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Giovanni Pascoli, Pensieri e discorsi (1914) - Il sabato

Giovanni Pascoli

Pensieri e discorsi

[1914]

Edizione di riferimento

Pensieri e discorsi di Giovanni Pascoli, MDCCCXCV-MCMVI seconda edizione, Nicola Zanichelli editore, Bologna MCMXIV

Il sabato

Era un sabato, il pi? bel giorno dei sette: e io uscito?in sul calar del sole? dalla porta di Monte Morello mi recava al colle detto Monte Tabor. Della primavera tuttavia irresoluta avevo visto gi? dal mattino, venendo dal porto alla citt? di Recanati, inalberare la terra due insegne tra il pallore degli ulivi; una candida, una rosea, d?un mandorlo e d?un pesco. E nelle prode e per i greppi vedevo ora le margherite richiudere per la notturna vigilia i petali sfumati di carmino che candidi erano apparsi nel giorno (spose biancovestite che tingonsi di rossore allo sbocciare della stella); mentre io adorava le orme del Poeta, lasciandomi alle spalle la ?piazzuola? piena del ?lieto romore? dei fanciulli e avviandomi al??ermo colle? donde egli aveva sentito nell? anima gl??interminati spazi? e i ?sovrumani silenzi?. Il colle non ? pi? quello, essendo stato in parte tagliato per dar luogo a una strada nuova, e piantato e ripulito e pettinato per diventare un giardino pubblico, il Pincio; ma ?ermo? era anche quella sera di sabato. E si udivano bens? grida di fanciulli, felici della festa del domani; ma di qua e l?, di lontano; e velavano appena la taciturnit? del tramonto. Tornava un contadino con la vanga sulla spalla, dando la faccia rugosa ai bagliori del sole. Tornava una vecchierella con sul capo un piccolo fascio di stecchi. Un?altra le si fermava di contro. Stettero, nereggiando tra uno scintillio diverso e continuo, parlando tra uno scampanio fioco di voci remote. Parlavano a lungo: tentennavano la testa. Il?buon tempo? pareva non lo avessero conosciuto mai.

II.

?Donzellette? non vidi venire dalla campagna col loro fascio d?erba: non ancora la lupinella insanguinava i campi. Avrei voluto vedere il loro mazzolino, se era proprio ?di rose e di viole?! Rose e viole nello stesso mazzolino campestre d?una villanella, mi pare che il Leopardi non le abbia potute vedere. A questa, viole di marzo, a quella, rose di maggio, s?, poteva; ma di aver gi? vedute le une in mano alla donzelletta, ora che vedeva le altre, il poeta non doveva qui ricordarsi. Perch? il poeta qui rappresenta a noi cose vedute e udite in un giorno, anzi in un?ora; e bene le rappresenta, come non solevano i poeti italiani del suo tempo e dei tempi addietro. E come queste, cos? altre; e in ci? ? la sua virt? principale e, aggiungerei se non fosse ozioso e noioso a proposito di poesia parlar di gloria, la principale sua gloria. Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta ? l?arpa che un soffio anima, ? la lastra che un raggio dipinge. La poesia ? nelle cose: un certo etere che si trova in questa pi?, in quella meno, in alcune s?, in altre no. Il poeta solo lo conosce, ma tutti gli uomini, poi che egli signific?, lo riconoscono. Egli presenta la visione di cosa posta sotto gli occhi di tutti e che nessuno vedeva. Erano forse distratti gli occhi, o forse la cosa non poteva essere resa visibile che dall?arte del poeta. Il quale percepisce, forse, non so quali raggi X che illuminano a lui solo le parvenze velate e le essenze celate. Ora il Leopardi (io pensavo fermandomi a guardare i monti di Macerata, sui quali si contorcevano alcune nuvole in fiamma, come dolorando), il Leopardi questo ?mazzolin di rose e di viole,, non lo vide quella sera: vide s? un mazzolino di fiori, ma non ci ha detto quali; e sarebbe stato bene farcelo sapere, e dire con ci? pi? precisamente che col cenno del fascio dell?erba, quale stagione era quella dell?anno. No: non ci ha detto quali fiori erano quelli, perch? io sospetto che quelle rose e viole non siano se non un tropo, e non valgano, sebbene speciali, se non a significare una cosa generica: fiori. E io sentiva che, in poesia cos? nuova, il poeta cos? nuovo cadeva in un errore tanto comune alla poesia italiana anteriore a lui: l?errore dell?indeterminatezza, per la quale, a modo d?esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore d?indeterminatezza che si alterna con l?altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso pi? nella dolcezza del loro suono che nella soavit? del loro profumo), tutti gli uccelli a usignuolo. Ma non erano usignuoli quelli che io sentivo tra gli uliveti della valle sottoposta; sebbene d?usignuolo sembrassero tre o quattro note punteggiate che promettevano, a ogni momento e sempre invano, il prorompere e il frangersi della melodia: preludio eterno. Quelle note d?usignuolo mal riuscito erano di cingallegre; e io le udivo a quando a quando dare in quegli striduli sbuffi d?ira o timore, che sembrano piccoli nitriti chiusi in gola d?uccello; le udivo, ora qua ora l?, strisciare a lungo la loro limina mordace su un ferruzzo duro duro.

III.

