perocché non tanto sono odiati quelli che procedono male, quanto coloro che fanno professione di costumi lodevoli, e negli effetti non si diversificano punto dalle persone volgari. E in verità se quelli che dicono bugia pur di parole sono riprovati da ciascuno, molto ragionevolmente saranno reputati tristi coloro che mentiscono, per dir così, con tutta la vita. E si potrebbe dire che questi tali non solamente peccano contra se stessi ma sono eziando traditori nella fortuna, la quale gli fornì di ricchezze, di riputazione e di amici, ed eglino si sono renduti indegni della felicità ricevuta.

Che se ad uomo mortale non si disdice far qualche congettura dell’animo degli Dei, pare a me che anche questi abbiano dato ad intendere in che disposizione sieno verso i malvagi uomini e verso i buoni, e ciò massimamente in certi a se congiuntissimi di sangue. Imperciocché avendo Giove, secondo che narrano le favole ed è creduto da tutti, generato Ercole e Tantalo, l’uno per la sua virtù fece immortale, l’altro per la tristizia punì con supplicii gravissimi. Ai quali esempi guardando, si vuol fare ogni sforzo di giungere alla costumatezza e alla virtù, e non solo osservare le cose dette da noi, ma imparare oltre di ciò le migliori che abbiano scritte i poeti, e se gli altri sofisti hanno detto alcuna cosa utile, pigliare la fatica di leggerle. Imperciocché nel modo che noi veggiamo fare alla pecchia, la quale si posa in su tutti i fiori e da ciascuno prende quello che le fa profitto, medesimamente coloro che vogliono essere bene instituiti ed ammaestrati, debbono assaggiare, per dir così, di ogni cosa e da tutte le parti raccorre insegnamenti utili; essendo che, eziandio con questa fatica, appena si possono vincere i difetti della natura.

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II

DISCORSO DEL PRINCIPATO

A NICOCLE RE DI SALAMINA

Quelli, o Nicocle, che sogliono a voi altri principi recare in dono o vesti, o lavorii di bronzo o pur d’oro, o altra di così fatte masserizie delle quali eglino sono poveri e voi copiosi, paiono a me, non donare, ma trafficare assai manifestamente, e vendere quei loro arnesi con molta più scaltrezza di quelli che fanno professione di mercatantare. Io per me mi reputerei porgerti un donativo bellissimo sopra ogni altro ed utilissimo, e degno altresì sommamente a me di porgere e a te di ricevere, se io ti sapessi mostrare con quali instituti, e da quali azioni astenendoti, tu possa governare nel miglior modo cotesta città e cotesto regno. Imperocché uomini privati hanno non poche cose che gli ammaestrano. Prima e principalmente questa, che essi non vivono tra gli agi e le morbidezze, anzi sono costretti quasi a combattere quotidianamente per le necessità della vita. Poi le leggi alle quali sono sottoposti ciascuno secondo i luoghi. Anco la libertà del dire, e la facoltà che hanno gli amici di riprendergli apertamente, e gl’inimici di valersi dei loro falli per danneggiarli. Oltre di questo alcuni poeti antichi hanno lasciato diversi documenti del modo che si vuol tenere nella vita ordinaria. Onde per tutti questi rispetti è ragione che essi vengano più costumati. Ma i principi non hanno veruna di così fatte cose, e dove si converrebbe a loro più che a qualunque altro di essere bene ammaestrati, essi per lo contrario, da poi che sono ascesi all’impero, non ricevono ammaestramento né ammonizione alcuna; perché gli uomini la più parte vivono lontano da esso loro, e quelli che usano seco, attendono a lusingargli. Onde è seguìto che avendo avute in mano infinite ricchezze ed altre facoltà grandissime, per non le aver bene usate hanno fatto che da molti si dubiti quale sia più da desiderare, o la vita di quelli che essendo in grado privato, si portano dirittamente e bene, o pure la vita dei principi. Imperocché qualora riguardano agli onori, alle ricchezze ed alla potenza, per poco giudicano che i re sieno uguali agli Dei. Ma quando da altra parte pongono mente ai timori e ai pericoli, e recandosi alla memoria, trovano, questi essere stati uccisi da chi meno dovevano, quelli necessitati a offendere i loro parenti più stretti, e a tale essere avvenuta l’una e l’altra cosa, conchiudono per lo contrario, ogni altro modo di vita essere da volere, piuttosto che con sì fatte calamità regnare in su tutta l’Asia.

La quale diversità di giudizi e confusione di animi nasce dal creder che fanno questi tali che il regno, come fosse un sacerdozio, sia cosa da tutti: quando ella è la maggiore di tutte le cose umane e quella che ricerca maggior provvidenza e senno. Quanto si è adunque ai negozi particolari, egli è ufficio di chi si trova presente nelle occasioni, il dar consiglio come quelli sieno da condurre, e come da preservare i beni e da schifare i sinistri. Ma generalmente i fini a cui si vuol tendere e gl’instituti che sono da tenere, m’ingegnerò io di mostrargli in questo discorso. Il quale se debba o no riuscire degno della materia, malagevolmente si può conoscere dal principio. Imperocché non pochi componimenti sì di verso come di prosa, insino a tanto che sono contenuti nell’animo degli autori, cagionano grandissima espettazione; ma poi, scritti e compiuti e mandati in luce, ottengono fama inferiore di gran lunga a quella speranza. A ogni modo il proposito, per lo manco, di questa fatica è lodevole, cioè di cercare le cose state pretermesse dagli altri, e di dar quasi legge ai principi. E in vero quelli che ammaestrano le persone private, fanno cosa utile a queste sole: ma chi volgesse allo studio della virtù i signori della moltitudine, gioverebbe a questi e ai loro sudditi parimente, facendo agli uni la signoria più sicura, agli altri la vita civile più tranquilla e più dolce.

Prima dunque di tutto, si vuol chiarire qual sia l’ufficio del principe. Imperocché se avremo compreso bene la somma e il valore della cosa universale, avendo poi l’occhio colà, potremo meglio discorrere delle parti. Io credo che tutti sieno per consentire in questo, che il principe dee, se la città è misera, liberarla dalla miseria; se in istato prospero, mantenervela; e di una città piccola fare una grande. Tutti gli altri negozi che accaggiono alla giornata, si debbono fare in rispetto di questi fini. Ora egli è manifesto alla bella prima che a quelli che deggiono poter fare le dette cose e di esse pensare e deliberare, non si conviene attendere all’ozio e alle agiatezze, ma studiare ogni via di dovere essere più savi che gli altri. Perciocché non è dubbio alcuno che eglino tal regno avranno, quale si formeranno la propria mente. Onde a nessuno atleta è così richiesto esercitare il suo corpo, come ai principi l’animo, atteso che tutti i premi proposti in tutte le solennità dei giuochi, a pigliarli insieme, non sono da quanto è una menoma parte di quelli per li quali a voi bisogna contendere ogni giorno. Le quali considerazioni ti deggiono muovere a por mente e a sforzarti di avanzare gli altri in virtù quanto tu gli superi negli onori. E non ti pensassi che lo studio e la industria, benché facciano frutto nelle altre cose, non vagliano perciò nulla a farci migliori e più savi. Né volere attribuire alla condizione umana tanta infelicità, che laddove essi uomini hanno trovato arti colle quali si dimesticano e si migliorano gli animi delle bestie, eglino tuttavia non possano fare alcun giovamento a se stessi in quel che appartiene alla virtù; ma renditi certo che l’addottrinamento e la diligenza possono profittare agli animi nostri; e perciò fa di usare coi più assennati e più savi di quelli che tu hai dintorno, e degli altri recati in corte quelli che tu potrai; non voler trascurare nessun poeta famoso e nessun altro saggio, ma piglia ad ascoltare gli uni, degli altri renditi scolare, e procaccia di riuscir buon giudice delle minori cose, e delle maggiori emulo. Mediante i quali esercizi, in brevissimo tempo tu potrai divenire tale, quale abbiamo definito essere il principe buono ed atto a bene amministrare le cose pubbliche. E a questo intento per certo ti spronerai da te stesso gagliardamente, se tu stimerai cosa indegna che chi è da meno o peggiore comandi a chi è migliore o da più, e che gli sciocchi reggano i giudiziosi. Imperciocché quanto la scempiaggine altrui parratti più vile e più spregevole, con tanto maggiore studio eserciterai l’intelletto proprio. Da queste cose per tanto incomincino quelli che vogliono poter fare qualche buono effetto.

Oltre di questo, bisogna amare gli uomini e la città. Né cavalli né cani né uomini né altra cosa veruna si può governare per acconcio modo, chi non ha inclinazione a quello a che egli dee soprastare. Tien conto della moltitudine, e studia quanto cosa alcuna del mondo che il tuo reggimento riesca loro a grado, considerando che sì delle signorie di pochi, sì degli altri stati, quelli durano più, i quali nel miglior modo si affaticano di piacere alla moltitudine. Tu governerai bene il popolo se non lo lascerai trascorrere a sfrenatezza e insolenza contro agli altri, né gli altri contro a lui, provvedendo che i più meritevoli abbiano gli onori e le dignità, e gli altri non sieno ingiuriati in cosa alcuna; fondamenti primi e principalissimi di buona repubblica.

Dei bandi, degli statuti, delle costumanze togli o riforma quello che non istà bene; e se tu puoi, trova per te medesimo gli ordinamenti più acconci, se no, imita quello che di buono e di convenevole hanno gli altri luoghi. Cerca di così fatte leggi che oltre ad essere giuste, utili e tra se concordi, facciano le liti e le controversie dei cittadini pochissime e le decisioni prestissime quanto più si può; di tutti questi pregi dovendo essere fornite le leggi buone. Fa che i lavori ed ogn’industria lodevole riesca a’ tuoi sudditi di guadagno, e per lo contrario le brighe e i litigi sieno loro di scapito, acciocché da queste cose abborriscano, ed a quelle attendano volentieri. Giudica le loro contese senza favore, e per guisa che i giudizi non sieno contrari gli uni agli altri, ma delle cose medesime sentenzia in un medesimo modo sempre; perché egli è decoroso e utile insieme, che il sentimento del principe nelle cose che toccano alla giustizia, sia fermo ed immobile al pari delle buone leggi.

Governa la città nel modo che tu dei governare la casa paterna, cioè con isplendidezza regia negli apparati, e con molta esattezza in ogni faccenda, a fine di potere a un medesimo tempo tenerti in riputazione e bastare alle spese. Magnifico non ti dimostrare in quelle cose che vogliono il dispendio grande e passano subito, ma sì bene in quelle dette di sopra, e nella bellezza delle robe, e nell’usare liberalità cogli amici. Imperocché il frutto di cotali spese ti resterà sempre mentre che tu vivrai, ed ai posteri, oltre a ciò, lascerai cose di più valore che non saranno state le somme che tu avrai spese.

Onora gli Dei nel modo che praticarono gli antenati; ma pensa che il sacrificio più bello e il maggior culto divino si è quando l’uomo è migliore e più giusto che può, atteso che egli è più da aspettare che questi tali impetrino alcuna grazia da Dio, che non quelli che offeriscono molte vittime.

Gli onori che sono principali nell’apparenza, si vogliono dare ai più congiunti di sangue, ma quelli di più sostanza, alle genti più affezionate.

Fa ragione che la più sicura guardia del corpo che tu possa avere sia la virtù degli amici, la benevolenza dei cittadini e il senno tuo proprio; perciocché con questi mezzi più che con qualunque altro si possono sì conseguire i principati e sì conservargli.

Abbi cura delle sostanze dei privati, e fa conto che chi scialacqua spenda del tuo, chi lavora e fa roba accresca le tue facoltà; perché tutti gli averi dei sudditi sono propri del signore che regna bene.

Dimóstrati perpetuamente studioso del vero per sì fatta guisa che più fede sia prestata alle tue parole che ai giuramenti degli altri.

