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Pio Rajna - Il Cantare dei Cantari

Pio Rajna

Il Cantare dei Cantari

Introduzione

(prima parte)

 

 

 

Edizione di riferimento

Zeitschrift fur Romanische Philologie, Herausgegeben von Dr. Gustav Gröber, 1878 II. band, Halle. Max Nimeyer. 1878.

PRIMA PARTE

Vantare sé medesimi e la roba propria, invidiare e deprimere i rivali, eran certo cose d’ogni giorno e d’ogni ora per la poco rispettabile genia dei giullari medievali. Da ciò, credo, deve riconoscere la sua prima origine una classe speciale di composizioni, notevolmente rappresentata nelle antiche letterature della Francia.

Beninteso, questo seme produce pianticelle diverse, a seconda del terreno e del clima. E poi, bisogna ammettere di necessità un’evoluzione storica, vale a dire il generarsi e succedersi di specie differenti. Qual forma originaria, par da supporre il Vanto puro e semplice. Il giullare mette in mostra la sua merce; enumera le svariatissime abilità ch’egli possiede, o che, piuttosto, pretende di possedere; dà l’indice del suo repertorio. Ma due rivali possono trovarsi in presenza, ed esser troppo punti dalla reciproca gelosia, per sapersi contenere. Allora la mostra non è semplicemente esposta alla vista del pubblico: i due se la lanciano scambievolmente in faccia, con un accompagnamento di ben altro che gentilezze. E gli spettatori si divertono e ridono; poiché, pur troppo, lo spettacolo di una rissa ha molta presa sui bassi istinti, che entrano nella natura umana. Però siffatte baruffe, s’imitano anche e si rappresentan da burla, col solo intento di dar sollazzo. Così veniamo ad avere il favolello des deux bordeors, o des deux troveors ribaudz [1]: una specie di commediola, composta assai probabilmente da un solo autore, ma non meno probabilmente recitata molte volte, dinanzi ad un pubblico numeroso, da due attori, i quali dovevan poi ricevere e dividersi da buoni compagni il premio dell’essersi ben bene svillaneggiati.

Qui siamo dunque già nei dominii della finzione e dell’arte, anziché in quelli della realtà e della vita. E ancor più vi entriamo, se mettiamo in cospetto un poeta ed un recitatore di roba non sua; un trovatore ed un semplice giullare. Allora parlerà il primo soltanto, e le sue parole prenderanno un tono didattico, più o meno condito di rimproveri. Il dotto vien mostrando e rinfacciando all’ignorante le molte cose ch’egli dovrebbe sapere, e che invece non sa. Ecco nascere per tal modo i cosiddetti Ensenhamen di Guiraut de Cabreira [2] e di Bertran de Paris de Roergue [3]. Solo Guiraut de Calanso [4] si dà proprio l’aria d’istruire, e non usa male parole. Se non che, osservando bene, ci accorgiamo che la differenza non è sostanziale. L’ammaestramento a Fadet, le aspre riprensioni a Cabra ed a Guordo, vengono ad esser del pari meri pretesti. L’interesse dei rimatori è tutto nell’enumerazione per sè medesima. Anche le ingiurie non pajon qui dunque esser altro che un ricordo di quelle, ben più violente, che i giullari si dovevan scambiar tra di loro sulle piazze e nelle corti. Insomma, ci sembra di ravvisare in queste composizioni altrettanti riflessi artistici di prodotti umili e spontanei, che il tempo - cosa troppo naturale  - non ci ha conservati. Il fiore di prato si è convertito in fiore di giardino; e noi, ridotti a non poter uscire nell’aperta compagna, siam costretti a rappresentarci per induzione, dietro i prodotti ingentiliti, la specie primitiva e naturale.

La struttura ritmica degli esemplari pervenuti a noi è ben diversa al settentrione e al mezzogiorno. Nella Francia abbiamo le solite coppie ottosillabiche. Nell’Ocitania troviamo invece l’orme più complesse. Domina un periodo ritmico, o, se si vuole, una strofa di sei versi, raggruppati tre per tre: due quadrisillabi, che rimar tra di loro, ed un ottosillabo, con una rima costante per tutta quanta la composizione [5]. Di questa forma si valgono i due Giraldi, quel da Cabreira e quel da Calanso. E già la si era avuta molto tempo innanzi. La incontriamo presso uno dei più antichi trovatori, il mordace Marcabruno, in composizioni che hanno colle nostre assai strette attinenze [6]. Ché l’una, D’aisso laus Dieu E sant Andrieu, è un Vanto bello e buono; l’altra, Seigner en Audric, colla sua gemella, la poesia di cotesto En Audric, da cui è provocata ed a cui serve di risposta, costituisce una specie di tenzone, che, per il tono e per le gentilezze che vi si dicono, merita bene d’esser ravvicinata a quella dei due giullari rivali. E si badi: questa tenzone sembra appartenere alla giovinezza di Marcabruno; sicché, dopo la nuova luce che le ricerche del sig. P. Meyer hanno portato nella biografia del poeta [7], difficilmente si saprebbe ammetterla posteriore al 1140; anzi s’inclinerebbe fortemente a farla di parecchi anni più antica.

Eccoci già ad un’età assai remota. E forse ci ajuta a risalire dell’altro, con qualcosa più che per via di semplice induzione, il Ben voill que sapchon li plusors di Guglielmo conte di Poitiers. Per il contenuto, questa poesia appartiene pur essa alla categoria dei Vanti. Che il ritmo non sia il solito, nessuna meraviglia. Guglielmo è un poeta d’arte; e l’intendimento suo doveva essere di affinare, non già d’imitare, e tanto meno di ricopiare. Con tutto ciò anch’egli costituisce la sua strofa con un intreccio di quadrisillabi e ottosillabi. Del resto, per ciò che spetta alla forma, non abbiam bisogno di lui per riconoscerne la vetustà. Già il fatto stesso che, tra gli esempi pervenutici, il primo di tutti appartiene ad un rimatore occasionale ed oscuro, al quale non saremmo disposti ad attribuir l’invenzione - alludo ad En Audric - può valere come una prova efficace. S’aggiunga che cotesta forma ci occorre altresì presso Pietro d’Alvernia, anch’egli uno fra i trovatori del vecchio tempo; e che la si ha parimenti in una poesia religiosa, antica di sicuro, e, ad ogni modo, appartenente all’ispirazione popolare [8]. Queste varie apparizioni precoci, significano, secondo me, che il ritmo doveva appartenere al patrimonio tradizionale. Però, combinando gl’indizî, mi sembra riesca confermata e precisata, quanto al dominio dell’oc, l’ipotesi messa prima innanzi in generale. A me par probabile che il Vanto, nel mezzodì della Francia, non solo esistesse, ma esistesse precisamente colla medesima forma che abbiamo presso i due Giraldi, molto prima del tempo in cui impariamo a conoscerlo. Esso deveva propriamente essere un elemento di quella poesia giullaresca, che, fattasi nobile, diventò, secondo me, la poesia cortigiana provenzale.

Come già Guglielmo di Poitiers, così più tardi Bertran de Paris, non si attiene al ritmo dato dalla tradizione, e ne va anzi molto più lontano. Egli non inventa peraltro una melodia: scrive un serventes [9]. Non istarò ad entrare in un esame particolareggiato, anche perché la poesia, pervenutaci, a quanto pare, in una sola copia, sembra aver bisogno di parecchie e radicali correzioni [10]. Mi limiterò a segnalare i legami con un altro serventese; quello di Bertran de Born, che incomincia Quan la novella flors par el verjan. Abbiamo identità di rime, non solo di struttura, tra le strofe di Bertrando, e le nostre 1, 3, 5, 8.

A questi prodotti artifiziali noi preferiremmo di sicuro, nell’interesse della storia, i loro collaterali della stirpe plebea. Ciò non toglie che anch’essi non abbian molta importanza. Specialmente ci riescon preziose quelle lunghe liste di personaggi e di soggetti, grazie alle quali veniamo a constatare l’esistenza di parecchi romanzi perduti, o conservatici soltanto in redazioni tarde, e talora solo in lingue forestiere. Però, se una cosa rincresce, gli è che di cotesti cataloghi non s’abbia maggiore abbondanza.

In Italia, nessun rappresentante veramente schietto ed antico [11] del genere fu ancora segnalato, ch’io sappia. Un servigio analogo rendono presso di noi le Sale, i Padiglioni, gli addobbi delle piazze [12], schiatta numerosa, che vien presto a stringer coll’altra legami di cognazione. V’ha dunque somiglianza tra i ragni; ma son diverse le radici. Le rappresentazioni son mute: anziché all’orecchio, si rivolgono all’occhio, ricamate, tessute, dipinte, scolpite. Però non riuscirà, spero, sgradito il sentire anche da noi qualche voce viva, che paja in certo modo eco di quelle che si sono ascoltate di là dalle Alpi. Son due le composizioni ch’io pubblico. Differiscono quanto mai per contenuto, forma, provenienza. Però le separo, e faccio precedere a ciascuna uno studio speciale.

I.

IL CANTARE DEI CANTARI.

Comincio dal Cantare dei Cantari: è questo un titolo di mia invenzione, e che sa di bisticcio. Ma esso mi parve esprimer bene il contenuto; e inventare era una necessità, dacché i manoscritti non prendevan essi la parola. Ossia: una nota premessa alla composizione in uno dei codici, avrebbe potuto fornire una designazione per il genere: „O tu letore, che diletto ài preso della inantipasata storia del serenisimo poeta Vergilio, no avere a sdegno di legere la sottoposta frottola. E perch’ella sia alla venerabile storia apichata, non sere vergogna, perch’ella fa ragione d’essere in vivanda come la carne seccha col chapone." Se non che, manifestamente, si esprime qui un giudizio troppo subbiettivo, perché si possa affidarcisi. Che il genere a cui spetta la composizione nostra sia quello dei cantari, par manifesto. Con un altro nome poteva designarla l’autore, ma non altri che lui. È la determinazione speciale, che propriamente ci fa difetto.

Comunque, noi abbiam qui un poemetto in ottava rima, di 59 stanze, semplicissimo nell’orditura. Il cantatore, che parla o che è introdotto a parlare, dopo un’invocazione ed un poco di prologo, fa passare capo per capo la sua mercanzia davanti agli occhi del pubblico, affinché questi, fra tante belle cose, scelga quella che più gli piaccia:

Scegliete omai la qual più vi diletta.

E, come si vede, la forma meno complessa, che si possa dare nel genere: quella che ci è sembrato di dover supporre alla radice. E non solo tutto si riduce qui ad una semplice enumerazione, ma altresì ad un’enumerazione di cose d’una medesima specie. E ciò è ben naturale. Nella Toscana, a cui appartiene il poemetto, il mestiere del cantastorie si è appartato affatto da quello del giocoliere. Dall’albero d’un tempo s’è tolto un ramo, che è diventato pianta esso stesso. E cotesti cantambanchi, cantastorie, cantafavole, non pajon esser più quella genia perpetuamente girovaga, ch’erano i loro antenati. Si trasporteranno bene talora dall’una nell’altra città; non mancheranno di accorrere a questa fiera, a quella festa; ma poi, chiusa la stagione, se ne ritorneranno a casa loro. Hanno una casa: è detto tutto.

Nella sua enumerazione, il rimatore procede con ordine sistematico. Comincia dalla creazione, e si conduce colla storia sacra, fino a papa Silvestro. Indi passa ai fatti mondani Ecco in primo luogo le storie di Troja, alle quali si rannodano, a guisa d’appendice, quelle di Enea e de’ suoi discendenti, fino a Numitore. Vien quindi Tebe; poi Teseo; indi eroi ed eroine delle Epistole ovidiane. Dopo di ciò si ritorna all’Italia, e s’accompagnano i Romani dalla fondazione della città a Costantino. A questo punto si balza alla Tavola Rotonda: prima la Vecchia, e poi la Nuova. Naturalmente, al Ciclo Brettone tien dietro il Carolingio. Sbrigato questo, la processione vera sarebbe terminata. Ma c’é ancora della gente che non ha potuto prender posto tra i suoi contemporanei e concittadini; restano in particolare gli scrittori. Costoro seguon qui dunque in un loro drappello; e sta bene. Sta male invece che si sia lasciato alla coda Alessandro, il quale, per verità, meritava bene d’essere accompagnato, a qualunque costo, ad un posto più onorifico. È la sola anomalia di cui si possa muover rimprovero all’autore.