Quante volte si sar? soffermato il Leopardi ad ascoltare quelle risse vespertine, risse sull?ora di scegliere il miglior posto per attendervi, con una zampina su, l?aurora. Egli amava ?le pi? liete creature del mondo?, il filosofo solitario. Pure nell?elogio che ne scrisse, non riusc? a infondere la poesia che sentiva in quello che egli chiama loro ?riso? in quella vispezza e mobilit? per la quale egli le assomiglia a fanciulli. Ci? che ne dice, ? troppo generico, lasciando che non ? tutto esatto. Per quanto l?assunto del filosofo dovesse in quell?elogio contrastare al sentire del poeta, tuttavia noi vi desideriamo il particolare perch? sia e legittima l?induzione del filosofo e viva l?esposizione del poeta. Ma non un nome di specie: tutti uccelli, tutti canterini. N? molta variet? ?, a questo proposito, nelle poesie: in una canta al mattino ?la rondinella vigile? e la sera il ?flebile usignol?; e il ?musico augel? in un? altra canta il rinascente anno e lamenta le sue antiche sventure ?nell?alto ozio de? campi?; e in un?altra ? ?il canto de? colorati augelli? insieme col murmure de? faggi; e via dicendo. Ora da questi e simili esempi si potrebbe inferire (io pensava) che il Leopardi non fosse quel poeta che tutti dicono, o perch? non colse quel particolare nel quale ?, per cos? dire, come in una cellula speciale, l?effluvio poetico delle cose, o non lo colse per primo. Ma il nuovo e il vivo abbonda. E cos? mi rivolgeva nella mente, come un uomo pio sussurra un?orazione per iscacciare un brutto pensiero, i tanti luoghi coi quali il poeta della mia giovinezza, della giovinezza di tutti, destava in me i palpiti nuovi nel riconoscere le vecchie cose. Ripensavo le sue notti. Ecco una notte tormentata dalla tempesta: a un tratto non pi? lampi, non pi? tuoni, non pi? vento: buio e silenzio. Un?altra: una notte buia: la luna sorge dal mare e illumina un campo di battaglia tutto ancora vibrante del fracasso del giorno: gli uccelli dormono, e appena rossegger? il tetto della capanna, gorgheggeranno come al solito. Un?altra ancora: una notte illuminata: la luna tramonta, spariscono le mille ombre ?e una Oscurit? la valle e il monte imbruna?, e il carrettiere saluta con un melanconico stornello l?ultimo raggio. Oh! i canti e i rumori notturni! il fanciullo che non pu? dormire, e ode un canto ?per li sentieri Lontanando morire a poco a poco?, o, mentre sospira il mattino, sente, portato dal vento, il suono dell?ora! Nessuno in Italia, prima e dopo il Leopordi, rappresent? cos? bene l?estasi di una notte nativa:

allora

Che, tacito, seduto in verde zolla,

Delle sere io solea passar gran parte

Mirando il cielo, ed ascoltando il canto

Della rana rimota alla campagna!

E la lucciola errava appo le siepi

E in su l? aiuole, sussurrando al vento

I viali odorati, ed i cipressi

L? nella selva: e sotto al patrio tetto

Sonavan voci alterne e le tranquille

Opre dei servi.

E nessuno meglio sent? la poesia d?un risvegliarsi in campagna al picchierellare sui vetri della pioggia mattutina; e nessuno espresse meglio il riprendere della vita dopo un temporale: lo schiamazzar di galline, il grido dell?erbaiuolo, che s?era messo al coperto, il rumoroso spalancarsi delle finestre, che erano state chiuse, e in ultimo il tintinnio dei sonagli e lo stridere delle ruote d?un viaggiatore che riprende il suo viaggio; e nessuno dir? meglio mai la sensazione d?un canto di donna, udito di notte, in una passeggiata, dentro una casa serrata, a cui ci si sofferm? per caso; o di giorno, nel maggio odoroso, misto al cadenzato rumore delle calcole e del pettine. Un grande poeta, o cingallegre che fate sentire lo stridio assiduo delle vostre piccole lime in questo dolce sabato sera! un grande poeta, sebbene egli forse non distinguesse i vostri squilli dallo spincionare del fringuello a cui somigliano!

Cos? pensavo, e venne il suono delle ore dalla torre del borgo, e io pensai all?altra torre, la torre antica del Passero solitario. Era proprio alle mie spalle. La primavera brillava nell?aria, sebbene non esultasse ancora per li campi: qualche belato, qualche muggito si udiva: alcuni passerotti saltabeccavano sul tetto della chiesa di Sant?Agostino, che ora ? una prigione; le cingallegre stridivano sempre. Il passero solitario per? non faceva pi? il nido nella torre, di cui fu abbattuta la ?vetta?: mi dissero che pi? tardi ne avrei sentito i sospiri d?un gufo. Pi? tardi: ora il sole dirimpetto, facendo lustrare e avvampare tutti i vetri delle case

tra lontani monti

Cadendo si dilegua, e par che dica

Che la beata giovent? vien meno.

IV.

Il sole non si dileguava cos? presto dietro il Sanvicino: esso colorava qua in rosa tenue, l? in rosa carico, qua in oro, l? in violetto, le nuvole che parevano essere convenute per assistere alla sua discesa. A un volger d?occhio, quella si scolorava in ardesia, questa trascolorava in porpora. E non mi pareva che il sole dicesse cadendo quelle triste parole. Gi? con me erano di troppo: ma mi ricordo che quando ero, non un poeta giovane, ma un giovane proprio, il sole al tramonto mi diceva sempre, come dir? anche oggi ai giovani lettori del Leopardi:

Che la beata giovent? vien meno.

Il Passero solitario dicono che sia concezione, se non lavoro, della prima giovinezza del Poeta: dell'anno 19 che fu a lui il pi? ricco di ispirazioni. Fu concepito, in vero, quando il poeta non curava pi?

sollazzo e riso,

Della novella et? dolce famiglia;

quando non era pi? quel fanciullo giocondo di cui egli stesso narra:

In queste sale antiche,

Al chiaror delle nevi, intorno a queste

Ampie finestre sibilando il vento,

Rimbombaro i sollazzi e le festose

Mie voci al tempo che l? acerbo, indegno

Mistero delle cose a noi si mostra

Pien di dolcezza.

