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Bartolomeo di ser Gorello Cronica dei fatti di Arezzo

Ser Bartolomeo di Ser Gorello

Cronica di Arezzo

maggio 1322 (1326)? - 1394?

Edizione di riferimento:

Rerum Italicarum Scriptores, Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento, ordinata da L. A. Muratori, nuova edizione riveduta ampliata e corretta con la direzione di Giosue Carducci e Vittorio Fiorini tomo xv - parte I Cronica dei fatti d'Arezzo di ser Bartolomeo di ser Gorello, Bologna - Nicola Zanichelli, a cura di Arturo Bini e Giovanni Grazzini, edito dal Muratori col titolo: Gorelli aretini notarii poëma italice scriptum de rebus gestis in civitate aretina ab anno mcccx usque ad annum mccclxxiv.

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

G = codice Rediano-Laurenziano, 66.

F = codice       "               "          20.

E = codice dell'Archivio di Santa Maria della Pieve di Arezzo.

A = codice della Bibl. della Fraternita dei Laici di Arezzo, num. 2.

B = codice    "      "       "        "          "     "     "       "       "       num. 1.

C = codice    "      "       "        "          "     "     "       "       "       num. 3

D = codice   "      "       "        "          "     "     "        "       "       num. 4.

H = codice dell'Archivio di Stato di Firenze (Spogli del padre Eugenio Gamurrini, vol. V).

I = codice dell'Archivio Capitolare di Città di Castello.

Mur. = edizione di L. A. Muratori.

P = edizione di U. Pasqui.

CAPITOLO I.

Passato il tempo di mia dolce etade

infante, pueril, pur et gioconda

d'adolescentia e vana pubertade,                          3

da poi di gioventù fiorita e bionda

da quell' incarco che no po fuggire

che ne fa poi mutar la dolce fronda;                     6

così trascorso nel mondan desire

con lascivo pensier e senza fama

che per vitii non s'ha nè per dormire,                   9

tempo passato indarno si richiama

diss' io, vedendom'esser a quel ponto

che le mie foglie imbiancava il mio rama.           12

Cinquanta volte il sol s' i' ho ben conto

per li dodici segni era passato,

co' quattro più, che 'l Sagitario è gionto,             15

poichè dal Tauro fili alluminato

ai Gemini vicin, nel dì che dati

fur li martiri a Giovanni beato [1],                        18

quando i miei sensi tucti adormentati [2]

eran per gran pensier ch'el core havìa

da longe parti e più da le nostrati.                        21

E l'uno spirto de' tre si partìa [3]

fantasticando e non per cibo troppo

ma per notar le cose che sentìa.                            24

Sì come quelli che per novo intoppo

alcuna volta per paura adombra

et a suo caminar riceve stroppo [4],                       27

così lo spirto per una grand'ombra

feroce armata con due corna in testa,

che subito trovò, tucto se 'ngombra [5],                30

e per certo saper chi fussi questa

così crudele aspecto e sì acerbo,

rechiese lei con sua parola onesta:                         33

Dimmi chi se' in atto si superbo?

Io ti scongiuro per Dio vivo e vero,

eterno sempre et incarnato verbo.                         36

El viso suo sì rigoglioso et fero

volse ver lui co' la faccia focosa,

monstrando ben l'aspecto suo altero                     39

et disse con sua lingua venenosa:

Io son la mala pianta di superbia

a Dio spiacente più ch'ogni altra cosa.                  42

Io so' ingrata, arrogante et acerba;

io son nelle gravi cose e nelle scieme

colei che compagnie rompe et dinerba [6].           45

Il mio superbo et maledetto seme

poi che cadde dal ciel mai non si spense

per l'universo, poi che sempre geme.                    48

Ma molte sono e più saranno accense

le mie faville per disfar colui

la cui favilla mio color depense.                            51

Alhor lo spirto disse: Dimmi a cui.

Ella rispose: Tosto el vederai;

se 'l voi saper, dimandera' ne lui.                          54

Chi son color che sotto a' piei tu hai,

disse lo Spirto, donne tanto meste

et perchè a loro tanto oltraggio fai?                      57

Rispose alhor: Le tue parole honeste

mi stringon sì, che gli è forza ch'io dica

e facci a te lor tutte manifeste.                               60

Hor sappi che ciaschuna m'è nemica

Iustitia è l'una, che spada e bilanza

tener diritta in man non gli è fadiga;                    63

l'altra è la moderata Temperanza

con amorosa Pace et con Fortezza

ch'è sua sorella e già mai non sta sanza.              66

Da queste si governa ogni richeza

ed ogni stato, signor e comune

è glorioso et vive co' dolceza.                                 69

tenendo lor figlioli ad una fune

d'amor legati, sì che giamai tardo

lassano il dolce per l'amare prune.                        72

Ed io superba dentro et di fuor ardo,

tiranneggiando robbo, uccido et sforzo

e di mia lingua tutto son busgiardo.                     75

Sempre amo guerra et in ciò no m'amorzo

tosto verranno qui a me da presso,

che disfaran con meco ogni mio sforzo.               78

Et così stando poco a lei da cesso,

venne una veglia magra e mal vestita [7],

che affamata pareva del suo stesso.                      81

La cupida, bramosa e scolorita

teneva in mano più serrate borse

de le quali era al collo ben munita                        84

Alhor lo Spirto, che de lei s'accorse,

mirando la sua faccia tanto obscura,

quasi dal suo camin tutto si storse [8].                      87

 Poi, come 'huom che tosto s'assicura,

poi ch'ha passato il dubio e non li noce,

dove il primo pensier li fa paura,                          90

mosse a quel ombra tosto la sua voce

dicendo: dimmi chi sei così trista?

e di qual sei venuta sì feroce?                                93

Quella rispose: L'afamata vista

dichiara la mia voglia tanto cupa,

che sempre brama più, quanto più acquista.      96

Io so' la trista e maledetta lupa,

di cui mai l'appetito non si sazia

e quanto l'empio, tanto più s'acupa [9] .               99

La mia mortal miseria et disgratia

fu collocata nel profondo inferno

dove con molti in infinito spatia.                           102

Io son colei che l'alto Sire eterno

avida per denari tradir feci

e molti poi han letto tal quaderno.                        105

Io son colei . . . . . . . . . . disfeci

per lo . . . . . . . . . . . . . . . . oro

ch'a molti darà ancor diverse neci.                       108

E certamente tocharà a coloro

allevati di latte mio antico,

che grandeggiar nel vago concistoro.                   111

El nome suo nè il loro io non ti dico,

perchè tosto odirai di suo lamento,

tanto che ti dorrà, si sei amico.                              114

Quelle parole in suo proponimento

fermar lo spirto, e de seguir più innanzi

acuto fece, suo intendimento.                                117

 Misera, di' perchè più disavanzi

sotto e' tuoi piei le vaghe giovinelle

disse lo Spirto, e sopra loro stanzi?                       120

Rispose l'ombra: L'accese fiammelle

ardeno sempre contro la mia voglia,

perchè nemica so' di tal sorelle.                             123

Cortesia l'una, che tutta si spoglia

per lo prossimo amico e pel vicino;