Provvedi che tutti i forestieri vivano costì sicuramente, e vi sia mantenuta loro la fede nei contratti. Ma fra quelli, abbi a cuore in modo speciale, non mica chi ti viene a donare, anzi chi vuole avere da te, i quali accarezzando e beneficando, tu ne acquisterai più riputazione.

Togli via da’ tuoi sudditi le paure e i sospetti, e non volere esser temuto da chi non fa male nessuno; perché nel modo che gli altri saranno disposti verso di te, parimente sarai tu verso gli altri. Con ira tu non farai cosa alcuna, ma però te ne infingerai qualora ti sarà in acconcio. Dimóstrati formidabile con operare che nessuno atto dei sudditi non ti si possa nascondere, ma benigno poi con essere contento di pene minori che non corrisponderebbero alle colpe.

Usa una cotale arte di governare che non già mica consista nella fierezza e nel gastigare aspramente, ma nel fare in modo che tu vinca ogni altro di prudenza, e che tutti credano che tu provvegga per la salute loro meglio che non saprebbero essi medesimi.

Guerriero ti conviene essere di scienza e di apparati, ma pacifico in guanto tu non appetirai cosa alcuna oltre il giusto. Verso i potentati inferiori portati come tu vuoi che i superiori si portino verso di te. Non istare a contendere di ogni cosa, ma bene di quelle dove, se ti succede il vincere, tu guadagni. Abbi per gente da poco, non quelli che si lasciano vincere con profitto loro, anzi quelli che vincono con danno proprio; e per magnanimi, non quelli che abbracciano più che non possono tenere, ma quelli che hanno propositi moderati e facoltà di condurre a perfezione le imprese che fanno. Porta invidia onorata ed emulazione, non mica a quelli che acquistarono maggior signoria che gli altri, ma sì a coloro che amministrarono meglio quella che ebbero; e non ti dare a intendere di avere a esser felice perfettamente, se con timori e pericoli tu fossi signore di tutti gli uomini, ma se essendo tale quale ti si conviene, e operando nel modo che i tempi e tue condizioni ricercheranno, dall’un canto tu non desidererai cosa se non moderata, e dall’altro nessuna di queste sì fatte ti mancherà.

Pigliati per amici non tutti quelli che vorrebbero, né coi quali usando, tu avrai più diletto e spasso, ma quelli che più si convengono colla tua natura, e coi quali tu governerai meglio lo stato. Infórmati dei costumi de’ tuoi familiari con diligenza grande, perché l’altra gente ti reputerà simile a quelli che praticheranno teco. Alle faccende che tu non maneggerai personalmente, preponi di così fatti uomini quali dee preporre colui che sarà imputato del bene e del male che essi faranno. Abbi per fidate non già quelle persone che lodano ogni tua parola e ogni tuo fatto quale si sia, ma quelle che ti ripigliano de’ tuoi falli. Consenti che gli uomini gravi e di buon giudizio ti possano favellare alla libera, sicché nelle incertitudini e nelle sospensioni d’animo tu abbi chi ti aiuti a disaminare le cose. Studia di conoscere chi ti lusinga per arte da chi ti gratifica per buon volere, acciò non prevagliano appresso di te i malvagi ai buoni. Presta orecchio a quello che gli uomini dicono gli uni degli altri, e sforzati d’intendere a un medesimo tempo chi e quali sieno quelli che parlano e quelli di che essi parlano. Prendi del calunniatore la medesima pena che tu avresti presa del calunniato, trovandolo in colpa.

Tu regnerai non meno sopra te stesso che sopra gli altri, e giudicherai convenirsi alla condizione regia sopra ogni cosa, non essere schiavo di niuna voluttà ed avere nelle passioni proprie maggiore impero che tu abbi nei cittadini.

Non istringere familiarità con alcuno così alla cieca e senza pensare, e avvezzati a compiacerti di quelle conversazioni per le quali tu farai profitto ed anche sarai più stimato.

Non fare troppo caso degli onori che si raccolgono da quello che è possibile ancora ai tristi, ma sì mostra di pregiarti assai della virtù, nessuna parte della quale è comune ai malvagi. E pensa che i più veraci onori non sono quelli che si rendono pubblicamente per paura, ma quando gli uomini in se stessi o privatamente, ammirano il senno del principe più che la fortuna. Se tu avessi affetto a qualche cosa vile o di picciolo conto, provvedi che ciò non si conosca, e per lo contrario fa che sia manifesto che tu vai dietro alle cose di momento sommo.

Non giudicare che egli sia di ragione che gli altri abbiano a procedere modestamente e il principe senza modo, anzi fa che la tua propria temperanza e misuratezza sia d’esempio agli altri, considerando che i costumi di tutta la città si rassomigliano a quelli dei principi.

Fa conto che egli sia segno che il tuo reggimento è buono, se tu vedi che per le tue diligenze la città divenga più ricca e più costumata.

Maggiormente ti caglia di poter lasciare ai figliuoli una fama onorevole che una ricchezza grande; perché questa passa, quella no; e colla fama si acquistano le ricchezze, ma colle ricchezze non si compera la riputazione; e quelle toccano anche alla gente da nulla, ma questa non la possono conseguire altri che gli eccellenti.

Nelle vesti e negli ornati del corpo tu dèi seguitare il lusso, ma nelle altre cose, siccome si conviene ai principi, essere parco e tollerante; di modo che quelli che ti vedranno, dalle apparenze di fuori ti giudichino degno del principato, e quelli che useranno teco, giudichino altrettanto dalla fortezza dell’animo.

Esamina continuamente i tuoi fatti e le tue parole, per fallire il meno che si può.

Ottimo in tutti i negozi si è adoperar quella misura appunto che si richiede, né più né meno; ma poiché questa a fatica si può conoscere, eleggi piuttosto il difetto che l’eccesso, atteso che la giusta mediocrità suol potere più in quello che in questo.

Proccura di essere festevole e grave, perché questo è conveniente alla dignità reale, quello fa per le conversazioni amichevoli e familiari. Ma ciò è cosa sopra tutte le altre malagevolissima; perché noi veggiamo ordinariamente quelli che vogliono essere contegnosi, riuscire freddi e scipiti, e chi vuole essere sollazzevole, dare nel basso e nell’ignobile. Ora egli è di bisogno studiarsi di esercitare ambedue le dette qualità, e di fuggir quello inconveniente che tien dietro a ciascuna di loro.

A voler conoscere perfettamente una qual si sia cosa di quelle che si appartiene ai principi di sapere, adòperavi la pratica e la filosofia. Perocché dalla filosofia ti saranno insegnate le strade, e coll’esercizio pratico acquisterai facoltà di saper condurre i negozi effettualmente. Osserva di giorno in giorno le operazioni e i casi dei privati e dei principi, perché se tu avrai bene a memoria le cose passate, tu consulterai più acconciamente delle future.

Paiati difetto grandissimo che dove parecchi uomini privati si eleggono di morire a fine di essere lodati dopo la morte, ai principi non basti il cuore di attendere a quegl’instituti e proponimenti per cui sarebbero gloriosi ancora in vita. Mettiti in animo che le immagini che tu lascerai debbano più ricordare la tua virtù che le tue fattezze. Fa ogni tuo potere perché tu e i tuoi vi dobbiate conservare in istato tranquillo e sicuro; ma se tu fossi costretto di porti a pericolo, eleggi innanzi di morire onoratamente che di vivere con vergogna. In qualsivoglia atto ricordati del principato, e studia di non far cosa indegna di questo grado. Non sofferir che la tua natura si risolva tutta, ma poiché ti fu dato un corpo mortale e un animo eterno, sforzati di lasciar dell’animo una memoria immortale.

Vienti esercitando nel favellare degl’instituti e dei fatti egregi, per assuefarti ad aver sentimenti e disposizioni d’animo conformi a sì fatte parole. Quello che tu, discorrendo teco medesimo, giudichi essere il meglio, quello metti in esecuzione operando. Imita i fatti di coloro dei quali tu vorresti avere la riputazione. Quei consigli che tu daresti a tuoi figliuoli, mettigli in pratica per te stesso. Attienti a ciò che è detto fin qui, o cerca di meglio.

In fine abbi per sapienti, non quelli che con sottigliezza grande quistionano di cose lievi, ma quelli che ragionano acconciamente di materie gravissime; e non quelli che agli altri promettono beatitudini, ed essi vivono in gran difficoltà e miseria, ma quelli che da un lato parlano di se moderatamente, dall’altro sanno usare cogli uomini e trattare i negozi, e per le mutazioni della fortuna non si turbano, ma portano bene e temperatamente sì le cose prospere e sì le avverse.

E non ti maravigliare se una buona parte di quello che è detto di sopra, ti era nota innanzi, perché io non lo ignorava, e sapeva bene che in tanto numero d’uomini o privati o principi, alcuni avevano già detta o una o un’altra di quelle cose, alcuni ne avevano udite, e chi ne aveva vedute praticare, altri ne metteva in opera esso medesimo. Ma in questi ragionamenti degl’instituti e degli uffici, non sono da cercare le novità, perché nulla vi si può trovare d’inaspettato né d’incredibile né d’insolito; ma quello è da riputare di cotali scritti il più bello, nel quale sieno raccolti in sulla materia la più parte dei concetti che erano dispersi nelle menti degli uomini, e questi più leggiadramente esposti che in alcuno altro. Io vedeva anche bene, che dalla universalità quelle scritture, o che elle sieno prose o poemi, le quali porgono consigli ed avvertimenti, sono per verità giudicate utili più di tutte, ma non mica udite più volentieri; anzi interviene loro come alle persone che s’impacciano di ammonire gli altri, le guali sono lodate da tutti, ma niuno le vuole avere intorno, e meglio amano gli uomini usare con chi gli aiuta a far male, che con questi che si adoperano per dissuadernegli. Esempio di ciò potrebbero essere i poemi di Esiodo, di Teognide e di Focilide, i quali autori hanno voce di esser maestri eccellenti della vita umana, e tuttavia quegli stessi che così li chiamano, si eleggono d’intrattenersi scambievolmente colle loro stoltizie, piuttosto che spendere il tempo intorno ai coloro ammaestramenti. Così chi scegliesse da’ poeti migliori quelle che si chiamano sentenze, che sono quella parte dove essi poeti posero più studio, il medesimo avverrebbe ancora a queste, che gli uomini ascolterebbero più volentieri una commedia, se ben fosse la più scempia del mondo, che non quelle cose composte con tanto artifizio. Ma che bisogno è di fermarsi a dir dei particolari a uno a uno, quando in generale, se noi vogliamo por mente alle nature degli uomini, possiamo di leggeri comprendere che i più di loro non amano né i cibi più sani, né gli studi più degni ed onesti, né le azioni migliori, né le discipline più profittevoli, ma in ogni cosa hanno la inclinazione e il piacere contrario all’utile, e molti che non fanno cosa che si convenga, pur sono stimati forti, tolleranti e dediti alla fatica? Di modo che a questi tali come può mai l’uomo piacere o consigliando o insegnando o favellando di alcuna cosa utile? I quali, oltre al detto innanzi, portano invidia agli uomini di buon senno, e gl’insensati chiamano schietti e candidi; e hanno sì fattamente in odio la verità, che non conoscono pure le cose proprie, anzi a pensarne, si annoiano e si rattristano, e per lo contrario godono di cianciare di quelle d’altri; e prima torrebbero di patire corporalmente che di affaticare l’animo e discorrere seco stessi di qual si sia cosa necessaria. Nel commercio scambievole, o mordono e rimbrottano o sono rimbrottati e morsi; nella solitudine, in cambio di deliberare, attendono a far desiderii. Io non dico queste cose di tutti, ma di quelli a cui toccano. Certo e manifesto si è, che chiunque vuole o con versi o con prose piacere alla moltitudine, dee cercare sopra ogni cosa, non l’utile, ma il favoloso, perché di udir questo le genti si dilettano molto, se bene hanno poi disgusto quando veggano le battaglie e le contese reali. Per la qual cosa è da ammirare l’artificio d’Omero e dei primi che inventarono la tragedia, i quali conosciuta la natura degli uomini, adoperarono nella loro poesia l’uno e l’altro genere: perocché Omero cantò favolosamente le battaglie e le guerre de’ semidei, e quegli altri ridussero le favole in combattimenti e in azioni, di modo che, oltre a essere udite, elle ci divennero anche visibili. Adunque per così fatti esempi si dà bene ad intendere a chi vuol toccare gli animi degli uditori, che lasciando da parte i consigli e le ammonizioni, gli bisogna dire e scrivere quello di che egli vede che il popolo si diletta.