Si può certo affermare anche alla prima, senza paura d’ingannarsi, che nessun cantatore poteva esser fornito di una memoria così ferrea, da saper recitare, ad ogni richiesta, qualunque storia fosse piaciuto al pubblico di preferire, in questo sterminato repertorio. Non ci adombriamo per ciò. L’invito a scegliere è un pretesto per l’enumerazione; precisamente come ci è sembrato dover pensare dei rimproveri al giullare Cabra e della rissa tra i due bordeor rivali. Il rimatore ha scelto questo soggetto invece di un altro; in luogo di trattare un argomento speciale, gli è piaciuto stavolta di fare una rassegna generale di tutti gli argomenti.

Ma si domanda, se il suo sia un indice reale, oppure fittizio; se, cioé, tutta la roba, che si vien proponendo agli ascoltatori, esistesse davvero rimata, oppur no. Qui sta il gran punto; giacché dipende da ciò il sapere, se le parole del nostro autore valgano ad attestarci esistiti in antico certi individui, adesso irreperibili. La risposta non può esser dubbia. Dovrebbe bastare a chiarirci quella cinquantottesima stanza, dove il rimatore, pour la bonne bouche, offre al suo pubblico nientemeno che venti e più scrittori latini d’ogni specie, parecchi dei quali ben poco disposti a lasciarsi travestire in rima e recitar sulle piazze:

Tito Valerio e Senaca morale,

E Curcio, Svetonio e Frontino,

Julio Celso e ’l nobil Marzïale,

Claudïano, Orosio e Martino,

Gallo, Terensio, Persio e Giovanale,

Jusefo, Apulegio e Solino,

Plutargo e Alano, e Utropio antico

Vi rimerò più dolce ch’io non dico [13].

Similmente, nessuno vorrà prestar fede ai quattrocento cantari della Tavola Vecchia (st. 41), e meno che mai ai mille cento e sei - scusate del poco - delle storie di Roma (st. 38). È troppo chiaro che queste sono per lo meno esagerazioni poetiche.

Ma, dir talvolta qualche bugia, non significa mentir sempre. Soprattutto poi nel caso nostro, dove la finzione non sarebbe potuta venire, nonché alla bocca, al pensiero, se non l’avesser preceduta e suscitata molte verità. E dicerto non abbiam bisogno delle parole del nostro autore per sapere assai copiosa la letteratura che serviva alla recitazione sulle piazze. Però non ci è difficile intendere il vero stato delle cose. L’autore vuol fare una corsa attraverso alle storie, prendendo materia dai cantari [14]. Se non che, egli ha un bel fare! cotesta letteratura presenta non poche lacune, talvolta precisamente colà dove il silenzio parrebbe colpa imperdonabile. Come si potrebbe tollerare di passar sotto silenzio gran parte delle cose romane?

Le storie di Roma son per certo

Con verità d’ogni cantare il fiore,

E ogni talïan col viso aperto

Di Roma doveria far senpre onore;

Inperò ch’ogni bene e ogni merto

Che Itaglia à di senno e di valore,

Roma gliel dié . . . . . . . (St, 38).

Dunque in questi casi è troppo naturale che l’autore si tragga d’impaccio supponendo opere non mai esistite. E allo stesso modo non si può meravigliarsi se, anche rispetto alle materie romanzesche, egli comprenda nella sua rassegna personaggi e fatti, che propriamente gli dovevan solo esser noti da libri in prosa. Il ciclo poetico non è compiuto: il rimatore lo integra colla sua fantasia. Da cotesto punto di vista s’intende adesso assai bene anche l’enumerazione di autori latini, citata poc’anzi, ed inaudita di certo per il pubblico delle piazze. Non si potrebbe dire d’aver parlato abbastanza di Roma, se, insieme coi suoi guerrieri, coi suoi uomini di stato, non si rammentassero i suoi principali scrittori. E poiché l’intendimento del rimatore è rivolto alle storie, è ben naturale che abbian soprattutto ad esser ricordati gli storici [15]. Costoro apparivan come gli araldi di quel mondo antico, e romano in ispecial modo, che era per il poeta preoccupazione principale. Sicché le indicazioni contenute nel cantare possono veramente esser preziose per noi. Solo bisogna procedere con criterio, e saper distinguere il reale dal supposto. In parecchi casi la distinzione non è difficile. Delle affermazioni determinate, che stanno nei limiti del verosimile, possiam fidare: in tutto e per tutto. Se ci si parla di un poema di dieci, di quindici canti, stiam pur sicuri che, se anche non si ritrova più, esso c’era davvero.

Quando l’autore vuol inventare, le sballa grosse addirittura. Bensì, a meno che non soccorrano altre fonti d’informazione, riesce quasi impossibile il decidere in quei casi, dove si accenna al fatto, al personaggio, senza precisar nulla, quanto all’opera. Ivi la fonte può esser del pari poetica, o prosaica. Vuol dire allora che la menzione del rimatore dovrà tener desta in avvenire la nostra attenzione sopra un certo soggetto; e intanto ci contenteremo di conclusioni caute e limitate.

Ciò tutto in genere. Ma vediamo di scendere a considerare ad una ad una le indicazioni più particolarmente notevoli. Esse vengono di per sé a scompartirsi in quattro categorie, le quali danno poi luogo a suddivisioni minori. Sebbene cotale ripartizione appaja di già anche dalla breve esposizione del soggetto, fatta poco addietro, gioverà nondimeno metterla qui sotto forma più precisa ed evidente. Eccola dunque:

 1. Storia sacra:

        a) del Vecchio Testamento (st. 6-8).

        b) del Nuovo  Testamento (st. 9-10).

2. Storia profana:

        a) di Troja (st. 11-19).

        b) di Tebe (St. 12-25).

        c) di Teseo e d’altri eroi (St. 26- 28).

        d) di Roma (St. 29-38).

3. Cicli cavallereschi:

        a) della Tavola Rotonda (st. 3947)

        b) di Carlo Magno (st. 48-56)

4. Appendice (st. 57-58).

A ciascuna categoria risponde una classe speciale di composizioni. Seguiremo pertanto metodicamente questo specchio. Al quale se s’aggiunga un proemio (st. 1-5) ed un epilogo (st. 59), s’avrà chiara dinanzi agli occhi tutta la struttura del poemetto.

1. In fatto di storia sacra del vecchio Testamento, il rimatore menziona espressamente nella st. 8 un poema in ventotto canti. Non so darne notizia, e potrebbe anche esser scomparso per sempre. L’estensione della materia mi rimane alquanto dubbia. Le parole del testo son tutt’altro che lucide. Chi le prendesse a rigore, dovrebbe ritenere che il poema riguardasse soltanto le imprese di Davide. Ma ventotto canti, per un soggetto siffatto, son troppi davvero. E allora nascerebbe l’idea che Davide costituisse solo il punto di partenza, sicché all’opera medesima sieno da riferire anche le indicazioni che seguon poi nella medesima stanza. Ma ecco essercene talune tra queste, le quali riguardano un’età anteriore: Sodoma e Lot, Mosé. S’aggiunga che anche prima di ricordare i ventotto canti, il poeta ha menzionato fatti concernenti pur Davide, e che quindi parrebbero aver dovuto trovar luogo là dentro: Savolo e’ Filistei: Però questa sembrerebb’essere l’ipotesi più probabile: che il poema perduto, o smarrito, narrasse tutta la storia del popolo eletto, dal principio del mondo. Con tutto ciò è pur possibile che intorno alla creazione, ai fatti di Abramo, di Giuseppe, di Sansone, il rimatore conoscesse anche altre composizioni, alle quali da principio avesse volto il pensiero. Allora si spiegherebbe in maniera più decorosa per lui, come venga così tarda, e così poco esatta, la menzione del poema.

Del quale sarebbe desiderabile poter indagare le fonti. Piuttosto che alla Volgata, penserei alle versioni poetiche in lingua d’oïl. Ben cinque ne troviamo enumerate dallo Stengel, nelle Mitteilungen aus französischen Handschriften der Turiner Universitäits-Bibliothek, p. 19; tre delle quali già descritte da P. Paris, nei Manuscrits françois de la Bibliothèque du Roi, III. 360, VII. 197 e 209. E queste traduzioni generali ci rappresentano solo una parte delle emanazioni bibliche che s’hanno nell’antica letteratura d’oïl. Dei soli libri dei Maccabei si conoscono, già o intere, o frammentarie, tre altre speciali parafrasi [16].

Per ciò che riguarda il Testamento nuovo, il rimatore accenna le materie, senza espliciti riferimenti a questa o a quell’opera. Nondimeno non dubito neppure, che là, dove egli tocca della Passione (st. 9), non avesse la mente al notissimo poemetto, che incomincia

O increata maestà di Dio,

O infinita, eterna potenza.

Lo si incontra in un grandissimo numero di codici, che ce ne attestano in modo non dubbio la straordinaria diffusione, prima assai che la stampa ajutasse pur essa a propagarlo. Dell’opera e delle questioni critiche a cui dà luogo, ha dissertato con molta diligenza il Palermo [17], al quale pertanto mi giova di rimandare chi desideri ampie informazioni in proposito. Qui basteranno pochi e brevi cenni.

Il poemetto, anonimo nella maggior parte dei manoscritti, fu attribuito al Boccaccio dal Mehus [18], e da altri dopo di lui, sull’autorità di un codice riccardiano del secolo XV. A torto, di sicuro. Ma anche l’attribuzione a Niccolò di Mino Cicerchia da Siena, posta innanzi da un moderno editore, il canonico Moreni [19], o per dir meglio dal codice senese I. VI. 9, su cui l’edizione fu condotta, rimane scossa pur essa, dopo le disquisizioni del Palermo ed i confronti da lui istituiti con una redazione più breve, che gli stava dinanzi in un manoscritto palatino [20]. Nello stato attuale delle informazioni, parrebbe realmente da conchiudere che il Cicerchia non facesse se non rimaneggiare, accrescendola di un’ottantina di stanze, un’opera già esistente. Il rimaneggiamento, favorito forse da circostanze a noi ignote, ma insieme pur anche dalla sua maggior lunghezza, poté far fortuna, e cacciare oramai nell’oblio la redazione primitiva [21]. Tale mi sembra il giudizio più verosimile. Non intendo peraltro di metterlo innanzi come una convinzione scevra da dubbi. Bisognerebbe per questo che esso movesse da una conoscenza più piena dei materiali su cui cade la questione.

Ma più che di ciò, a noi importa qui di conoscere, a qual tempo risalga cotesta Passione. Un elemento positivo ci è fornito dal codice senese, dove si legge: “Comincia la passione del nřo signore iħu xpo, conposta et ordinata in rima per nicholo di mino cicerchia da siena. Negli amni del signore M.ccc.lxmj0.” Questa data merita tutta la nostra fiducia; ché il manoscritto dal quale l’abbiamo, oltre ad esser rispettabile per antichità - se mai non fosse del secolo XIV, spetterebbe almeno al principio del XV - acquista gran peso dall’essere appartenuto a quella medesima compagnia di Disciplinanti della Madonna, a cui sappiamo ch’era ascritto il Cicerchia [22]. Costui lavorava dunque nel 1364. Ciò significherebbe che la composizione originaria s’avrebbe a riportare più addietro ancora; e forse di molti anni.

Alla Passione si rannoda come seguito una Risurrezione [23], opera ancor essa del secolo XIV, e anch’essa tanto diffusa, che appena c’è pericolo di errare supponendola nota all’autore del Cantare, e implicitamente nominata da lui, quando dice, . . . ’l suscitar che ci à salvati. L’andare in cielo ... (st. 9-10). II poemetto principia appunto colla risurrezione e termina coll’ascensione. A differenza della Passione, si divide in cantari, e ne novera due, che, insieme, ci danno una somma di circa 170 stanze [24]. Questa discrepanza contribuisce a farcelo giudicare opera d’altro autore, nonostante che lo si trovi molto spesso riunito colla Passione nei medesimi codici e nelle medesime stampe [25].