di loro adversità sempre cordoglio,                       126

l'altra, che 'l viso mai non tenne chino,

è Magnanimità, ch'è sempre accesa

inel suo core prezioso e fino.                                  129

Non cura povertà, nè fare spesa,

sta presto sazia nè mai sente fame,

et non offende e non cura d'offesa.                       132

Et io sempre ho le voglie cupe e grame,

et nulla cosa drittamente faccio,

se non quando di morte io ho 'l velame.               135

Di mia condition più dir mi taccio,

perchè si vederà con vero effecto

quel ch'io t'ho detto et più, però mi spaccio,        138

per una mia sorella ch'io aspecto,

la qual tosto vedrai, se non ti parti,

ch'ess'e un'altra semo in un concetto.                   141

Alhor lo Spirto, che di cotali arti

conscio non era, nè mai proveduto,

pauroso stava ne' pensieri sparti.                          144

E così poco stando hebbe veduto

venire un'altra in dispietosa forma,

che forse a dirlo non saria creduto.                       147

E per notare apien della sua norma,

disse lo Spirto in sè mirando fiso,

non si convien che tu qui ora dorma.                   150

L'ombra venia con un dolore asciso,

antica molto, strefinando i denti,

mormorando fra sè, col basso viso.                       153

Verso de Dio et verso dei parenti

mostrava odiosa et inverso ciascuno,

col naso piacto e gli occhi di serpenti.                   156

El suo colore fra pallid' era et bruno,

in man duo chuori sanguinosi havia,

stringendo sì che gocciava caduno [10].                159

Lo spirto alhor quando costei vedìa

Mirami, disse, perchè io non ti temo,

tu sei pur quell'Invidia ch'io credìa [11].                162

Se tu cognosci così ogni scemo,

si come tosto me hai cogniosciuta,

la navicella tua havrà bon remo.                           165

Così foi facta, allevata e cresciuta;

invidïosa so' d'ogn'altrui bene [12];

l'altrui letitia sempre m'è nociuta.                         168

Dogliosa so', se in questo mondo viene

cosa che piaccia a veruna persona,

di chi grandeza o buono stato tiene.                     171

Io so' colei ch'al padre non perdona,

et la mia arte trista è si sottile,

che sa forar per ogni mente buona.                      174

Quanti n'ho fatti già venire a vile

bassezza, che son stati gran signori 

ciaschun mi prova, vechio e puerile.                     177

Hor mi risponde: Perch'ei tuoi dolori

pruova quel giovinetto e la sorella,

disse lo spirto, che coi piedi accori?                       180

L'ombra rispose: Tua chiara favella

m'astringe sì, che non posso tacere,

ch'io non ti dica apien di lor novella.                    183

Hor vedi ben se io ho da tenere

amendua loro per mortai nemici,

perchè fan contro me il lor potere.                        186

Quel giovinetto, di cui tu mi dici,

è Amor vero, che nel cor s'accende

ad amar tutti et haver per amici.                          189

Per loro in tutto se dispone e vende

senza riservo e non riguarda grado,

senza lui amistà non si comprende.                      192

L'altra è la donna del gran parentado,

ardente Carità con gran desio,

che stata sempre mi è sì a disgrado.                     195

Questa condusse el ver figliuol de Dio

a prender carne et voler morte cruda

per menda del peccato iniquo e rio [13].               198

Per me, meschina, l'anima di Guida

perduta fu, et per lo mio conseglio

convien che infernal pena molti inchiuda.           201

Io non ti posso più dichiarar meglio

color che sono et più saranno molti

quei che per me faran disfare un veglio [14].        204

Gli ombrati corpi insieme raccolti

senza lo Spirto et l'un l'altro mirava

come per consigliar se fusser tolti.                        207

Alhor lo spirto tacito ristava;

sentendo mormorar fra tal famiglia,

sempre temendo, intorno si guardava.                 210

Or quei vidde alegrar a lor le ciglia

e far tra lor sì smisurata festa,

onde lo Spirto n'ebbe meraviglia,                         213

dicendo in sè: Che novità è questa?

Sentii da parte fare un grave pianto

con alta voce cordogliosa e mesta,

perchè lo Spirto a me tornò intanto.                            217

CAPITOLO II.

Capitulum secundum de condolentia senis.

De prima et secunda constructione civitatis

Aretii, et de nobilibus domibus civitatis predicte.

Tornato a me lo Spirto pauroso

per le tre ombre, quali havìa lassate [15],

e del pianto ch' udii sì doloroso,                            3

tucte le membra mie fe spaventate

nel duro sonno, sì ch'io mi riscossi [16],

e poco stetti e fur radormentate.                           6

Se ben ricordo, credo che ciò fossi

già in su l'hora che la vagha stella

aspegne de la notte e' vapor grossi [17];                9

e quando ancor la dolce rondinella

forse di sua tristitia si ricorda,

et in sua lingua canta la novella [18].                    12

La mente mia non è di sonno ingorda,

et io tornai a quel grave lamento

che mi facea l'orechia quasi sorda,                       15

et allo Spirto diè sì gran pavento

ch'io mi volsi dintorno a ragguardare

chi quel[lo] facia co sì duro tormento.                  18

Così mirando io sentii parlare

piangendo sempre, con la voce fiocha,

sì come l' uom suol far per gran cridare.              21

E la sua lena mi parea sì poca,

che mi feci a veder chi fusse quelli,

et che dolore havìa, che sì l'affoca.                        24

Approximato come fui ad elli,

viddil d' antiqua et honorata vista

coi panni lacerati et in capelli [19].                        27

Dal viso li pendea canuta lista [20]

di quell'antiquo riverente aspetto,

come fu d'Abraam o del Salmista.                        30

Di lagrime e di sangue fine al pecto

rigava dalla faccia sua antica,

sì ch'el morir monstrava a lui diletto.                   33

Delanïato da gente nemica,

dolersi dimonstrava di sè stesso

et di chi dava a lui cotal fatica.                              36

Vedendo sè e' suoi in tal processo

esser venuto, bastemiava forte

chi condotto l'havea a tale excesso.                       39

Malediceva sua gravosa sorte,

che i suoi da' suoi son messi a roberia,

a stupri, incendi, adulteri et morte [21].                42

Malediceva il sangue d'Ungheria,

quel da Durazzo e la pugliese gente [22],

e chi diè lui di lui la signoria.                                 45

Malediceva tutta le semente

di Bostoli, Camaiani et Albergotti

e quanti ne fur rei mai di lor gente.                      48

E bastemiava forte in duri motti

la petra e 'l lion rosso [23] che non fece,

quando potè, accordar loro i scotti.                      51

Maledicea trecento mille e diece

settantuno, diciotto di quel mese,

che altra fiata appresso lo disfece [24].                  54

Benchè io avessi sue parole intese,

pur di saper chi fussi hebbi gran voglia,

e la casgion delle sue gravi offese                          57

Padre, diss'io, perchè cotanta doglia

nel vostro pianto voi haver monstrate,

et chi stracciato v'ha la vostra spoglia?                 60

Chi sete voi? per Dio, non mel celate,

se fortuna felice ve ristori,

et faccia mai le vostre voglie grate.                       63

Et egli a me: Deh perchè più m'accori?