Giacomo god? il suo Sabato, ?giorno d?allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno?. La sua fanciullezza pass?, come raccontava il suo fratello Carlo, tra giuochi e capriole e studi; ma pass? in un collegio. Carlo lodava suo padre ?d?averli tenuti presso di s??: ma certo questi li tenne pi? da rettore che da padre. Monaldo credeva d?aver ricevuto una instituzione molto imperfetta. ?L?ottimo Torres? egli dice ?fu l?assassino degli studi miei, ed io non sono riuscito un uomo dotto, perch? egli non seppe studiare il suo allievo e perch? il suo metodo di ammaestrare era cattivo decisamente?. Ora sin dall?et? di anni quattordici egli aveva detto fra s? che avendo figli non avrebbe permesso ad alcuno lo straziarli tanto barbaramente. Come tenne il suo proponimento? In una cosa intanto: nel non mandare in monastero la figlia Paolina, come vi era stata mandata la sorella di lui, con la quale e col fratello finch? gli visse, aveva trascorso i suoi primi anni. Egli sofferse molto di quell?allontamento e non volle dare a Giacomo e a Carlo il dolore che aveva provato esso. Poi: avr? certo raccomandato ai precettori che forniva ai suoi figli, di non essere cos? pedanti da esigere da essi la recitazione a memoria di ?libri intieri senza il pi? piccolo errore?. Ma i precettori volle che fossero preti: don Giuseppe Torres per primo (il suo maestro ?di una severit? intollerabile?); poi don Sebastiano Sanchini. Egli diede inoltre ai figli un pedagogo, che sempre li accompagnasse, ?pedante, vermiglio, grasso, florido?, don Vincenzo Diotallevi, buon bevitore. Quelli erano i maestri o professori, questo il prefetto; il rettore, s?intende, era Monaldo. I giuochi dei ragazzi erano quali si fanno oggid? nei collegi un poco all?antica; quali mi ricordo d?aver fatti anch?io nel collegio dei buoni Scolopi, ai quali sono grato dal profondo del cuore: battaglie romane. Intanto che Napoleone (Monaldo nel 1797 avrebbe potuto vederlo. ?Pass? velocemente a cavallo, circondato da guardie le quali tenevano i fucili in mano col cane alzato. Tutto il mondo corse a vederlo. Io non lo vidi, perch? quantunque stessi al suo passaggio nel palazzo comunale, non volli affacciarmi alla finestra giudicando non doversi a quel tristo l?onore che un galantuomo si alzasse per vederlo?) intanto che Napoleone combatteva ad Austerlitz e a Iena, i piccoli Leopardi e i piccoli cugini Antici, battagliavano a Canne o a Zarna, nel gran salone, al chiarore delle nevi, o nel giardino; e Giacomo mostrava, sotto il nome o di Scipione o di Annibale, quell?ardore guerresco, che si adempi? poi nel 18 coi celebri versi:

L? armi, qua l?armi : io solo

Combatter?, procomber? sol io.

Sanno di collegio le passeggiate fatte sempre insieme e sempre col prefetto o pedagogo; sa di collegio la burla fatta al buon prete, che Giacomo descrisse nella poesiola ?la Dimenticanza?; sa di collegio quel porsi nomi finti (Giacomo era Cleone; Carlo, Lucio; Paolina, Eurilla). Si narra persino del romanzo letto di nascosto... N? mancavano gli esami e le premiazioni. ?Noi tre?, racconta Carlo, ?fratelli pi? grandi, Giacomo, io e la Paolina, davamo talvolta in casa saggi quasi pubblici dei nostri studi?. E da questa vita di soggezione continua e di regolarit? uniforme veniva quel bisogno delle fole e delle novelle, che Giacomo raccontava e Carlo ascoltava a lungo; e deriv? presto quell?opposizione di pensieri col loro padre, che nei collegi ? solita tra alunni e superiori. Giacomo ?l?onorare i genitori non intendeva esserne schiavo?. Ci? nei tempi in cui si confessava, poich? ?ne fu dichiarato empio dal prete?.

Il noto dissidio tra padre e figlio, che ha diviso gli studiosi del Leopardi in due fazioni, quella dei Monaldiani e quella dei Giacomiani, nacque, o almeno fu reso facile o possibile, da questo fatto: che Giacomo, come i suoi fratelli, vide da fanciullo nel padre pi? il superiore che il genitore; e ci? attenua la colpa s? di Monaldo, se ? di Monaldo, perch? egli operava a fin di bene, s? di Giacomo, se ? di Giacomo, perch? egli non credeva di fare tanto male. Col tempo, Carlo lod? suo padre e della severa educazione e dell?istruzione ?forse migliore di quella dei collegi?, come lodiamo noi ora quel buon rettore di cui da ragazzi dicevamo tanto male. Certo noi ameremmo o amiamo i nostri figlioli in modo diverso; ma non si pu? dire che Monaldo non li amasse a modo suo. Oh! egli avrebbe fatto meglio, dico io non ostante le lodi di Carlo, a metterli a dirittura in un collegio vero e fuori di casa. Nella tristezza della solitudine, che si fa in esso cos? fiera nella celletta dopo il chiasso del giorno e il brusio della sera, si sarebbero essi con tutta l?anima rivolti alla famiglia lontana. Pare assurdo il dirlo; eppure ? cos?: al poeta del dolore manc? nella sua fanciullezza un po? di dolore. Non ne ebbe assai, di dolore, Giacomo Leopardi, da fanciullo!

Io ricordo che strette al cuore sentivo quando mi giungeva, la notte, nella veglia non consolata, ?il suon dell?ore?. Era la voce della citt? straniera; non del borgo natio. E io pensavo al babbo e alla mamma. E Giacomo non poteva nemmeno, fuggendo dal padre, correre al seno della madre. Essa tutta occupata nel restaurare il patrimonio Leopardi, non accarezzava i figli che con lo sguardo. Se era cos? dolce, come so io d?un?altra, come sanno tutti, o quasi, d? una, poteva bastare. Ma...

V.