Queste cose ti ho voluto significare, pensando che a te, il quale sei, non uno della moltitudine, anzi signore di molti, si convenga sentire diversamente dagli altri, e le cose gravi e gli uomini giudiziosi non misurare dal piacere, ma provargli nelle operazioni utili, e secondo la utilità stimargli. Massimamente che se bene i filosofi non si accordano intorno agli esercizi dell’animo, volendo alcuni che per mezzo della dialettica, altri che per via della politica, altri che per altre dottrine i loro discepoli abbiano a divenire più savi e di miglior senno, tutti però convengono in questo, che l’uomo bene ammaestrato debbe, o per l’una o per l’altra di quelle tali discipline, riuscire atto a ben consigliare e deliberare. Vuolsi per tanto, lasciata star quella parte che è controversa, e tenendosi a quello che è confessato da tutti, venire alla prova degli uomini, e, se si può, vedere nelle occasioni come sappiano consigliare, se no, intender come ragionino delle cose in generale, e quelli che non dimostrano alcun buono avvedimento, averli per nulla e rigettarli, manifesta cosa essendo che queste sì fatte persone, le quali non possono pur giovare a se medesime, molto meno potranno far savio e prudente altrui. Ma per lo contrario gli uomini giudiziosi e atti a vedere più che gli altri, tiengli in conto grande e accarezzagli, considerando che niuno altro bene si trova, così utile a possedere e così regio, come è un buono e sufficiente consigliatore. E fa ragione che quelli ti accresceranno maggiormente il regno, i quali più ti beneficheranno l’intendimento.

Io dunque ti ho mostrato quello che io so e che io reputo convenevole, e ti onoro con quelle cose che comporta la mia facoltà. E consiglioti a volere che eziandio gli altri, in iscambio dei consueti donativi, i quali voi, come ho detto a principio, comperate molto più caro da chi gli dona, che non fareste da quelli che gli vendessero, ti rechino di così fatti presenti, che se tu gli userai molto, e non passerai giorno che tu non gli adoperi, in vece di logorarli, gli farai maggiori e di più valuta.

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III

NICOCLE

Sono alcuni, i quali hanno l’animo avverso alle lettere, e biasimano i coltivatori di quelle, dicendo che essi seguitano sì fatto studio a fine, non di virtù, ma di avvantaggiarsi dagli altri. Io dimanderei volentieri a questi tali, che voglia dir ciò, che laddove essi lodano chi vuol bene operare, a un medesimo tempo fuggono da quelli che vorrebbono parlar bene. Che se spiacciono loro i vantaggi che uno ha dagli altri, veggiamo che più e maggiori se ne acquistano colle opere che colle parole. Anco sarebbe strano a pensare che questi nemici dei letterati non sapessero che noi facciamo onore agli Dei, pratichiamo la giustizia e seguitiamo le altre virtù, non mica per doverne avere disavvantaggio dagli altri, ma sì per vivere con quella maggior quantità di beni che per noi si possa ottenere. Sicché non sono da riprendere quelle cose per le quali uno può virtuosamente sopravanzare gli altri. ma sì quelle persone le quali peccano colle opere, e quelle che colle parole ingannano e che non le usano rettamente. E io mi maraviglio di questi che dicono male delle lettere, che non dicano anche male delle ricchezze, della forza, del coraggio. Imperocché se essi portano odio alle lettere per rispetto di coloro che si vagliono della eloquenza a ingannare altrui, ragion vuole che riprovino medesimamente anco gli altri beni, atteso che non mancano di coloro che vaglionsi di questi altresì per commetter male e far pregiudizio a molti. Ma certo non è ragionevole, perché altri batta costui o colui, biasimare la forza, né condannare il coraggio per causa dei micidiali, né in somma riferire la malvagità degli uomini alle cose; ma voglionsi vituperare quei medesimi i quali usano male quelle che verso di se sono buone, e cercano nuocere ai compagni con quelle che sono atte a giovare. Ma questi tali, lasciate star queste distinzioni, guardano con mal occhio qualunque letteratura, e tanto si discostano dal diritto senso, che non si avveggono che essi portano odio a quella facoltà dell’uomo dalla quale nasce una copia di beni maggiore che da qualsivoglia altra. Imperocché nelle altre, come sarebbe a dire la velocità, la forza e simili, non che noi sormontiamo gli altri animali, anzi ne stiamo loro al di sotto. Ma per esserci dato dalla natura di poterci persuadere l’un l’altro e significare scambievolmente che che uno vuole, non tanto siamo potuti uscire della vita fiera e salvatica, ma congregati insieme, noi ci abbiamo fabbricato le città e posto leggi e trovato arti, e brevemente in quasi tutte le nostre invenzioni e fatture siamo stati aiutati principalmente dalla favella. Questa ha prescritto e statuito del diritto e del torto, del vituperevole e dell’onesto, senza i quali ordini noi non potremmo vivere insieme. Con questa accusiamo e convinciamo i cattivi, e celebriamo i buoni. Per mezzo di questa addottriniamo i semplici, e conosciamo i sensati. Imperciocché il favellare a proposito e acconciamente si è indizio di sensatezza certissimo fra tutti gli altri, siccome un parlar verace, legittimo e retto si è immagine di un animo buono e leale. Colla favella disputiamo delle cose dubbie, discorriamo tra noi medesimi delle ignote. Perocché quegli argomenti stessi coi quali l’uno, parlando, persuade l’altro, si usano altresì quando l’uomo delibera in se medesimo delle cose proprie; ed eloquenti sono denominati quelli che sanno favellare nella moltitudine, avveduti poi si stimano coloro che più saviamente parlano seco stessi di quel che occorre. E a dire di questa facoltà in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più intendimento ha, più la suole usare. Di modo che quelli che si ardiscono mordere i precettori delle lettere e gli studiosi di quelle, non sono manco da avere in abbominazione che sieno coloro che offendono i templi degl’immortali.

Io quanto a me, ho cara e pregiata qualunque letteratura; ma bellissimi e regii ed accomodati a me sopra tutti gli altri mi paiono quei ragionamenti che danno consigli e regole sopra gl’instituti e gli uffici, e sopra i reggimenti delle città, e massime quelli che insegnano ai potenti come sia da trattare la moltitudine, e ai privati come sia da procedere verso i principi. Perocché io veggo per questi sì fatti ammaestramenti le città essere felici e crescere in grandezza oltremodo. Dell’altra parte, cioè come uno debba regnare, avete udito il ragionamento composto da Isocrate. Quella che le tien dietro, la quale si è degli uffici dei sudditi, vedrò di spiegarla io, non con animo di soverchiare Isocrate, ma in quanto che egli mi si conviene di favellarvi sopra tutto di questa materia. Perocché se non avendovi io dato a conoscere quello che io voglio che voi facciate, intervenisse che voi vi discostaste dalla intenzione mia, non me ne potrei giustamente crucciare. Ma se avendovelo io mostro, non seguisse l’effetto, ben ragionevolmente riprenderei chi non ubbidisse. Io credo che meglio mi verrà fatto di persuadervi, e meglio vi recherò a tener bene a memoria e mettere in pratica quello che io sono per dire, se non istarò solamente in sul consigliarvi, e annoverato che io v’abbia i miei precetti, farò fine, ma se da vantaggio dimostrerovvi, prima, che lo stato presente della città si vuole aver caro e contentarsene, non solo per rispetto alla necessità, né anco perciò solamente, che sempre siamo vissuti con questa forma, ma per rispetto eziandio che ella è la migliore di tutte. Poi, che questo principato che io tengo, io non l’ho per modo illegittimo e non è d’altrui, ma tengolo lecitamente e di ragione, sì avendo riguardo ai miei progenitori primi, sì a mio padre e sì ultimamente a me stesso. Dimostrate che sieno le quali cose, nessuno ci dovrà essere che, pure da se, non si giudichi degno di qual si sia maggior pena, in caso che egli contravvenga ai consigli e ai comandamenti miei.

Quanto si è adunque agli stati delle città, poiché da questa parte ho proposto di dover cominciare, io penso che a tutti paia malissimo fatto che in una medesima condizione sieno i malvagi e i valentuomini, e giustissimo per lo contrario che le cose sieno distinte in modo che ad uno non tocchi quel medesimo che ad altri diversi da lui, ma ciascheduno riceva ed abbia secondo il merito. Ora le signorie di pochi, e medesimamente le repubbliche popolari, cercano la egualità fra quelli che partecipano dello stato, ed havvisi in pregio se l’uno non può di qual si sia cosa trapassare l’altro, il quale ordine ridonda in utilità dei tristi. Le monarchie danno il più e il meglio a chi similmente val più, la seconda parte a chi vien dopo, la terza e la quarta agli altri secondo la stessa regola. Che se questo modo non si trova usato da per tutto, nondimeno la proprietà della monarchia vorrebbe così. Distinguere le nature e gli andamenti degli uomini nessuno vorrà negare che non si faccia più nelle monarchie che negli altri stati. Ora dimando io, chi non bramerebbe, essendo di sano intendimento, di vivere in quella repubblica dove, se egli è persona d’assai, per tale debba essere conosciuto, anzi che starsene confuso tra la moltitudine senza che gli uomini sappiano quel che ei si vaglia? Oltre a tutto questo, di tanto è più discreta e più facile la monarchia che non sono le altre repubbliche, quanto è più leggera cosa aver l’occhio alla volontà di un solo, che sforzarsi di aggradire a molti e diversi ingegni Dunque che lo stato monarchico sia più comodo, più discreto e più giusto, si potrebbe anco provare con più ragioni, ma pure per le anzidette si è bastevolmente chiaro.

Nelle altre parti, quanto stieno di sopra le monarchie per rispetto sì al deliberare e sì all’eseguire convenientemente, si potrà considerare meglio che in altro modo, se noi porremo a riscontro quello che interviene ai diversi stati circa ai negozi principali. Coloro dunque che entrano ai magistrati d’anno in anno, prima ritornano nella condizione privata, che eglino abbiano potuto intendere alcuna parte delle occorrenze del comune, e farvi la pratica. All’incontro quelli che sempre stanno al governo delle medesime cose. quando pur fossero di natura manco adatta, certo però in quanto alla pratica, sono di gran lunga da più che gli altri. Poi, quelli trascurano molte cose, riposandosene gli uni negli altri scambievolmente; ma questi non lasciano cosa alcuna a cui non pongano cura, sapendo che a loro tocca di provvedere a che che sia. Oltre a ciò negli stati di pochi, e il simile nei popolari, quelli che governano nocciono alla comunità per le gare e le concorrenze che hanno tra se; laddove i monarchi, non avendo a chi portare invidia fanno di ogni cosa il meglio che possono. Aggiungasi che quelli fanno il bisognevole troppo tardi, perché il più del tempo si adoperano nei loro servigi privati, e quando sono insieme a consiglio, più spesso si veggono quistionare, che deliberare in comune. Per lo contrario i monarchi, non avendo né congregazioni né tempi assegnati al deliberare, e stando dì e notte in sul provvedere ai negozi, non restano indietro ai bisogni e alle occasioni, ma fanno ogni cosa a tempo. Di più, quelli hanno l’animo alieno gli uni dagli altri, e per acquistare essi più riputazione, vorrebbero che gli uomini stati negli uffici prima, e quelli che vi hanno a essere dopo loro, avessero fatto o fossero per fare della città il peggior governo del mondo. Ma i re, avendo in mano il reggimento tutta la vita, sempre amano la città di uno stesso amore. E quello che è di momento sommo e principalissimo, questi governano le cose della comunità come proprie, quelli come altrui; e gli uni, per loro consiglieri nel governarle, adoperano, fra i cittadini, i più arditi, gli altri scelgono fra tutti i più prudenti; e quelli onorano chi sa favellare tra la turba, questi chi sa maneggiare i negozi.

