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Bartolomeo di ser Gorello Cronica dei fatti di Arezzo

Giovanni Grazzini

Ser Bartolomeo di ser Gorello

Introduzione

Edizione di riferimento:

Rerum Italicarum Scriptores, Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento, ordinata da L. A. Muratori, nuova edizione riveduta ampliata e corretta con la direzione di Giosue Carducci e Vittorio Fiorini tomo xv - parte I Cronica dei fatti d'Arezzo di ser Bartolomeo di ser Gorello, Bologna - Nicola Zanichelli, a cura di Arturo Bini e Giovanni Grazzini, edito dal Muratori col titolo: Gorelli aretini notarii poëma italice scriptum de rebus gestis in civitate aretina ab anno mcccx usque ad annum mccclxxiv.

 

Ser Bartolomeo di ser Gorello

Cronica dei fatti d’Arezzo

Introduzione

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

G = codice Rediano-Laurenziano, 66.

F = codice       "               "          20.

E = codice dell’Archivio di Santa Maria della Pieve di Arezzo.

A = codice della Bibl. della Fraternita dei Laici di Arezzo, num. 2.

B = codice    "      "       "        "          "     "     "     "       num. 1.

C = codice    "      "       "        "          "     "     "     "       num. 3.

D = codice    "      "       "        "          "     "     "     "       num. 4.

H = codice dell’Archivio di Stato di Firenze (Spogli del padre Eugenio

Gamurrini, vol. V).

I = codice dell’Archivio Capitolare di Città di Castello.

Mur. = edizione di L. A. Muratori.

P  = edizione di U. Pasqui.

Edizione di riferimento

Rerum Italicarum Scriptores, Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento, ordinata da L. A. Muratori, nuova edizione riveduta ampliata e corretta con la direzione di Giosue Carducci e Vittorio Fiorini tomo xv - parte I Cronica dei fatti d’Arezzo di ser Bartolomeo di ser Gorello), Bologna - Nicola zanichelli, a cura di Arturo Bini e Giovanni Grazzini, edito dal Muratori col titolo: Gorelli aretini notarii poëma italice scriptum de rebus gestis in civitate aretina ab anno mcccx usque ad annum mccclxxiv.

Introduzione

I.

SER BARTOLOMEO DI SER GORELLO E LA SUA CRONICA

TUTTI quelli che hanno parlato di ser Bartolomeo di ser Gorello, autore della Cronica in terza rima che pubblichiamo, hanno creduto che egli fosse della nobile famiglia dei Sinigardi, figlio di Ranieri di Iacopo e che si chiamasse Gorello: così il Quadrio, il Tiraboschi, il Muratori ed altri. [1]

Ecco, per maggior chiarezza, l’albero genealogico della famiglia Sinigardi, già pubblicato dal Pasqui, in Documenti per la storia d’Arezzo nel Medio evo, vol. IV, p. 238, nota 15.

 PUCCIO DI FEDE

          

SINIGARDO

        

IACOPO

         

SER RAINERIO

         

LEONARDO

         

------------------------------------------------------------------

                                                                            

GIOVANNI           NICOLA       VICO         SINEGARDO

 medico                    arcipr. in Bologna

       

-----------------------------

                             

GIOVANNI    messer BONIFAZIO

                                            

                       ---------------------------------------------------------------------------

                                                                                                                           

                     STEFANO      SER. BARTOLOMEO      ANTONIO     SER IPPOLITO

 Di qui non apparisce affatto che si chiamasse ser Gorello il figlio di Ranieri di Iacopo, e in ogni modo poi non potrebbe essere, perchè troviamo nominato ser Ranieri di Iacopo soltanto in un documento dell’anno 1236 [2]. Non è dunque possibile che egli avesse un figlio, il presunto ser Gorello, che avrebbe scritto una Cronica di avvenimenti che giungono fino al 1384 e ove si narra, per es., il sacco dato ad Arezzo dal conte Alberico da Barbiano, al quale si sarebbe trovato presente, e per il quale sarebbe stato costretto a fuggire. [3]

Risulta bensì un ser Bartolomeo, ma non è davvero l’autore della Cronica, perchè sarebbe vissuto troppo tardi per gli avvenimenti in essa contenuti: egli apparisce inscritto nella Matricula Notariorum Civitatis Aretii, nell’anno 1417. [4]

Il Pasqui fa risalire l’errore all’Alessi e al Tizio senese [5] che hanno, secondo lui, attribuito il poemetto a ser Gorello di Ranieri di Iacopo Sinigardi; a noi pare piuttosto che al loro tempo l’errore fosse già avvenuto e che in ogni modo essi confusero soltanto il padre col figlio, ser Goro, detto anche Gorello con ser Bartolomeo, senza affermare però che egli fosse della famiglia Sinigardi [6]. Ed è bene distinguere fra un errore come questo più leggero, che può esser derivato da varie cause, come ignoranza della vita dell’autore, o imperizia dell’amanuense nel trascrivere, o cattivo stato del codice, o delle più antiche copie, e quello ben più grave, che è derivato quasi sicuramente dalla ambizione di ascrivere a una nobile famiglia aretina questa, benchè scarsa, gloria letteraria.

Checchè sia di ciò, è certo che dei codici che ci rimangono i più hanno attribuito la Cronica solamente e semplicemente a un ser Gorello; fra questi è il codice che il Pasqui segue per la sua edizione e quello che noi seguiamo nella presente ristampa.

Nè il Redi intende parlare di un Sinigardi, quando nel frontespizio dei codici della Cronica, da lui posseduti che ci sono rimasti, scrive soltanto: Ser Gorello, Cronaca”. E notisi che egli ne possedè dei molto corretti, come avverte in una postilla al codice che noi chiamiamo F.

Sono stati dunque gli amanuensi dei codici di minor valore quelli che hanno voluto vedere in quel nome uno di casa Sinigardi, tratti forse in errore da un codice di quella nobile famiglia ora perduto, e da essi tale errore è passato agli scrittori che per disgrazia non hanno potuto avere o non si son curati di avere altri codici per controllo.

L’avvocato Mario Fiori, aretino, del sec. XVIII, diligente ricercatore di memorie della sua patria, crede che ser Gorello sia il soprannome di ser Bartolomeo. Così pure Apostolo Zeno sembra aver questa stessa opinione, giacchè, scrivendo da Vienna al Muratori, a Modena, in data 10 maggio 1724 e dandogli ragguaglio di un codice della Cronica di ser Bartolomeo, scritto dal Burali, così si esprime: “Esso fu scritto in gran foglio nel 1618, tutto di mano di Iacopo Burali, del quale parmi che sia alle stampe un libro della storia dei vescovi di quella chiesa, nel quale è probabile che abbia parlato di detto ser Bartolomeo detto Gorello” [7].