Nell?instituzione di Monaldo era sopra tutto un vizio che egli con meraviglia s?intenderebbe rimproverare. Egli coltiv? troppo in Giacomo il desiderio della gloria. ? un?ambizione questa che si suole chiamare nobile; in verit? non pu? esservi ambizione nobile, se nobile vuol dire buona. Ma lasciamo 1l?; io non voglio, n? so n? devo, fare il moralista: certo mi piacerebbe che l?uomo facesse bene, senza aver sempre di mira un altro di cui far meglio; e che specialmente nell?arte e in particolare nella poesia, la quale non ? nessun merito far bene, perch? non ai pu? far male; o si fa o non si fa; l?artista e il poeta si contentasse di piacere a s? senza cercare di piacere a tutti i costi agli altri e pi? d?altri. Lasciamo, ripeto; io voglio soltanto dire che questo smodato desiderio di gloria fu cagione d? infelicit? a Giacomo Leopardi. Che smodato fosse in Giacomo ancor fanciullo, dice Carlo: ?mostr? fin da piccolo indole alle azioni grandi, amore di gloria e di libert? ardentissimo?. Notiamo quell?amore di libert?, figlio, non fratello, di quello di gloria, come ? chiaro a chi legge il secondo de? Pensieri: ?Scorri le vite degli uomini illustri, e se guarderai a quelli che sono tali, non per iscrivere, ma per fare, troverai a gran fatica pochissimi veramente grandi, ai quali non sia mancato il padre nella prima et?...? E pi? gi?: ?la potest? paterna appresso tutte le nazioni che hanno leggi, porta seco una specie di schiavit? ne? figliuoli, che per essere domestica, ? pi? stringente e pi? sensibile della civile?. E che Giacomo adattasse al caso suo, o piuttosto ne derivasse, questo principio generale, non pu? esser dubbio a chi ripensi le sue parole: ?Io non vedr? mai cielo n? terra, che non sia Recanatese, prima di quell?accidente, che la natura comanda ch?io tema e che oltracci? secondo la natura avverr? nel tempo della mia vecchiezza; dico la morte di mio padre?. Nel tempo della vecchiezza! nel quale, come egli osserva nel pensiero citato, l?uomo ?non prova stimolo... e se ne provasse, non avrebbe pi? impeto, n? forza, n? tempo sufficienti ad azioni grandi?. Tuttavia osserviamo che egli conclude come sia utilit? inestimabile trovarsi innanzi nella giovinezza una guida esperta ed amorosa, sebbene aggiunga che ne deriva ?una sorta di nullit? e della giovinezza e generalmente della vita?. Ebbene che cosa poteva da ragazzo temer pi? che tale nullit?, chi nel 17 affermava: Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente, desiderio di gloria; io voglio alzarmi, farmi grande ed eterno coll?ingegno e collo studio?; e nel 19: ?voglio piuttosto essere infelice che piccolo?? Questo voto, povero Giacomo, si adempie. Ora come in lui, ancora fanciullo, fu coltivato il funesto desiderio che dissi? Gi?, il padre era stato da fanciullo (e continu? sempre a essere) animato dal medesimo sentimento. Egli dice di s?, tra molte altre note che se ne potrebbero riferire: ?? singolare per? che io nutrivo brama ardentissima di sapere, e che allettato pochissimo dai trattenimenti puerili leggevo sempre e pi? ostinatamente quelle cose che meno intendevo, per avere la gloria di averle intese?. E poi: ?Mi sono rassegnato a vivere e morire senza essere dotto, quantunque di esserlo avessi nudrita cupidissima voglia?. E la cupidissima voglia si trasfuse in Giacomo che ?dai 13 anni ai 17 ?scrisse da sei a sette tomi non piccoli sopra di cose erudite, come dice egli stesso, aggiungendo: ?la qual fatica appunto ? quella che mi ha rovinato?; e in altro luogo afferma (l?essersi rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo; e si sa che studiava sino a tardissima notte, ginocchioni avanti il tavolino, per poter scrivere fino all?ultimo guizzo del lume morente. Eppure, a differenza del padre, da fanciullo era allettato dai trattenimenti puerili: dal che si deve dedurre, che del disperatissimo studio suggerito dallo smoderato desiderio di gloria, fosse, almeno in parte, causa l?educazione stessa che riceveva dal padre. Il quale nel 1801, per dirne una, aveva eretto in casa sua un? acccademia poetica, che vi dur? tre o quattro anni, e poi per?, quando non ebbe pi? la sua ?casa paterna?. Perch? Monaldo l?aveva eretta? Perch? queste accademie sono un piccolo teatro in cui si pu? fare una qualche pompa di ingegno comodamente senza bisogno di grandi capitali scientifici, eccitano alcun principio di emulazione, accendono qualche desiderio di gloria, impongono l?amore per lo studio per lo meno la necessit? di simularlo...?

A quelle accademie erano poi succeduti i saggi quasi pubblici dei figliuoli con presso a poco il medesimo intendimento. E Monaldo mostrava certo il suo compiacimento per la splendida riuscita del suo primogenito pi? che non lasciasse vedere la sua pena nell?accorgersi come, per usare le parole della contessa Teia-Leopardi, ?il gracile corpo del figlio si sconciasse e alterasse pel faticoso e continuo maneggio di enormi in-foglio e dei pesanti volumi della Poliglotta e dei SS. Padri?. La medesima afferma che il conte Monaldo accarezz? grandemente questa tendenza del figlio. ? vero che in altro luogo ricorda che il conte Monaldo stesso animava i figli a quegli esercizi che giudicava molto atti a svilupparne le membra. Nel che peraltro ? da osservare che si tratta dei giuochi romani, e che con essi, sempre secondo la contessa Teia, il conte Monaldo voleva fomentare il gusto delle cose elevate, delle gesta e delle rappresentazioni eroiche. Io non intendo biasimare questo padre; ma certo egli stesso sarebbe stato pi? felice dell?amore dei figli, se ne avesse coltivato pi? le tendenze umane che quelle eroiche, e li avesse voluti pi? affettuosi che gloriosi. ? vero che non avremmo avuto forse un Giacomo Leopardi, ma egli non sarebbe stato cos? infelice. Ma ? vero ancora che Giacomo comprendeva di poter scegliere tra la infelicit? la mediocrit?, e che scelse la prima.

Forse non avremmo avuto... E se avessimo un Leopardi pi? legato di quello che pur ?, alle memorie della fanciullezza? pi? poeta di quello che noi possiamo appena sognare che si possa essere?

VI.

Il pi? dolce e il pi? bello della sua poesia sta nel rimpianto di quello stato soave, di quella stagion lieta. Stato soave, stagion lieta, se crediamo a lui che tante volte e in tante forme lo dice. Ma si pu? avere qualche ragionevole dubbio che fosse cos?. Grato occorre, dice egli stesso,

Il rimembrar delle passate cose,

Ancor clic tristo, e che l?affanno duri!

La qual sentenza, dell?Idillio XIV, parve al poeta troppo lata negli ultimi anni della sua vita: onde la limit? aggiungendo:

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

La speme e breve ha la memoria il corso.