E non solo nelle cose ordinarie e in quelle che occorrono alla giornata, va innanzi lo stato monarchico a tutti gli altri, ma eziandio nella guerra ha tutti i vantaggi che si possono avere. Far preparamenti di forze, usarle per modo che elle o si rimangono occulte o sieno manifeste secondo che la utilità richiede, persuadere gli uni, sforzare gli altri, da questi comperare, quelli guadagnare con altre arti, tutte queste cose meglio si possono fare dalle monarchie che dagli altri stati. E che ciò sia vero, oltre alle ragioni, abbiamo anche gli esempi. Sappiamo tutti che la signoria de’ Persiani è venuta in questa tanta grandezza, non per senno e prudenza di quella gente, ma perciocché essi più che gli altri popoli onorano la monarchia. Veggiamo il re Dionigi, trovato il rimanente della Sicilia desolato e guasto, e la sua patria assediata, non solo averla tratta dai pericoli di quel tempo, ma ridottala eziandio la maggiore delle città greche. I Cartaginesi, e similmente i Lacedemoni, i quali hanno migliori ordini di repubblica che gli altri Greci, troviamo che in casa sono governati da pochi, alla guerra dai re. Si potrebbe anco dare a vedere che gli Ateniesi, i quali sopra tutti gli altri portano odio grandissimo ai principati, qualora prepongono agli eserciti molti capi, fanno mala prova, qualora un solo, succedono loro le cose felicemente. Ora, come si potrebbe meglio provare che con questi esempi, la monarchia vincere di eccellenza tutti gli altri stati? nei quali esempi si veggono, da una parte, uomini sottoposti sempre e compiutamente alla signoria d’un solo, avere imperio grandissimo; da altra parte, popoli governati da un convenevole reggimento di pochi, adoperare alle cose di maggior momento, quale la potestà di un solo capitano, quale il governo regio nelle soldatesche; in fine uomini odiatori dei principati, qualunque volta nelle guerre usano l’opera di più capi, non avere alcun successo buono.

Che se noi vogliamo anche toccare alcuna delle cose antiche, è fama che gli Dei medesimamente sieno sottoposti al regno di Giove. Dei quali, se la fama è vera, manifesto è che ancora essi giudicano sì fatta constituzione essere la migliore. Se niuno sa certamente il fatto come egli stia, ma solo congetturando noi siamo venuti in questa opinione, segno è che tutti abbiamo in pregio singolare lo stato monarchico, poiché non avremmo mai detto che gl’immortali si valessero della monarchia, se di lungo intervallo non la reputassimo superiore a qualunque altra forma di reggimento.

Dunque degli stati delle città, quanto si avvantaggino gli uni dagli altri, a pensarne non che a dirne ogni cosa, sarebbe impossibile; ma ora al nostro uopo basta quel tanto che ne è detto. Che poi giustamente e convenevolmente io mi tenga questa signoria, con molto minor numero di parole si può dichiarare, ed è cosa intorno alla quale consentono i giudizi degli uomini molto più. Tutti sanno che Teucro, ceppo della mia famiglia, presi con se gli antenati degli altri nostri cittadini, venuto in questi paesi, fondò ai compagni questa città, e tra loro il territorio distribuì; e che mio padre Evagora, stata perduta da altri la signoria, esso con pericoli grandissimi ricuperatala, mutò le cose per modo, che non più i Fenici comandano ai Salamini, ma quelli che ebbero questo regno a principio, hannolo anche al presente.

Resta che io dica di me stesso, acciocché voi conosciate tale essere il re vostro, che egli, non solo per rispetto degli antenati, una per se medesimo, sarebbe arco degno di maggior dominio che questo non è. Io penso che niuno voglia contendere che di tutte le virtù non sieno le più pregevoli la giustizia e la temperanza, poiché queste, non solo ci sono utili da se medesime, ma se noi prenderemo a considerare le cose umane, guardando alle nature, alle potenze ed agli usi loro, troveremo che quelle che sono al tutto divise da queste due qualità, producono mali grandi, e quelle che sono congiunte alla temperanza e alla giustizia, giovano in molti modi alla nostra vita. Ora se mai per l’addietro fu alcuno che di così fatte virtù avesse lode, parmi che ancora a me sia dovuta la stessa fama. La mia giustizia potete conoscere massimamente da questo, che avendo io trovato, quando presi a regnare, vòto l’erario regio, consumata ogni facoltà, ogni cosa piena di confusione e bisognosa di cura, di cautela e di spesa grande, benché io sapessi che altri in sì fatti casi non lasciano mezzo alcuno indietro, appartenente a riordinare le cose proprie, e si lasciano sforzare a molti atti diversi dalla natura loro, non per tanto non fui pervertito da tali difficoltà e da tali esempi, ma governai le cose con tanta innocenza e tanta onestà, che io non pretermisi di fare una menoma parte di quello perché la città dovesse crescere e prosperare. Imperciocché verso i cittadini io mi portai con tanta piacevolezza, che sotto il mio regno non si sono veduti esilii né morti né confiscazioni di beni né multe né così fatta calamità nessuna. Ed essendoci per la guerra di quei tempi la Grecia chiusa, e noi predati e spogliati in ogni luogo, i più di questi travagli io tolsi via, pagando a chi tutto, a chi parte, pregando alcuni d’indugio, con altri componendo le differenze come io potetti il meglio. Oltre di ciò essendo verso di noi gli animi delle genti dell’isola mal disposti, e l’Imperatore riconciliato in parole, ma in fatti pieno di mala volontà, io raddolcii gli uni e l’altro, questo colla diligenza e prontezza negli ossequi e nei servigi, quelli con procedere verso loro dirittamente. Imperocché io sono di tal maniera alieno da ogni appetito dell’altrui, che laddove molti, solo che possano poco più dei vicini, usurpano parte delle loro terre e cercano di vantaggiarsi contro il diritto, io non volli anco accettare quel tanto di paese che mi era offerto, e mi eleggo di possedere con giustizia il mio territorio solo, piuttosto che per vie torte acquistarne maggiore a più doppi. Ma che bisogno è dilungarsi ricordando questa e quella cosa, quando io posso con poche parole dire che egli sarà manifesto a chiunque ne cercherà, non avere io mai fatto ingiuria ad alcuno, e per lo contrario aver fatto beneficio a un maggior numero sì di cittadini e sì di altri Greci, e dato a questi e a quelli maggiori doni, che non fecero tutti insieme i re predecessori miei? E veramente converrebbe che quelli che si pregiano di giustizia grande, e che fanno professione di non essere superabili dall’amor della roba, potessero dire di se cose altrettanto insigni.

Anche maggiori di queste io mi trovo poter narrare intorno alla mia temperanza. Perocché veggendo che niuna cosa hanno tutti gli uomini generalmente così cara siccome le mogli e i figliuoli, e contro a niuno si adirano sì gravemente come contro a chi offende loro le une o gli altri; e che la contumeliosa libidine verso quelle o questi è fonte di calamità grandissime, e molti per sua cagione, così privati come principi, essere capitati male; io fuggii per modo ogni imputazione di sì fatte colpe, che egli si può trovare che da poi ch’io tengo il principato, niuna persona, salvo che la mia donna, ho usata amorosamente: non che io non sapessi che nell’universale hanno lode eziandio coloro che osservando i termini del giusto in quanto si è alle cose dei cittadini, procacciano però di loro diletti da qualche altra parte; ma da un canto io mi sono voluto tenere come più si poteva lontano da ogni sospetto in questo particolare, da un altro lato farmi esempio di costumatezza a’ miei cittadini, sapendo che la moltitudine suol tenere quegl’instituti e quei modi che ella vede essere usati da’ suoi reggitori. Di poi m’è paruto essere convenevole che siccome i principi sono maggiormente onorati che gli altri uomini, così ed altrettanto sieno migliori di quelli; e sconcio essere oltremodo il procedere di coloro i quali costringono gli altri a vivere modestamente, ed essi non dimostrano più di temperanza che i loro sudditi. Oltre che io vedeva nelle altre cose anche uomini volgari essere continenti, ma queste così fatte libidini vincere anco i migliori. Pertanto ho voluto dimostrarmi atto a resistere alla cupidità in quelle cose dove io non era solamente per superare il volgo, ma eziandio quelli che si pregiano di virtù. Mi pareva anche molto da biasimare chi avendo menata moglie e fattasela consorte di tutta la vita, poi contraffacendo al suo proprio fatto, affligge co’ suoi piaceri quella dalla quale egli si persuade che niuna afflizione gli convenga ricevere; e dove egli in altri consorzi e in altre congiunzioni si porta convenevolmente, non guarda di mancare in questo consorzio che egli ha colla moglie, il quale sarebbe da osservare con tanto più studio che gli altri, quanto egli è il più stretto e il maggiore che l’uomo ahbia. Ed ecco che questi tali per così fatto modo, non se ne avvedendo, dentro alla medesima reggia si creano e si nutricano sedizioni e discordie, laddove egli è pure ufficio dei principi buoni procacciare la unità degli animi non solo nelle città sottoposte alla signoria loro, ma eziandio ne’ palagi propri e dove che essi dimorino. Né anco mi è piaciuta mai quella opinione che hanno la più parte dei principi intorno alla procreazione dei figliuoli, né mi è paruto ben fatto, procrear questo da femmina di minor grado, quello da persona di più alto affare, e lasciar figliuoli, altri spuri ed altri legittimi; ma ho creduto che quanti nascessero da me, tanti dovessero potere, sì dal canto del padre e sì della madre, riferire la propria origine a mio padre Evagora tra i mortali, agli Eacidi tra gli eroi, a Giove tra gl’iddii, e nessuno de’ miei figliuoli dovere essere privato di questa nobiltà di stirpe.

E una delle molte considerazioni che mi hanno indotto a volere entrare e perseverare in questi andamenti e in questi propositi, è stata che il coraggio, l’ingegno e le altre qualità lodate, sono comuni a molti ribaldi, ma la temperanza e la giustizia sono proprie ricchezze degli uomini costumati e buoni. Onde la più onorata cosa che io potessi fare, mi è paruto che fosse di attendere, lasciate star le altre virtù, a queste due, delle quali nessuna parte hanno i tristi, verissime, durevolissime, grandissime sopra tutte, e degne di grandissima lode. Per questa considerazione, più che nelle altre virtù, ho posto cura all’esercitarmi nella temperanza e nella giustizia, e delle voluttà non ho scelto quelle che si godono in sul fatto stesso e che niuna sorta di onore portano seco, ma sì bene quelle che si colgono dalla gloria prodotta dalla bontà dei costumi e delle azioni.