Per la vita anteriore di Cristo, non s’hanno composizioni in ottava rima che abbian raggiunto il medesimo grado di popolarità, o che anche, solo vi sieno andati un poco vicini. Certo né l’una cosa né l’altra si può dire di una redazione, che a me non è occorsa fino ad ora se non in un codice magliabechiano (P. II cod. 71) [26]. La mano accusa il secolo XIV. Anziché in canti, l’opera si divide in capitoli, di lunghezza molto disparata. Alla parte narrativa s’inframmettono lunghe meditazioni. E non s’hanno né le solite invocazioni, né i soliti commiati. Però sarebbe evidente, anche se non ci fosse detto [27], trattarsi qui di cosa destinata alla lettura privata, non già alla pubblica recitazione. Il libro, secondo appare da una sua introduzione, pur essa in rima, fu composto ad istanza di un amico, al quale è diretto. Sono ben stanze 471, che, movendo da una meditazione chessi può fare del tempo inanzi alla ’ncarnazione e dalla vita giovanile della Vergine, ci conducono fino alla soglia della tragedia cristiana. Più in là era inutile darsi la briga di comporre. C’era la solita Passione e la solita Risurrezione, che difatti vediamo trascritte anche nel nostro codice, affinché servano di complemento.

Tutta quanta la vita sembra nonpertanto aver abbracciato un altro anonimo, autore d’un poema, che io conosco solo per il pochissimo dettone dal Palermo [28], dietro la scorta di un codice mutilo. Riproduco gli ultimi versi, e insieme la nota finale, che dà il numero delle stanze e dei cantari, e un’idea della materia:

Che mandi per la sua misericordia

Al mondo pace divitia et concordia.

“Qui finisce la incarnatione ella nativitade ella vita del nostro Signore Yhu xpo, et simile la morte et la resurrezione, et come tornò in cielo al Padre suo, con gran victoria, versificata et riducta in rima, [29] le quali sono stanze secentottantanove cantari quattordici.”

Ma anche il parlare di Maria implicava di necessità che si narrasse di Cristo. I soggetti - e già lo si è veduto anche poc’anzi - s’intrecciano indissolubilmente l’uno coll’altro. Però mi piace ricordare di volo anche una vita della Vergine, che in un codice senese del secolo XV [30] conta 137 stanze [31].

Poiché sono in mezzo a queste materie, rammenterò anche un poemetto, in cui si parafrasa la profezia di Cristo intorno al giudizio finale. Si compone di 57 ottave, che cominciano:

Quel verbo vero Iddio, mente ’ncarnata

Chellattò quella Vergine Maria . . .

Le frasi che s’hanno in principio ed in fine, mostrano che abbiam qui un’opera destinata alla recitazione in pubblico. E l’autore non mira solo all’utile morale degli ascoltatori; egli non si perita di chiamare Di cotal dì la dilettosa storia le terribili cose che ha avuto ad esporre! - Conosco di questa composizione un esemplare riccardiano, non posteriore, forse, alla meta del secolo XIV [32]. Ed è una copia, sebbene buona assai. Una nota finale, della stessa mano che il resto, sembra darci il nome dell’autore: Frianus de via scĩ Galli florentinus Jnposuit hoc opus. Amen deo gratias. Dove il codice ha Jnposuit, con un I lungo, sarà ben da leggere conposuit. Probabilmente il trascrittore avrà inteso male un’abbreviazione del suo modello [33].

Sul medesimo soggetto del Giudizio esiste pure un altro cantare, dove la rappresentazione dell’estremo giorno non è più posta sulla bocca di Gesù. Eccone i primi versi

Divina maestà, sedia superna,

Col tuo dolce figliol duca del porto ... [34]

A questo ciclo cristiano appartiene anche un soggetto, che il nostro rimatore, fedele all’ordine cronologico, menziona assai più innanzi, nella stanza 36. Ivi, trovandosi a percorrer la serie degl’imperatori romani, egli dice di voler anche esporre

Che per Cristo il gran Vespasïano.

Or bene, di questa leggenda, ben nota all’antica poesia francese [35], oltre a differenti versioni prosaiche [36], abbiamo in Italia anche una redazione in ottava rima [37], più volte stampata, [38] e che s’incontra altresì in un numero abbastanza ragguardevole di manoscritti. Si compone di 4 cantari, con 184 stanze all’incirca. Principia:

O degli eterni lumi chiara lampa,

O fonte di sprendor di vita eterna,

O guidator del ciel colla sua stampa,

Rettor di quella stella che governa ...

2. Entriamo nel mondo profano. Qui, ecco affacciarcisi quasi subito [39] le storie di Troja. II rimatore cita una redazione in 32 cantari (st. 12), che muove da Lamedon e dall’impresa del vello d’oro, come il Roman de Troie di Benedetto da Sainte-More, e l’Historia trojana di Guido delle Colonne [40]. Non ne ho notizie. Caso mai se ne rinvenisse anche solo il principio, sarebbe facile identificarla, dacché il nostro autore ebbe la buona idea di indicarci specificatamente, sebbene forse con un po’ di confusione, il contenuto di ciascuno dei tre primi canti.

Ma pur un’altra versione conosce il poeta, la quale invece prendeva le cose meno di lontano (st. 14). Questa ancora, se badiamo alle parole sue, doveva essere assai divulgata:

Molti comincian da’fatti di Troja,

Da Paris ch’Alesandro fu chiamato . . .

Qui siam più fortunati. Se non con certezza, certo con molta verosimiglianza, possiam credere di ravvisare la redazione a cui s’allude, in un poema che ci è pervenuto, almeno in gran parte.

Esso è contenuto in un codice appartenente alla Laurenziana, e precisamente nel mediceo-palatino 95 [41]. La scrittura è del declinare del trecento, o dei primordii del quattrocento. Le prime sedici carte si son perdute [42]; e con esse, oltre ad una o più altre composizioni, tutto il nostro primo canto ed i primi quattro versi del secondo. Dobbiamo esser grati all’amanuense, che, avendo numerate progressivamente tutte le stanze dal principio alla fine dell’opera, ci permette di stabilire con certezza che il canto perduto si componeva di 49 stanze. A noi ne restano 411 intere ed una mezza, ripartite in nove cantari [43].

Questo poema deriva di certo, o immediatamente, o mediatamente, dal Roman de Troie di Benedetto. La parte conservata risponde all’incirca ai vv. 6131-22160 dell’edizione dataci dal Joly [44]. Si comincia colla rassegna dei Greci, e si termina colla morte d’Achille. Qui non finiva peraltro il poema, nonostante ciò che l’amanuense - un cotal Antonio, poco diligente e meno esperto, pur troppo - scrisse sotto alla sua ultima ottava: Finito libro referamus gratia xpo. Ce lo dice chiara cotesta ottava medesima

Tuta la storia non potrie narare

Sicome i Greci seguitaron poi;

Dirovi dietro inn·un altro cantare,

Però che gli uditor ponto non noi,

Com fêr [45]  la sepultura edificare

Al buon Achille tuti i Greci suoi.

Ma io mi voglio un po [46] dar diletto,

E po vi canterò di quell’ò detto.

Seguitavan forse due altri canti, in guisa che l’opera intera ne contenesse dodici. Probabilmente il copista aveva dinanzi un esemplare imperfetto [47].

Messa a paragone col testo di Benedetto, la nostra redazione appare senza confronto più breve. Gli è che in essa, oltre ad episodii e cose minori, son state soppresse di pianta la maggior parte delle battaglie. Così dal termine della prima si balza d’un tratto alle conseguenze dell’ottava, ossia ad Ettore, pericolosamente ferito, e ridotto a giacere e curarsi

Nella incredibil sala di belleza.

Il poeta dovette aver fretta di sbrigarsi. O forse - cosa insolita per verità a quel tempo e fra’ suoi pari - gli spiacque la monotonia di tanti e tanti scontri. Comunque, non si sforza di dissimular la lacuna. Ché, al principio del terzo canto, egli stesso accenna, dietro la scorta del suo testo, come avanti alla battaglia che ora si viene a narrare e nella quale Ettore avrà morte, ce ne sia stata un’altra, sanguinosissima:

(III. 2)     

Ver è ch’Ettorre fé innanzi a quella

Una battaglia crudelisima molto

La qual durò dal levar della stella

Innfin che ’l sole tramontò sipollto

Dares iscrise, che vi fu a vedella,

Ch’Ettor ebe dua piaghe nell vollto,

E impiù parte della sua persona;

Ma egli uccise tre re di corona.

Quivi fu la crudeli uccisione

Di re e conti e prencipi e baroni,

E molti cavalier di più ragione;

Inncredibil sarien nostre intenzioni;

Onnde i Troian tornati allor magione,

I Greci ritornati a’ padiglioni,

Vegiendo ongnuno quant’erano ofesi,

Sì fermaro una tregua per sei mesi.

Questa seconda stanza darà un’idea assai poco favorevole dell’autore. Posto anche ch’egli possa meritarsela, sarebbe sempre un fargli gran torto giudicarlo sopra dati così manchevoli; tanto più che la copia è manifestamente molto scorretta. Però stimo opportuno di riportare almeno un saggio alquanto più esteso. E sarà il brano che viene immediatamente dopo la due ottave ora riferite.

(III, 4)

Ettor giaciea, guarendo suo ferite

Nella inncredibil sala di belleza,

Innsu dodici pietre istabilite,

Ed era venti braccia per longheza,

Tuta adornata a pietre margherite,

La quall rendea mirabile chiareza.

E di sopra era di fino corallo,

E una parte di nobile cristallo.

5.

E ’ntornno a quello prezioso volume

Eran fini carbonchi ongni cantone,

Una colonna che renndeva lume,

Come fa ’ll sol nella chiara istagione.

Dalla parte di sopra, per costume,

Una figura d’oro, per ragione,

La quale iscioglieva per magica arte

La cagione de’ sonngni in ongni parte.

6.  

Le porte della sala era diamante

Lavorato con or mollto perfetto;

Lo letto ove dormia ’l baron costante

Dir noll potrei, ill prezioso letto;

E sennpre gran reine avie davanti,

Chello serviano, dandoli diletto;

Quali sona arpe, e quale alltro istormento,

Cantandoli canzon di valimento.

7.

Infra l’alltre lucieva come istella

L’alta reina Elene che ’l serviva,

Casandra e Pulisena, sua sorella,

Anndromaca dallui non si partiva,

E Ginosia, ch’era cotanta bella,

Sennpre ridendo, che d’amor fioriva;

E medici sovran e vertudiosi

L’ongievan con unguenti preziosi.

8.

Lo re Priàmo e monti alltri baroni

E’ fratelli venieno a visitallo.

Conn bracchi, collevrieri e con falconi

E colle facie liete a confortallo;

Chi con lionte, elliopardi, ellioni,

Ne vinian al baron per onorallo.

Papagalli, verzepe ellionoro

Cantavan dollci versi in cabie d’oro.

9.

Era quasi un mezzo paradiso

El luogo ed il diletto ch’avea Ettorre,

E guarì delle piaghe dell suo viso

Con margine de non poterve aporre;

E ’ll termin, ch’era stato allora assiso,

Della triegua, come a caso corre;

Lo tennpo vola tosto dei sei mesi,

Di che i Greci era lassi e ofesi.

10.

Ancora stabiler quindici giorni

Dopo i sei mesi inanzi all’altro esenbro,

E sì conposer ch’ongni giente torni

All canpo, se la istoria ben rimenbro.

Inn questo mezo e baroni adorni

Ciascun provede ad armare suo menbro.

I capitan, che veggon tosto ill termine,

Tremava come fa in acqua ill vermine.

11.

La notte innanzi all doloroso giorno

Venne ad Andromaca una visione,

Dormendo con Ettor nel letto adorno,

Ch’ella il vide mangiar ad un dragone;

E alltre mollte fiere a questo intorno.

Ispaventossi a quella openione.

Così ispaventando con gran grida,

Destossi Ettor alle suo grande strida.

12.

Lo qual la domandò, e quella disse

Quel che veduto avia nell sonno amaro.

Con gran singhiozi, collagrime afisse,

Abraciandol dicie, Sinngniore caro,

Chella matina allo stormo non gisse,

Se e’nonn vol morir senza riparo.

Allora Ettor rispuose co ranpongnia,

E disse: Il savio om non cura songnia.

13.

E fatto giornno la donna levossi,

Che già per Troia sentie sonar le tronbe,    

E dello re Priàmo a’pié gitossi,

Senndo presente la reina Ecuba.

E’re, vegienndo lei, maravigliossi,

Per ch’ella piangie molto ne li gonbra.

E disseli conn doglia e con tormento:

Donna, perché fa’tu sì gra’lamento?

Il confronto col luogo corrispondente del Roman de Troie (v. 14553-15286) mostra somiglianze strette e differenze assai considerevoli, anche indipendentemente dalle proporzioni diverse.