Certamente accade in noi questo inganno continuo, che altri spiegher?, ma che tutti, credo, possono avere sperimentato: che pensiamo sempre che la felicit? sia avanti noi, nell?avvenire, e proviamo sempre che ? dietro noi, nel passato. Ci? in un andare di vita comune, senza scosse soverchie. Questa illusione era anche del Leopardi, poich? grato gli era di rimembrare il passato, ancorch? tristo. E pi? doveva ubbidirle a proposito della sua fanciullezza di piccolo trionfatore nei giuochi romani, di vincitore nei primi studi, in quanto che egli non ebbe, si pu? dire, che fanciullezza. La sua fanciullezza appass? come un fiore insidiato da un baco segreto, senza n? esser colto n? allegare. Anche l?aspetto era, non si sapeva se di fanciullo o di vecchio: di giovane, non fu mai. N? si sa, se di vecchio o di fanciullo fossero pi? certi suoi gusti, certe sue ripugnanze, certe sue ritrosie. Anche i suoi amori somigliano a quei grandi tuffi di sangue, che ognuno ha provati da ragazzo, quando il genio della specie dorme ancora o ha appena un occhiolino aperto. Lasciamo Aspasia all?ammirazione degli uomini fatti: Nerina e Silvia sono le fanciulle che si vedono lontano, dalla finestra del collegio, e si rivedono da presso, nella passeggiata, con un sussulto che rende immobili, con una vampa che agghiaccia. Non ebbe giovinezza, dunque, e il ricordo della sua prima et? addolc? o amareggi?, non so bene, quasi per intero, la sua vita di poeta e di pensatore, come di tale che, studiando sempre s? stesso, e dalla sua esperienza e qualche volta dalla sua imaginazione prendendo gli argomenti de? suoi giudizi, allargava sino alla storia del genere umano e dei popoli la conclusione che egli aveva presa intorno a s? stesso.

N? solo ? vero quel che un nobilissimo pensatore scrisse di lui, che ?il ricordare trascorsi, il rimpiangere perduti (i primi anni) fu l?unica sorgente della sua poesia?, ma altres? che della sua politica e della sua filosofia bisogna cercare la fonte in questo suo tempo migliore. Parr? strano a chi crede, come credono quasi tutti, a un mutamento radicale avvenuto nelle idee e nei sentimenti del Leopardi dopo il 17. Ma io penso che nella sua vita accadesse invece come un cataclisma intimo, che la spezz? in due. Tra le due parti ? un baratro; ma le due parti sono della stessa formazione. Quando avvenisse questo dissidio, non si pu? dire a puntino: ci fu forse una lenta corrosione, piuttosto che un improvviso schianto; ma avvenne. Negli ultimi anni della sua vita egli derideva quel generale austriaco-papalino che si port? cos? bene alla battaglia di Faenza: i papalini fuggirono, e li

.  .  .  .  precedeva in fervide sonanti

Rote il Colli gridando: Avanti avanti.

Ebbene, pi? che dalla voce popolare, egli dov? udire, fanciullo, questo motto in casa del padre; che nella sua autobiografia ne riferisce altri, da quell?uomo mordace che era: ?Il giorno 2 di febbraio del 1797, alla mattina, i Francesi attaccarono... Ben presto... l?inimico si accinse a guadare il fiume; e vistosi dai popolani (papalini?) che i Francesi non temevano di bagnarsi i piedi: "Addio? si grid? nel campo ?si salvi chi pu?? e tutti fuggirono per duecento miglia?. E pi? gi? racconta che i cannoni vennero caricati con fagioli, aggiungendo: ?questa mitraglia figur? nella guerra fra il papa e la Francia?. Nella villetta di Posilipo in cui il poeta, scriveva la Ginestra, son? forse una sera la stessa risata che trent?anni prima aveva fatto eco, nel palazzo di Recanati, al racconto di Monaldo. E ci sono in vero molte differenze tra l?autore dei Paralipomeni e quello dei Dialoghetti sulle materie correnti? Il figlio scherniva, il padre malediceva: per le male barbe Giacomo invocava il  barbiere; Monaldo il boia. Ma infine i loro sentinsenti s?incontravano, sebbene non paresse n? agli altri n? a loro stessi.

Giacomo amava la patria italiana. Egli scrive al Giordani: "mia patria ? l?Italia; per la quale ardo d?amore, ringraziando il cielo di avermi fatto italiano?. Ma aggiunge: ?perch? alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata ? la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche?. ? un amore dunque letterario quale poteva averlo da bambino, sebbene aspirasse allora pi? a erudizione che a letteratura. Ma avesse il suo amore ardente avuto altre origini o fini, Giacomo non potrebbe con ci? essere chiamato ?patriota? come intenderemmo noi ora. Bene lo credettero ai suoi tempi: ?Quando Giacomo (dice Carlo) stamp? le prime canzoni, i Carbonari pensarono che le scrivesse per loro o fosse uno dei loro. Nostro padre si pel? per la paura?. Eppure Giacomo scrisse quelle canzoni con lo stesso animo con cui tre o quattro anni prima aveva con un suo discorso plaudito alla caduta dell?oppressore e maledetto il tentativo di re Murat. E se ne accorsero poi i liberali e i carbonari, e presero in sinistro la sua canzone sul monumento di Dante: al che il Poeta risponde ?che non la scrisse per dispiacere a queste tali persone, ma parte per amor del puro e semplice vero e odio delle vane parzialit? e prevenzioni; parte perch? non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, metteva in iscena altri attori, come per pretesto e figura?. Che non potendo parlare di Austriaci, egli parlasse di Francesi, e adombrasse col nome di questi, che avevano, per esempio, degli itali ingegni

Tratte l? opre divine a miseranda

Schiavitude oltre l?Alpi,

quelli che, cogli altri alleati, erano stati autori di ricondurle in patria; e potesse sperare che ad altri che a Francesi, si attribuisse, per esempio,

la nefanda

Voce di libert? che ne schernia

Tra il suon delle catene e dei flagelli,

a me non pare verosimile. Del resto, io non altro voglio indurre da questi fatti, se non che de? sentimenti suoi di prima del 14, ? traccia ben distinta e nel 18, nel qual anno scriveva le due canzoni, e negli ultimi anni della sua vita, nei quali dettava i Paralipomeni. In politica, insomma, sent? presso a poco sempre a un modo. I sentimenti che apprendeva in casa e certo ebbe da giovinetto sino almeno il 15, restarono in lui quasi immutati. Ce ne dispiace? Pensiamo che se per i grandi anni dei riscatto avremmo voluto altro, ora per?, ora e sempre, dobbiamo trovar giusto il suo ?odio delle vane parzialit? e prevenzioni?.