Vuolsi poi giudicare delle virtù esaminandole, non tutte negli stessi casi, ma la giustizia laddove l’uomo trovasi disagiato di roba, la temperanza laddove egli è in istato potente, la continenza nella età giovanile. Ora in tutte queste condizioni si è potuto vedere il saggio delle mie qualità. Perciocché lasciato da mio padre in istrettezza di danari, io mi sono portato con giustizia tale che io non ho dato materia di rammarico a un cittadino qual si fosse; venuto in quel grado di potenza dove l’uomo fa quel che ei vuole, io mi sono dimostrato più temperante che non fanno i privati; e l’uno e l’altro a tempo che io mi trovava in quella età nella quale veggiamo che i più degli uomini sogliono nelle loro azioni trascorrere più che mai. Tutte queste cose, forse che a dirle con altri io non mi arrischierei leggermente, non che egli non me ne paia meritar lode o che io non la curi, ma per dubbio ch’elle non mi fossero credute; ben le dico francamente con voi, che al tutto me ne potete essere testimoni. Ora egli si conviene lodare e ammirare eziandio quelli che sono costumati naturalmente, ma più quelli in cui la costumatezza procede anco da ragione; perciocché ove quella è caso e non consiglio, medesimamente il caso la può disfare; ma quelli che oltre alla disposizione ingenita, hanno stabilita nell’animo per giudizio e conoscimento questa sentenza, la virtù essere il maggiore di tutti i beni, manifesto è che mai non sono per lasciare siffatto stile.

Mi sono voluto distendere in questi ragionamenti, così di me stesso come delle altre cose dette fin qui, per non vi lasciar luogo a nessuna scusa che voi non dobbiate far prontamente e di buona voglia quanto io vi sono per consigliare e per comandare. Dico dunque che ciascuno di voi faccia quello ufficio al quale è preposto, con accuratezza e rettitudine; perché se voi mancherete dell’una o dell’altra in qualunque parte, necessario è che in quella parte le cose non riescano come dovrebbero. Però non dovete spregiare né trascurare nessuno de’ miei comandamenti, immaginandovi che questi o quegli altri montino poco; anzi dovete pensate che da ciascuna delle parti dipenda che buona o cattiva sia la condizione del tutto, e usar diligenza proporzionata a questa opinione. Tanta cura abbiate delle cose mie, quanta delle vostre proprie; e non vi date ad intendere che piccioli beni sieno quegli onori che hanno i ministri miei buoni.

Astenetevi dalla roba d’altri, se volete più sicuramente possedere la roba vostra; e portatevi verso quelli nel modo che voi giudicate che io mi debba portare verso di voi.

Non vi caglia più dello arricchire che dello aver buona fama, perché dovete sapere che qualunque è tra i Greci o tra i Barbari, maggiormente celebrato dagli uomini per la virtù, ciascuno di questi tali ha maggior quantità di beni in suo potere. I guadagni fatti per modi ingiusti, abbiate per fermo essere per produrre, non mica ricchezza, ma pericolo. Non vogliate pensare che il ricevere o prendere sia guadagno, il dare, discapito; perocché né l’uno né l’altro importa quel medesimo sempre, ma qualunque dei due fassi tempo ed onestamente, ritorna in beneficio di chi lo fa.

Non abbiate a grave niuna delle mie commissioni, perché quelli di voi che mi saranno utili in maggior numero di servigi, avanzeranno maggiormente le case loro.

Fate conto che niuna di quelle cose delle quali ciascuno di voi sarà consapevole a se medesimo, mi debba restate occulta, ma quando io vi sia lontano colla persona, pensate che l’animo mio si trovi presente a ogni cosa; perché con questo pensiero procederete nelle vostre deliberazioni più sanamente. Non mi vogliate celar che che sia né di quanto voi possedete né di quanto operate o siete per operare; considerando che sopra le cose occulte nascono necessariamente molti sospetti. E così non vogliate usare un tenor di vita artificioso e nascosto, ma procedere con semplicità e scopertamente per modo che niuno, eziandio volendo, possa trovar taglio di accusa contro di voi. Esaminate ogni atto che siate per fare, e abbiate per cattivi quelli che voi non vorreste che io sapessi, per buoni quelli a cagione dei quali io terrovvi, dove io li risappia, in migliore estimazione di prima. Se vi abbattete a scoprire o fatti o disegni contrari alla mia potestà, non ve gli conviene tacere, ma dinunziargli, e pensare che quella pena medesima che è dovuta a chi pecca, si conviene ancora a chi nasconde il peccato. Felice dovete riputare non chi male operando, non è veduto, ma chi non fa male veruno, atteso che egli è da credere che l’uno e l’altro abbiano a riportare quella mercede che si appartiene al merito di ciascuno di loro. Non fate compagnie né ritrovi senza il mio consenso, perché sì fatte congiunzioni in tutti gli altri stati servono ad avvantaggiarsi, ma elle corrono pericolo nelle monarchie. Astenetevi non solo dalle malvage opere, ma da quegli andamenti altresì e da quegl’instituti i quali di necessità danno materia di sospetto.

Abbiate l’amicizia mia per sicurissima e costantissima, e sforzatevi di conservare lo stato presente né vogliate desiderar mutazione alcuna; considerando che per così fatti moti forza è che periscano le città e che le case private rovinino. Fate ragione che l’asprezza o la mansuetudine dei principi non procede solo dalla natura di quelli, ma eziandio da’ portamenti dei cittadini, perché molti signori per la malvagità dei sudditi sono necessitati di usare un governo più duro che non vorrebbono. Fondamento di sicurezza di animo vi debbe essere non più la benignità mia, che la vostra propria virtù. Ed abbiate a mente che l’essere io libero da pericoli, darà luogo a voi di poter anco vivere senza timori, perché se le mie cose staranno bene, le vostre eziandio staranno non altrimenti.

Voi dovete essere umili verso l’imperio mio, con osservare i costumi introdotti e custodire le leggi reali; ma splendidi nei servigi delle città e nello eseguire i miei comandamenti.

Studiatevi di menare i giovani alla virtù, non solo con le parole, ma eziandio mostrando loro colle opere come abbiano a esser fatti gli uomini buoni e d’assai. Ammaestrate i figliuoli propri a sapere essere governati dai principi, ed assuefategli a porre nello studio di così fatta virtù la maggiore industria e la maggior cura del mondo; perocché se eglino impareranno a esser governati, saranno poi molto meglio atti a governare; e se eglino riusciranno fedeli e diritti, entreranno a parte dei nostri beni; se tristi, andranno a pericolo di perdere i loro propri. E fate giudizio di avere a lasciare ai figliuoli una ricchezza grandissima e stabilissima, se voi lascerete loro la nostra benevolenza.

Abbiate per supremamente miseri e sfortunati quelli che sono mancati di fede a chi si era fidato di loro; necessaria cosa essendo che questi tali vivano il rimanente della loro vita in grande sconforto, avendo sospetto e paura di chicchessia e non si fidando più degli amici che dei nemici. Paianvi degni d’invidia, non quelli che abbondano di ricchezze più che gli altri, ma quelli a cui la coscienza non rimorde di nessun atto o pensamento sinistro; perché l’uomo può con sì fatto animo, trapassare la vita più dolcemente. E non vi date ad intendere che la malizia possa meglio fruttare che la virtù; solo aver nome più fastidioso a sentire: anzi abbiate per fermo universalmente che la proprietà delle cose corrisponde ai nomi che elle portano.

Non vogliate avere invidia a quelli che per disposizione mia tengono i primi luoghi, ma piuttosto emulargli, e sforzarvi, collo adoperar bene e valentemente, di pervenire agli stessi gradi. Quelli che il prinicpe ama ed onora dovete amare e onorare anche voi, se volete essere da me vicendevolmente onorati ed amati.

I pensieri vostri quando io vi sono lontano, fate che corrispondano alle parole che voi dite alla presenza mia; e più che colle parole, dimostratemivi affezionati colle opere.

Guardatevi di non fare agli altri quello che voi non potete portare in pace che sia fatto a voi, e medesimamente di non seguitare in effetto nessuna di quelle cose che voi condannate in parole.

Aspettatevi di aver a esser trattati secondo quali saranno i pensieri vostri verso il principe.

Non vogliate solo commendare gli uomini da bene, ma prendergli anco a imitare.

Abbiate le mie parole per leggi, e studiatevi di osservarle, perché quelli di voi che faranno maggiormente ciò che io voglio, avranno facoltà di vivere come essi vorrebbono.

E a recare le molte parole in poche, voi dovete procedere verso l’imperio mio nel modo che voi giudicate che si debbano portare verso di voi medesimi quelli che vi sono sottoposti.

E adempiendo voi le predette cose, che starò io qui ad esporvi distesamente gli effetti che seguiranno? Basta che se io continuerò nello stile usato fin qui, e voi farete come innanzi quanto vi si appartiene, non passerà gran tempo che voi vedrete ridotta la vita vostra in istato più copioso e felice, accresciuto il mio regno, e la città in flore. Nessuno espediente per verità sarebbe da pretermettere, ogni qual si sia fatica o pericolo che si richiedesse, sarebbe da sostenere di buona voglia per l’acquisto di così fatti beni. Ora voi potete senza alcun travaglio né rischio, con solo essere giusti e fedeli, conseguire tutte queste felicità.

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IV

ORAZIONE AREOPAGITICA

Io stimo che molti di voi si meraviglino e non intendano che pensiero sia stato il mio di proporvi a deliberare della salute pubblica, non altrimenti che se la città fosse in pericolo o che il suo stato barcollasse, e quasi che ella non avesse per lo contrario più che dugento galee, pace nel suo territorio, la signoria del mare, non pochi confederati i quali, al bisogno, ci soccorrerebbero prontamente, e molti più che pagano la loro parte delle contribuzioni e fanno ogni nostro comando. Per le quali cose parrebbe in verità che a voi si convenisse stare coll’animo sicuro, come lontani da ogni pericolo, e che ai vostri nemici piuttosto si appartenesse di temere e di consultare della salute propria. Ed io so bene che voi, discorrendo tra voi medesimi in questa forma, vi ridete della mia proposta, e sperate di dovere colle vostre forze e facoltà presenti, ridurre e tenere alla vostra divozione tutta la Grecia. Ora da queste considerazioni medesime io prendo materia di temere. Perciocché io veggo quelle città che si pensano essere in migliore stato, peggio consigliarsi, e quelle che più si confidano e più baldanza hanno, essere sottoposte a maggior numero di pericoli. La cagione è che nessun bene e nessun male interviene agli uomini da se solo, ma colla ricchezza e colla potenza è congiunta, e tien loro dietro, la follia, e con questa insieme i petulanza; colla povertà e colla bassezza dello stato vengono la costumatezza e la moderazione. Tanto che malagevolmente si può conoscere quale delle due fortune debba l’uomo più volentieri lasciare ai figliuoli. Imperocché noi veggiamo da quella delle due che è tenuta per la migliore, le cose mutarsi il più delle volte in meglio, e per l’opposto da quella che mostra di essere la migliore, voltarsi in peggio. Esempi di ciò si possono raccorre in grandissimo numero dalle cose private, dove le mutazioni sogliono essere frequentissime, ma più manifesti e più grandi si possono prendere da quello che si vede essere avvenuto a noi medesimi e ai Lacedemoni. Imperocché noi dall’un canto, distruttaci dai Barbari la città, per aver temuto e posto cura, conseguimmo nella Grecia il primo luogo. Dall’altro canto, poiché ci credemmo essere tanto forti da non potere essere superati, ci recammo a tale che per poco non fossimo ridotti in ischiavitù. Similmente i Lacedemoni per antico, nati di terricciuole piccole e umili, vivendo modestamente e a uso d’uomini di guerra, ottennero il Peloponneso. Poi levàti in troppa superbia e baldanza, e fatti signori della terra e del mare, vennero in quegli stessi pericoli che eravamo venuti noi.