E potrebbe anche essere, mancano però le prove per poter affermare o anche affacciare modestamente una tale opinione.

Al modo stesso non pare che Gorello possa magari esser il nome dato dall’autore della Cronica al vecchio simboleggiante Arezzo, che gli apparisce e da cui si fa narrar la storia di quella sua infelice patria, secondo una ipotesi del Pasqui, perchè anche questa è una idea campata assolutamente in aria.

Incliniamo piuttosto a credere, come abbiamo già detto, che fino dai primi amanuensi si sia cominciato a far confusione fra il nome del padre e quello del figlio, non essendosi fatto uno studio sulla vita dei due, che avrebbe dimostrato all’evidenza l’errore, perchè ser Goro o Gorello, come anche si chiamò il padre di ser Bartolomeo, risulta morto fino dal 1351 e la Cronica giunge fino all’anno 1384 e narra avvenimenti ai quali l’autore dovè esser presente.

La verità si è venuta a ristabilire piano piano, quasi sarei per dire da sè, perchè già due codici attribuivano la Cronica al figlio, ser Bartolomeo, anzichè al padre, ser Goro o Gorello; solo rimaneva l’errore nel credere che quegli fosse della nobile famiglia dei Sinigardi e discendesse da ser Ranieri di Iacopo. Nella copia che Don Alessandro Certini di Città di Castello fece, nel 1698, della Cronica predetta dalla copia del 1623 ora perduta, di Girolamo Sinigardi, prete aretino, donde è provenuto senza dubbio l’errore, una nota al v. 58 del cap. II, è così concepita: "ser Bartolomeo di ser Goro di Ranieri parla all’ombra di Arezzo, quale autore viveva di quelli tempi della ruina della città, come appare alla pecora di Palazzo dell’anno 1390 dalli Perini a “Colcitrone”. L’amanuense dunque in questa glossa dà proprio nel segno, solo è in errore nel riferire quel nome alla famiglia dei Sinigardi. Il Pasqui, nella edizione che ha fatto della Cronica nel suo quarto volume di Documenti, ecc., ristabilisce la verità e dimostra che ser Bartolomeo è figlio di un ser Goro di Ranieri e non è affatto dei Sinigardi. Il padre di ser Bartolomeo fu ser Goro o Gorello, figlio di Ranieri o come apparisce in alcuni documenti del tempo ser Ranieri. Il Pasqui non crede che il nonno di ser Bartolomeo fosse notaro, mancando, dice egli, in tutti i documenti del tempo che lo rammentano, e non specifica quali essi siano, l’appellativo di “ser”. Ora, sebbene in generale sia giusto quello che afferma il Pasqui, troviamo tuttavia che in alcuni documenti del tempo che noi riportiamo, riguardanti ser Goro e ser Bartolomeo, il nonno del Nostro ha invece quell’appellativo: così, per es., nella Matricula Notariorum, a c. 34, e in un libercolo lacero delle Imbreviature di ser Bartolomeo, che conservasi nell’Archivio della Cattedrale Aretina, num. 878 bis. Lasciando da parte questa quistione che ha per noi valore alquanto relativo, torniamo a ser Goro o Gorello. Lo troviamo ricordato fino dal 1333 in un atto pubblico colle parole: ex instrumento scripto manu ser Gori notarii Rainerii, ecc. Se ne deduce che già in quel tempo rogava atti pubblici e che viveva allora suo padre, altrimenti la frase sopra citata sarebbe: quondam Rainerii. Lo troviamo pure rammentato in un altro documento dell’anno 1339. Nel 1343 roga un testamento nel castello dei Barbolani da Montaguto, nella casa del già nobil uomo Andrea del castello predetto, alla presenza del nobile Guido, figlio di lui. Il padre suo, Ranieri, era morto in quest’anno, come ricavasi dal documento sopra citato. Ai 6 di dicembre del 1346, essendogli morta la moglie, madre di Bartolomeo, fa un compromesso per nuove nozze nella chiesa dei servi di Santa Maria, alla presenza di illustri testimoni, come per es. Lando dei Gozzari: si obbliga di sposare Donna Deonora del fu Guadagno Barattucci. Circa due mesi dopo, il cinque febbraio, compare insieme col figlio Bartolomeo nel matrimonio di sua figlia monna Simona che va sposa a un tal Bencevenne. Nel 1351 ser Goro o Gorello era morto, come apparisce da un atto di assoluzione da un debito di ser Bartolomeo suo figlio, ove “Angelus olim Vannis de Castro Novo, civis aretinus de populo sancti Michaelis, ecc. absolvit et liberavit ser Bartolomeum notarium olim ser Gori Ranerij de Aretio, ecc.”.

Nacque ser Bartolomeo in Arezzo, nel quartiere di Porta Crucifera, nella contrada “a Perinis ad Colcitronem”, all’angolo dei Pescioni. La data della nascita non apparisce da nessun documento ed è per conseguenza soltanto congetturale. Due sono pertanto le congetture che si possono fare, una ha minor valore, perchè è fondata sopra un argomento meno solido: il Nostro nel principio stesso della sua Cronica ci dice che aveva cinquantaquattro anni, quando o ebbe la visione che narra o cominciò a scrivere la Cronica, giacchè non è chiaro che cosa abbia propriamente voluto dire con que’ primi versi. Or, se abbiamo lì un dato preciso, cinquantaquattro anni, non è però sicuro il termine da cui si deve partire per contare indietro quegli anni. Secondo il Pasqui la Cronica fu cominciata a scrivere nel 1376, quando ebbero principio le persecuzioni e le guerre tra il Comune aretino e i fuorusciti capitanati dai Pietramala, ma non vediamo su che cosa ci si possa fondare per prendere questo anno come un terminus a quo, nella cronologia della vita del Nostro e fissare così la data della sua nascita all’anno 1322. L’altra congettura, che conduce, secondo noi, molto vicino alla verità è questa: ser Bartolomeo si inscrisse nella matricola dei notari nell’anno 1346, e poichè, per una disposizione statutaria del Collegio dei Dottori e Notari, nessuno poteva inscriversi, se non avesse avuto almeno venti anni [8], si può fissare con molta approssimazione la data della nascita del poeta fra l’anno 1322 e il 1326. Il giorno di essa è certo, ed è indicato nella Cronica con evidente chiarezza:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

poiche dal Tauro fui alluminato

ai Gemini vicin, nel dì che dati

fuoro i martiri a Giovanni beato; ecc.