qual terra al mondo è che non si' piena

dei fortunosi et gravi miei dolori [25]?                   66

Ma benchè 'l tuo parlar mi crescha pena,

perchè tu devi haver di me cordoglio

io tel dirò, se non me vien men lena.                    69

Chi fui, chi sono e perchè sì mi doglio,

chè l'esser mio ha revoluto carte,

et ho perduto l'onor ch'haver soglio.                     72

Inimicato m'han Saturno e Marte

più che non fecer giamai a' Troiani

et usato hanno in me ogni lor arte;                       75

chè la lor procedé da' li lor strani,

la mia da' miei e però più m'offende,

ch'esser dovian figlioli e furon cani [26].               78

Se voi ch'io dica, a mie parole attende,

pon l'intelletto tuo a la mia boca,

e non curar s'alcun te lo contende.                        81

Et nota e scrive ciò ch'ella te schoca,

che fia memoria eterna di tua fama,

e non temer chè ' vero è forte rocha [27].              84

Padre, diss' io, la tua doglienza grama

mi costa tanto e sì forte mi coce,

ch'io metterò al tuo ordir la trama;                       87

ma ben vorria che da più alta voce

retracto fussi sì profuso tema

di tua adversità tanto feroce,                                 90

perch'io cognosco mia virtude scema,

et ignorante più che tu non credi,

se la mia pura fede non mi rema.                         93

Io non so più se non come tu vedi

disposto al tuo voler, padre mio degnio,

chè sempre al tuo honor tucto mi dedi.                96

Figliuol, diss'elli, ora apri lo 'ngegnio

col buon voler, che sempre hai dimostrato,

e fa di verità tuo fermo segnio,                              99

Io te dirò 'l principio di mio stato,

di mia natione antiqua e di miei nati

e qual di loro a tempo m'ha onorato [28],             102

e quai verso di me son suti ingrati

e facto m'hanno sempre onta e vergognia,

nè vale perch' io gli habbia gastigati [29].             105

Certo son io che non dirai menzognia

et io la scriverò, padre, via meno,

chè chi la scrive abaiando agognia.                      108

Quando che sia forse fia sereno,

e tu meriterai l'opere tutte

e metterai al tuo cavallo il freno [30],                    111

e le malitie tucte fien destrutte

di quei, che tanto fanno vitupero,

e le virtù dei buon saran construtte.                     114

Et io non dirò mal dicendo il vero;

come li piace chi più vol s'adiri,

io virò pur con l'animo sincero [31].                      117

et lacrimando con gravi sospiri,

come colui che tosto non s'aqueta,

perchè allentati li sieno i martiri.                           120

La tua parola par tanto discreta,

si ben comprendo tua oppinione,

ch'io ti dirò ogni cosa secreta.                                123

Diss'egli a me: Tito Livio pone

ch'io fui di tre l' un capo di Toscana

e fui con li altri Etruri ad un pennone [32],           126

benchè se dica per la gente adana

che Urelia prima nominato fosse [33]

per quella che si fe di vanzarana.                         129

Superbia, invidia la stolta commosse,

odendo commendar mio nobil sito

col suo figliuolo mio principio mosse,                   132

vedendo Etruro el subito partito

non proveduta, loro danno, impresa

che d'invidia sempre avessi invito [34] .                135

Et così certamente è stata accesa

fra i miei figlioli e più fra molti e molti,

ch'hanno di me per sè facta contesa.                    138

Sono superbi, arroganti et stolti

comunalmente più che non han possa [35],

e son per questo spesse volte colti.                        141

Schifai però la disdegniosa fossa,

che vien dal Casentin dritto a mia foce,

e quando è presso a me, fa sua rimossa [36].        144

Ma quel che più di lor forte mi coce

è che del ben comun non son zelosi,

perchè Sybilla ver dica sua voce [37].                    147

Del proprio bene son desiderosi,

et pure invidia è loro proprio vizio

et in l'altre virtù sono famosi [38].                          150

El nome vero mio fu sempre Aritio

per le molt'are, ch'eran nel mio centro

dove alli dei se facea sacrifitio.                              153

Totil me vense, che di fuori e dentro

disfar mi fece per difetto altrui [39],

e par tornato a star spesso qui in centro,              156

Io non ti dico crudeltà di lui,

perchè son rinovate assai più crude,

aymè doglioso, perchè e da cui!                            159

Lassomme tutte le mia membra innude

d'ogni forteza [40], sì che poi convenne

cioè: che' e' cittadin fuggiti alla palude                 162

rimesse ch'ebbero un poco le penne,

mi riponessin in picciola forma

che da i Pescioni a sommo Piaza tenne.               165

Ma perché molti si fan della torma,

dodici fur le case a far tal banda:

parmi che a nominarle tu ti dorma [41].               168

Fecemi poi la seconda ghirlanda,

ch'ancor si vede da Santo Agostino,

quel che mi volse far mutar vivanda,                   171

vescovo mio primo Marcellino,

che fu mio nato et per suo vitio volse

tormi all' imperio e darmi al fiorentino.               174

Di tale impresa molto mal gli colse

fu trasginato infino a Castiglione,

poi del mal far mortal prezo gli colse.                  177

Et degna fu la sua condanasgione;

cusì fussi punito sciascheduno

che è di mio dolor vera casgione [42]!                   180

Hor ti vuo' dir figliuolo; ad uno ad uno

ei miei figliuol che son degni di nota,

quel che si veste di bianco e di bruno.                  183

Alhor si pose la mano alla gota,

com'huom che si volessi arcordare,

o pensi donde ingomenci la ruota.                        186

In Crocifera me vo cominciare,

poi che è la somità de' miei confini,

et in ciò non mi par, figliuolo, errare [43].             189

Perdona, Montebuon [44], Marabottini [45],

Berlinghieri [46] Maffeiguidi [47] a et Paganelli [48]

e Guidoterni [49] et ancho Bostolini [50].               192

che stati sono contra me sì felli ;

per lor superbia non volser mai pari

e' lor vicin, se no' com' lupi agnelli.                       195

Seccamor, Toti [51], Cathenacci [52]  e Gozari,

Cioncoli, Sinigardi [53] e Caponsacchi [54],

Vicchi, miser Angiesto [55] e i suoi sì cari.             198

In Sant'Andrea [56]  fa che tu v'atachi

Averardeschi, Mannovelli e Tasconi [57]

e Testi [58], e lor vicin non vo' che fiachi.               201

Domisgiani [59] Altucci [60], e Redolfoni [61];

altri ve son notari e mercatanti

e sarchiator di nuche e di popponi [62]                  204

Gentilezza di Fuoro [63] hor vo' che canti:

casa de gli Ubertini et Pietramala [64]

e dirai vero senza far milanti                                 207

Et come fuor al sommo de mia schala

in altra parte ti fia manifesto

et quanto anchor per me è stata mala.                 210

Saxoli, il cui vestir è color mesto [65],

Bisdomini [66], Cathenaia e Ranierguidi,

ch'ebber per l'arte lor voler sì presto.                    213

Tagliabuoi, Appariti et Bracci fidi [67],

Rattucci, Arnaldi et ancho Magalotti

e poi in Borgo [68] convien ch'io te guidi.             216

Dove fur gli Odomier [69] già molto dotti;

apresso fuoro et sono ancor Roselli [70]

e quei che m'han sì concio, gli Albergotti [71].     219

Già qui di lor non vo' che tu novelli;

altrove ti dirò, se non mi scorda,

chi sono stati et chi son hora quelli.                      222

Poi son Guasconi [72], se ben m'aricorda,

Rozelli, Acceptanti, Cenci [73] et Azi [74]

et Camaian [75] , che fan mia voce sorda.            225

Seguitan poi ei valorosi Pazi [76]:

de' quai non so ch'io possa dir vergognia,

o contro me facesser mai tramazi.                        228

Più non ti conto per non dir menzogna.

CAPITOLO III.

Si come t'ho promesso a non mentire,

seguendo l'ordinata mia bisogna,

(voglio ciascuna delle cose ridire). [77]                   3

.    .    .    .    .    .    .    . 

.    .    .    .    .    .    .    .    .   