Non è dunque improbabile che tra le due versioni ne stia di mezzo una terza  se pure non più d’una, forse franco-italiana. Ma di ciò dovrà occuparsi chi prenda a studiare in una monografia le vicende del ciclo trojano in Italia. A me basta qui di dare, poiché mi si offre l’opportunità, ciò che mi par esservi di più utile nelle notizie che son venuto raccogliendo.

Affinché della materia del poema si possa avere un’idea più completa, avvertirò che anche il contenuto del primo canto, viene ad esserci indicato in parte dall’ottava di rappicco al principio del secondo

II, 2.  

Erano al campo le schiere troiane,

Sicome dissi nell cantar primiere,

Chiamando i Greci con vocie vilane

Arditi com a lepri va levriere.

E ’l vennto, che puliscie l’aria e ’l mare,

Facieva isventolar le lor bandiere.

Le spade inngnude ell’arme reluciente

Isprendévan come sol ne l’uriente.

Ora, chi confronti il Roman de Troie e rifletta che nel secondo canto abbiamo la rassegna particolareggiata de’ Greci, non dubiterà che nel primo non si facesse un’enumerazione analoga dell’esercito dei difensori. Quanto al rimanente del cantare, non poteva narrarvisi altro, fuorché i motivi prossimi ed il principio della spedizione. Per le cause remote, ossia per i fatti degli Argonauti, non c’era spazio di sorta. Sicché, sotto il rispetto del cominciamento, il nostro poema sembra veramente coincidere colla seconda fra le redazioni, a cui allude il Cantare dei Cantari.

Per ciò che riguarda l’età della composizione, ho fortunatamente un indizio ben più certo e preciso, che non sia la scrittura dal codice. Esso mi è fornito da uno zibaldone magliabechiano (Cl. VII. Cod. 1272), dove (fo. 84-85), insieme con molt’altra roba, trovo un frammento del nostro stesso poema. Son ventuna stanza e mezza, e appartengono al canto ottavo. Vi si narra la morte e la vendetta di Troilo. Orbene, sui fogli seguenti si leggon della stessa mano molte scritture precedute da una data, la quale, almeno quando non si tratta di lettere, indica senza dubbio il giorno della trascrizione. Così al fo. 91 vo. s’ha, Al nome didio Ame adj xvij di marzo 1369; e sotto alcune ricette. Al fo. 92 vo., Al nome dj djo Ame adi xviij di luglio anno 1369 ; e poi segue un trattatello geografico. Solo un pochino più tardi lo zibaldone servì come da copialettere; peraltro anche le date della corrispondenza epistolare son tutte vicinissime tra di loro, e tutt’altro che lontane dalle prime: 8 marzo 1371 (fo 86 ro.); 26 gennajo 1371 (fo. 94  vo.); 18 febbrajo 1371 (fo. 95ro. ), ecc. Però è ben certo che anche il frammento trojano fu trascritto in quel torno medesimo, e noi siam sicuri d’esser nel vero affermando il poema anteriore al 1370, anzi, al 1369. Senza questa prova di fatto, la data che vien così ad apparirci un minimum, ci sarebbe forse parsa un maximum discretamente arrischiato. Però essa riesce importante per la storia della nostra epica popolare, e comincia a far penetrare un po’ di lume in una cronologia fino ad ora tenebrosa. Fortunatamente non sarà questo il solo spiraglio, per dove qualche raggio di luce verrà a cadere sulla materia.

Più recente d’assai è senza dubbio una terza versione, che non fu conosciuta dal nostro rimatore, né, credo, poteva essere, anche solo per ragione di tempo. Essa non mi è nota altronde, che da un codice senese [48], finito di trascrivere ai 15 di Novembre del 1438 in Castel del Piano, da un cotal Gherardo [49]. I canti sono quarantatrè; le stanze 2049: somma abbastanza ragguardevole. Qui la tela abbraccia anche l’impresa degli Argonauti, ossia s’accorda in estensione col Roman de Troie, o, per dir meglio, coll’opera di Guido delle Colonne. E invero l’autore non fece se non ridurre in versi - con una certa libertà, beninteso, di soppressioni e d’aggiunte - il libro del Giudice Messinese, probabilmente sopra una versione volgare.

Ecco qualche saggio. E anzitutto le prime ottave

A ciò ch’io possa ben con linghua sciolta

Mèctar per rima la veracie storia,

Sì come la gran Troia fu già tolta

Et morto Laumedon di tanta gloria,

Et come fu rifatta et poy ritolta

Per minister dell’alto Re di gloria,

Et chosi luy io chiamo et senpre invocho

Sì chome intendarete in questo luocho.

Glorioso Signiore, Idio superno,

Che cielo, terra, mar, ghuida et conducie,

Et per chavarci delle pene [50] d’imferno

Mandasti il tuo figliuol, sovrana luce,

Nella vergin Maria, s’i’ ben discierno,

Et per ciò, padre mio, ghuida et conducie

La linghua mia, acciò ch’io dica il chome

Di Troya fu abassato il suo gran nome.

Trovo che in Grecia, molto anticamente,

Et nele parti dela gran Tesaglia,

Fu uno Re magnianimo et possente,

Et redoctato e famoso in battaglia.

Pelleo fu chiamato dala giente,

Prudente molto et baron di ghran vaglia;

Et manteneva assay rocche et ville

Chostuy fu padre del valente Acchille.

El quale Acchille era allor giovinetto,

Sicché non era anhor d’arme portare;

Ma il Re Pelleo, chome trovo decto

Avia un suo nipote d’alto affare,

Huom valoroso, ardito et perfetto;

Dell’arme molto fu da redoctare,

Figliuolo da qui adricto ad Re Menonne;

Da ciasch[ed]un fu chiamato Jansonne.

Già queste due ultime ottave mostreranno chiara la derivazione. Si confronti il primo capitolo del primo libro di Guido. Aperto a caso il volume, prendiamo adesso un brano dal principio del canto II. Qui, mettendo a paragone la prosa (1. II, c. 23), troveremo ancor più stretti i rapporti

Io vi contay, signior, nel canto primo

Sì chome il Re Oete, baron franco,

Al gran Janson, sì come io vi rimo,

Non volse far di sua promessa mancho.

Allor Jansone, se io bene stimo,

Di luj honorare non si vedia stancho.

Et poj li fe asegniar nel suo palagio

Tutte le stanze ben che stesse ad agio.

Quando le mense furono parate,

Et venuta fu l’ora del disnare

Janson ed Ercul, con le sue brigate,

In sula mastra sala prese andare,

Là ov’è il Re di gran nobilitate

Chola sua baronia di grande affare;

Li quai  cortesemente il Re gli abraccia,

Lor ricievendo con allegra faccia.

Et per mostrare allor  maggiore honore,

Tosto mandò per una sua figliuola,

La qual, sicome mi conta l’autore,

Era più fresca che verde viola.

Et per tutto ’l paese, senza errore,

Più bella non avia che essa sola;

Vergin pulzella et unicha del padre,

Et rimasa gran tempo senza madre.

A compimento della notizia, riporto ancora le ultime stanze:

Pirro, figliuol d’Acchille, ancora uccise

El re Priamo di sì grande alteza;

Anchora dela vita egli divise

Pantasilea, di tanta forteza;

Anchora mo dela morte conquise

Cholei che piena fu d’ogni belleza;

Et di gran chastità ella fu piena:

Ciò è la nobil vergin Pulixena.

Diomedes uccise veramente

Re Ancipo di molto valore;

Ancora, dico, uccise ciertamente

Re Extenoy senza alcuno errore.

Re Protoneo uccise similmente,

Re Optimeneo, grande signiore.

Et questo basti a dir deli magiori

Morti a Troya, buon chombactitori.

Omay, signior, posare mi conviene,

Et far quj fine et puncto al mio tractato;

Et se ’l mio dir stesse meno che bene,

Prego ciascuno che m’abia schusato;

Perché, chi vuol rimare, el s’apartiene

Esserne più di me admaestrato ;

Et però, se c’è stato alcunn difecto,

Tucto el rimetto ad voi senza sospecto.

Cholui che fecie Cielo, Terra et Mare,

Et incarnò nela vergin Maria,

Et per noj volse la morte portare,

Per voler trarne fuor di tenebria,

E ’l terzo giorno anchor resucitare

Et a la Madalena sì apparia,

Vi salvi et ghuardj et sempre sia in aiuto.

Al vostro honore el Troyano è compiuto.

A queste versioni, e ad altre forse che non conosciamo, venne ad aggiungersene un’altra ancora, meglio favorita dalla sorte, se non dalla musa, siccome quella ch’ebbe l’onore di molte ristampe, a cominciare almeno dal 1491. La si attribuisce comunemente a Jacopo di Carlo, prete e tipografo fiorentino della fine del quattrocento [51]. Ma non errò l’Ebert, seguito poi dal Brunet, mettendo in dubbio siffatta attribuzione; la quale tutta si fonda sull’explicit della prima edizione a noi nota, e propriamente sopra certe parole di dubbia interpretazione e di più che dubbia attendibilità [52]. Errò bensì il dotto bibliografo, quando mise innanzi l’ipotesi, che il nome del vero autore ci possa esser datò da certe stanze, che manifestamente vengono a comporre un acrostico, e che da lui furono credute le ultime del Trojano. Esse costituiscono invece la chiusa di un altro poema, che si trovò opportuno di stampare di seguito al Trojano, senza titolo né distinzione di sorta. E così dai due poemi, il primo di 12, il secondo di 8 cantari, ne risultò uno solo di 20.

Questa seconda opera, se guardiamo alla protasi, può intitolarsi L’Aquila Nera. L’autore, inspirandosi manifestamente all’Alighieri [53], si propone di cantare come l’aquila nera in campo d’oro, che fé dominar tutto ’l mondo a suoi figli, venisse in Italia, e come per lei Roma fosse capo al mondo intero. In sostanza si prende a rifoggiare la materia dell’Eneide. S’incomincia per altro la narrazione più di lontano: da Anchise, che, andando ad una caccia, s’incontra la prima volta con Venere.

Spetta dunque all’autore dell’Aquila Nera il nome che si contiene nell’acrostico rilevato dall’Ebert. Questo nome si è quello di un Angelo di Franco, rimatore affatto ignoto, ch’io sappia, agli storici della nostra letteratura [54]. Forse adesso, che siam posti in avvertenza, riusciremo a trovar notizie anche di lui.

Lo stesso argomento, ma tenendosi forse un po’ più stretto al poema virgiliano, trattò in 24 canti il rimatore d’un’Eneida volgare, stampata a Bologna nel 1491, e che a me è nota soltanto dal pochissimo che ne dice il Quadrio [55]’, e dall’incipit riferito dai bibliografi [56]. Il Grion, che abbastanza stranamente confuse quest’opera coll’Aquila nera, ebbe ad attribuirla al già menzionato Jacopo di Carlo, sul fondamento di una caratteristica invocazione al beato Ubaldo [57]. Il fatto si è che quell’invocazione dà il diritto d’identificare l’autore dell’Eneida con quello d’un’Alexandreida, che si menzionerà a suo luogo; ma in pari tempo dissuade dal farne una persona stessa col prete e stampatore fiorentino, o con quel qualunque verseggiatore a cui s’abbia a dare il merito o la colpa del Troiano a stampa [58]. Ché, mentre nella prima ottava dell’Eneida ci si dice

Negli altri libri che ho fatto fin quine

Sempre ho chiamato con benigna festa

El mio beato Ubaldo,

il Troiano, che nulla ci dà il diritto di pretendere posteriore [59], e che, ad ogni modo, se opera di un medesimo poeta, sarebbe anteriore almeno all’Alexandreida [60], non sa nulla di cotesto santo.

Il toccar qui delle Eneidi in volgare non è fuor di luogo per noi. Ché anche il nostro rimatore, forse dietro la scorta d’uno dei poemi che gli avevan servito per le storie trojane, accenna, come complemento, la venuta del figliuolo d’Anchise in Italia, le guerre con Turno, la fondazione e l’accrescimento d’Alba (st. 18 1C)). Quindi non sarà inopportuno dir qualcosa d’un’altra Eneide in ottava rima, meno recente, ed ancora ignota.