Così può fissarsi con assoluta sicurezza il mese di maggio che corrisponde alla costellazione zodiacale del Tauro, ed è vicino ai Gemini, sotto il qual segno la terra, com’è noto, entra verso la fine del mese predetto. Il giorno poi risulta dall’ultimo verso, in cui si parla di san Giovanni Apostolo, decapitato il 6 di maggio e del quale la Chiesa commemora in tal giorno il martirio, secondo la liturgia ecclesiastica, seguìta certo dall’autore della Cronica.

Di suo padre abbiamo detto qualche cosa, di sua madre altro non sappiamo, se non che era morta nel 1346, come si è già accennato. Ebbe ser Bartolomeo un fratello, ser Giovanni, notaro lui pure e inoltre cancelliere della Fraternita di santa Maria della Misericordia di Arezzo, e una sorella, quella donna Simona, di cui si è già fatto menzione.

Dovè dunque la sua famiglia esser cospicua, se, come avverte il Muratori nella sua prefazione alla Cronica, l’esercizio della professione del notaro era a quei tempi indizio di nobiltà, e se al compromesso per le nuove nozze di Ser Goro (1346) intervenne come testimone il nobile Lando de’ Gozzari, e in un atto dello stesso anno, dove si legge che ser Bartolomeo aveva sposato una Giovanna, sono rammentati Lorenzo del fu Feo dei Sassoli e donna Nobile, moglie del fu Brandaglino. Ci riesce perciò strano che il Pasqui la consideri come popolana e anche più strano poi che, senza la scorta di documenti, la dica di origine longobarda [9]. Se essa fosse ghibellina non possiamo affermare [10], è certo però che fu ghibellino ser Bartolomeo, deducendosi ciò da molti passi della sua Cronica.

Nel 1335 egli si trovò presente all’arrivo in Arezzo dei Perugini che erano stati fatti prigionieri nella battaglia di Carbognana nel cortonese. Questo apparisce chiaro dai versi 217 e 218 del cap. IV della Cronica dove immagina che il vecchio simboleggiante Arezzo gli dica

Ma ben potesti cognioscer al volto

Cechin di messer Venciol perugino, ecc.

Più tardi poi, nel giorno di sant’Andrea (30 novembre) dell’anno 1341, seguì in Arezzo una cacciata generale di tutti i Ghibellini, fatto affermato dalla Cronica e da più d’un postillatore dei codici di essa, nonchè da Ser Guido di Rodolfo ne’ suoi Ricordi pubblicati dal Pasqui, e probabilmente fu cacciato come tale anche ser Bartolomeo [11].

L’anno 1346 è il più interessante nella sua vita; molte novità accadono in casa sua: suo padre si compromette per nuove nozze, come abbiam detto, sua sorella Simona va sposa a quel tal Bencevenne già ricordato [12], egli stesso, l’otto di febbraio si inscrive nella matricola dei notari d’Arezzo e lo troviamo segnato così nel registro - Capitoli del Collegio de’ Dottori e Notari, 1339 -, pag. 29: “Ego Bartolomeus, filius ser Gori notari Raineri, civis aretinus, imperiali autoritate notarius et iudex ordinarius predictae matriculae me subscripsi et meum signum consuetum apposui. Sub anno domini a Nativitate Millesimo CCCXLVJ. Indictione xiii, die viii Februarij”.

Abbiamo poi di quest’anno stesso (21 giugno) un istrumento di ser Marco di Baldo di Tancredi, da cui risulta che il Nostro aveva sposato una Giovanna, dalla quale aveva avuto in dote, oltre una certa somma di denari, anche il livello o censo di una casa, d’una piazzuola e di un orto. L’istrumento è stipulato in domo habitationis dominorum priorum, in presenza di illustri personaggi et consentiente Laurentio olim Fei de Sassulis et de consensu domine Nobilis, uxoris olim Brandallini.

Da vari atti da lui rogati si può solo fissare che negli anni in cui furono stesi, egli si trovava ad Arezzo: sono notizie magre, ma di cui bisogna contentarsi in mancanza di altro. Vanno distinti per la loro importanza due libercoli, uno più grosso, mutilo, contenente imbreviature di ser Bartolomeo, scritto proprio da lui, e un altro più piccolo di mano dello stesso e di ser Giovanni, suo fratello, da’ quali si possono raccogliere delle date (1353 e 1356 dal primo e 1358, 1360 e 1361 dal secondo) e si può anche dedurre che gli atti ivi contenuti sono rogati in Arezzo.

Probabilmente ser Bartolomeo tornò in patria nel 1353, in forza dei patti di pace fra l’Arcivescovo Giovanni Visconti di Milano e i Fiorentini, Perugini, Senesi, Aretini, ecc., alla fine della guerra fra lui e i Fiorentini.

Forse è vero quello che il Pasqui afferma che cioè ser Bartolomeo, circa l’anno 1355 fu dei tre priori ghibellini, che insieme con altri otto di opposta fazione erasi stabilito di eleggere nel Comune, quantunque però i versi della Cronica:

Io credo ben, che questo dir ti noce,

diss’egli [il vecchio] a me, figliuol, perch’ una volta

messo fosti da lor per quella foce;

non si debbano intendere in modo così assoluto.

Per gli odi di parte, essendo i Ghibellini tenuti in conto di nulla, come leggesi nella Cronica, egli deve essersi indotto a lasciare la sua patria; quindi è che nel 1362 e 1363 lo troviamo a Todi in qualità di giudice delle riformagioni. Essendo ivi, scoppiò la peste che fu diffusa in Italia dalla Compagnia Bianca, chiamata da Giovanni di Monferrato contro Bernabò Visconti: inoltre una delle solite compagnie di ventura occupò un castello circa dieci miglia a nord di Todi e di lì minacciava la campagna e la città. Era detta la compagnia del Cappelletto e ne era condottiero il Conte Niccolò di Urbino che aveva levato per bandiera un cappello sur una picca, donde la denominazione alla sua compagnia. Ser Bartolomeo rogò i patti pei quali quella soldataglia lasciò il castello e rinunziò al saccheggio della città.