.    .    .    .    .    .    .    .    .                                        6

poi renunziò sì come a lui piace

e lassò il secular mio reggimento

et anco poi la bostolina face [78].                           9

Generò Fumo ancor di quel talento,

el qual per sua malitia simil volse

romper mio stato per farsi contento.                    12

El suo misfatto el fiorentin distolse;

costui anchora, per voler piacere

a l'un de' conti, al fratel vita tolse [79].                  15

Le proprie inimistà mi vo' tacere,

perchè non scriva d'alcun rimprovero

ch'a recitarle potrebbe accadere.                          18

Reggiendo poi mio stato el sacro impero,

libero et franco con virtute et senno,

non quanto poi a voler dire il vero,                       21

ei Fiorentini che sempre me fenno

ingiuria per recarmi al lor contado,

tenendo ferma pace un picciol cenno,                  24

essendo padre del mio veschovado

l'altro degli Ubertin franco et ardito

che non curava lor valer d'un dado [80],               27

fecer da Siena e d'altronde lo 'nvito,

me osteggiando fin presso alla terra

et poser el battifol su in Turrita [81].                      30

El franco padre maestro di guerra

assalì loro da parte del campo,

tagliando ed uccidendo per la serra.                     33

Parte de lor fuggendo per lor scampo

fo sconfitta da la Pieve al Toppo [82],

con crudele et mortale loro scampo.                     36

El fiorentino alhor più che a galoppo

del campo se fuggì con gran tristitia

et io in alegreza crebbi troppo.                             39

Sì che la rigogliosa mia letitia

tanto l'anno seguente insuperbìo,

che 'l sentì 'l vecchio, insino la pueritia [83].          42

Render mi fece sanguinoso fio

dei miei figliuoli in pian di Campaldino [84],

dove lassai l'orgoglio e l'onor mio,                        45

e 'l grande ardire del buon Guglielmino [85],

che per francheza s'era lì condotto

col popul mio contra al Fiorentino,                       48

dov'egli anchora accordò lo schotto,

volendo prima con virtù perire [86],

ch'ei suoi lassar e venirsene a trotto,                     51

perchè onor non s'acquista per fugire.

San Bernabò vittoriose mani

fece a Fiorenza sì, che riverire                               54

anchor si fa [87], et come caccia cani

seguir li Fiorentini sun quel poncto

fino alla porta con gli effetti vani;                         57

ch'al rimanente mio con ardir prompto

ricrebbe sì per difesa la possa,

veggendo il suo nemico a l'uscio gionto,              60

che senza mura con stechata et fossa

difeso fui per donne et per vechi,

ch'altri non m'era campat'a riscossa [88].             66

O figliuol mio, prego che ti spechi

nel mio dolor e certo vederai

se i' ho cagion di stracciarmi gli occhi.                 69

Chè i miei figliuoli valorosi assai

m'abbandonar fuggiendome dal seno,

per che vergognia averan sempre mai [89].          72

Ciaschun dice: hor così far dovieno,

cusì farem e ciaschun si condanna,

Chè tosto non resal chi perde el freno.                  75

Hor non tochiam più di questa vivanna,

perchè la troveremo ad altra mensa,

se troppa negligentia non ce inganna.                 78

Figliol mio caro, fra te stesso pensa,

diss'egli a me, quel che debba dire,

ch'io ti potria far parola stensa.                             81

Padre, diss'io, per non poter fallire,

aspetterò che dica, hor ti conforta

che anchor potrai in buon stato redire,                84

benchè rihaver non possa cosa morta,

nè ritornar indietro il fatto passo,

nè la parola poi che fuora è scorta.                       87

Riposato ch'egli ebbe il corpo lasso [90]

del gran dolor che al core li venìa

che 'l fece venir freddo come sasso,                       90

volsese poi a me, che anchor piangìa

per riverentia di sua degnia vista

e per la pena ch'haver lo vedìa.                             93

Figliuol, diss'egli, se il mio cor s'attrista,

come tu vedi, non è maraviglia,

perchè 'l perduto tardi si racquista.                      96

Padre, diss'io, el dolor che ti piglia,

se ben me arrecherò la mente al petto,

me farà sempre andar con basse ciglia.               99

Hor seguiam, figliol mio, quel ch'io ti ho detto,

chè quanto più dilunga la matera,

più mi tormenta e fammi più dispetto.                102

Chè con più mi ricordo quel ch'io era,

et hor mi veggio a sì facto partito,

non ti meravigliar se cambio cera [91].                 105

Poscia ch'io fui un poco rivestito

del seme di color, i quai camparo

in Campaldino a quel mortal convito,                  108

e di color, che molto m'honoraro,

a cui Tubbian per origine è dato [92] ,

che fece poi il sangue tanto chiaro,                       111

che per virtù fece el saxo quadrato [93],

che durerà fin che 'l mondo lontana [94]

per fama dico, benchè muti stato,                        114

non pur per lingua lombarda e toschana

è nominata Pietramala grande,

ma per ogni provincia oltramontana.                  117

Per ogni parte sua fama si spande,

et altrove odirai di sua grandeza,

ch'or mi convien tochar altre vivande [95].           120

Non era el popul mio però in basseza,

quando d'invidia crebbe nova setta

da cui discese la civile aspreza [96]                        123

Tra verdi e sechi se facea vendetta

e ghelfi e ghibellin non si contava, 126

essendo dentro podestà Ciappetta [97],                 129

el quale co' Uguccion [98] se gareggiava,

a cui spiacevan l'opere volpaie [99]

e il modo della guerra che menava.                      132

Dal dare el guasto et arder gran per l'aie

tornando l' hoste mia, a san Fumasgio

si spartir da le lance le menaie [100]                      135

ei guelfi che credien tornarsi ad asgio

fuoro allor morti e fuonne gran cordoglio

che poi ha facto a' ghibellin disasgio.                   138

Ciò fece il Conte, quel da Montedoglio

de l'hoste capitan, che tal divisa

è sìcrudele, e però dir ti voglio                               141

che non fu tal la crudeltà di Pisa,

del conte e dei figliuoi, come fu quella

e dispiacente a Dio per ogni guisa [101].               144

Et quando dentro gionse la novella,

Ciappetta [102]  non credia ch'altri il sentisse,

fece sonare all'arme campanella,                          147

perchè Uguccion co' secchi sbigottisse,

il qual con senno, francheza et ardire

mandò per Petramala che venisse.                       150

Qual francamente non tardò venire:

entrati che fur dentro de la porta

gli adversar tutti diedersi a fuggire.                      153

Quivi della brighata assai fu morta,

e l'un con l'altro vicin qual se fusse

con civil meschia se facia la scorta.                       156

E' verdi non sostenner le percosse,

quivi fu la battaglia dura e mala;

ne venni men, figliuol, alle tre scosse.                   159

Ma pur li verdi scieser della scala,

e dieder loco ai cechi che montaro

insiem con color da Petramala [103]                     162

Quanto credi, figliuol, me sia discaro

contar division fra' figliuoi miei,

che mai d'invidia non ebber riparo?                     165

O subita arrogantia di colei,

che inconsulta a edificar mi corse,

non prevedendo li buoni da' rei!                           168

O buon Latino, per cui si trascorse

l'aiuto mio con lo re Porsena,

che 'l suo sforzo a te tutto [lo] porse [104]                  171

se tu sapesti ben quant'era piena

di fortuna mia prima nazione,

chè non me premutasti in altra rena? 

Or ritorniamo a la nostra ragione.                               175

CAPITOLO IV.

Capitulum quartum.

De militatione nobilium de Petramala et de regimine

Episcopi Guidonis et domini pieri, et conflictu cortoni et aliorum.