Coloro per tanto i quali, comeché sappiano sì fatte grandissime mutazioni essere accadute, e grandissime potenze essere venute meno in sì piccolo spazio, pure si fidano del presente; per certo sono stolti: massime che la nostra città si trova oggi in molto minore stato che ella non si trovava nel predetto tempo; e che la mala volontà dei Greci verso di noi e la inimicizia del re di Persia, le quali allora ci vinsero, ora sono tornate in piede. Veramente io non so quale io mi debba credere delle due, o che a voi non caglia delle cose comuni né molto né poco, o vero che quantunque elle vi sieno a cuore, voi siate ciechi e insensati di modo che non veggiate in quanto disordine sieno ora i fatti del comune. Imperocché voi siete pur quelli che avendo perdute tutte le città che tenevate nella Tracia, speso invano in gente d’arme forestiera più di mille talenti, i Greci pieni verso voi di mal animo, il Barbaro inimico; oltre di ciò necessitati a salvare gli amici dei Tebani, e perduti i vostri confederati propri; per queste sì fatte cose avete sacrificato due volte solennemente, come è l’uso per le buone novelle, e ne venite e ne state a consiglio con quella medesima trascuraggine che voi potreste fare quando tutte le cose vostre procedessero prosperamente.

Ma egli è ben ragione che tutto questo ci avvenga. Imperocché mai niuna cosa può procedere per acconcio modo là dove gli uomini hanno male deliberato di tutta la forma della repubblica. E quando pure questi tali riescano a buon fine di qualche negozio o per caso o per virtù di alcuna persona, passato poco tempo, ricaggiono nelle difficoltà di prima, siccome si può vedere da quello che è avvenuto a noi medesimi. I quali, essendo, dopo la vittoria navale di Conone e di nuovo dopo le imprese condotte da Timoteo, recata alla nostra soggezione tutta la Grecia, non potemmo pure per un picciolo spazio di tempo conservare queste felicità, ma in poco d’ora le dissipammo e perdemmo. Perocché noi non abbiamo, né anche cerchiamo di avere, uno stato di repubblica atto a bene maneggiare le cose. E per certo niuno è che non sappia come le cose prospere sogliono più che agli altri sopravvenire e durare non mica a quelli che hanno le mura più belle e più grandi, o che hanno la città più copiosa di popolo, ma sì a quelli che meglio e più regolatamente l’amministrano. Imperciocché l’anima delle città non è altro che lo stato, o vogliamo dire gli ordini della repubblica, i quali hanno tanto valore in quelle, quanto nei corpi la prudenza. Essendo che il deliberare di ciascuna cosa, e il conservare i beni e lo schifare i mali, non altro si appartenga che al reggimento; col quale anco è forza che si conformino le leggi, i dicitori e i privati, e che tali sieno le condizioni e tali gli andamenti di ciascheduno, quale è la forma della loro repubblica. La qual forma essendo ora qui appresso di noi pervertita e guasta, noi pure non ce ne diamo un pensiero al mondo, e non cerchiamo modo di rassettarla; anzi, se bene nelle corti e nei luoghi della ragione, vituperiamo lo stato presente delle cose e diciamo che mai, sotto il reggimento del popolo, non avemmo peggior condizione di vita civile, in fatti nondimeno e in pensieri abbiamo più in grado questa forma guasta, che non quella che ci lasciarono i nostri antichi. Della quale intendo di dover dire in questo ragionamento, siccome per iscritto ve la ho proposta a deliberarne.

Imperocché io trovo che a volere ovviare ai pericoli futuri e riscuoterci dei mali presenti, non ci ha se non una via, cioè se noi vorremo riporre in piede quello stato di popolo il quale fu prima ordinato e constituito da Solone, uomo popolano quanto qualsivoglia altro, poi ristabilito da quel Clistene discacciatore dei tiranni e restitutore del popolo, e per se stesso è tale che noi non potremmo trovare uno stato né più popolare né che più conferisse al bene della città. Della qual cosa abbiamo un argomento grandissimo, che quelli che usarono il detto stato, condotte a fine molte ed egregie opere, e ottenuta fama e lode da tutti gli uomini, furono dai Greci volontariamente esaltati alla maggioria; e quelli per lo contrario a cui piacque lo stato presente, venuti in odio all’universale, e spesso afflitti da miserie gravissime, di poco mancò che non caddero nelle ultime disavventure. E per verità come si può egli lodare, anzi comportare, un reggimento che per addietro è stato cagione di tante calamità, e ora d’anno in anno va peggiorando di continuo? e come non si ha egli a temere che con questo tanto peggioramento, per ultimo non ci avvenga di trovarci a più duri partiti che non furono quelli d’allora? Ma perché voi possiate giudicare e scegliere tra l’uno stato e l’altro con distinta e particolare contezza, e non per cose dette sommariamente, io per la mia parte m’ingegnerò di esporvi, con quella brevità che io saprò maggiore, quanto appartiene al diritto conoscimento di ambedue gli stati, e voi converrà che dal canto vostro ponghiate attenzione a quello che io sono per dire.

Coloro per tanto che a quei tempi amministrarono la repubblica, ordinarono uno stato, non mica tale che con portare un nome popolarissimo e dolce, in fatto e alla prova riuscisse molto diverso; né anche ammaestravano i cittadini in maniera che eglino si riputassero la licenza essere stato di popolo; il dispregio delle leggi, libertà; la sfrenatezza del dire, egualità civile: e la facoltà di fare tutte queste cose, felicità; ma per lo contrario il detto stato, odiando e gastigando chi le facesse, rendeva i cittadini migliori e più costumati. E una cosa conferì grandissimamente alla loro prosperità, che prendendosi la egualità civile in due modi, l’uno per quella che dispensa con una misura a tutti, l’altro per quella da cui ciascheduno riceve secondo il merito, essi non ignorarono quale delle due veramente fosse più per giovare, ma riprovarono la prima come non giusta, perciò che ella tratta i buoni e i malvagi in un modo, e l’altra elessero, quale secondo il merito premia e punisce, e questa usarono al governo della città, non distribuendo i magistrati per sorte a qualunque si fosse indifferentemente di tutta la cittadinanza, ma preponendo a ciascuno ufficio i migliori e più atti. Perocché stimavano che ancora gli altri sarebbono stati tali, quali fossero quelli che reggessero le cose pubbliche. Anche pareva loro che questa così fatta dispensazione dei magistrati fosse più popolare di quella che si fa per sorte; considerando che in questa giudica il caso, e può spesse volte avvenire che i magistrati tocchino agli amatori della signoria di pochi, ma nella elezione de’ più acconci, egli è in facoltà del popolo di scegliere quelli che maggiormente amano lo stato presente.

Che tali fossero i giudizi della moltitudine, e che niuno volesse contendere per l’acquisto dei magistrati, nasceva dall’essere i cittadini assuefatti alla fatica ed alla parsimonia, non trascurare la roba propria e in un medesimo tempo uccellare [1] all’altrui, non sostenere colle facoltà del comune le case loro, anzi delle facoltà proprie, sempre che bisognasse, sovvenire al comune; e non conoscere meglio i proventi degli uffizi civili, che quelli che ciascheduno ritraeva dalle cose sue. Ed erano per sì fatto modo astinenti da quello del pubblico, che più malagevole era a trovare a quei tempi chi volesse ricevere i magistrati, che non è oggi a trovare chi non li voglia. Imperocché stimavano che la cura delle cose pubbliche non fosse, come a dire, un traffico, ma un servigio che la persona presta alla comunità; e non istavano insino dal primo giorno a cercare se mai per avventura quelli che erano stati per innanzi nell’ufficio, avessero pretermesso qualche guadagnuzzo da poter fare, ma sì bene se eglino avessero trascurato qualche negozio il quale si convenisse espedire sollecitamente. E a dire in breve, gli uomini di quel tempo erano di opinione che al popolo si appartenesse di eleggere i magistrati, punire i delinquenti, definire i piati e le controversie, come signore e principe; e quelli che avessero ozio e possessioni da vivere, dovessero attendere al maneggio delle cose pubbliche con quella cura medesima che se elle fossero loro proprie e familiari; e portatisi dirittamente, avessero a essere lodati e tenersi contenti di questo premio; avendo male amministrato l’ufficio, dovessero, senza commiserazione o grazia veruna, severissimamente essere puniti. Ora quale altro stato di popolo si potrebbe trovare che fosse o più giusto o più saldo di uno il quale preponga alle amministrazioni pubbliche i più sufficienti, e di questi medesimi costituisca signore il popolo?

L’ordine per tanto di quello stato era così come io vi ho detto. Dalle quali cose potete comprendere di leggeri che gli uomini di quei tempi, eziandio in ciò che apparteneva al vivere di ciascun giorno, si portavano bene e ordinatamente; imperocché ragion vuole che a quelli che hanno gittato i fondamenti buoni circa alla forma del tutto, anco le parti riescano allo stesso modo. E per cominciare (come io credo che sia ragionevole) da quello che ha riguardo agli Dei, non erano i cittadini di allora né dissomiglianti da se medesimi né disordinati nel culto divino o nella celebrazione delle cose sacre, né secondo la voglia e la fantasia, tal volta, ponghiamo caso, menavano a sacrificare trecento buoi, tal altra pretermettevano insino ai sacrifici propri e consueti della città, o vero in alcuna festa nuova e forestiera ove si banchettasse, usavano magnificenza grande, e poi per contrario in alcun tempo de’ più santi sacrificavano del ritratto delle allogagioni [2]; anzi avevano solamente l’occhio, così a non preterire in alcuna parte la consuetudine antica della città, come a non aggiungervi cosa alcuna; giudicando che la pietà non si dovesse misurare dalla grandezza delle spese, ma dal niente innovare nelle costumanze trasmesse dagli antenati. E vedesi veramente che per simil modo il cielo dispensava loro le stagioni e le qualità dell’anno, non iscompigliatamente e quasi alla cieca, ma opportune ed accomodate così alla coltivazione delle loro terre, come alle ricolte dei frutti.

Né dissimile da quello verso gli Dei si era il modo che eglino tenevano insieme tra loto. Imperciocché oltre a essere concordi nelle cose pubbliche, ancora nelle private tanta cura prendevano gli uni degli altri, quanta si conviene a ben consigliati uomini e di patria compagni. Poiché dall’una parte i più poveri, non tanto che portassero invidia a quelli che avevano più, ma eglino intendevano alla conservazione e alla prosperità delle case dei grandi non meno che delle proprie, stimando che la ricchezza di quelli fosse quasi fonte che in loro medesimi si derivasse; e all’incontro i ricchi, non che usassero coi poveri superbamente, anzi recando a propria vergogna la inopia dei cittadini, soccorrevano alle loro necessità, dando a questi o a quelli terreno da coltivare per fitti ragionevoli, alcuni mandando a mercatantare, e a chi somministrando di che potessero per altre vie procacciare di loro guadagni. E facendo questo, non temevano che dovesse loro incontrare l’una delle due cose, o di perdere il tutto, o vero dopo molta briga ricuperare solo una parte di quello che avessero dato a usare; anzi non si tenevano meno sicuri di quanto al prestato, che fossero in quanto a quello che eglino si serbavano riposto in casa, vedendo coloro che amministravano la ragione sopra tali materie, non fare abuso di dolcezza e benignità, ma ubbidire alle leggi, e non si procacciare nelle cause altrui la facoltà di operare essi medesimi ingiustamente, anzi più sdegno prendere contro quelli che frodavano i creditori, che non prendevano le stesse persone offese, e credere che da coloro che falsavano la fede dei contratti, ricevessero maggior danno i poveri che i facoltosi. I quali quando si fossero rimasti dallo accomodare di loro danari o di loro roba, sarebbero privati di piccioli emolumenti; dove che i poveri, non avendo chi gli accomodasse del suo, sarebbono ridotti alla ultima necessità. E per tanto egli non ci aveva persona, che tenesse celate le sue ricchezze, o che di bonissimo animo non s’inducesse a fare accordi e contratti, tanto che i ricchi vedevano più volentieri chi veniva dimandando in prestanza, che non chi rendeva il prestato. Poiché dall’accomodare altrui di loro avere, intervenivano loro a un medesimo tempo due beni i quali sarebbono avuti cari da ogni uomo di sano conoscimento; l’uno, che essi facevano beneficio ai loro cittadini, l’altro, che mettevano la loro roba a guadagno. E in fine (quello che è la somma del buono e beato convivere cittadinesco) la possessione della roba, a quelli che possedevano di ragione, era salva e sicura, ma gli usi della medesima erano comuni indifferentemente a ogni cittadino al quale facessero di mestieri.