Nel 1365 era tornato ad Arezzo e teneva in quell’anno qualche carica pubblica importante, poichè a questo alludono certo i versi della Cronica:

A quelle amare e sue tristi mosse

che fo di luglio nel sessantacinque

la fede tua convenne che vi fosse.

Ormai infatti era stato abbattuto il governo dei Guelfi e cominciava a reggere la repubblica il consiglio dei Sessanta.

Poi, nel ’76, accadde in Arezzo una sollevazione contro i Pietramalesi che, essendo stati cacciati, volevano rientrare in città e impadronirsi del potere: fu allora abbattuto alla sua volta il governo dei Sessanta, il quale si era tanto venuto alterando, che alla fine si trovò formato di Guelfi. Furono presi alcuni cittadini e imprigionati, altri furono sbanditi. Il Nostro apprese la notizia di tale sollevazione da lontano, essendo fuori di Arezzo.

Nel settembre del 1380 entrò in Arezzo Carlo III di Durazzo, detto Carlo della Pace, e nella sua entrata fu ucciso un ambasciatore fiorentino di nome Mone da un fuoriscito fiorentino, Tommasino da Panzano: ser Bartolomeo era presente, seppe di tale uccisione e dice nella sua Cronica, che conosce anche il nome dell’uccisore. L’anno dopo, il 13 novembre, nel partirsi che fece d’Arezzo il Vescovo di Giurino, che Carlo VI aveva lasciato come suo vicario, il Nostro si trovò a prender parte alla dimostrazione ostile che gli fu fatta e che non ebbe buon esito: confessa candidamente che, presi tutti insieme, quelli che si sollevarono come lui non valsero “una vil fava fresca[13]. E forse per questo pare che fosse notato fra i Ghibellini che furono sbanditi dal nuovo vicario imperiale, messer Iacopo Caracciolo, del quale ser Bartolomeo parla molto ironicamente nella sua Cronica, giudicandolo inetto a rimetter la pace fra gli animi turbati.

Si può con sicurezza affermare che ser Bartolomeo, il 18 novembre, al rovesciarsi sopra Arezzo di quella terribile tempesta che fu la compagnia di Alberigo da Barbiano, chiamata segretamente dal Caracciolo per aver ragione sopra i ribelli ghibellini, fuggì, sebbene non molto lontano. Forse il vicario di Carlo III lo notò fra i Ghibellini da mandarsi a confine, ma, per l’aggravarsi della situazione essendo stato costretto a chiudersi in fortezza, contro i Ghibellini chiamò la compagnia di San Giorgio, e per la paura molti di essi, fra cui anche ser Bartolomeo, fuggirono.

Io so ben come e dove tu fuggisti,

e so ancora chi ti gìa cercando,

e ancora so le parole che udisti [14].

si fa dire dal vecchio simboleggiante Arezzo, nella sua Cronica (cap. XII, 67 sgg.).

Nell’anno seguente, 1382, lo troviamo a Pietramala dove roga un atto di vendita di certe case poste in Arezzo. Forse, esule dalla patria, cercò protezione da quei signori da Pietramala, che aveva sempre amato come ghibellino, senza però che quell’affetto gli facesse perdere la sua innata equanimità, e quando Marco andò contro la sua stessa patria per tradirla e rovesciarla nell’ultima rovina, sdegnosamente rifiutò di seguirlo.

.    .    .    .    .    .    .    .    .

e molti degli usciti ancor raccolse

ma non colui che notò questo sermo.

Nel 1385, quando Arezzo era caduta ormai in potere dei Fiorentini, noi troviamo il Nostro ad Anghiari in qualità di vicario. Ivi, nella chiesa di Sant’Agostino, il giorno 9 di giugno, fa eleggere nel consiglio grande dei Signori Dodici e Sessanta Buonomini di quel Comune, dei sindaci per far l’atto di sottomissione ai Fiorentini. [15]

Finalmente negli anni 1387, 1390 e 1393 lo ritroviamo in Arezzo, nella contrada della sua vecchia casa paterna “a Perinis ad Colcitronem”, e poco dopo questa ultima data, molto facilmente deve esser morto, giacchè non lo troviamo più rammentato nei documenti del tempo [16]. Il Pasqui ci fa sapere che, negli ultimi anni, egli visse coi nipoti, figli di suo fratello, ser Giovanni, morto fino dal 1376, dopo essere stato per circa venti anni cancelliere della Fraternita di Santa Maria della Misericordia ma non appoggia tale notizia ad alcun documento.

Ser Bartolomeo fu ghibellino, come apparisce chiaro da più luoghi della sua Cronica; esercitò qualche pubblico ufficio, come abbiamo detto altrove, e fu addentro agli intrighi della politica. Al modo stesso che Dante sperò in Arrigo VII di Lussemburgo, egli spera nel Duca d’Angiò se in Ludovico da Pietramala a cui fu particolarmente affezionato: sono soprattutto notevoli questi versi della sua Cronica, ove egli parla di lui

E bene spero nel solerte affetto

d’un mio figliuolo virtuoso e prode,

di mi honore tutto circumspecto,

de la cui, fama Petramala gode,

Furono speranze vaghe, un desiderio di veder ristabilita la concordia e la pace nel general turbamento degli animi de’ suoi concittadini, nella contesa indecente di tante nobili famiglie, che in ultimo cagionò la rovina della sua patria: lo spirito di parte non gli fa velo all’intelletto, la sua è una coscienza retta, giusta, imparziale [17].

Non potè dimenticarsi che ogni gloria ad Arezzo, sua patria, derivava dai Pietramalesi che ne erano la più illustre e potente famiglia di parte ghibellina, ma d’altro lato, visto che Arezzo, assoggettata a Firenze, coll’aiuto di quella città e del Papa, vinse l’orgoglio perugino, s’era acconciato al tranquillo e giusto governo misto dei Quarantotto, che, cresciuti di numero, divennero il consiglio dei Sessanta e furono detti da lui per ischerzo i Sessantini, tanti erano i Guelfi che vi erano penetrati! Sotto il governo dei Sessanta la città aveva pace, eran sopite le fazioni; maledizione dunque a chi, guelfo o ghibellino, chiamava lo straniero e attirava sulla patria lo sterminio.

*

 

*     *

Ser Bartolomeo scrisse in terzine la Cronica dei fatti d’Arezzo, che ora per la terza volta viene pubblicata: di essa non rimangono che diciotto capitoli e due frammenti, uno del diciannovesimo e uno del ventesimo, per non meno di 4500 versi in tutto.