Quand'il supremo imperial signore

di Luzimborgo discese in Italìa

vittorïoso Arrigo imperatore,                                 3

elesse Petramala per sua balia

fedel d'imperio che ben conoscìa

che latte ver li dava senza malia [105].                  6

Essendo in Roma con sua baronìa

Tarlato militon e ' buon Sacone

e per fama di lor cavalleria                                    9

dell'arme sua diè loro 'l gonfalone

per loro e dei figlioi famosi pregi

e sempre onor di tutta lor natione [106].               12

Tutti gli antichi et ampli privilegi

lor conceduti per divi passati

ratificò con viapiù larghi pregi.                             15

Taccian coloro, che si son vantati

d'anticha gentileza, che per vitio

di nobiltà si sono anichilati [107].                                    18

Taccia il quartiero che per dare inditio

di sua antichità si fa vicino

là dove el padron mio fe' sacrefitio                       21

del corpo suo per amor divino:

et tutto l'altro par lui una ciancia

petramalesco sangue e urbetino,                          24

e credesi esser di casa di Francia

per la banda de' gigli d'or che porta,

ma non venne però da là tal mancia [108].           27

Perché loro appetito si trasporta

in arrogante superbia viziosa,

fingon diritta la cosa che è torta.                           30

Per questo credon che sia generosa

lor gentilezza, e se la fu giamai,

per lor mal far se fa vituperosa.                            33

Car mio figliuolo, credo che tu sai

come del sangue buon pretamalescho

uscì colui per cui sì grandeggiai.                           36

Perch'ei non fu nè ongharo nè todesco,

ma da me nato, perciò più me crebbe;

quand'el ricordo, d'alegreza crescho.                   39

La morte sua pianger doverebbe

ciaschun mio figlio di città o contado,

e chi da lui per suo vitio screbbe.                          42

Questo fu padre del mio vescovado,

eletto e confirmato da Clemente,

a cui la sua virtù fu tanto a grado.                        45

Questo fu Guido, signor sì valente,

magnifico, gratioso e pien d'ardire,

a ghelfi e ghibellin tanto piacente [109].                48

Questo per sue virtù, senza mentire

eletto fu de comune concordia

dal popol mio aventuroso sire [110].                      51

Pace, giustizia furon le sue exordia,

principio e mezzo di sua signoria,

rimovitore di ciaschuna discordia [111].                54

Per la grandezza di sua valoria

crebbe mio corpo di notevol giro

per mio onore e di sua baronia [112]                      57

el qual più volte ha già dato martiro;

per costui trionfai in ogni canto,

finchè fortuna non fece retiro.                               60

Ogni vicin me riveriva tanto,

qual per amore e qual per sua temenza,

chè caro gli era star sotto suo manto.                   63

Sugetta fe a sua obedïenza

la Città di Castello e suo distretto

et altre ch'eran sotto altrui potenza [113].             66

Lucignan ch'era per mio gran dispetto

sforzato da' Senesi fe tornare

a riposare nell'antico pecto [114].                           69

Assai ne fece per terra gittare

roche e castella, qual che forte fosse

che contro a me volessin parteggiare [115].           72

Ogni tiranno e malfattor percosse,

perseguitandoli per monte e valle,

et ogni virtuoso riservosse.                                     75

Securo tenne ogni obscuro calle

per sua virtù e per suo gran potere,

nè mai postpose el mal fare alle spalle.                 78

Di ciaschun altro si può ben tacere,

che fussi franco, giusto e virtuoso,

quanto fu miser Guido al mio parere.                  81

Questo di gloria fue tanto famoso,

che l'alto Ludovico di Baviera,

al suo venire bene aventuroso,                              84

rechiese lui, per bon maestro ch'era

fra gli altri, a coronarsi degnamente,

et e' gionse a Milan con pura cera,                       87

con molta baronia trionphalmente,

dove quel sir di corona di ferro

coronò con sue man divotamente [116].                90

Principal fu tra gli altri, se non erro,

a cui il sacro imperio più s'aperse

dei suoi secreti, quai non ti disserro                      93

Ma quel Signior, ch'a sè non la sofferse

et non permette signoria terrena

esser perpetua, lui di vita sperse.                           96

De la cui morte e sua ultima cena

attristosse l'imperio et sua persona,

perchè era spenta tal luce serena                          99

Gonfalon fermo de la sua corona,

e de Toschana specchio e mio conforto,

e de sua morte tutto el mondo sona.                     102

Ben mi fece fortuna alhor gran torto,

sì de' sua morte convenne levarmi

da campo al Monte per lo suo sconforto [117];     105

che certamente non potia durarmi

che non venisse a mia obedïenza;

però sua morte più fece atristarmi.                       108

Consumat'era ogni sua potenza

e per forza a far patti conduciasi;

poi mi venne fallita la credenza.                           111

E' suoi consorti troppo ben potiansi

per la sua morte star senza paura

e renforzar nel campo conveniansi.                      114

S' io mi atristai, figliol, senza misura,

uomini e donne fino a fanciullini,

dir nol porrei nè tu farne scriptura.                      117

Ché quei ch'havia granditi ei miei confini

e ben sett'anni suto mio campione

et honorati li miei cittadini,                                   120

a Monte Nero venne al paragone,

partito da diversi e gran contrasti,

che invidia porse a l'inclito barone.                       123

O crudele Antrepos, perchè tagliasti

ei fili a questo valoroso duca,

et pur a me l' ingrati reservasti [118],                     126

che non me presgiar mai una festuca?

or non mi havesser più facto vergognia

la venenosa spina de marruca                               129

Come colui che dormendo agognia

per cosa recordata forse molto

o per parole aute o per rampognia,                      132

così od'io il sonnolento volto

del padre mio; credendo che dormisse,

stetti per ascoltar un poco folto.                            135

Alhor levò la testa a me e disse

Non creder, figliol mio, ch'io abbia sonno,

ma vengo meno, come s' io morisse,                    138

e le parole ch'hai udite sonno

uscite de mia bocca e del mio core,

e gli occhi miei già dormire non ponno,               141

perchè ricordo quel franco signiore,

e quanto sua virtù me fe' felice

a quanto facto m'è poi dishonore,                         144

per quei che fuoro sempre mai radice

di mia adversità et del mio danno

e molto più assai che non si dice.                          147

Ma già non sceser però de lo scanno

suoi frati e suoi consorti per sua morte,

chè per la forma sua gran tempo vanno.             150

Rimase tutta al suo fratel la corte,

e fu fatto vicar del santo impero [119]  

generalmente di tutte mie porte,                           153

el cavalier pregiato miser Piero [120],

che d'ardire e prodezza fu dotato,

ben proveduto e savio baccelliero,                        156

et fu signor dal popol confirmato

e con gran vigoria me governoe,

finchè non fu d'alcun mal consigliato,                  159

pur di color di cui più si fidoe,

ch'eran nemici segreti per parte

e sempre loro più ch'altri honoroe.                       162

La fraudolente e nemichevol arte,

che provocò el volpone miser Bico,

fo più creduta assai che mille carte [121].              165

Qual'è più rio che l'occulto nemico

che si mostra piacer e poi saetta?