Come il Trojano di cui s’é discorso poc’anzi, essa pure ci è conservata da un codice della Comunale di Siena (I. ITL 36). Al termine del poema si legge: Explicit Liber Virgilij de Eneydos quam ego Mattheus dominici de Corneto complevi manu propria die xvi. februarij Anno domini mccccli: tempore quo Serenissimus Romanorum Imperator Federigus erat in civitate Senarum, et etiam uxor eius Imperatrix. L’espressione manu propria ci potrebbe far credere d’aver qui l’opera di pugno del suo proprio autore. Sarebbe, secondo me, un abbaglio. Sebbene la copia sia, relativamente, corretta [61], non vi mancano tuttavia errori imputabili soltanto alla mano guastatrice di chi trascrive roba non sua. E poi in margine troviamo, della stessa scrittura che il resto, certe postille, che mal si potrebbero attribuire all’autore, e che sono invece naturalissime, dato un amanuense discretamente colto, qual era il nostro.

Il poema si compone di ventidue cantari, che danno un complesso di 974 stanze. Ascoltiamo l’introduzione:

Indarno s’afatigha veramente

Qualunque gratia vuole adimandare,

E non ricurre riverentemente

A quel che fece terra cielo et mare.

Et però prego lui humilemente

Che la sua gratia mi voglia prestare,

Per modo tal che ’l mio intelletto basti

A questo lavorio senza contasti.

E’ m’è venuto voglia co mia rima

Di ricitare una superna storia

Di que’ baron che fur di grande stima,

Enea troyan, signor di grande gloria.

Sì come scripse con pulita rima

E nel suo libro ridusse a memoria

Quel grande auctore, el qual fu mantovano;

Ciò fu Virgilio, poeta sovrano.

Queste parole proemiali ci faranno pensare d’aver qui una traduzione dell’Eneide, né più né meno. Proseguiamo qualche poco, e forse dovremo constatare che le cose stanno alquanto diversamente:

Principiando, dice questo auctore

Che poi che Troya fu conbusta tucta,

E’l grande Ylion con gran furore

Messo per terra et la città distrutta,

El grande Enea, duca di valore,

Con molta gente fece sua ridutta,

E vinti belle navi, com lui piacque,

Per voler navigar nell’altrui acque.

Per che, vedendo la città disfatta,

Con molta gente nel gran mar si mise,

La magior parte di nobile schiatta;

E menò seco el vecchio patre Anchise;

E sua famiglia, valorosa e atta,

Nel suo navilio da lui non divise;

E portò seco molto argento et oro,

E cose che valevan gran tesoro.

Li dii di Troya e tutto el sacramento

Portò de real tempio quel barone.

Le vele commisse al dubioso vento,

E ’n pelago di mar subito entrone

 Con molti gran baron di valimento,

Come Virgilio nel suo libro pone,

Confortando sua gente, el duca sagio,

Con prosperovol vento al  suo viagio.

Portò con seco allora el savio duca

El gran palladio, el qual fu senza stima,

Né lassò che valesse una fistuca,

Che non portasse, com dice la rima.

Ben par che ’l mar di lui tutto riluca,

Come l’auctor con sua pulita rima

Recita nel suo libro, el quale intendo

Tutto per rima venir distinguendo.

Alla ventura ne va quanto puote,

or qua or là, per l’altissimo mare,

Sì come la fortuna lo percuote,

Pur sempre attento potere arrivare

In qualche parte, com dice le note,

Per voler nuova città edificare.

E, come piacque alla divina gratia,

E’ capitò nel reame di Tracia:

Là ove tostamente prese porto;

E con molti baron tosto discese

Del suo naviglio per prender conforto,

E per una gran silva andar si mese

Con molti suoi baroni, a suo diporto,

Per quella selva, quale era palese.

Sì come conta questa storia bella,

Tutta era piena d’albor di mortella.

Allora el duca con suo destra mano

D’una gran pianta una verga rumpia,

E dela rumpitura, a mano a mano,

Usciva sangue, unde molto temiva.

Maravigliosi allora el Sir sovrano,

E ’n terra quella verga gittò via,

E rimanendo tutto stupefatto

Isbigottito  forte di tal fatto.

Non abbiam certo bisogno di proseguire di più, per accorgerci che questo non è già il testo di Virgilio, tradotto di latino in volgare, bensì i Fatti di Enea, ossia il secondo libro della Fiorità d’Italia di frate Guido da Pisa, recati di prosa in rima. Il verseggiatore ha un bel richiamarsi al poeta mantovano, come se lo avesse lì sotto gli occhi! In realtà l’Eneide originaria era per lui un libro chiuso con sette suggelli, e quelle citazioni finiscono oramai per arieggiare le invocazioni di Turpino presso i poeti cavallereschi. Perdonerei nondimeno ben facilmente, se scorgessi nel suo dettato un pochino di gusto e di vena poetica. Ma, pur troppo, non ne è nulla. Tutta l’arte si riduce a stiracchiare la prosa, perché abbia ad assumere, se non altro, le forme esteriori dell’ottava rima. Siamo allo stesso livello del Trojano senese; e punto non meraviglierei se l’autore fosse il medesimo. Certo un’età stessa produsse entrambe le opere: la prima metà  voglio star nel sicuro  del secolo XV.

Dopo queste informazioni, è sperabile che nessuno si dia la briga di mettere alla luce l’opera infelice del rimatore, fino a che non sia venuto il giorno che gli editori di testi antichi non sappiano più dove dar di capo. Però sarà bene aggiungere un altro brano, che serva di conferma alle cose dette. Prendo, si capisce bene, le ultime stanze, e prego di metterle a confronto coll’ultimo capitolo della prosa.

(l0. 122)

In questa parte dice el nostro autore

Che ’l duca Enea, baron naturale,

Tre anni tenne, el signor di valore,

In quel Lavino la sedia reale.

E  in capo di tre anni quel signore,

Secundo che scrive Juvenale

Là ove tracta d’Enea la morte,

Et di quella de Hercul tanto forte

Dicendo: Enea in un fiume fu anegato,

Et Hercule per fuco sene gio

Suso ale stelle, et Enea el pregiato

Similemente ancora lo seguio.

Ancora dico in questo mio tractato,

Acciò che voi sappiate con disio,

Che tutti i Re che in Italia regnaro

Re degli Latini sì si chiamaro.

Cioé, da Re Latino incominciando,

Per fino a Romol, dico certamente,

E quai quindici furo, a ben contando,

Conputandoci Enea veracemente.

Et questo titol vien rapresentando

Per amor di Latino Re potente,

Per cui amore siam dinominati

Noi Italiani, Latini chiamati.

Colui el qual per noi fu posto in croce

Et morto et sepellito el vener santo,

E ’l terzo giorno quel signor veloce

Risuscitò del monimento tanto,

El qual de’ritornar con alta voce

A giudicare el mondo tutto quanto,

Sì vi mantenga tutti in buono stato.

Al vostro honor finito è el mio tractato.

Tutto il valore del libro si riduce - oramai ognuno assentirà al giudizio - al fatto dell’esistenza, ed a quello della sua derivazione, che aggiunge un nuovo esempio alla storia delle evoluzioni della letteratura narrativa nei nostri primi secoli.

Alle Storie di Troja tengon dietro quelle di Tebe (St. 20). Il rimatore deve alludere ad un testo in prosa quando dice, E le storie di Tebe sono ottanta. Ottanta, saranno stati i capitoli. In prosa, conosco ancor io due testi. Entrambi sono in dialetto veneto; [62] e di ciascuno mi è noto un unico esemplare, alla biblioteca Marciana, Classe VI, codd. 7 e 50. Il secondo di questi manoscritti consta di 33 carte; l’altro, che racchiude la versione più importante anche come documento dialettale, del doppio all’incirca. Fino ad ora non ho esaminato da vicino il contenuto, sicché non posso indicare positivamente le fonti. A priori, tengo nondimeno come assai probabile che queste due versioni derivino più o meno direttamente dal Roman de Thebes, e che solo per mezzo suo, si rannodino col poema di Stazio. Per ciò che riguarda la data delle nostre copie, il codice 50 va assegnato senz’altro al secolo XV; quanto al 7, si riman dubbii tra i primordii di quel secolo, e la fine del precedente.

Ma l’autore nostro parla anche d’una redazione poetica in 36 cantari. Non so che ne sia avvenuto, né però potrei dire, se fosse meritata la lode che qui vediam darlesi [63]. Speriamo che sia solo smarrita; e intanto contentiamoci del cenno che n’abbiam qui, mercé il quale viene a colmarsi una lacuna della nostra antica poesia narrativa.

Al ciclo tebano si riconnettono i fatti di Teseo. Intorno all’eroe ateniese il rimatore conosce ben ventisette cantari. Dodici, Conposti per messer Giovan Boccaccio, son ben noti anche a noi. Ma ne restano sempre quindici  l’altretanti del testo non va preso alla lettera  che sono affatto sconosciuti fino ad ora, e che saran forse perduti per sempre. Tanto più mi spiace la perdita, inquantoché trattasi d’un’opera del nostro medesimo autore. Almeno, a me pare che ciò si rilevi chiaramente dalle espressioni del testo:

E dopo questi dironne altretanti

Ordinati per un che qui mi taccio.

Prende Teseo, con vago sermone,

Lasciando Emilia, Arcita e Talamone.

Questo canto esiguito è sì giulivo,

Ch’ogniun per sé me ne farà un piego.

Se volete, dirò ciò ch’io ne scrivo . ...

(St. 27-28).

Cotesto poema, qualunque poi ne fosse il valore intrinseco, avrebbe dunque per noi un interesse peculiare. Soggetto principale doveva esser l’impresa di Creta. L’uccisione di Androgeo e la vendetta che ne prese Minosse, unici fatti qui ricordati espressamente, non potevan costituire di certo altro che l’atrio dell’edificio.

E qui il rimatore passa ad offrire al suo uditorio le Eroidi di Ovidio (St. 28). Suppongo che ciò ch’egli offre sia la redazione in ottava rima, che Domenico da Montecchiello compose sopra una versione prosaica. L’opera, stampata più volte, si trova, o tutta o in parte, anche in parecchi manoscritti [64]. Di cotesto Domenico gli storici della letteratura parlano assai inesattamente. Gli errori furono rilevati e corretti dal Palermo [65], sicché sarebbe adesso cosa superflua ritornar qui sul soggetto. La conclusione si è solo, che noi non sappiam nulla dell’autore, oltre a ciò che egli stesso ci ha detto di sé nella penultima ottava:

Per Gesù Cristo ti prego, lettore,

Che vogli lui con effetto pregare

Per la salute del compilatore,

El qual ridusse in rima per volgare.

E se del nome suo nascesse errore,

Per questo modo si può dichiarare,

Che Domenico fu da Montecchiello,

El monco, zoppo, povar vecchiarello.

In un solo verso ci si fa qui un ritratto molto interessante per noi e per la storia della nostra letteratura popolare. Ecco a quali umili verseggiatori si devano bene spesso le opere, che un tempo raccoglievano dattorno a sé la gente volgare in sulle piazze, e che adesso pajono a noi parte tutt’altro che trascurabile del patrimonio letterario della nazione. Di certo, conoscendoli un poco da vicino, non ci meravigliamo punto che nessuno tra i contemporanei abbia pensato a raccoglierne i nomi; che sien vissuti e sien morti trascurati affatto da quanti occupavano posti alcun poco elevati nella scena del tempo, e per lo più senza alcun sogno di gloria, e neppur di ricordo presso la posterità.

Ovidio e le Eroidi, grazie a Didone e ad Enea, riescono un ponte assai opportuno per passare dal mondo greco al romano. Ma di Roma io posso sbrigarmi abbastanza in breve: i mille cento sei cantari, che l’autore vorrebbe farci credere di aver qui a’ suoi comandi, non c’indurranno troppo facilmente ad affannose ricerche. Non che tra le materie enumerate non ce ne sieno alcune, che di sicuro s’avevan fin d’allora esposte in forma d’ottava rima. La Vendetta di Cristo (st. 36), di cui ebbi già a toccare, basterebbe a provarcelo. Ma, in genere, par proprio da ritener come certo, che l’autore fondi la sua esposizione sopra gli storici, ed immagini colla fantasia un’elaborazione poetica, che non esisteva in realtà.

Diremo noi che così avvenga anche dove s’accenna a Giulio Cesare (st. 34-35)? O forse invece inclineremo ad ammettere che il grande iniziatore dell’impero fosse già soggetto di cantari? se noti, od ignoti al nostro rimatore, poco vorrebbe dire.