VII.

E in religione? Egli era da fanciullo veramente pio: pativa anche di scrupoli e giocava all?altarino con la sua sorella. Recitava alla Congregazione dei Nobili, nella chiesa di S. Vito, i suoi sacri discorsi, e abbozzava inni cristiani. Come tetri questi inni! Al Redentore egli diceva: ?Tu hai provato questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l?infelicit? dell?essere nostro...? A Maria: ?? vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo: siamo tanto infelici! ? vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli, ma noi pure siamo piccoli, e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei grande e sicura, abbi piet? di tante miserie! ?Oh! certo il piccolo Giacomo leggeva un libretto, uno forse de? molti della sua madre severa, cos? severa, che appena appena sfiorava il suo visetto sparuto con la mano offerta a un bacio; uno di quei libri, nei quali ella segnava le morti de? suoi. Vi leggeva la terribile massima dell?Ecclesiaste: Vanit? delle vanit? ed ogni cosa vanit?! Ma in quei primi anni che egli abbozzava l?inno al Redentore (?dice Ges?: dall?ora del mio nascimento infino alla morte mia sulla croce mai non fui senza dolore?) doveva confortarsi con l?aggiunta, che trovava nel libretto: fuorch? l?amar Dio e servire a lui solo. E amava e serviva. Ma intanto s?imprimeva sempre pi? nella tenera mente, disposta alla mestizia e alla devozione, ?Rammenta che l?occhio non si sazia per vedere, n? l?orecchio riempiesi per ascoltare?. Ruzzava e trionfava nel giardino paterno; e non importava che Carlo facesse l?uffizio di schiavo ammonitore: esso poteva leggere nel libretto: ?Non esaltarti per gagliardia o per belt? di corpo; la quale per piccola malattia si guasta e si disforma?. Ardeva del desiderio di gloria: leggeva: "Dove sono... quei maestri...? Di loro, si tace?. In verit? a me par di vedere nel lugubre libretto la traccia, o volete l?embrione, di tante poesie e prose del nostro poeta. ?La natura ? scaltra e trae a s? molti, allaccia e inganna e sempre ha s? stessa per fine?. Indifferente di noi fa il Leopardi la natura :

Ma da natura

Altro negli atti suoi

Che nostro male o nostro ben si cura.

?La natura fatica per proprio agio? commenterebbe il monaco pensoso. Altra considerazione: ?povero ed esule in terra nemica dove incontro guerra ogni d? e grandissime sciagure...? Non pensava ad essa Giacomo non pi? devoto, non pi? pio, Giacomo negli ultimi tempi della vita, quando nella Ginestra stima gli uomini tra s? confederati contro l?Inimico? Non ricordava, sia pure incoscientemente, il modo cristiano di figurarsi la morte, come un soave abbandono del capo stanco sul petto del divino Redentore, quando diceva:

Quel d? ch?io pieghi addormentato il volto

Sul tuo vergineo seno?

Vero che non ? pi? il seno di Ges?. Il Leopardi ha trasformato Ges? nella Morte, adornandola delle bianche vesti che indossava la donna che comparve a Socrate e gli disse:

Giungere fra i tre di tu puoi alla zolle di Ftia.

Non ricordava egli l?umile preghiera, ?Percuotimi gli omeri e il collo?, l?umile confessione, ?Non son degno se non di essere flagellato e punito?, quando diceva, ribelle ai pensieri che alitavano dalla lontana fanciullezza,

La man che flagellando si colora

Del mio sangue innocente

Non ricolmar di lode,

Non benedir com?usa

Per antica vilt? l?umana gente,

Ogni vana speranza...?

Vana anche quella speranza, vano anche quel conforto! Egli aveva cancellato la seconda parte di quella prima affermazione, e restava, nuda terribile la sentenza di Salomone :

Vanit? delle vanit? e tutto vanit?.

N? paia strano che il Leopardi attingesse da libri cristiani o religiosi la sua sconsolata filosofia. Lo osserv? il Gioberti: ?quando lo scrittore deplora la nullit? di ogni bene creato in particolare,

E l? infinita vanit? del tutto,

non fa se non ripetere le divine parole dell?Ecclesiaste e dell?Imitazione?. E, non so se dietro lui, la Teia scriveva: ?Quale ? il pensiero dominante negli scoraggiamenti, nei disgusti del figliuol di Monaldo? L?infinita vanit? del tutto. E non ? questo il mesto gemito di Salomone gi? da tanti secoli? Vanitas vanitatum?. Egli tutta la sua vita impieg? in commentare, ampliare, provare ci? che quei libri affermavano seccamente e solennemente. Ma ne aveva tolto gi? una paroletta di tre lettere, senza la quale quei libri divenivano vangeli di dolore: Dio.

Alle tante vanit? proclamate nei libri sacri e pii, il grande pessimista ne aggiunse una: una sola!

VIII.

Dal cristianesimo egli certo prese un suo paragone che riassume il concetto ch?egli ha, della vita umana:

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle

.    .    .    .    .    .

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge...

Non ? questo il cristiano, che a imitazione del divino maestro, deve prendere la croce, cadendo sott?essa, risorgendo sempre con essa? ?Dalla tua mano ricevetti la croce, la porter? e la porter? sino alla morte, cos? come m? imponesti?. Quella del vecchierello non ? una croce ma un fascio. Il poeta dissimula, il poeta sdegna l?imagine vera, che certo gli si era affacciata alla mente, ma ? quella. Il Petrarca ha dato qualche colore e non altro: ch? il fanciullo antico si ? ridestato nel giovane trentenne e ha parlato col suo linguaggio d?allora. Solo in fine, in vece della gloria e della felicit? ultima, ? un

Abisso orrido, immenso,

Ov?ei precipitando il tutto oblia.