e certamente è vero com'io dico [122].                   168

Per lor consiglio lassò la bachetta,

com'udirai quando sarà l'ora,

e ancor poi li dieder la gambetta.                         171

 Nobili cittadini drento e fora

imperiali quai dovia amarli,

per tal consiglio ciashun si scolora,                       174

e' prese per lor detto a discacciarli,

qual che si fussi ficta la cagione,

nè vo' che d'essa, figliol mio, ne parli.                   177

Con gli Ubertini prese la quistione

per contradire a Buoso il vescovado,

che non havesse la sua possessione [123]               180

Nier da Faggiola, a cui del suo contado

per forza tolse piú terr' e castella,

sì che convenne giocar di mal dado [124],             183

diese al grifone [125] e tosto fe ribella

la Cità, di Castello e prima il Borgo

et Anghiari si mutò per tal novella [126]               186

nel trentaquattro d'aprile e qui m'accorgo

che cominciò fortuna a dar la volta

e mie grandezza sommergere in gorgo.              189

Ma tosto fece el baron sua raccolta

d'amici e de signiori e di sua gente,

per far vendetta della cosa tolta,                           192

et cavalcò quel signor[e] valente

contra el grifone a le piagge a Cortona

du redotto era con forza possente [127].                195

Per tal novella Perusgia ne strona,

sentendo l'aspra et la crudel sconfitta

e come Petramala la sperona                                198

La qual per farla più di doglia afflicta

infino a l'Olmo corse, e 'ntorno al Lago

non ve lassò apena cosa ritta [128].                        201

Se d'allegrezza allor, figliol, m'appago,

tu lo vedesti, e ciaschun homo e donna

per vendicarsi alhor parea un drago.                   204

De drappi assai ciaschedun s'engonna

per honorar il principe romano,

imperïale Arrigo di Colonna [129],                        207

di tucta gente franco capitano

e ' valoroso mio caro signore

che fu fra gli altri cavalier soprano.                      210

El qual per fama di cotanto honore,

cinque fra suoi figlioli et sua consorti

cavallier fece per suo gran valore,                         213

Quanti e chi fuor, figliuol, nel campo morti

sarebbe a nominarli longo molto,

e quanti dentro fuor prigioni scorti.                      216

Ma ben potesti cognoscer al volto

Cechin di miser Venciol perusgino

e quel da Petriuol ch'ancor fu colto [130]               219

Guelfo de' Testi, mio car cittadino,

che per suo sogno si fece ribello,

nè volse star al debito confino.                              222

Con tutto questo el Borgho, nè Castello,

Anghiari et altri assai non ritornaro,

ma stetter fermi al proposito fello.                        225

Ei Perusgin lor forza rinforzaro

e poco poi m'assaliron da presso,

e su nel Duomo vechio s'accamparo [131].            228

E perchè dentro se sentìa commesso

tractato grande per molti adversari,

partissi el campo con salvo ricesso.                       231

Quei cittadin che si mostravan cari

amici del signior con falsi inganni

li dimostravan fallaci ripari [132].                          234

Per rimediar di guerra ai lunghi affanni

che nel mille trecento trenta quatro

cominciati d'april durar tre anni.                          237

Sinon non fu alli Troian sì latro,

nè si fallaci diede a lor colori,

dicendo: non bast'un, panghansi quatro.             240

A sì malvagi e falsi consultori

assentiva il signor, perchè men gioia

haver potessi seguitando errori                             243

Per questo el popul si recò a noia

sua signoria, per li gravi incarchi

che sarien troppi a chi l'havessi a gioia.                246

Poi che si vidde il signor a ta[l] varchi

esser condotto per lo mal consiglio,

disse: Io non posso far ch'io non mi scarchi,        249

e pace faccia col grifone e 'l giglio,

perchè me veggio per testa e per fiancho,

e quinci e quindi da ciascun dar di piglio [133].    252

Non credo, figliol mio, che fussi stancho

del reggimento mio nè de la guerra,

chè sempre fu in ogni parte franco;                      255

ma perchè vidde per tutta la terra

germinar tradimenti molto spessi

per quei che l'hanno condotto a tal serra [134].     258

Fece concordia e capitoli espressi

col fiorentino e per tempo commise

la guardia mia e tutti miei processi.                      261

El qual col perusin anchor divise

el mio contado, et diede in parte a llui

quatro castella et altro de che rise.                        264

Così sommesso per difecto altrui

al fiorentin, ribel del santo impero,

con gran mia servitù alora fui.                              267

O Petramala, che per miser Piero

vergogna porti d'avermi venduto,

questo te fia eterno remprovero [135]!                   270

Chè pur ch'havessi ciaschun dì saputo

di certo tradimenti più di mille,

non doveresti havermi conceduto [136].                273

Vender prima dovei castella e ville,

che farme servo del leon rapace

et ancho disgiunar[e] più là che le squille.           276

Chè, se i miei cittadin cridavan pace,

non la volian, se non che 'l lor tesoro

spender vedian per molti a ben mi piace             279

e creder te vedian pure a coloro

ch' hor m'han condocto a quest'infima valle

che non fu mai leal verun di loro.                         282

Tu te gittasti dirieto a le spalle

el dir de' tuoi consorti, molto certo

che tu non te mettessi a cotal calle,                              285

miser Tarlato e 'l buon miser Ruberto,

miser Rodolfo e tre figliuoi di Masgio,

miser Liale che ne parlò scoperto [137],                 288

che questo tornerebbe in gran disagio

a tucti e' Ghibellin comunalmente

che tosto sarian tracti di palasgio,

e così fu, figliol mio, certamente [138] .                         292

CAPITOLO V.

Capitulum quintum.

De dominio Comunis Florentie, de captura illorum

de Petramala, de dominio Ducis Atheniensis,

de rebellione et de expulsione Bostulorum et aliorum.

Non fe' sì alta e suprema allegrezza

el re Agamenon, quando sconfisse

la gloria dei Troian et lor grandezza,                   3

nè anchora li Roman, quando si disse

come Cartagin era suta spenta

per Scipione, prima che redisse;                            6

come fece Fiorenza senza infenta,

perchè adempito havea suo volere

de mia bellezza, ch' ha nel cor depenta.               9

Caro mio figlio, tu dia ben sapere,

come nel mille trecent' trentasette

me gominciò Fiorenza a possedere [139].             12

Octo di marzo piú che diciassette,

quel de Peruzzi con gran compagnia

capitan venne, e come ricevette                             15

da miser Piero con gran diceria

le chiavi e la bachetta, che son segnio

d'haver in tucto la mia signioria [140],                   18

generalmente, senza alcun ritegnio,

benchè comunalmente si dicesse,

ch'io era dato per modo di pegnio.                       21

Ma quai che fosser fatte le promesse,

de che si fe e de che seguì poi

non c'è rettor che ragion ne tenesse.                     24

Ma chi se patteggiò co' maggiori suoi

non havia letta la favola d'Ysopo,

nè notato il proverbio: gio' coi tuoi                       27

Chè se 'l lion ha bisogno del topo [141],

pur le più volte sforza suoi minori,

e tanto gli ama quanto gli sono uopo.                  30

Alhor fur fatti li novi priori

comunemente ghelfi e ghibellini,

così sortiti gli offitii e gli honori [142].                    33

Fassi giustitia a grandi e picholini

pel capitano e per lo podestate

e ben lo seppe alcun de' tuoi vicini [143].               36

Non si facia per tutta la cittade

mai impunita cosa dishonesta;

fuor terminate tutte le mie strade [144].                 39

E poco poi in cima de mia cresta

facta me fu per guardia la corona,

che stata sempre m'è così molesta [145].                42

Questo dispiacque a ciaschuna persona,

perchè era certamente la vigilia

di mala festa e non di cosa bona.                          45

Niente meno il popul pur s'omilia

a servar puramente lial fede

più che non fece a Karlo la Cicilia.                        48

Quattr'anni in pace quello stato sede

nè perchè sinistrasse presso al Serchio

Fiorenza, Petramala non excede [146],                  51

ma quei che cerchar sempre far superchio

ai lor vicini, per lor pozo cupo,

con falsità non stetter fermi al cerchio                  54

Essendo capitan di me quel lupo

degli Altuiti, simile a coloro

che dier con froda el malvagio sirupo [147].          57

Cinque fur quei del falso concistoro

e ciascheduno si monstrava amico,

e molto più perhò alcun di loro:                            60

Guelfo de' Testi [148] e quel giudice inico

degli Albergotti, losinghier coperto,

che dava a miser Pier velen col fico [149],             63

l'altro fu 'l niepo di miser Alberto

da Montebono, che morì sul cesso,

e ciò divenne a lui per divin merto,                       66

l'altro ch'è morto del suo sangue stesso

fu Nicolò da Castel Focognano,

l'ordinator di siffatto processo,                              69

l'altro fu de' Brenzai che sendo sano,

di subito morì del patrisonno,

che dal trattato non trasse la mano [150].              72

Tucti moriro che aver non ponno

ei divin sacramenti et non confessi,

perchè nel cerchio presso Iuda stonno [151]          75

Del capitan che fu sexto con essi,

se fo punito tosto l'udirai

de' suoi iniqui et malvasgi excessi.                        78

Che fusser stati più non odii mai

ei principai de sì facto tractato,

che fu casgion de' mie infiniti guai.                      81

Per dare effecto a quel ch'era ordinato,

quel capitano iniquo et perverso

per miser Piero tosto hebbe mandato,                  84

el qual del Poggio poco era diverso,

non proveduto da siffacto inganno [152].