Chi rifletta che la materia s’aveva lì pronta ed era alle mani di tutti nei numerosissimi esemplari dei cosiddetti Lucani [66], chi consideri il fascino irresistibile che il personaggio esercitava su tutte le fantasie, crederà difficilmente che l’esposizione descrittiva, dataci, in forma d’episodio, dall’Intelligenza (st. 77-215), non fosse presto seguita da un poema speciale. E cotesta medesima esposizione, già così diffusa, da occupare essa sola più che due quinti dell’opera dov’è introdotta, sarebbe da riguardare come un indizio. Se non che abbiamo, per buona sorte, qualcosa di meglio su cui appoggiarci.

Un poema volgare intorno a Cesare, c’è, e non è nient’affatto ignorato [67]. Se ne conoscono tre edizioni, tutte del secolo XV, seguitesi a brevissima distanza. Una appartiene al 1492; una al 1493 [68]; la terza al 1495. La più antica, che appunto ho sotto gli occhi in un esemplare della biblioteca di Brera, pretende d’informarci anche del nome dell’autore: Incipit Liber Lucani Cordubensis poete clarissimi editus in vulgari sermone: metrico tamen per R. patrem el dominum L. Cardinalem de Montichiello dignissimum. - Explicitt liber Lucani Cordubensis poete clarissimi: translatus per R. in Christo patrem  et dominum dominum L. de Montichiello cardinalem dignissimum. Ma cotesto cardinale L. da Montecchiello affaticò inutilmente il Crescimbeni [69] ed altri. Non s’è riusciti a ritrovarlo tra i principi della Chiesa. [70] Però s’intende assai bene come nel moderno editore d’uno dei Lucani in prosa, il sig. Luciano Banchi [71] nascesse il dubbio che l’autore avesse ad essere una persona stessa col Domenico da Montecchiello, di cui s’è toccato poc’anzi. Ma anche questa ipotesi manca di fondamento [72]. Contentiamoci dunque d’ignorare per adesso a chi mai si debba il poema.

Il quale fu riguardato un tempo come vera e propria traduzione della Farsaglia. Che tale non sia propriamente, già ebbe a riconoscerlo lo Zeno [73]. Tuttavia egli corse ad un altro eccesso. E similmente è pur caduto adesso in errore il Banchi, dando l’opera per una compilazione in rima dei Lucani prosaici. Insieme con una di coteste redazioni trasformate, l’autore dovette realmente avere dinanzi, e seguire di preferenza, o il testo latino, o un suo volgarizzamento fedele. Nessuno dei testi volgari, nemmeno il francese, donde emanarono i nostri [74], riesce per nulla sufficiente a render ragione dei rapporti coll’originale del poeta da Cordova[75]. Ma più che del contenuto, mi preme qui di vedere, se ci sia modo di saper nulla quanto alla data della composizione. Un codice della biblioteca universitaria di Torino, anteriore di soli otto anni alle stampe [76], ci dice ben poco. Se mai, parrebbe venire in conferma dell’idea già espressa e accolta da varii, che l’opera appartenga a un’età relativamente tarda; alla seconda metà del quattrocento, a un dipresso. Ora, cotesta idea non risponde al vero.

In coda ad un esemplare fiorentino di una tra le redazioni prosaiche (Magliab. Palch. I, col. 93), si leggono 18 stanze, nelle quali si racconta il cominciamento dei fatti tra Cesare e il re Giuba. Al Banchi, che ebbe il merito di segnalare il frammento e di darne un saggio[77], non venne desiderio di cercare più oltre. Se l’avesse fatto, avrebbe trovato che quelle stanze appartengono per l’appunto al poema di cui gli stesso aveva discorso poco innanzi, e vi stanno precisamente nel canto IX, st. 166 segg. [78]. Orbene, il frammento è della medesima mano che scrisse il testo prosaico [79]. E cotesta mano sembra da assegnare fiduciosamente alla prima metà del secolo XIV. Parrebbe anzi di avere la data precisa; leggendosi dove termina la prosa: Finitus libris de Lucanio per manus Filippi. Amen, amen, amen, amen, A di XV di luglio 1340 in Firenze. Se non che il quarto amen con ciò che segue è d’altra scrittura, ed appare aggiunto poi. Ma allora, salvo il caso, non troppo probabile, che in cotesta postilla si contenga un errore od un falso, il codice dovrebbe ammettersi compiuto prima ancora della data che abbiam qui. Pertanto il poema di Cesare risulta quasi con sicurezza non posteriore alla prima metà del trecento; con molta verosimiglianza anteriore perfino a quel famoso anno 1341, in cui, giusta una vecchia opinione, che ancor si vede dominare con meraviglia, Messer Giovanni Boccaccio dovrebbe aver largito all’Italia l’ottava rima del tipo toscano [80].

3. Da Roma balziamo alla Brettagna ed alla Tavola Rotonda: la Vecchia prima, indi la Nuova. I quattrocento cantari della Vecchia Tavola lasceremo cercare a chi n’abbia voglia. Per adesso ci contenteremo di menzionare i sei del Febusso e Breusso, solo soggiungendo che assai probabilmente dovettero avere un discreto numero di compagni. Rispetto alla Tavola Nuova, ci sarebbe da mettere assieme un elenco abbastanza lungo e copioso; ma poiché l’autore non mi c’invita con allusioni determinate, riserbo l’enumerazione per un altro momento. Soltanto all’ultimo s’ha una menzione abbastanza precisa ed esplicita:

Un conto sol di costor mi dispiace

Di legere, o di dire, o di cantarlo,

El quale ancora so ch’a voi non piace:

La Tavola distruger, di cu’ parlo. (St. 47).

Qui si alluderà probabilmente ai Cantari di Lancilotto, che trattano veramente questa materia, e che pertanto, nell’unico esemplare noto fino ad ora, portan scritto in fine: Finito il settimo cantare della struzione della tavola ritonda[81].

E nemmeno intratterrò i lettori colla materia di Francia. Esaminare ad uno ad uno i nomi di cui il rimatore fa ricordo, e dire, dove e come si trovino cantati, significherebbe fare una parte non piccola della storia delta poesia cavalleresca in Italia. Non è dentro i limiti d’un paragrafo d’introduzione, che si possa costringere un soggetto così vasto. Tuttavia merita una segnalazione speciale la stanza 52, la quale ci prova, come la storia d’Otinel, che già sapevamo penetrata nell’Alta Italia [82], attraversasse altresì gli Appennini. Certo quegli otto versi ci rappresentano un poemetto toscano, ora perduto. Giacché, il rimatore ha un bel dichiararsi pronto a recitare la materia paladinesca, O volete in francesco, o in taliano: non crederemo per questo ch’egli potesse avere la mente alla chanson in lingua d’oïl. La sua offerta è una mera vanteria, da metter con quella del primo tra i due bordeors ribauz:

 

 (v. 59.)   Mais ge sai aussi bien conter

Et en roumanz et en latin.

In cotesta versione perduta è da rilevare la sostituzione di Rinaldo ad Uggeri. Se pure, essa non si fosse prodotta semplicemente nella memoria del nostro autore, o sotto la penna defili amanuensi. Un’altra menzione ben degna di nota abbiamo nella stanza 54:

I tradimenti e furti di Salvagnio

E di Girello, il qual fu lor compagnio.

Salvagnio è senza dubbio una persona istessa col Selvain, Servain, od anche Servein[83], che ritroviam come ladro di grido in più d’un romanzo francese. Quest’identificazione fa da anello ad un’altra. O sarebbe mai che in Girello si nascondesse il famoso Basin[84]? Gli è il Jean de Lanson che suscita il sospetto. Ché in esso leggiamo

La converse Serveins, uns lerres d’Avalon;

O lui trente larrons, s’avoit moult fort maison.

Entre lui et Basin furent ja compaignon,

A cel tans que Basins guerroia roi Charlon;

Mais il se corrocierent por une mesprison,

Que Basins li ocist un sien frere Sanson;

Puis n’en firent entr’aus pois ne accordisen[85].

Non sarebbe la prima volta che Basin, quasi per continuar le sue astuzie anche dopo morto, avrebbe cambiato di nome col mutar di paese [86]. E s’avverta che le avventure, alle quali allude il Cantare dei Cantari, dovevano allogarsi in qualche maniera nel ciclo di Carlo. Ce lo dice il posto loro assegnato nell’enumerazione.

Ma ancor s’aggiunge un’altra circostanza a rendere vieppiù meritevoli d’attenzione Salvagno e Girello. Questi due nomi eran divenuti proverbiali in Italia; e come tali occorrono presso antichi nostri rimatori. Già in un sonetto di Cecco Angiolieri il ladro di Salvagno è una variante gentile per designare chi pochi versi innanzi era stato detto lo ’ncoiato; vale a dire, quel vecchio padre, che non voleva saperne di morire, e che era tanto caro a Cecco, non men snaturato figliuolo, che poeta bizzarro [87]. Ora, chi rifletta che l’Angiolieri fioriva sul declinare del secolo XIII e non vide se non i primi anni del XIV [88], potrà, mercé la conferma e la dichiarazione del Cantare dei Cantari, ricavare da coteste allusioni un indizio prezioso per la storia della nostra letteratura cavalleresca. La Toscana del dugento non ebbe solo versioni e rimaneggiamenti di romanzi in prosa della Tavola Rotonda, Anche la materia di Francia aveva cominciato ad esser produttiva. Su di ciò, nessun dubbio. Io andrei anche più in là, e oserei dire che già avevano ad esserci cantari in ottava rima, e che appunto la storia delle furfanterie di Salvagno e Girello doveva fin d’allora esser recitata in cotal forma su per le piazze. Ma così oltre, non pretendo d’esser, per ora almeno, seguito da tutti. Resta sempre la possibilità - tutt’altra cosa che la probabilità - che Cecco ed i suoi contemporanei conoscessero la materia da un testo in prosa, il quale, solo più tardi  o anche mai  fosse ridotto in rima.

4. Col ciclo carolingio sarebbe compiuta la corsa che il rimatore s’era proposto di fare attraverso ai tempi. Se non che bisogna pur ch’egli ripari in qualche modo ad una grave omissione. Non si potrebbe certo tacere di Alessandro e delle sue storie. Il pochissimo che se ne dice è nondimeno sufficiente per testificarci un fatto ignorato. Ne risulta che l’Alessandreade di Domenico Scolari [89] non fu la sola che s’avesse in Italia molto tempo innanzi che componesser le loro Domenico Falugi da Ancisa, e colui che a torto s’è preteso essere il già menzionato Jacopo di Carlo [90]. Quella che qui si ricorda, in dieci canti, viene a crescere la caterva delle opere perite, o non ancor ripescate [91].

Invece mi guarderò bene dal dichiarare, sul fondamento di ciò che si dice qui, scomparsi allo stesso modo altri poemi, che raccontassero di Ciro e d’ogni storia antica non compresa nelle esposizioni anteriori. Le parole del testo, così vaghe e indeterminate, danno a vedere che il rimatore, per ciò che si riferisce ad argomenti serii e solenni, ha vuotato il sacco. Bensì, se volesse, saprebbe certo specificare molte tra le novellette, a cui accenna così in generale. Ma di queste troppo poco gl’importa. Come già si vide, l’intendimento suo era storico. Gli stessi eroi brettoni e francesi ben poco lo avrebbero trattenuto, se ai suoi occhi non apparissero, in sostanza, personaggi veri e reali. L’esser di tal statura il fine, ci ha già spiegato anche quella sfilata di autori nella penultima stanza.

Venuti così a calco dell’esame, possiamo ben dire, non esser punto spregevole il contributo che il Cantare dei Cantari porta alla storia della nostra poesia narrativa. Ed anche rispetto al modo del recitare abbiam qui dentro qualche cenno, meritevole d’esser notato. Si son già dovuti citare i versi:

(st. 17.)     Un conto sol di costor mi dispiace

         Di legere, o di dire, o di cantarlo.

 Lasciamo stare duella prima espressione, non abbastanza determinata. Si vuol qui parlare di una lettura privata, oppure pubblica? Pubblica, credo. Tuttavia il dubbio è possibile. Ma certo le altre due voci distinguono nettamente due diverse maniere di recitazione. E rispetto all’ultima, abbiam qualcosa di più esplicito in un altro passo, che, sebbene messo lì a proposito delle storie antiche, va nondimeno riferito, senza titubanza di sorta, ad ogni fatta di cantari

(st. 57.)  E a ciascuna suo canto darone.