Non è da credersi, come al Moschetti è parso, che nel principio del poemetto ser Bartolomeo voglia dirci quando cominciò a scrivere, ma sibbene vuol determinare l’età che aveva quando gli si appresentò dinanzi alla fantasia la visione che ci descrive, imitando anche in questo l’Alighieri che allo stesso modo, colla medesima determinazione, incomincia il divino poema.

Quanto dunque alla data di composizione della Cronica, possiamo soltanto congetturare che la scrivesse nell’ultimo quarto del Trecento, per i fatti di cui in essa si parla.

Ed ecco in breve la meschinissima trama del poemetto. Due capitoli occupa il proemio, nel quale il poeta immagina che, mentre dorme, uno dei tre spiriti, lo spirito vitale, fantasticando si parta da lui e si imbatta in tre ombre: la Superbia, l’Avarizia, l’Invidia, che a un tratto fanno festa fra di loro, per cui lo spirito si maraviglia e il poeta si sveglia. Poi si riaddormenta e gli pare di incontrarsi in un vecchio venerando, nel quale è personificato Arezzo, attorniato da gente che lo assale e da cui si difende e contro la quale impreca. Questi finalmente cedendo alle preghiere del poeta, narra tutta la sua storia. È inutile dire che la imitazione dantesca è un fatto comune in quel secolo, e che fra i vari poemi di imitazione dantesca (compreso questo di ser Bartolomeo) e la Divina Commedia c’è una differenza incommensurabile, ma è però fuori di dubbio che molto deve essere piaciuto un tal proemio al suo tempo, inquantochè viene poi imitato da altri cronisti. Il Moschetti afferma che “è il primo e pur notevole esempio di esordi di imitazione allegorico dantesca.

Alla richiesta dunque del poeta, il vecchio simboleggiante Arezzo racconta la sua storia e qui ben undici capitoli nei quali si espone in forma di dialogo, la storia di Arezzo, cosa invero molto meschina, perchè il poeta parla solo per dar occasione al vecchio di raccontare, e quindi il dialogo è soltanto pro forma. Poi il vecchio si congeda e pronunzia un lungo soliloquio e finalmente un lungo lamento che il poeta ascolta nascosto dietro una siepe. Che cosa ci può esser di più semplice di questa trama? Eppure è qualche cosa: negli altri componimenti congeneri essa manca affatto, e l’ordine è soltanto cronologico [18].

Mentre poi nelle altre cronache del tempo con proemio di imitazione spiccatamente dantesca, l’allegoria cessa subito dopo l’esordio e il poeta finisce per dimenticarsene quasi del tutto, in questa di ser Bartolomeo l’imitazione dantesca si rifaà viva in qualche punto, quantunque molto pallida e mal sicura, breve e fuggevole. Così per dar un esempio, ecco l’invettiva contro Carlo di Durazzo che può ricordare forse di lontano quella celebre del canto VI del Purgatorio contro Alberto d’Asburgo:

O Karlo indegno di tal possessione,

camera antica del Romano Impero,

di tua felicità prima cagione,

o Karlo ingrato, senza verun vero,

non ti ricorda quel che promettesti?

E tu m’hai fatto tanto vitupero!

Sia maledetto el dí che tu mettesti

el piè dentro mio giro, poichè dovia

tener di me ei modi che tenesti!

Sia maledetta la tua baronia,

e bever possa quel che bevve Crasso,

e’l giuditio divin sopra te sia,

che m’hai condotto in stato vile e basso

 di grande alteza e dignità che fui;

hora si fa di me mortal fracasso.

Sien maledetti gli anni e i mesi tui,

e ’l latte che tua madre ancor ti diede,

che degnio non sei già regger altrui.

Ser Bartolomeo mantiene dunque l’allegoria fino in fondo al poemetto, ma stiracchiandola nel modo più infelice che si possa immaginare. Ogni poco oscurità d’espressione, vocaboli che non si sa che cosa vogliano dire, versi zoppicanti e quasi mai colorito poetico. Manca poi l’eleganza, sia che il poeta abbia adoperato il dialetto aretino come fa molto spesso, sia che abbia sentito di soverchio le pastoie del metro e della rima.

Del resto però è forse l’unico il poemetto di ser Bartolomeo che abbia almeno una trama qualunque; negli altri componimenti congeneri di quel secolo, tolti alcuni scatti generosi che al poeta vengono da una certa subiettività del suo racconto, tolta qualche descrizione nella quale vibra ancora la realtà delle cose vedute, tolto qualche artifizio poetico imparaticcio o abitudinario, il verseggiatore resta sempre terra terra. Vero è che ser Bartolomeo stesso riconosce di non esser un gran poeta, quando dice che i suoi versi sono

Puerili e di virtude sciocchi

come chi legge bene può avvedersi.

La Cronica non è giunta a noi completa, si arriva col cap. XVIII agli ultimi avvenimenti della repubblica aretina, cioè alla sua caduta in mano ai Fiorentini, e si può ritenere, che, se anche essa fosse compiuta, non avrebbe potuto esser tirata molto più in lungo.

Altro particolare che distingue la Cronica del Nostro da quasi tutte le altre del suo tempo è che non ha fra capitolo e capitolo quei soliti passaggi che si usavano generalmente dai canterini di piazza, che sono come una formola, che divenne poi sacramentale anche nei poeti maggiori; il legame qui è dato dalla concatenazione dei fatti e i capitoli seguono ai capitoli senza interruzione.

Mancano nella Cronica di ser Bartolomeo le giuste proporzioni; nella storia, che il vecchio venerando simboleggiante Arezzo narra, corre con velocissima rapidità in quei primi tempi, talchè, dopo brevi capitoli lo troviamo già occupato a narrare i fatti dell’età che fu sua.

Concludendo: la Cronica di ser Bartolomeo è fra le congeneri del suo tempo una delle migliori e tale da poter essere annoverata fra il Centiloquio di Luigi Pulci, le due Croniche di Puccio di Ranallo e di Antonio di Buccio: il Moschetti più volte citato dice che essa “ci offre veramente l’esempio di un’opera studiata e condotta sopra un disegno prestabilito”.