O falso mondo, ben vai a riverso!                         87

Mille trecento et quarant'un anno,

a' venti dì del sfortunato mese,

che sempre facto m'ha vergognia e danno [153],  90

in su la terza, la brighata prese

col capitan miser Piero Sachone,

miser Ridolfo e 'l suo figliol cortese,                      93

e miser Luzzi, ch'ha il cor del lione [154];

allor li Ghelfi tucti si scopriro,

et assalir l'uno e l'altro prisgione [155].                  96

De lor viltà, figliolo, anchor sospiro,

che i Bostol demonstraro e del bel conio

el quale smozicar, ch'era sì miro [156].                  99

Era vero et eterno testimonio

de la virtù del buon vescovo Guido,

che non fu tramontan nè macedonio.                  102

Alhor con furia, con romore e strido,

contra di loro la brighata accesa,

desfero el Poggio e non vi lassar nido [157],          105

pur contra quei che non facian difesa,

per far di Petramala lor vendetta

e contra ei Ghibellin fecian contesa.                     108

Ma la spada de Dio non taglia in fretta

nè per lo 'ndugio supplicio dispensa,

se par che tardi dare al mal ricepta [158].              111

Messi fuoro in prigione ad una mensa

ei sopradetti su nel casseretto,

ma altri el patirà che nol sel pensa [159].               114

E non potendo adimpir lor concetto,

Fecer pigliar ducento cittadini,

ei quali haviano per parte in dispecto [160].          117

Subbitamente e' mandarli a' confini [161]

e furiando ben da otto giorni

gridavan: moia, moia e' ghibellini.                       120

Dì e la notte se scaldavan forni,

per la gran gente che di fuor venia

a schiere fatte maggior che di storni.                    123

A molti fatta fu gran villania

delle persone et della lor richezza,

e de tuct'arme fatta robbaria.                                126

E seguitando la crudele asprezza

fuorne cacciati il dì di sant'Andrea

ghibellin tucti fino alla vechiezza.                        129

Non fu mai facta cotale in Iudea,

se tu hai lette, figliuol, quelle carte,

excetta della setta mardochea,                              132

come fe la crudele e guelfa parte

de' lor vicin ghibellin per la porta [162]

non riguardando vechieza nè arte;                       135

per più vergogna facendo la scorta

con villanie e lume de candela,

chè non havian mai facto cosa torta                     138

contra quel reggimento d'un vil pelo,

ma stati sempre constanti e leali

come figlioli a padri con pur zelo.                        141

Sì sbigottiti con le tondite ali

andar volando alle terre vicine,

e chi più oltre dirizò suo' strali.                             144

Per questo alhor fu tolto Laterine

per miser Ugucione e poi Bibiena

con altre terre per vedere il fine [163].                    147

Dispiacque a molti però questa mena

cittadin di Fiorenza, cognioscendo

du' procedea quest'odïosa piena                                    150

et ancho se medesimi sentendo

divisi per l'affanno della guerra

ch' havian per Lucca, s' io ben comprendo.         153

Occultamente di fuor della terra

fecer menar li prisgion constretti

sotto lor forza, per veder chi erra.                         156

Et benchè li trovasser puri et netti,

perch' altra maggior cura li strengia,

tenian li carcerati con li getti.                                159

De ciò la parte guelfa ne stridia,

perhò che fraudolenti conoscieno

quel che di lor vivendo esser dovía.                      162

El lor proponimento non vediano

venuto al fin desiderato tanto

de Petramala, che disfar crediano,                       165

che gran guerra facea per ogni canto,

demonstrando l'ardire de sua possa

con quelle terre, ch' ha sotto suo manto.              168

Era Fiorenza molto alhor commossa

del grande affanno, ch'havea receuto

per la sconfitta de sua gente grossa,                     171

e del sangue e de l'or, ch'havia perduto

per Lucca, senza far sua voglia sazia,

e del gran danno ch' inde gli è venuto [164].         174

Questo alli presi fece Dio per gratia,

che quando in maggior fatto è l' hom sospeso

en li minori si prolunga e spatia.                           177

E credo ben, figliol, haver compreso

che lor captura fu messa a trastulla,

perchè ciascun conforto non fu preso.                  180

La ghelfa parte mia capo ne crulla,

perch'aspectava pur de la lor morte,

e sopra questo agiongie el non fia nulla,              183

quando il trattato, che fu grave e forte

l'anno seguente, del mese di maggio,

a Porta Buia [165] con gravosa sorte;                     186

nel qual invidia fece troppo saggio

miser Tarlato, che l'havia condotta

d'amici assai brigata di vantaggio [166].               189

Ma perchè sempre ne lor mente scotta,

giusta cos'è che tardi venga el bene

e perda gli anni per piccola dotta.                        192

Poco da poi el gran duca d'Athene

per sua divisïon Fiorenza elesse

signor di sè et di ciò che mantene [167].                195

El qual con senno e con iustitia resse,

poi che prese el dominio de lo stato [168]

et credo ben che Dio ciò conciedesse,                   198

sol per punir de molti el gran peccato,

come a Toscana, a ciascun la sua vece,

et fo per certo dal ciel destinato,                            201

che molti lupi di vita disfece,

Guglielmo [169] e gli altri usurpator rapaci,

nè valse a lor campar prezo nè prece.                  204

Et li prigion che non trovò fallaci

liberò per sua gratia, senza prezo,

nè creder volse a li adversar mendaci [170].          207

Similemente ancor di me Arezzo,

siccome di Fiorenza fu signiore,

nè fuoi ad obedir però da sezzo.                           210

Questi me fece la rocha maggiore,

non per suo moto, ma per mal consiglio

di quei che sempre m'han messo in errore [171].  213

Da dieci mesi fo signior del giglio,

poscia perdette per poca potenza

e perchè volse a troppi dar di piglio [172].             216

Non fe sì tosto novità Fiorenza

contra di lui com' i guelfi arretini

non riguardar honor nè riverenza.                       219

Levarsi ad arme et prima Bostolini [173]

coi lor seguaci e gli altri ghelfi tutti,

chiamando a sè ancor li ghibellini.                       222

Tosto saremo a libertà ridurti,

se noi semo una cosa a vincer tosto,

disser li ghelfi di malizia instructi;                        225

qui non sì lassi bataglia nè costo

contra dell'uno et l'altro cassaretto.