S’aggiunga ancora ciò che si dice terminando la rassegna dei soggetti sacri:

(st10.) Vi canterò con suon piatoso e destro.

Par dunque risultar chiaro che la recitazione dei cantambanchi fosse per solito regolata dietro una melodia, che i valenti si studiavano di variare per ogni composizione, e che cercavano accomodata all’indole del soggetto [92]. La parola cantare non era divenuta ancora un vocabolo fossile.

(Fortsetzung folgt.)

Pio Rajna.

 

Nota

______________________________

 

[1] Jubinal, Oeuvres coinplètes de Rutebeuf, II, 331 (2 a. ed., III, 2); Montaiglon, Recueil général des Fabliaux, I, 1 ; cfr. II, 269.

[2] Bartsch, Denkmäler der provenz. Litteratur, 88; Milà y Fontanals, De los Trovadores en España 269.

[3] Bartsch, Op. cit., 85.

[4] Bartsch, Op. cit., 94; Mahn, Gedichte d. Troub., n.° CXI.

[5] Ecco dunque la formula:

     

[6] Cfr. Suchier, Der Troubadour Marcabru, nel Jahrb. f. rum. u. engl. Lit., t. XIV, p. 144. Si troveranno ivi enumerati anche gli esempi che cito più sotto.

[7] Romania, VI, 119.

[8] Lascio da parte, perché troppo tardo, un esempio di Pietro Cardinale.

[9] Mi si permetta di rimandare a un mio recente articolo, Un Serventese contro Roma ed un Canto alla Vergine, nel Giornale di filologia romanza, t. 1, no. 2.

[10] L’ordine delle strofe pare alterato, e devon essere avvenute interpolazioni, e fors’anche surrogazioni. La seconda strofa, in particolare, non mi sembra potersi a nessun patto riconoscere come genuina.

[11] Per età meno remote sarebber da ricordare le incatenature. V. D’Ancona , La Poesia pop. it., 99; Rubieri, Storia d. Poesia pop. it ., 152.

[12] V. le mie Fonti dell’Orlando Furioso, 329 Segg.

[13] Si vedano le note critiche a questa stanza nella stampa del testo.

[14] Però l’opera sua è stata designata dai cataloghisti dei codici riccardiani come un Poemetto di storia universale.

[15] Non deve quindi far meraviglia il trovar nella schiera anche qualche scrittore medievale. Martino Polono era per quei tempi un’autorità di prim’ordine.

[16] Paris, Op. Cit., VI, 205. Stengel, Rivista di filologia romanza, II, 82.

[17] I manoscritti Palatini, I, 551 segg.

[18] Vita Ambrosii Camaldulensis, p. cclxxvi. Dell’attribuzione a Bernardo Pulci, non mette neppur conto discorrere.

[19] Questi stampò il poema, credendolo inedito, in appendice al Viaggio di Terra Santa di Ser Mariano da Siena; Firenze, 1822.

[20] Il cccxxxi fra gl’illustrati.

[21] Si veda, per non citar altro, la rassegna e l’esame dei codici palatini, presso il Palermo stesso. In nessuno tuttavia s’incontra il nome del Cicerchia. Bensì l’ho trovato in un frammento riccardiano, che fa parte del codice 2795: Finita e la storia della sanctissirna passione del mio (sic) Signior yhu xpo, sicondo la rima di Nieolo di mino ciciercha da Siena. E scritta  per mano di me Iacomo de Iacomo notaio Citadino di Siena nel Mille quatrociento noue per deuotion di tuttj noj di casa di nannj dj michele.

[22] Moreni , Op. cit., pag. xlm ; Palermo, Op, cit., I, 558.

[23] Comincia: Volendo della resurrezion santa. E termina: Che faccia grazia d’averci in memoria, Sì che participiam l’eterna gloria.

[24] Dico circa; giacché la lunghezza non è costante nei codici nemmeno per questo poemetto, sebbene varii di poco.

[25] Citerò il cod. palat. cxx tra gl’illustrati; il senese I. VI. 9 ; il volterrano xlix. 3. 26; l’edizione bolognese del 1489; ecc. ecc.

[26] Ecco la prima e l’ultima ottava. Le riproduco quali mi son date dal codice:

              Pr a. stanza.                                                             Ulta. stanza.

El nome della eterna beatrice                              In questa parte piu, la nonmi stendo

perfetta maesta . dio uno et trino                       Lasso pensare auer contenplantj

delluniuerso mondo creatore                              Che dicotal cosa niente mintendo

del somo padre spirito diuino                            E pero non mi metto piu, inançi

Produci ... come la fide dice                                La colpa mia acuso et non difendo

Dio diddio amor diserafino                                 Apie di xpo et debeati scĩ

El qual per se dasse none diuiso                          Gie su finisce questa particella

Chome si uede chiaro ..n paradiso.                    Amen di questa uergine donçella.

 

Il Gie su del penultimo verso andrà corretto quasi di sicuro in Qui si. A tale autore, tal copista.

[27] fo. 2 : O tu, lector, se dio ti doni frutto.

[28] Op. cit., I, 571.

[29] Qui probabilmente doveva in origine essere espresso il nome dell’autore.

[30] Segnato I. VIII, 37. È un manoscritto disadorno, miscellaneo e scritto da più mani. Il poemetto sulla Vita della Vergine va da carte 10 a carte 33.

[31] Comincia: Ave Maria dogni virtu piena. E termina: Se vuoli auere di lui gratia perfeta.

[32] Questo esemplare è contenuto nel codice 1286, che risulta dall’agglomerazione di due distinti manoscritti. Più antico, nella sua parte originaria, è senza dubbio il secondo, cioé quello che ci dà il Giudizio. Ebbene: sul frontispizio dell’altro si legge una nota di un domenicho di chanbio Maiestro Vochato, che già possedeva il codice nel 1385.

[33] Una copia del secolo XV s’ha nel codice senese C. VI. 23, fo. 112b 119b.

[34] Una copia palatina è ricordata dal Palermo, Op. cit., I , 570. A me il poemetto è occorso, con differenze ragguardevoli, prodotte, credo, da una mutilazione e da un successivo supplemento, in due altri codici fiorentini: nel magliabechiano 375 della Classe VII, e nel mediceo-palatino 119. Nel primo esso ha 78 stanze; nel secondo 69.

[35] V. le indicazioni dello Stengel, Mittheil., 23

[36] A chi le prendesse a studiare, raccomando particolamente il testo del codice riccardiano 2622 (princ. del sec. XIV), notevole anche come documento linguistico.

[37] Il titolo solito, sì della versione in rima, che di quelle in prosa, è La Vendetta di Cristo.

[38] Per es., colla Passione e la Risurrezione, nell’ediz. bolognese già citata.

[39] Il breve cenno intorno a cose anteriori riposa probabilmente sul Villani. Sarebbe tempo oramai d’indagar bene l’origine delle tante favole, che il cronista fiorentino ci narra dell’età più antica. Quanto alla venuta di Noé in Italia, essa si appoggia, in ultima istanza, sull’autorità di un misterioso cronista, Escodio, Estodio, o Metodio  la prima forma par da preferire  che, al medesimo modo come dal Villani (l. I, c. 5), è citato da Martino Polono, e dal compilatore della Graphia aureae urbis Romae, pubblicata dall’Ozanam, nei Documents inédits pour servir à l’histoire littéraire de lItalie, Paris, 1850, p. 155. Martino mette costui nella lista delle sue fonti, premessa all’opera. Nondimeno potrebbe darsi vi attingesse solo di seconda mano, vale a dire per l’intermediario della Graphia. E attingere, beninteso, trattandosi di cronisti di quel tempo, significa prendere alla lettera, o quasi, pagine intere. Si confrontino i due testi. La Graphia, per il medesimo fatto della venuta di Noé in Italia, è citata espressamente da Galvano Fiamma, dal quale è designata siccome liber valde authenticus (R. It. Scr., XI, 541).

[40] E, aggiungerò anche, come il sunto inserito nel poemetto dell’Intelligenza, St. 240-286.

[41] Brevemente descritto dal Bandini, Supplem., III, 267.

[42] Che a tanto precisamente ascenda la mutilazione, appare dalla paginazione antica.

[43] Per eventuali confronti, mi giova dar qui la lunghezza di ciascun canto: [I : st. 49]  II: 52.  III : 49.  IV: 46.  V : 44.  VI: 37.  VII: 42.  VIII: 42.  IX : 50.  X : 50.

[44] Benoit de Sainte-flore et le Roman de Troie, ou les Métamorphoses d’Homère et de l’Épopée greco-latine au Moyen-âge, par A. Joly. Paris, Franck, 1870-71.

[45] Il cod. come fero. Adotto la correzione più semplice, sebbene non forse la più probabile.

[46] Forse un poco. Tuttavia il verso può correre.

[47] Qui l’explicit, riportato sopra, non ci permette di dubitare ch’egli si fermasse per ragioni d’altro genere, come può darsi facesse poi trascrivendo il Danese. V. Romania II, 154.

[48] Segnato I. VI. 37. Cod. cart. in fo., di 209 carte; scrittura nitida, conservazione non cattiva. Del resto, ms. inelegante; non miniature, non colori

[49] Costui ha messo il suo nome in versi, dopo I’ultima ottava:

           Finito .e. questo libro del Trovano

           Per me Gherardo nel chastello di piano.

Però è meno reo del solito chi prese il trascrittore per l’autore, e pose sul dorso del volume: M: S: | Gherardo da Castel di Piano | il Trojano in | ott: Rima. La stessa attribuzione è passata poi nel Catalogo dell’Ilari.

[50] Perché il verso corresse, vi fu chi raschiò qui l’e finale. Il rimedio, per verità, è un po’ troppo violento. Penso che l’autore scrivesse di pene. Bensì, per metter d’accordo l’occhio coll’orecchio, il raschiatore merita d’esser seguito, dove sopprime l’atona d’uscita di figliuolo e vergine, v. 4 e 5. Di queste soppressioni me ne permetto anch’io, senza neppur darne avviso.

[51] Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, V, 38; Quadrio, Storia e ragione d’ogni poesia, IV, 476; Grion, I nobili fatti di Alessandro Magno, Bologna, Romagnoli, 1872; pag. clxiii. Di questo Trojano discorre alquanto diffusamente il Joly, nell’introduzione al Roman de Troie, p. 516-20.

[52] Finito il libro detto Troiano stampato et composto in lingua fiorentina nella magna et triumphante cipta di Vinegia per me Ser Yacopo di Carlo prete fiorentino. La prova che Jacopo sia l’autore sta tutta in quel composto. Pensò I’Ebert che, seguendo a stampato, siffatta voce avesse ad intendersi della composizione tipografica. Quanto a ciò, per verità ebbe forse ragione di opporglisi il Grasse (Trésor, VI, 206), nuovo paladino della vecchia opinione. Non si dice solo composto, ma composto in lingua fiorentina; e siffatta frase occorre anche sul frontispizio. Ma forse Jacopo volle significare ch’egli aveva ridotto in buona lingua, un testo che gli stava dinanzi in forma più o meno corrotta.

[53] Che l’idea dell’aquila e delle sue peregrinazioni venga dalla splendida narrazione che Dante mette sulla bocca di Giustiniano (Par., c. VI), è chiaro anche solo dalla convenienza di certe voci e rime della stanza seconda del poema colle prime terzine dello squarcio dantesco: uccel di Dio, uscio; venne (Dante, pervenne) penne.

[54] L’acrostico tutto intero viene a darci Angilus c Franci ad Andream f. Del c, che segue ad Angilus, nessuno tien conto. Vorrà dire condom, cioé quondam? In tal caso nessuno più si domanderà, coll’Ebert e gli altri, se quel Franci voglia forse significar Franciscanus. L’ipotesi, per vero dire, era già poco ragionevole. Quanto all’ultima lettera, tra le due spiegazioni proposte, fratrem e flium, non dubito di preferir la seconda.

[55] Op. cit., IV, 476.

[56] Incomincia il libro de lo famoso et excellente poeta Virgilio Mantoano chiamato lo Eneida volgare: nel quale si narrano li gran fatti per lui descripti et appresso la morte de Cesaro imperatore cum la morte de tutti li gran principi li quali ali di nostri sono stati in Italia.

[57] L. cit. È singolare che il Grion non paja aver conosciuto per nulla l’osservazione dell’Ebert, sebbene riferita anche dai bibliografi posteriori.