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Oltre la Cronica, di cui abbiamo fin qui parlato, altro non ci è pervenuto del nostro ser Bartolomeo di ser Gorello, che un sonetto riportato dal Pasqui, mandato a un “giudice de la podestà”, come avverte la didascalia. Non troviamo poi fondata l’ipotesi di alcuni che gli si possa riferire un poemetto sui vizi e sulle virtù, ancora manoscritto, che trovasi in due codici, uno più antico nella Biblioteca universitaria di Bologna (cod. 205) e un altro nella Nazionale di Firenze (cod. II, n, 24) sine titulo e sine nomine auctoris. Il Follini, bibliotecario della Magliabechiana, oggi Nazionale, nel 1806 fece una dissertazione che può leggersi manoscritta nel citato codice. Ivi dimostra che il poemetto anonimo è di ser Gorello Sinigardi, per noi ser Bartolomeo di ser Gorello, per varie ragioni. Il Cornacchia prima (Propugnatore, 1888, parte II, pp. 185-225), e il Pellegrini poi (Propugnatore, 1889, parte I, pp. 335-386) dimostrano invece che tal poemetto è di autore ignoto, d’imitazione dantesca.

II. - Codici della Cronica

L’autografo della Cronica di ser Bartolomeo di ser Gorello è perduto. Marco Attilio Alessi, dotto umanista aretino vissuto fra il 1470 e il 1546, possedè un codice di questa Cronica, come si ricava da un sunto che egli ne fece in una sua opera ms. che si conserva nella Biblioteca della Fraternita dei Laici di Arezzo, segnata col num. 63, e della quale diamo ampia descrizione nella introduzione agli Annales Arretinorum Maiores et Minores. Da tale sunto risulta evidente che la Cronica aveva venti canti, e da una glossa che l’Alessi riporta da ser Bartolomeo, che egli chiama semplicemente ser Gorello, risulta anche che aveva le note.

Un altro codice del sec. XV ha pure visto Sigismondo Tizio autore della Historia Senensis, nella quale ne riporta alcuni passi. Anche questo codice era di venti canti, poichè nella citata opera si riporta un passo del cap. XX. La Cronica poi era divisa in canti e non in capitoli, ma noi manterremo nella nuova edizione che di essa facciamo, la partizione in capitoli, perchè così è in tutti i codici rimasti ed era anche nel codice alessiano.

I codici che ci rimangono forse derivano dai due ricordati, ma sono stati evidentemente ricopiati, quando questi già erano rimasti mutili per la cattiva manutenzione; non avendo di meglio, siamo costretti a sceglier fra questi. Trattandosi di copie, il criterio della maggiore antichità non ha un valore assoluto, quantunque sia necessario per ordinarle cronologicamente, cosa che, se non altro, giova a farne conoscere la storia.

III. - Edizioni della Cronica

Si hanno due edizioni della Cronica di ser Bartolomeo di ser Gorello, quella del Muratori, nel tomo XV dei RR. II. SS. a p. 809 sgg. e quella di U. Pasqui nel vol. IV di Documenti per la Storia di Arezzo nel Medio evo, p. 97 sgg.

Il Muratori, come abbiamo detto, segue una copia fornitagli da Uberto Benvoglienti, dotto patrizio senese, che già gli aveva fornito tanto materiale cronistico senese, pubblicato poi nei RR. II. SS., e pare che questa copia del Benvoglienti derivasse dal codice, di cui già abbiamo parlato, della famiglia Sinigardi aretina, codice che allora doveva essere grandemente stimato per la ragione che si credeva, a torto, di quella famiglia l’autore della Cronica. Dal codice Sinigardi perduto derivano indubbiamente D e I di cui si è parlato; resta dunque facile dedurre quale importanza potesse avere una tal copia del patrizio senese. Si pensi però che il Muratori si giovò pure di altri due codici, il cod. F (Laurenziano Rediano num. 20) che conosciamo, e forse il cod. G (Laurenziano Rediano num. 66), e che per di più egli era uomo di vasta dottrina e di profondo acume critico. Se dunque l’edizione muratoriana non è potuta riuscire molto corretta, è però tale da doverne tener conto ed è certo migliore dell’altra più recente di U. Pasqui che potè vedere tanti codici di più, come dimostreremo fra poco.

In qual modo potè la Cronica di ser Bartolomeo trovar posto nella raccolta muratoriana? Un po’ di storia: Nel 1714 il Muratori fu ad Arezzo, come risulta da una sua lettera scritta da Firenze al Benvoglienti, a Siena; vide e frugò negli archivi di quella città. “Buoni archivi in Arezzo, egli scrive, gentilezza somma ancora in quelle parti, sicchè più di quel ch’io pensava mi son fermato, etc.” Pare però che non trovasse questa Cronica, perchè alcuni anni dopo e precisamente il 12 dicembre 1721 scrive al Benvoglienti stesso da Modena e accenna alla cronica che dal senese gli era stata esibita e di cui gli era anche stato detto qualcosa: “Da quel poco che V. S. illustrissima mi accenna intorno alla storia in rima di Arezzo, veggo esser quella un’operetta da stimar molto a proposito, ecc.  E seguita chiedendogliene copia. Intanto, come s’è visto, Apostolo Zeno scrive da Vienna al Muratori offrendogli anche lui un codice di ser Bartolomeo, scritto nel 1618, di mano di Iacopo Burali aretino. Il Muratori, nello stesso anno, anzi per esser più esatti, poco più di un mese dopo, ne dà avviso al Benvoglienti e gli dice che non sa risolversi ad accettare il dono.

Questo è quanto si è potuto raccogliere dalle lettere inedite dal Muratori scritte a Toscani, la conclusione è che l’illustre autore della raccolta dei RR. II. SS. ebbe dal Benvoglienti la copia desiderata, pare però senza le note, da quello che troviamo scritto nella prefazione muratoriana alla Cronica, per cui il Muratori le pubblicò di su due codici che già erano stati dati dal Balì Zaverio Redi al Benvoglienti e che egli trasmise forse colla copia della Cronica al Muratori. Quanto al codice del Burali offerto al Muratori da Apostolo Zeno, possiamo esser sicuri che egli lo ebbe, infatti ne dà relazione nella citata prefazione, e ne riporta anche qualche nota per saggio. Bisogna però dire che forse non gli piacque molto e non se ne servì gran fatto, perchè le note non son mai tratte da esso.