Ma qui potranno essere alcuni che mi riprendano che lodando io le cose e i fatti di quei tempi, io non dica altresì le cagioni perché quegli uomini usassero così bene insieme, e governassero la città per sì acconcio modo. A me pare aver già toccato alquanto di questa materia, ma pure io vedrò di trattarla più per inteso e più divisamente. Coloro dunque, in cambio di avere nella fanciullezza molti sopraccapi, e poi così tosto come fossero dichiarati uomini, poter fare ogni loro piacere, più diligentemente erano sopravveduti nel fiore della età che nella puerizia. Imperocché i nostri passati ebbero sì fattamente a cuore la costumatezza, che a procurarla e custodirla ordinarono il consiglio dell’Areopago, nel quale non poteva sedere chi non fosse bennato, e nei fatti e negli andamenti non avesse dato segni di molta virtù e modestia. Onde esso consiglio ragionevolmente vinse di degnità e fama tutti gli altri che erano nella Grecia. E quale fosse egli a quei tempi, si può giudicare anco da ciò che noi veggiamo al presente. Perocché se bene ora sono dismesse tutte le pratiche antiche circa la elezione e le disamine di quelli che avessero a essere del predetto consiglio, nientedimeno si veggono eziandio quelli che nel resto della loro vita sono intollerabili, come salgono all’Areopago, non si sapere indurre a usar la loro natura, e piuttosto osservare gli ordini di quel luogo, che seguitare le proprie tristizie. Tanto timore posero quegli antichi negli animi dei malvagi, e tal memoria lasciarono della loro virtù e modestia in quella loro sede.

Questo sì fatto consiglio dunque constituirono curatore e conservatore della costumatezza, avendo per fermo che sieno molto ingannati colori i quali si persuadono, là essere gli uomini migliori, dove le leggi sono più accuratamente fatte. La quale opinione se fosse vera, niuna cosa aver potuto impedire che i Greci non fossero tutti conformi, come quelli che potevano agevolmente prendere il tenore e i vocaboli delle leggi gli uni dagli altri. Veramente non per le buone leggi, ma per gli studi e gli esercizi quotidiani, la virtù prosperare e crescere; tale di necessità riuscendo la più parte degli uomini, quale si fu l’educazione e la instituzione loro. Di più, la moltitudine e la minuta squisitezza delle leggi essere indizio di città male accostumata. La quale affaticandosi di porre argini e serragli alle colpe, necessariamente divenire la quantità delle leggi grande. Richiedersi al buono e ordinato vivere cittadino, non le logge piene di scritte, ma la rettitudine stabilita negli animi. Non consistere esso nei bandi, ma nei costumi; e gli uomini male allevati facilmente muoversi e contraffare anco alle leggi accuratamente scritte, dove che i bene instituiti volere osservare eziandio le non bene ordinate. Per sì fatta guisa discorrendo e affermando seco medesimi, essi non si volsero a cercare prima di tutto, in che modo avessero a gastigare quelli che trasandassero nelle opere o nei costumi, ma con quali rimedi potessero conseguire che niuno s’inducesse a cosa meritevole di gastigo; questo giudicando essere ufficio loro, laddove lo ingegnarsi molto intorno alle pene, essere atto convenevole agl’inimici.

Per tanto avevano cura di tutti i cittadini, ma principalmente dei giovani, vedendo quella età essere più turbolenta di qualunque altra e piena di maggior numero di appetiti, e gli animi giovanili aver maggior bisogno di essere disciplinati nell’amore dei buoni studi e nelle fatiche non disgiunte da piaceri. Alle quali cose sole, quando eglino fossero liberalmente nutriti, ed accostumati all’altezza del sentimento, giudicavano che essi avrebbero voluto attendere anco per innanzi. Ora, perciocché tutti non si potevano educare negli stessi esercizi, considerata la diversità delle fortune; essi governandosi secondo che comportavano le sostanze, chiunque di roba era poco agiato indirizzavano alla coltivazione e alla mercatura, sapendo che dalla oziosità nasce la indigenza, e dalla indigenza procedono i maleficii. Per la qual cosa rimovendo il principio dei mali, si pensavano ovviare ai misfatti che vengono appresso a quelli. A coloro poi che copia di beni avevano a sufficienza, assegnavano la cavalleria, gli esercizi del corpo, la caccia, la letteratura, e a queste cose gli costringevano a dare opera; vedendo che per sì fatti mezzi, alcuni riescono uomini di gran valore, altri sono tenuti lontani da infinite malvagità.

Né si contentarono di fare cotali statuti e poi non vi porre niuna cura, ma divisa la città per contrade o quartieri, e il contado per villate o vero castella, osservavano i portamenti di ciascheduno, e chiunque vedevano che disordinasse, menavanlo dinanzi al Consiglio. Il quale riprendeva gli uni, minacciava gli altri, e tali, a proporzione del merito, gastigava. Imperocché sapevano bene come egli ci ha due modi che dispongono gli uomini a male operare, e due che gli ritraggono dalle cattività. Cioè a dire che là ove contro alle dette cose, da un lato non si fa guardia, dall’altro non è posta pena e non si procede per giudizi accuratamente, quivi anco le nature si guastano. Ma ove i malfat tori non possono leggermente restare occulti, né scoprendogli, essere perdonati, colà i perversi costumi al tutto si spengono. Per le quali considerazioni eglino con ambedue le cose cioè colle pene e colla vigilanza, contenevano i cittadini. E non che potesse schifar di venire alla loro notizia niuno che avesse commesso alcuna malvagia opera, ma eglino presentivano eziandio quelli che avevano pure in animo di malfare.

E per tanto a quei tempi non si vedevano i giovani per le bische, né per le case delle sonatrici di flauto, né per tali raddotti dove oggi spendono tutto il dì; ma erano intenti ciascheduno a quell’arte o quello esercizio che gli era stato assegnato, con molta osservanza onorando e seguitando quelli che in tale esercizio o vero arte erano eccellenti. E fuggivano il Mercato in guisa, che se per alcuna occorrenza talvolta bisognava loro passare di colà, facevanlo con segni di verecondia e modestia grande. Contraddire ai più vecchi, o con male parole mordergli, reputavano maggiore enormità che non istimano adesso l’offendere i genitori. Di mangiare o di bere nelle taverne, non che altri, ancora un famiglio da bene non si sarebbe ardito. E per ultimo studiavano di essere contegnosi e gravi, e non già di fare del buffone e del giocolare, tanto che gli uomini beffardi e motteggiatori, che oggi si chiamano ingegnosi, essi gli avevano per isciagurati.

Né si pensasse per avventura alcuno, che io fossi occupato da qualche sinistra disposizione dell’animo verso i giovani. Imperocché, oltre che io non gli stimo autori né colpevoli di quello che noi veggiamo avvenire al presente, eziandio so per cosa certa che i più di loro non amano a modo alcuno questo sì fatto stato per virtù del quale è lecito loro di vivere in tali scostumatezze. Di modo che essi con ragione non possono essere ripresi; ma ben più convenevolmente si deono biasimare coloro che ressero la città poco prima di noi. Perciò che essi furono quelli che diedero principio a questa presente negligenza, e spensero l’autorità e la forza del consiglio dell’Areopago, sotto il cui reggimento la città non era piena di liti, di accuse, d’imposte, di povertà, di guerre, ma tranquilla dentro e in pace al di fuori, come quella che era fida e leale ai Greci, formidabile ai Barbari, avendo salvati gli uni, e degli altri presa tale vendetta, che non pareva loro poco, se dai nostri fossero lasciati stare senza altra offesa. Adunque per queste cagioni vivevasi a quei tempi in una tanta sicurtà, che nelle ville si vedevano le case e le masserizie più belle e di più prezzo che dentro alle mura, e non pochi cittadini ci aveva che mai non venivano alla città, né anco per le feste, volendo innanzi stare a godersi i beni propri, che partecipare dei comuni. Perocché nello appartenente agli spettacoli, i quali avrebbero potuto muovere le persone a venire, si procedeva allora assennatamente, senza punto d’insolenza o di fasto; avvengaché non si misurava la felicità dalla pompa delle processioni, né dai gareggiamenti nella sontuosità dei cori, né da altre sì fatte borie, ma dalla modestia nel comunicare insieme, e dal tenore della vita giornaliera, e dall’essere ciascun cittadino sufficientemente fornito del bisognevole, dalle quali cose si vogliono prendere i veri argomenti del buono e prospero stato e del non odioso convivere cittadino. Poiché oggi, a dir vero, io non so come possa fare niuno che buon giudizio abbia, a non si attristare considerando lo stato delle cose, e veggendo alcuni cittadini, dinanzi alle curie, trarre a sorte se essi avranno o non avranno da vivere per se stessi, e questi medesimi volere che si conducano a soldo e si mantengano rematori greci, e certi danzare in drappi d’oro, e passare poi la vernata io non vo’ dire in che panni; e altre somiglianti contrarietà che occorrono nello stato presente, con grande ignominia pubblica. Niuna delle quali cose accadeva a tempo della signoria del Consiglio. Il quale sollevava i poveri dalla inopia coi benefizi del comune, e coi sussidi che erano prestati loro dai ricchi; ritraeva i giovani dalla licenza col sopravvegliarli che faceva, e cogli studi in che gli teneva occupati; gli ufficiali della repubblica dalle ingiustizie e soperchierie co’ gastighi e con fare che tortamente operando, niuno potesse restare occulto; i vecchi dall’ignavia colle dignità civili e colla riverenza e osservanza della gioventù. E in vero, quale altro più bello e più commendevole reggimento si può trovare di uno che per sì acconcio modo provvedeva a ogni cosa? Dunque dello stato di allora noi abbiamo detto il più, e ciascuno potrà di leggeri intendere che quanto si è tralasciato di dire, fu conforme e corrispondente a quello che si è ragionato.

Ora avendomi alcune persone udito recitare le predette cose, mi diedero quelle maggiori lodi che si potevano, e dissero degni d’invidia essere i nostri antichi per avere usato questa forma di reggimento; ma in un medesimo tempo giudicarono che voi non potreste essere indotti a praticarla, ma che lasciandovi guidare alla usanza, torreste di voler prima patire i danni e le incomodità dello stato presente, che godervi con migliori ordini una vita migliore. Anche dicevano che io consigliandovi il vostro meglio, porterei pericolo di parere inimico del popolo, e darei materia di sospettare che io m’industriassi di ridurre la città sotto la signoria di pochi. Ora, se i miei ragionamenti fossero stati di cose sconosciute e nuove, e che io vi avessi confortato a eleggere consiglieri o dettatori che di quelle dovessero deliberare, nel qual modo fu spenta la podestà del popolo ai tempi addietro, io potrei ragionevolmente incorrere nelle dette imputazioni. Dove che io non ho detto cosa di cotal fatta, ma ho ragionato di un governo, non mica occulto, ma palese; il quale tutti sapete essere stato adoperato dai nostri antichi, e avere partorito innumerabili beni, non che alla nostra patria, eziandio agli altri Greci; oltre di ciò essere stato prescritto e stabilito da uomini i quali è forza che ciascuno si accordi a tenere per li cittadini più popolani che sieno stati mai. Di modo che ella sarebbe pur dura e indebita cosa che per confortarvi di ripigliare questo così fatto ordine di repubblica, io fossi riputato cupido di novità. Senza che di leggeri voi potete conoscere il mio sentimento anche da questo, che nella più parte delle aringhe e dei discorsi detti da me insino a ora, io condanno le signorie di pochi, le prepotenze, i privilegi; e lodo le ugualità e gli stati di popolo, come che non tutti, ma solo i bene ordinati, con rettitudine e buono accorgimento, e non alla cieca. E lodogli perciocché io trovo che i nostri antichi con un sì fatto stato si avvantaggiarono di gran lunga dagli altri popoli, e che i Lacedemoni hanno la più bella repubblica che sia di questi tempi, perché si reggono più popolarmente. E che questo sia vero, veggiamo che nella elezione dei magistrati, nell’uso del vivere quotidiano, e in qual si sia studio e instituto, seguono la egualità e la conformità più che gli altri popoli, cose combattute sempre dalle signorie di pochi, e sempre usate da quelli che si reggono per istato popolare bene acconcio. Così se noi vorremo por mente alle altre città, riandando un poco, troveremo che alle grandi e più rilevate, meglio conferiscono i reggimenti del popolo che quei di pochi. Essendo che questo medesimo stato nostro che tutti riprendono, se noi lo paragoniamo, non più con quello che io v’ho raccontato innanzi, ma con quello che fu al tempo dei Trenta, quasi che egli ci parrà una cosa divina. Io voglio, quando anche sieno per dire che io mi dilungo alquanto dal mio soggetto, ricordare qui e dimostrare quanta differenza sia dallo stato presente a quello di allora; acciò niuno dica che io vo molto sottilmente cercando e discutendo i falli del popolo e da altro lato se egli si trova pure che quello abbia fatta alcuna bella o nobile e degna opera, che io la passo in silenzio. Non sarà questa parte del mio ragionare né troppo lunga né senza qualche profitto degli ascoltanti.