[58] Dopo quanto s’é visto, pochi, credo, avran voglia di attribuir più l’opera a Ser Jacopo. Se anche con quel composto egli avesse voluto dichiararcisi autore, ma potremmo mai prestar fede a chi sarebbe stato colto da noi in flagrante delitto di volersi attribuire anche ciò che di sicuro non gli apparteneva? Le ragioni addotte dal Grasse mancano di valore. È curioso sentirgli dichiarare improbabile che Jacopo di Carlo esercitasse mai la sua arte in Venezia, mentre appunto descrive un’edizione, che ci si dà precisamente come stampata in quella città!

[59] Bisognerà bene mettere un certo intervallo tra la composizione, e quasi anche direi tra la prima impressione di questo poema, e il suo forzato amalgamarsi coll’Aquila Nera. La data precisa dell’Eneida di Bologna mi rimane un po’ dubbia. Le bibliografie moderne mettono il 23 di Agosto; il Quadrio, l. cit., il 23 dicembre. L’accordo nell’anno e nel giorno non mi permette di supporre che si tratti di due edizioni distinte.

[60] Avendo lo Troiàn tutto composto, vi si dice nella seconda stanza. V. Quadrio, Op. cit., IV, 48r. E l’invocazione dell’Alexandreida ci dice ancor essa:

Anco ne prego il mio devoto padre

Baldo santo: pero che altramente

Non crederia far mai bona rima

Se questo Baldo non chiamasse prima.

[61] Sarebbe un grosso errore il considerare come scorrezioni le molte atone finali che si trovan scritte, e che, pronunziate, sciuperebbero il verso. Gli antichi ebbero l’abitudine di conservare sulla carta queste lettere. Se ne vuol una prova palpabile? Si considerino i componimenti acrostici, che il Boccaccio ha premesso all’Amorosa Visione. Nulla affatto vi si può togliere, giacché ciascuna lettera ritorna poi ordinatamente nel poema, come iniziale d’una terzina. Ebbene: abbiamo un verso che dice: Poi quando altro pensiero questo disface.

[62] In dialetto veneto, anzi, veneziano, esiste altresì una traduzione libera della Storia Trojana di Guido delle Colonne. Sta nel codice mediceo-palatino 153, del quale si può vedere la descrizione nel Bandini. Solo avvertirò che la scrittura è forse del principio del quattrocento, anziché della fine del trecento. Anche questa versione offre un buon testo agli studii dialettologici. In prova, riporterò testualmente le ultime linee: " Dapuo . chelo . Auefato . chussj . eche|lo Jera . trionfado . tuti . li paisi oriental . ello sitorna . Jnancona apresso soa moier legitima . laqual nomeua . tamande . eviue vno . gran tenpo . edelie . Aue . fiolj efie , pluxor . che . dapuo . lasoa morte mantegnj . loriame . quando . ello Aue . viuudo . quanto . piaxete . Adio . ello . passa . de . questa vitta . Amen." „Qua . compie . lastoria . segondo . che | la fo trouada in lo Armer . desan pollo . deschiarendo . delengua . griega . in latina . ordenada . mente como . fo lauerita e . aponto . fata pei dittis . eper dares . liqual fo . homenj . sauij luno . fo griego. Elaltro troiam . Amen."  L’epilogo di Guido manca affatto, ed è scomparsa la divisione in libri. Il traduttore abbrevia assai, ed abbandona per solito le fraseologia gonfia e ricercata dell’originale.

[63] St. 20: Sì ben conposte in cantar trentasei.

[64] Quattro, palatini, son descritti dal Palermo nell’opera già citata: I Manoscritti Palatini; I, 665 segg. Ne aggiungerò uno laurenziano, SS. Annunz., cod. 122, ed uno senese, I. VII. 7.

[65] Op. cit., 66; 670. Se il Palermo pecca in qualche coa, gli è nel non essere abbastanza affermativo, mentre sa bene di opporre al Crescimbeni ed al Quadrio argomenti incontrovertibili.

[66] Mi servo del plurale, perché le versioni toscane son due. V. Banchi, I fatti di Cesare. Bologna Romagnoli, 1863; p. XXXII segg.

[67] Ne parlano, tra gli altri, il Salvini, il Crescimbeni (Ist. della Volg. Poes., 1, 394), lo Zeno (nelle note al Fontanini, I, 285), il Quadrio, e, fra i recenti, il Banchi, Op. cit., p. xlvii. Poi, tutti i bibliografi, Haym, Ebert, Brunet, Grässe.

[68] Corrisponde in realtà all’anno 1493 il 10 gennajo 1492 dell’edizione romana. V. il Grässe.

[69] L. cit.

[70] Anch’io ho scorso senza frutto l’utilissima Tavola Sinottica de’ Cardinali di fra’ Vincenzo Coronelli; Venezia, 1701.

[71] Op. cit., pag. xlviii.

[72] Non so riguardar come tale la conformità della patria, in mezzo alla discrepanza di tutte le altre indicazioni. E meno che mai so dar peso alla somiglianza dello stile. Tutta oramai la nostra antica letteratura narrativa si potrebbe per questo rispetto creder opera di uno stesso autore. Solo i pochi poeti d’arte hanno caratteri loro proprii.

[73] L. cit.

[74] Conosco il testo francese dal codice Marciano 3 .CIV. 3. Parecchi altri mss. della medesima opera si troveranno descritti dal Paris, nei mss. fr. de la Bibl. du Roc; sotto i numeri 6723, 6918, 69182, 69182..2, 7160. E cotesta compilazione fu anche stampata dal Verard, nel 1490 e nel 1500

[75] Non s’ha, per convincersene, che a darsi la briga di un breve confronto. Prenderò, come esempio, le parole che Roma, in forma di fantasma, dice a Cesare, in procinto di passare il Rubicone:

I. 15     E chiaro nel suo pianto parea dire

Dicetime uoi homini oue andate

Se voi volete con ragione uenire

Le mie insegne doue le portate

Se pacto citadin se de seguire

Fin qui ue lice: & oltre non passate

A !or precosse (sic) Cesar un terrore

Che de piu oltre andar li fe langore.

Ecco il passo corrispondente nel francese (fo. 110b) „ . . Et gemisoit, et disoit: „Ha, seignor home, ou voler vos aler outre cest eve? Ou voles vos aler, et porter mes banieres et mes enseignes? Se vos iestes mi citeien et vos venes por pais, ne vos ne velles riens enprandre vers moi, ci deves vos metre jus les armes et venir jusqu’a Roume. Car piece [a] qe jugemens est dounes, qe qiconqes pasera ceste eve armes, il sera tenu por henemi mortel del coumun de Roume. Lues qe Cesar vit o soi ceste merveile, il fu espoentes. Tuit li menbre li trembloient de paor . . . Il fu tous amortis". Si faccia il paragone, e si vedrà che le espressioni scritte sopra in corsivo, hanno miglior riscontro nel latino (I, 190-194). E delle amplificazioni del francese nulla fu accolto nella nostra rima. Naturalmente ci si dimostra altrettanto e più insufficiente a spiegarci i rapporti la versione italiana pubblicata dal Banchi (p. 71). E altrettanto oso affermare, anche non avendola sotto gli occhi in questo passo, dell’altra, più diffusa e più fedele, che ancor rimane inedita. Me ne dà piena sicurezza il risultato ottenuto altrove , paragonando saggi pubblicati dal Nannucci (Manuale, II2, 172). Perché ognuno partecipi alla certezza, riporterò dalla rima il principio del discorso di Cesare ai soldati nel pian di Tessaglia:

VI. 98 

O popolo del mondo domatore

De le miei cose fortuna uerace

Eccho la guerra che gia per mille hore

Hauemo chiesta per hauer poi pace.

Cfr. Nann., Op. cit., 184; Lucano, l. VII, v. 250-251. Cfr. anche Banchi, 204.

[76] Banchi, Op. cit., pag. LI.

[77] Ib., p. LXII.

[78] Superfluo dire che si rilevano molte varianti, le più, ma non tutte, a favore del ms.

[79] Devo la constatazione di queste particolarità all’amicizia del prof. Gerolamo Vitelli, e dell’esimio paleografo prof. Cesare Paoli.

[80] Un poema su Cesare ebbe assai più tardi intenzione di comporre anche l’autore dell’Alessandreide, gratuitamente attribuita a Jacopo di Carlo. Ciò si ricava dalla seconda stanza Avendo lo Troian tutto composto Di Cesare volia comenzare. Poi, dice il rimatore, parvegli pazzia, se non avesse detto prima di Alessandro. Ignoro affatto se, adempiuto il nuovo assunto, gli rimanesse fiato anche per l’eroe romano. V. Quadrio , Op. cit., IV, 48I.

[81] Il primo dei sette cantari fu pubblicato primamente in appendice alla Tavola Ritonda, curata dal Polidori; Bologna, 1864-65: II, 265. E l’intero poemetto vide poi la luce sei anni più tardi: Lancilotto, poema cavalleresco pubblicato la prima volta per cura di Crescentino Giannini; Fermo, 1871.

[82] Paris, Hist. poét. de Charlem., 505.

[83] Selvain è la forma che il nome ha nell’analisi del Blancandin dataci dall’Histoire littéraire; XXII, 777. E Selvain di solito, ma pur qualche volta anche Servain, leggo nel codice torinese del medesimo romanzo: L. V 44, fo. 187 segg. Quanto a Servein, si veda il passo del Jean de Lanson. che cito sotto.

[84] Paris, Hist. poét. de Charlem., 315.

[85] Prendo la citazione dall’Hist. litt., XXII, 578.

[86] Basin diventa Elegast nei paesi germanici. V. Paris, l. cit.

[87] Il sonetto è quello che comincia Morte, Mercé, pubblicato alquanto scorrettamente dal Trucchi, Poesie ital. ined., I, 274. Cecco vi propone alla morte un partito: che essa uccida lui, o uccida lo ’ncoiato. Che s’abbia a intendere il padre, non sarà punto dubbio a chi per poco conosca cotesto strano fenomeno di poeta e d’uomo. V. D’Ancona, Cecco Angiolieri da Siena, nella Nuova Antologia del gernnajo 1874; specialmente a p. 22 seg. Al nostro ’ncoiato fa riscontro uno scoiato (Po’ che Messer Angiolieri è scozato) in un altro sonetto, scritto quando, alla fine, la morte dovette pur esaudire gli empii desiderii di Cecco.

[88] Cecco dovette morire sul finire del 1311, o nel 1312. V. D’Ancona, l. cit., pag. 21 in nota.

[89] Finita di comporre il 25 dicembre del 1355. V. su questa redazione Grion, I nob. fatti ecc. Il principio dell’opera - 13 ottave - era già stato pubblicato dal medesimo erudito, in appendice al Trattato delle Rime volgari di Antonio da Tempo; Bologna, 1869; pag. 338.

[90] Per ribadire cose dette, ricorderò che l’autore di questa Alessandreide sembra essere una stessa persona con quello dell’Eneida volgare, di cui s’è discorso. La comune invocazione a S. Ubaldo, commentata dal cominciamento dell’Eneida degli altri libri che ho fatto fin quine ecc.) ce ne ha dato un argomento assai valevole. Quindi appare molto probabile che siano esistite edizioni anteriori a quella del 1521, la prima che i bibliografi conoscano. V. Grässe, Tresor, I, 70. L’attribuzione a Jacopo di Carlo viene dal Ouadrio (Op. cit., IV, 481), il quale la dedusse dal v. 3 della 2a st.: Avendo lo Troian tutto composto. Ma a qual Trojano si allude? Che s’abbia da intendere dello stampato e ben noto, la già avvertita mancanza dell’invocazione al solito santo, lo rende peggio che improbabile. E in ogni caso poi l’autore di cotesto benedetto Trojano é, come s’é visto, tutt’altro che certo.

[91] Un’altra Alessandreide, probabilmente diversa da tutte le menzionate, è quella a cui allude il Pseudo-Jacopo: Vero è cch’uno che Bartoccio s’apella Ne scrisse già ecc. V. Quadrio, l. cit. Che con questo nome di Bartoccio possa forse alludersi al Falugi, è un’ipotesi affatto gratuita del Griou (Op. cit., pag. CLXI).

[92] Suo canto; suon piatoso, dopo essersi parlato, tra l’altre cose, della Passione.

 

 

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Ultimo aggiornamento: 09 giugno 2006