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Il Pasqui dice di seguire per la sua edizione il cod. A per tre ragioni: primo perchè è più vicino all’originale, secondo perchè è più completo, terzo perchè è il più antico di quelli rimasti. Dell’asserita vicinanza all’originale la prova non si può avere, se l’originale è perduto; sarebbe più proprio dire che è il più corretto fra i codici esistenti, e per affermar questo bisognerebbe che quel suo codice prescelto non avesse gli errori che a suo luogo faremo rilevare e che per conseguenza egli riproduce nella sua edizione. Basta un rapido esame di confronto con gli altri codici per vedere che non è neanche il più completo: mancanvi alcuni versi sul principio del capitolo terzo, dove fu lasciato uno spazio bianco, senza neppure i due versi coi quali comincia detto capitolo in altri codici, e sono state omesse qua e là per inavvertenza del trascrittore lettere, sillabe, parole e terzine come avverte il Pasqui stesso.

La terza ed ultima ragione per cui egli dice di aver seguito quel codice, cioè che esso è il più antico dei rimasti, ha un valore assai relativo, perchè si tratta di copie e quindi, come può facilmente comprendersi, una copia più recente può benissimo derivare talvolta da un codice più autorevole e più antico.

Concludendo dunque, nessuna delle ragioni addotte per provare la superiorità del codice A è sufficiente per noi.

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I nostri vecchi, quelli se non altro che curavano con coscienza la edizione di un’opera, consultando più codici, sceglievano la lezione che a loro sembrava più vera e rimpastavano così un nuovo testo. Questo sistema è molto pericoloso e falso talora: fra due lezioni, una più arcaica, più rozza, l’altra più naturale perchè più ammodernata, c’è il caso di scegliere la seconda e, novantanove volte su cento, di aver torto e di stampare quello che l’autore non scrisse. Si sa che chi ha avuto per le mani un ms. molto spesso può averlo raffazzonato a modo suo.

Ad esempio il Witte, com’è noto, a motivo di questo, nella sua edizione della Divina Commedia, scelse sempre la lezione più difficile e la più primitiva. Or noi qui non seguiremo in modo assoluto il principio da lui posto, ma cercheremo di guardarci bene da quelle lezioni di codici che evidentemente rivelano nell’amanuense lo sforzo di averle volute ammodernare o comunque ritoccare a capriccio.

Abbiamo poi messo da parte la quistione ortografica, che nel caso nostro aveva poca importanza: non possedendo l’autografo, si trattava di riprodurre l’ortografia del copista α e del copista β, posteriori di lustri e anche di secoli.

La questione più ardua e più importante era quella della scelta del codice da seguire per la nuova edizione fra i vari che ancora rimangono. Dopo un esame accurato e diligente, noi ci siamo persuasi che il codice migliore è G (Laurenziano Rediano 66), e lo abbiamo pertanto adottato nella nostra ristampa, non per questo però neghiamo autorità agli altri, che potranno più o meno esser da noi seguiti in ordine di importanza, quando il bisogno lo richiederà. Certo in questo lavoro abbiamo cercato di essere quanto più fosse possibile obiettivi. Le varianti di senso abbiamo notate sempre e così quelle evidentemente spropositate, perchè talora lo sproposito può esser utile per ricavarne una nuova lezione, tal altra risulta chiaramente da che lezione vera derivi.

Quando non si è potuto fare a meno e abbiamo dovuto aggiungere o togliere delle lettere o delle sillabe, per ragioni metriche, nel verso, le abbiamo chiuse in parentesi quadra.

Si è poi stimato utile riportar tutte le glosse del codice preso a modello. Certo, per quanto abbiamo posto ogni diligenza nella ricostruzione del testo sulla scorta dei migliori codici rimasti, restano più qua e più là dei luoghi nella Cronica, che per l’imperizia dell’autore o per esser arrivati a noi guasti e corrotti, o per l’una e l’altra cagione insieme, non danno alcun senso, ma a tale inconveniente non si poteva porre rimedio.

Arezzo, 14 ottobre 1917.

GIOVANNI GRAZZINI.

Note

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[1] Vedi QUADRIO, Storia e ragione d’ogni poesia, Milano, 1749, vol. IV, P. 134 -, TIRABOSCHI, Storia della Letteratura italiana, Modena, 1775, tomo V, PP. 330 e 462; MURATORI, RR. II. SS., tomo XV, 809 sgg. ; FRANCESCO REDI, Vocabolario di voci aretine, ms. della Biblioteca Marucelliana di Firenze, num. 69; Tommaso Bari, Letterati aretini, Biblioteca Aretina della Fraternita dei Laici, Ms. 56 e Giornale dei letterati d’Italia, vol. XI, Venezia, 1712, p. 273.

[2] Gamurrini, Storia genealogica delle famiglie nobili toscane ed umbre, Firenze, 1668, vol. IV, p. 121. Egli è nominato in un documento in cui dodici principali cittadini promettono sotto pena di mille lire d’oro di non turbare per l’avvenire la libertà ecclesiastica, allorquando gli Aretini cercarono esser ribenedetti dal pontefice Gregorio IX, nell’anno 1236, essendo potestà Cavalcabove di Cremona (vedansi anche gli Annales Arretinorum maiores in questa ristampa muratoriana XXIV, P. I ad annum, e la nota relativa).

[3] Vedi Cronica, cap. XII, v. 67 sgg.

[4] Arch. comunale di Arezzo, stanza I, armadio A, n. 1, e. 62: "Ego Bartolomeus filius olim egregii " legum doctoris domini Bonifacii de Sinigardis de Aretio etc., receptus et admissus fui in matricula notariorum civitatis Aretii etc. sub die xxv mensis novembris MCCCCXVII etc.".

[5] Op. cit., p. 103.

[6] Biblioteca della Fraternita dei Laici di Arezzo, Ms. 63, di seguito agli Annales Aretii (all’anno 1343); S. Tizio, Histor. Senens., .III, 643, ms. della Biblioteca Comunale di Siena.

[7] Apostolo Zeno, Lettere, Venezia, 1752, vol. II, p. 320.

[8] Capitoli del Collegio de’ Dottori e Notaci (anno 1339) in ARCH. COMUNALE DI AREZZO, stanza I, armadio A, n. i, rubrica viii: Item quod, si aliquis notarius voluerit esse de collegio supradicto, etc., deliberent [Rectores) si ipse volens intrare collegium sit bone conditionis et fame et si est aetatis ad minus viginti annorum. Tale inscrizione era poi resa necessaria da una disposizione dello statuto del 1345 (vedasi questo statuto, libro I, rubrica LXXVIII, in Archivio comunale di Arezzo stanza I, armadio A).