Un altro paragone ? in lui che compendia la sua filosofia. Il paragone del letto. Ognuno ricorda, s? questo del Leopardi, s? l?altro del Manzoni: i quali furono ingegnosamente paragonati tra loro da un terzo valentuomo. Il Manzoni e il Leopardi si assomigliano molto in quello in cui differiscono: sono due convertiti; ma l?uno a rovescio dell?altro. Il loro piccolo sunto di filosofia sembra ritratto e ricorretto di su un modello comune. Che non ?, io credo, di Dante; di Dante proprio, n? del Petrarca, n? d?altri, sebbene e in essi e in altri si trovi. ? del cardinale Melchiorre di Polignac nel suo poema postumo Anti-Lucretius. Il poema fu tradotto due volte in versi Italiani: e tutte e due le traduzioni, una col testo a fronte, si trovano nella biblioteca dei conti Leopardi. Il paragone del cardinale arcade ? questo: ?Come un malato si avvoltola nel letto con le membra inferme, ora adagiandosi sul lato sinistro, ora sul destro: e non giova: di che alza gli occhi, resupino: e non trova il sonno e sempre lo cerca; ci? che prima gli piaceva, poi lo tormenta e tortura; e non guarisce il suo male e nemmeno ne inganna la noia?. Si vede che dai tre versi di Dante ?simigliante a quella inferma Che non pu? trovar posa in sulle piume Ma con dar volta suo dolore scherma?, si sono svolti alcuni particolari, che poi si ritrovano nel Manzoni e nel Leopardi.

Dice per esempio il Polignac: ?Quod Primum in deliciis fuerat?; dice il Manzoni: ?e si figura che ci si deve star benone?. Dice il Polignac: ?Ceu lectum peragrat... In latus alternis laevum dextrumque recumbens: Nec iuvat... Nusquam inventa quies; semper quaesita?; e il Leopardi: ?comincia a rivolgersi sull?uno e sull?altro fianco... sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno... senza essersi mai riposato, si leva?. Ma si pu? opporre che tutto era gi? in Dante o, prima di lui, in Giobbe, e che non c? ? bisogno di credere che il Leopardi e il Manzoni vedessero il Polignac. Or bene: nella prefazione dell?Anti-Lucretius, si racconta che il Cardinale, malato a morte, non trovando pace nel suo letto di dolore, si ricord? di quei suoi versi ?nei quali paragona l?anima che ammalata e agitata dalla passione delle cose terrene non trova mai pace, a un corpo infermo?. Si ricord? di quei versi e ripet? quel suo pensiero in alcuni altri versi bellissimi, cui gli astanti nel loro dolore, dimenticarono tutti, fuori, di uno:

Quaesivit strato requiem ingemuitque negata,

verso imitato dal Virgiliano:

Quaesivit caelo lucem ingemuitque reperta.

Questo racconto ? tale, che i due nostri grandi scrittori doveva fermare, invogliare e commuovere. Il Polignac morendo applicava, in certo modo, il suo paragone non pi? dell?anima insaziata dell?epicureo, ma alla vita umana. E la reminiscenza di Virgilio colp? particolarmente il Leopardi. Si direbbe che sulla fine della lugubre comparazione egli lasciasse il Polignac per Virgilio. Non c?? in lui quel gemito che chiude cos? tristamente la lotta; ma l?uomo, per lui, muore, come Elissa, quando vede la luce: la luce, ossia la morte. ?Venuta l?ora, senza essersi mai riposato, si leva?. Qual ora? L?ora del mattino, poich? ha durato a rivolgersi, ?sempre sperando (spem elusam, ha il Polignac) tutta la notte?. Con l?aurora la morte, disse il Mantis a Leonida. Ma possiamo noi esser certi che il Leopardi conoscesse quel poema? Certo egli l?aveva nella biblioteca; e si pu? supporre facilmente che egli ammiratore di Lucrezio (che negli Errori Popolari ? citato spessissimo) dovesse sin da fanciullo, quando la mente ? di cera, leggere l?AntiLucrezio. Il padre non doveva lasciargli bere il veleno senza propinargli il contraveleno. Cos? questo, si pu? dire, lasci? nella sua anima pi? traccie di quello. Egli ricav? bens? dal poeta romano la descrizione dei primi momenti della vita dell?uomo, quando ?La madre e il genitore Il prende a consolar dell?esser nato?; ma quanto pi? ha ricavato dal poeta franco-gallo! ?Che ha a far teco la Natura? Matrigna certo, non madre la dirai, e invano la chiamerai, molto gemendo?. Non aveva egli con queste parole appreso, fin da fanciullo, forse, a maledire la natura? Non discendono da queste parole i suoi rimproveri, tante volte poi ripetuti e in tante forme, a quella che ?dei mortali ? madre in parto ed in voler matrigna?? ?O natura, o natura, Perch? non rendi poi Quel che prometti allor? perch? di tanto Inganni i figli tuoi?? In questo libretto, forse, egli apprese a disprezzare la felicit? umana: ?Appena le hai ottenute, le prendi a noia, cercando sempre in cose nuove ci? stesso che ti deluse quando lo provasti, e ti lasci? avido e desideroso di meglio?. Da questo libretto forse egli apprese il presentimento di quel vano pentirsi, di quel volgersi indietro, quando la vecchiezza abbia inaridito le fonti del piacere, e siano ?le pene Sempre maggiori e non pi? dato il bene?. Trovava egli infatti qua e l? nel savio e pio libro: ?Ti staranno avanti gli occhi le gioie della vita trascorse e ti trafiggeranno il memore cuore, come saette. Reo di lesa volutt? quegli che a s? fiero nemico si astenne dall?amore e dal vino, seguendo pi? gravi consigli?. E il Leopardi scrisse:

A me se di vecchiezza

La detestata soglia

Evitar non impetro,

Quando muti questi occhi all?altrui core

E lor fia voto il mondo, e il d? futuro

Del d? presente pi? noioso e tetro,

Che parr? di tal voglia?

Che di quest?anni miei? che di me stesso?

Ahi pentirommi, e spesso,

Ma sconsolato, volgerommi indietro.