Perduto dunque che avemmo il nostro navilio nelle marine dello Ellesponto, e venuto il comune in quelle disavventure che ne seguirono, sanno bene i più vecchi che quelli che erano chiamati popolani o di parte di popolo, si dimostrarono apparecchiati a dovere innanzi sostenere ogni peggior cosa, che ubbidire ad altri; riputando grandissima indegnità che quel popolo che aveva avuto in mano il governo della Grecia, fosse veduto sottoposto alla dominazione altrui. E che questi tali furono esclusi dall’accordo. All’incontro quelli che volevano lo stato di pochi, disfatte con pronto animo le mura, agevolmente si acconciarono alla servitù. E laddove al tempo che il reggimento era in potestà del popolo, i nostri avevano in mano le fortezze degli altri, venuta la repubblica sotto i Trenta, la nostra fortezza medesima fu in possessione degl’inimici. E sanno ancora che a quel tempo la città fu serva dei Lacedemoni; ma poiché i fuorusciti, tornando, si ardirono a combattere per la libertà, e da Conone fu vinta quella battaglia marittima, essi Lacedemoni ci mandarono per loro ambasciatori cedendo la signoria del mare. E anco de’ miei coetanei chi è che non si ricordi come lo stato popolare da un lato, con tempii e con sacrifici, rendette adorna e splendida la città per modo che anche al presente la foresteria che vi capita la giudica degna di comandare a tutto il mondo, non che alla Grecia; e dall’altro lato i Trenta spogliarono i tempii, trascurarono i sacrifici, e furono allora venduti e dati a disfare gli arsenali per tre talenti, dove che la città ve ne aveva speso insino a mille? Né anche si troverà niuno che in quanto si è alla lode della mansuetudine, voglia anteporre al reggimento del popolo quelli di costoro. I quali recatasi in mano per virtù di un decreto la potestà della repubblica, mille e cinquecento cittadini ammazzarono senza forme giuridiche, e più di cinquemila sforzarono a rifuggirsi come esuli nel Pireo. I popolani in contrario, ricuperata la patria per virtù di armi e di vittorie, tolti solo di mezzo i principali autori delle calamità passate, composero le cose intra i cittadini con tanta giustizia e onestà, che i ripatriati non istettero pure di un menomo vantaggiuzzo al di sopra di quelli che gli avevano posti in bando. Abbiamo eziandio questo sopra tutti gli altri bellissimo e grandissimo testimonio della bontà del popolo, che avendo quelli di dentro pigliato a interesse dai Lacedemoni la somma di cento talenti per cagione dell’assedio del Pireo, che si teneva per gli usciti, ragunato il popolo per deliberare della restituzione di detta somma, e dicendo molti che il soddisfare ai Lacedemoni si apparteneva di ragione a chi aveva improntato i danari e non agli assediati, il popolo determinò che la restituzione si facesse in comune. Con sì fatti modi ci recarono a tanta concordia e tanto avanzarono la città, che i Lacedemoni, i quali a tempo dei Trenta ci mandavano, si può dire, ogni dì ordinando quello che piaceva loro, poi rimesso in istato il popolo, vennero chiamando mercede e pregando che non gli lasciassimo distruggere dai Tebani. E per dire in somma, le intenzioni delle due parti furono così fatte, che quella voleva comandare ai cittadini e servire ai nemici, questa comandare agli altri, e coi cittadini serbare l’ugualità. Queste cose mi è paruto toccare per due cagioni; prima per dare ad intendere che io non sono vago né di signorie di pochi né di prepotenze, ma di una buona e ben composta repubblica; poi per dimostrare che gli stati di popolo, eziandio se male ordinati, sono manco nocivi; e quando poi si reggono per buoni ordini, sono migliori e più degni che qualunque altre, per essere più giusti, più accomunati, e fare la vita più dolce.

Forse non mancheranno di quelli che si maraviglino come io vi conforti a lasciare questo reggimento, che si trova avere operato tanti e così begli effetti; e in iscambio di quello, prendere un altro; e come avendo ora lodato si magnificamente lo stato di popolo, poi d’ora in ora, mutata opinione, io lo condanni e mi dolga delle cose presenti. Ora voi dovete sapere che se io veggo anche una persona privata fare alcune poche cose bene e molte male, io la riprendo, e tengo che ella sia da manco che non si conviene: e più, se questo tale è disceso di assai valent’uomini, e che egli sia pure un poco migliore che la schiuma degli scellerati, ma peggiore assai che gli antichi di sua famiglia, in caso tale io lo biasimo, e dandosi la occasione, io lo consiglierei di lasciare così fatto essere. Con ciò sia dunque che anco delle comunità io giudichi per gli stessi termini, stimo che a noi non si convenga troppo pregiarci né tener paghi se noi siamo stati migliori e più leali che alcuni sciagurati e matti, ma più presto sdegnare e avere per male se noi ci troviamo essere peggiori che i nostri passati; colla virtù dei quali e non colla malvagità dei Trenta ci abbiamo a paragonare: massime che a noi si conviene essere primi in eccellenza fra tutti gli uomini. Io non dico ora questa cosa per la prima volta, ma io l’ho detta già in molte occasioni e a molti, che al modo che noi veggiamo negli altri luoghi generarsi dove una dove altra qualità di frutti, di arbori e di animali, propria di quella cotal terra e molto eccellente fra quelle che nascono nelle altre parti, così medesimamente il nostro terreno ha virtù di produrre e nutrire uomini, non solo di natura attissimi alle arti e opere della vita, ma di singolare disposizione eziandio per rispetto alla virilità dell’animo e alla virtù. Si conosce questa cosa manifestamente sì per le antiche battaglie fatte dai nostri colle Amazzoni, coi Traci e con tutte le genti del Peloponneso, e sì per le guerre avute coi re di Persia, dove i nostri, ora soli e ora con quelli del Peloponneso, per terra e per mare, combattendo e vincendo, riportarono i premii e gli onori principali delle vittorie. Le quali cose per certo non avrebbero potuto fare se essi non fossero stati da molto più che gli altri uomini di natura. E niuno si pensi che pervenga da ciò alcuna eziandio menoma lode a noi cittadini di oggidì; anzi per lo contrario. Perocché queste simili, sono lodi verso chi si dimostra degno della virtù degli antecessori, ma verso quelli che colla loro ignavia e cattività svergognano la eccellenza della loro stirpe, elle sono riprensioni e biasimi. Siccome (vaglia il vero) facciamo noi, che sì fatta natura avendo, non l’abbiamo saputa serbare, ma siamo caduti in grande ignoranza e confusione e in molte cattive cupidità. Ma se io volessi, seguitando questa materia, mordere e accusare i fatti di questi tempi, dubito che io non dovessi trascorrere troppo lungi dal mio proposito. Però di questi fatti lasceremo stare al presente, se non che siccome io già ne ho ragionato per addietro, così per l’avvenire altre volte ne ragionerò, se non mi sarà venuto fatto di rivocarvi da cotesti andamenti torti e nocevoli. Ora tornando in sul proposito primo di questo ragionamento, dette che io ne avrò certe poche cose, darò luogo a quelli che volessero altresì esporre la loro sentenza sopra questa materia.

Dico adunque che se noi vorremo continuare a reggere la città nella forma che si usa oggi, egli non ci ha rimedio alcuno che noi possiamo fare altro che tutto giorno stare in consulte e in guerre, e vivere così come ora e di questi tempi addietro, e patire e operare tutti gli stessi mali. All’incontro, ripigliando la forma usata in antico, manifesto è che per la ragione medesima, quella condizione e quello andare avranno le cose nostre che ebbero quelle degli antenati. Perciocché dagli stessi ordini di repubblica necessaria cosa è che risultino i fatti o conformi o simili. Dei quali fatti prendendo i più riguardevoli, si vuol porgli a riscontro, e così risolvere quali ci sia più in acconcio di eleggere, o gli uni o gli altri. E prima veggiamo la condizione di quello e di questo reggimento verso i Greci e i Barbari, essendo che non piccola parte conferiscano costoro al ben essere della città, ogni volta che procedano le cose per opportuno modo tra loro e noi. I Greci dunque avevano tanta fede al reggimento di quei tempi, che la più parte di loro volontariamente si diedero nelle mani della città; e i Barbari, non che s’impacciassero dei fatti della Grecia ma essi non si ardivano di scorrere colle galee fin presso a Faselide, e colle genti di terra non passavano di qua dali fiume dell’Ali, e in fine attendevano a star quieti. Oggi sono ridotte le cose in sì fatti termini che quelli ci portano odio e questi dispregio. Dell’odio dei Greci avete udito dalla bocca dei capitani; e il re di Persia che disposizione abbia verso di noi, bene esso lo ha dato ad intendere per le lettere che ha mandate. Oltre di ciò da quei buoni ordini erano i cittadini per cotal guisa informati a procedere virtuosamente, che essi tra loro da un lato nessuna offesa e nessuna molestia facevano gli uni agli altri, e all’incontro, se alcuno di fuori veniva con armata mano sopra il contado, essi valorosamente combattendo, sempre riuscivano vittoriosi. Noi per contrario non lasciamo passare un dì che l’un cittadino all’altro non faccia male, e da altra parte nelle cose di guerra usiamo una tanto strabocchevole negligenza, che infino alle rassegne non vogliamo andare se non pagati. Per ultimo, e questa è cosa sopra tutte di gran momento, non era a quei tempi un cittadino che avesse disagio del necessario, e che si vedesse, limosinando per le vie, fare onta e vituperio alla città; laddove ora sono più i poveri che gli agiati: e bene è da perdonare a questi cotali bisognosi se eglino niuna cura hanno delle cose pubbliche, ma si vanno pure ogni dì argomentando del come trovar modo a durare insino a domani.

Tenendo io dunque che se noi vorremo imitare gli antichi, saremo liberi da questi presenti mali, e cagione anco di salute, non alla città solamente, anzi a tutta la Grecia, ho messa innanzi questa deliberazione e detto questo ragionamento. Voi considerata bene ogni cosa che avete udita, fate quella risoluzione che crederete essere in maggior benefizio della città.

 

Note

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[1] uccellare all’altrui: desiderare con avidità l’altrui (proprietà) [ndr]

[2] ritratto delle allogagioni: ricavato degli affitti [ndr]

 

 

Indice Biblioteca Progetto Leopardi

© 1996 - Tutti i diritti sono riservati

Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 08 novembre 2006

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