[9] Pasqui, op. cit., p. 106. Forse egli si fonda sopra una frase che è nel primo dei documenti che cita, riguardante però ser Goro e la sua famiglia in generale. Ora quel documento dice soltanto che ser Goro paga certa somma come dote di sua figlia Simona, che va sposa a un tal Bencevenne, il quale professa di vivere a diritto longobardo (profitens se lege vivere longobarda). Questo però non implica che egli non potesse unirsi con una donna di famiglia vivente a diritto comunale italiano, perchè sappiamo dalle piú elementari nozioni di diritto medievale che nel secolo XIV potevano benissimo contrarsi matrimoni fra gente di diversa origine.

[10] Il Pasqui anche qui senza appoggiare a nessuna testimonianza la sua asserzione, dice che la famiglia di ser Bartolomeo fu ghibellina (op. cit., p. 106).

[11] Vedi Cronica, cap. V, v. 127 sgg. e le note relative. Vedi anche Ser Guido di Rodolfo, nei Ricordi tratti dai suoi protocolli notarili (Pasqui, op. cit., p. 83), il quale però pone il fatto il 20 dello stesso mese: non crediamo che ci sia contraddizione. Cominciò la caccia ai 35 Ghibellini il 20 e terminò il 30 con la generale espulsione; ciò risulta chiaramente leggendo bene l’ultimo periodo della notizia di quell’anno 1341. Due circostanze accrescono valore a questa ipotesi; prima l’aver il poeta notato nella sua Cronica la data del 30 anziché del 20 novembre come fa il suo contemporaneo guelfo, ser Guido, il giorno cioè in cui furono espulsi dalla città i Ghibellini, invece di quello in cui cominciò a darsi loro la caccia e l’altra che il cod. A legge: "Fummo cacciati il dì di sant’Andrea | Ghibellin tucti, ecc. „ e seguita così in prima persona.

[12] Di queste nozze si hanno vari atti in un protocollo di ser Marco di Baldo di Tancredi (Instrumenta ser Marci Baldi Tancredi, 1346 - Archivio comunale di Arezzo, stanza I, armadio A, n. 3, cc. 14, 60 e 94 t); alcuni pubblicati in ciò che hanno di interessante dal Pasqui (op. cit., pp. 237-238), altri non pubblicati affatto. Nel documento a c. 60 - Matrimonium Bencevennis et domine Simone - è la data di esso, 20 luglio (die vigesimo mensis iulii); da un altro, a c. 14, risulta che la famiglia del Nostro è di condizione agiata, se può assegnare alla sposa una somma non indifferente per quei tempi, " dugentae septuaginta quinque librae, videlicet dugentae librae in rebus stabilibus et septuaginta quinque librae in pecunia ".

[13] Ecco come si esprime nella Cronica (cap. X, v. 142 sgg.) : " Io so ben, padre, ch’ è come tu dici | però ch’io fui presente a quella tresca | che di novembre fu al tre e dieci. | Pregoti, figliuol mio, che non ti incresca | s’io ti rampogno, chè con gli altri tucti | voi non valesti una vil fava fresca." E parla con competenza di ciò che avvenne, scende a molti particolari, perfino sa i nomi di certi facinorosi, ma non li scrive per prudenza. Vedasi anche intorno a questa sollevazione Simo D’Ubertino che fu pure testimone oculare (Pasqui, op. cit., p. 90.

[14] Vedasi anche Simo D’Ubertino, in Pasqui, op. cit., p. 90, da cui risulta che dalla sollevazione degli Aretini all’entrata della compagnia di San Giorgio non ci corse che pochi giorni, e fu un avvenimento proprio conseguente a quello, senza interruzione, per modo che il Caracciolo non ebbe neanche il tempo di cacciare i ribelli ghibellini. Preso che ebbe il cassero grande, vi si rifugiò coi Guelfi fedeli e deliberò con loro di mandare a chiamare contro i Ghibellini la compagnia di San Giorgio ch’era in quel di Perugia, promettendo di darle a saccheggiare la città " et che (si noti) de’ Ghibellini potessero fare remedire et ucidere come fosse di loro piacere „. Il Muratori ( RR. II. SS., XV.) nella citata Prefazione dice: " Cum vero civitas aretina ab Alberico de Barbiano, comite Cunij atque ab eius copiis capta et miserrime populatione anno 1381 afflicta fuerit, auctor est Gorellus non uno in loco cap. XII, se quoque in tanta calamitate immixtum " fuisse, sibique fuga salutem quaesisse ".

[15] Capitoli del Comune di Firenze, Inventario e regesto, Firenze, 1866, III, 104. Elezione dei sindaci a fare la sottomissione - Anghiari, nella chiesa di sant’Agostino, 1385, giugno 9. Il consiglio si dice convocato per ordine del vicario ser Bartolomeo ser Gorelli de Aretio. N’ è copia autentica nell’Archivio di Stato di Firenze. Diplomatico, provenienza dalle Riformagioni, atti pubblici.

[16] Facil cosa sarebbe determinare la data della sua morte, se ci rimanesse fra i Registri dei morti che si conservano nell’Archivio della Fraternita di Santa Maria della Misericordia d’Arezzo, quello successivo al 1392; nell’altro registro dal 1° febbraio 1396 al 29 agosto 1402 non è affatto accennato.

[17] Cronica, cap. XIII, v. 55 sgg. Vedi anche il cap. XVI, v. 64 sgg. L’ignoto amanuense del cod. I, di Città di Castello, nota ingiustamente al cap. XIII, v. 103, che il nostro poeta fu ligio a detto Ludovico da Pietramala e perciò lo loda: "Incidit in Scillam putans evitare Cariddim. Povero vecchio Aritio, sei mal capitato, se bene ser Bartolomeo di ser Goro il quale parla ad esso era servitore di detto Ludovico Tarlati da Petramala, però tanto lo loda. "; e al cap. XVI, v. 112, nota che fu anche presente al testamento di lui.

[18] Vedi Moschetti, op. cit., p. 55. La trama, semplicissima del resto, che è nella Cronica di ser Bartolomeo, la ritroviamo anche nella Cronica di G. De Bonis aretino che sarà da noi pubblicata in seguito a questa, e in cui più specialmente si parla del sacco d’Arezzo, al quale si trovò lui pure come ser Bartolomeo. Solo che il vecchio non simboleggia Arezzo, ma è un santo padre sceso dal cielo a consolar l’autore nella sua prigione, giacchè fu fatto prigioniero dai Genovesi, e le figure allegoriche della Superbia, Invidia, Avarizia, Lussuria non sono in sul principio del poemetto, ma solo al canto lo e seguono dietro dietro un trionfo.

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Ultimo aggiornamento: 04 febbraio 2009