Nel libro declamatorio e, diciamolo, pedantesco egli not? forse prima che in Giovanni le lugubri parole: ?Tu segui, invece della luce, dolci tenebre. Gi?, ti piacciono; la morte ti piace!?. Potrei fare altre citazioni; potrebbe, chi volesse, trovare altri raffronti sfuggiti a me. S?intende che il Pastore errante dell?Asia e il Gallo silvestre cantano con ben altra dolcezza e altezza. Ma qualche loro lugubre nota rison? nell?anima del poeta dalla lettura destinata forse dal padre a premunirlo o guarirlo. Sono, per esempio, al bel principio del libro V alcuni versi, che dovettero fermarsi nella mente del giovinetto lettore, per poi pi? tardi ridestarsi e riecheggiare: ?Non sei simile a quelli cui, dopo aver fatti dolci sogni, ? in uggia veder la luce del giorno quando... l?Aurora... li sveglia mal loro grado e dissipa le ombre soavi. Ch? l?errore piace pi? e sogliono sospirare trovando la luce, per la quale ritornano le noie del Vero?. Pensate come comincia il suo cantico il Gallo silvestre: ?Su, mortali, destatevi. Il d? rinasce: torna la verit? in su la terra e partonsene le imagini vane. Sorgete, ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero?.

Dunque il cardinale di Polignac ? un ispiratore del Leopardi? In vero questi vuol dimostrare, nel primo libro e altrove, che la felicil? umana ? nulla e falsa senza e fuor di Dio. E le argomentazioni sue s?impressero nel fanciullo credente. Poi Dio gli tramont? dall?anima... e allora, ?all? apparir del vero?, la Speranza cadde, e mostrava a lui ?La fredda morte ed una tomba ignuda?, ignuda, senza la felicit? infinita ma postuma, che sola ?, se ?.

E intanto il Manzoni, sulla fine del suo Romanzo, tirava ?un po? cogli argani? una morale nuova dal vecchio paragone, di cui non poteva disconoscere la giustezza, e concludeva: ?E per questo si dovrebbe pensare pi? a far bene che a star bene, e cos? si finirebbe a star meglio?.

IX.

Queste cose io ripensavo aggirandomi per i luoghi dove Giacomo Leopardi soffr? pi? che non visse, e medit? che la vita ? dolore. Il sole era veramente dileguato, gli uccelli si erano taciuti, pace avevano infine le nuvole, i monti di Macerata spiccavano appena nell?azzurro, la valle del Potenza era bruna e silenziosa. Appena appena gli ulivi facevan sentire qualche brivido secco, e un cipresso nereggiava sul colle dello ?Infinito?. E io imaginai il Poeta, ancora giovinetto, seduto ancora dietro la siepe: un fanciullo macilento, dal viso pallido e senile, coi capelli neri e gli occhi azzurri. Erano i primi anni del secolo, e a me pareva che quel fanciullo che si rifiutava di guardare cos? bello e lontano accavallamento di monti, la valle e il fiume, e si faceva riparo d?una siepe di sterpi per veder pi? lungi, in una lontananza senza fine, rappresentasse la coscienza umana di quei primi anni. Un soffio di vento che muove appena le foglie ? la voce del presente, della vita. Che ? essa rispetto all?infinito silenzio? Un canto d?artigiano che passa, ecco il suono dei popoli antichi, ecco il grido degli avi famosi:

Tutto ? pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e pi? di lor non si ragiona.

Cos? meditava dopo il grande fragor?o della rivoluzione e dell?impero il giovinetto smunto, dal viso senile, in questo borgo solitario. Egli era ben disilluso degli sforzi umani per raggiungere l?inafferrabile felicit?, e non credeva nel progresso e non credeva nella scienza. Altri, presi dal medesimo sconforto, nei medesimi tempi, si volgeva a Dio: egli non credeva nemmeno a Dio. E tutta la vita egli rivolse all?Ignoto interrogazioni, le quali sapeva dover restare senza risposta.

E il fanciullo senile ? ancora l?, sente stormire le foglie e naufraga nel mare dell?Infinito. O siede, in forma di pastore, su un sasso della prateria, guardando la luna (appunto la luna falcata si mostrava su Monte Lupone) e chiedendo:

Che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

S?: la coscienza umana chiede ancora quello che chiedeva allora. Dobbiamo credere che ci? sia un sintomo di malattia o degenerazione? O dobbiamo credere che sia naturale del pastore in tal modo affannarsi, come della sua greggia il posare? Non so: certo io rammento che qualunque sia la risposta che noi ci sentiremo dare, ella ci consiglia il bene. Ch? il fare bene non ? solo la conclusione ultima della filosofia cristiana del Manzoni, ma anche di quella sconsolata del Leopardi. Poich? questi dopo avere mostrata la vanit? del tutto, a parte a parte, della gloria, della libert?, del progresso, della vita; ha la visione dell?umanit? futura, stretta insieme e ordinata, ?negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune?.

Il poeta del dolore conclude adunque, non troppo diversamente dal poeta della speranza, cos?: Noi stiamo tutti male: e aiutiamoci, allora, tra noi infelici, difendiamoci, amiamoci!

Non diversa la conclusione, come non dissimili le premesse. Perch?? Elle furono poste, ripeto, da tutti e due in quei primi anni del secolo, durante e dopo quel tanto ?affaticare? che parve non fosse giovato a nulla. Parve al Leopardi nella sua fanciullezza, e seguit? a parer dopo, perch? in lui la fanciullezza fu tutta la vita. E per ci? egli ? il poeta a noi pi? caro, e pi? poeta e pi? poetico, perche ? il pi? fanciullo; sto per dire l?unico fanciullo che abbia l?Italia nel canone della sua poesia. O mesta voce di fanciullo, ineffabilmente mesta, quando anche si volgeva a Ges?! La dolce fede divina gi? non gl?impediva, nel suo tempo felice, nel suo sabato, di credere all?immedicabile infelicit? umana; come il mancare poi di essa fede non gli imped? di credere al grande ma unico e non solito, ahim?, n? facile conforto: all? amore !

Indice Biblioteca Progetto Giovanni Pascoli

? 1996 - Tutti i diritti sono riservati

Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 19 gennaio 2008

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