E così ciaschedun era disposto.                             228

Sì tosto come questo fu predetto,

li ghibellin credendo che ver fosse

ciò che fu loro per li ghelfi detto,                           231

certo non arme, ma ferri da fosse

ciascun portava ed assi da stechato,

perchè quei dentro perdesser lor posse.                234

In pochi giorni quel di San Donato

e prima s' arrendette San Chimento [174].

e poi che l'un e l'altro fo pigliato,                          237

e' guelfi con l'usato fallimento

colser ai ghibellin finta casgione

ch'havesser coi Tarlati sentimento;                       240

però che lo scampato Pier Saccone

con sua brigata si puose nel Tuoro

poi si partì e prese Castiglione [175].                      243

Alhora i ghibellin cacciati fuoro

fuor di mio giro, el dì di San Lorenzo

e così hebber per ben far ristoro [176].                   246

Questo non fe però nè Fior nè Renzo [177],

nè chi per lui nei cassaretti stava,

nè altri che venisse dal Bisenzo,                            249

ma per la parte ghelfa che cercava

metter in fondo ciaschun suo vicino,

e pace nè concordia non servava.                         252

Quando fu preso Castiglion Artino

correa quarantatré trecento e mille,

decimo die del mese agostino [178].                              255

Più di due anni scottar sua faville

per forza e per ardir di miser Piero,

et se cocian Perosgia ben sentille.                         258

Più d'anno e mezzo tucto sano e 'ntero

fu assediato da ghelfi toscani

con grande spesa, a voler dire il vero [179].           261

Non havea per difesa tramontani

nè ongar nè tedeschi nè lombardi,

ma solo e' buoni amici paesani.                            264

Mai non volaro sparvier nè moscardi

sì alto, nè giammai percosser netto,

nè salti fecer giamai cavai sardi,                           267

come di Castiglion per un tragetto

uscì quel cavalier senza lucerna,

che saria suto a' cavrioli stretto,                            270

e con suo sforzo prese alhor Citerna

ch'era dei Castellan, però ch'haviano

nell'hoste a Castiglion la lor taverna [180].            273

Con queste et altre terre che teniano

miser Piero e i consorti, ch'eran molte,

guerra per tucto a me sempre faciano.                 276

Poi a San Polo insieme fur raccolte

ambasciarie assai, e qui fu facta

la pace della briga e terre tolte [181],                              279

che fu per molti tal concordia matta,

a far per festa smisurata spesa,

e perchè mai non s'ama cane e gatta [182].           282

Ei Perusgin per la longha contesa,

la qual per Castiglion havien havuta,

sì di moneta e sì di sangue offesa,                         285

ne' pacti fu del pian lor conceduta

la guardia d'esso sì come a lor piacque,

la qual giamai non avarian renduta [183]             288

infino a tanto che a Dio non dispiacque,

com'udirai, la loro arroganza,

che sotto al gran pastor per serva giacque.          291

Ma qui non ti dirò più loro stanza,

a tempo e luogo l'udirai più chiara,

quando verrà a lor la nova danza.                        294

Fatta la pace tenuta sì cara,

non perchè fussi ugual, ma per l'affanno

della gran guerra sì lunga et amara [184],            297

più che quaranta fu e lo quint'anno,

oltre mille trecento e de quel mese,

che Gemini possiede il vago scanno,                    300

nel dì solenne che in me si prese

a far la festa de' martiri santi,

che già se ne facia maggiori spese [185].               303

E si mai fur li Bostoli arroganti

verso de' ghibellin con la lor setta,

alhor mostraron li lor vitii tanti.                            306

Traensi tre prior de la sacchetta [186] 

ghibellin dico e octo ghelfi veri,

e dua dì stavan insieme a costretta.                      309

Non se cognoscon sì bianchi da neri,

com'eran conosciuti ei miserelli

ch'eran degli otto peggio che scudieri.                 312

El terzo dì se dipartivan quelli

del concistoro e commettian lor voce

ne gli otto rimanenti rei et felli [187].                     315

Io credo ben che questo dir ti coce,

diss' egli a me, figliuol, perchè una volta

messo fosti da lor per quella foce,                         318

e molta più brigata vi fu colta,

e altri fuoro in più fangosa trescha,

com'udirai, se tua mente ascolta.                          321

Pregoti, figliol mio, che non t'incresca

s' io ti prolongho un poco questo canto,

per dirti bene una danza più fresca.                     324

Quel sangue sempre rigoglioso tanto

del seme bostolin, che mai non volse

pur nè compagnio nè tanto nè quanto,                327

quando col hoste mio Lorenzan tolse [188]

insieme con la casa de' Brenzalli,

honore et robba per sè si raccolse,                        330

e con sua setta prese a oltraggiargli,

e del consiglio che s'era ordinato

cacciati fuoro e' de là dai Brenzagli [189].             333

Tutti gli amici loro hebber commiato

sì del palasgio come d'altri honori,

e 'l bossol de' prior fu renovato                              336

e tutti quelli ch'erono amatori

de' casa brenzallina ch'ho già detta

e chi non eran bostolin servitori,                           339

spezzando prima a furor la casetta

fuor revoltati ei cittadin nel fango,

benchè tosto si fe' di ciò vendetta [190].                342

Per nome, figliuol mio, non te li tango,

chè troppo saria lungo a dirti adesso,

e per lor vituper tutto mi frango.                          345

Poscia che questo fu, un anno appresso,

levarsi ei cittadin tutti oltraggiati,

maximamente e' guelfi a chui commesso            348

era il delitto et più villaneggiati

da' Bostol, che dovian almen per parte

esser da loro assai careggiati [191].                       351

E cacciarli di fuor pur con quell'arte

che son usati di far spessamente,

et ancora ci fo di quel di Marte,

e questo Colcitrone ha ben a mente [192].                   355

CAPITOLO VI.

Capitulum sextum.

De dominio quadraginta octo, de gestis per eos,

de guerra Domini Mediolanensis, de adventu Imperatoris

et de conflictu gentis Perusinorum apud torritam et aliorum.

Da poi che tronca fo del mio giardino

la venenosa pianta senza frutto

che mi ha condotto a sì forte destino                    3

e fammi fare sì gravoso lutto,

che mai senza lunga medicina

sarò in buono stato reconstrutto,                          6

remase dentro alcuna radicina

del venenoso seme germinando

fra li miei cittadin che non declina [193],              9

sì che per quella molti fur in bando,

e molti ne portar la morte degnia,

e qual ne rise e qual gìo lacrimando [194].           12

Per quella novità rimase pregnia

la setta bostolina ch'a trent'anni

partorì poi per altra contegnia.                             15

Rimaser grandi poi con lunghi panni

ludici, gran notarii et mercatanti

al reggimento ghelfo in grandi affanni                18

et con color ch'eran tenuti santi,

a branca del lion con palla d'oro [195]

cacciati fuor color ch'eran raspanti [196]               21

Lor virtuoso e savio concistoro

ben si ritrasse da l'amaro scotto,

el qual Fiorenza misse innanzi a loro.                  24

Reggiendo el buon consil de' quarantotto

e' venia contr'a' Bostoli osteggiando;

reparo diede al malitioso trotto [197].                    27

Era dentro brigata dimonstrando

amar li ghelfi e per la lor difesa

con tal color la guardia dimandando,                  30

et di fuor era la brigata intesa:

dimandaron mie guardie e dier dua hore,

termine fisso per fornir l'impresa [198].                 33

Quando ricordo ciò, mi crepa il core,

veggiendo la virtù dei miei perduta,

che alhora dimonstror tanto valore                      36

contro la gente dentro proveduta,

la qual con senno, franchezza et ardire

li fe per Colcitron fer la caduta,                             39

disponendosi al tucto di perire,

pria che lassar di me la libertà,

per cui non dubitò Caton morire.                         42

Chi non conosce ben lo stato ch'ha

giusta cosa è che sia colto nel laccio

che per prender altrui lo stolto fa.                         45  (nell'orig. = fa,)

Certi di lor che nominar mi taccio

trattar di dar mio corpo et Cassaretto

al Cortonese per altrui procaccio [199].                  48

E ciò non volse Idio ch'havesse effecto,

però che non rechieser chi doviano

ch' al biscion dava in Bibbiena ricetto [200].         51

Quei non conobber lo stato ch'haviano

furon sbanditi e molto ne fur degni

che per loro et altrui puniti siano.                         54

Questo procede da celesti segni

contra coloro che son fraudolenti

che di malitia dan consigli pregni.                       57

Spesse fiate fa legare li denti

a' figlioli senza colpa l'uva acerba

con falsità gustata dai parenti [201].                     60

Detto t'ho già, figliol, che 'l ciel riserba

di far vendetta contra chi escede

e ciò che tarda con suplitio sverba [202].                    63

Sempre se vuol usar la pura fede

in sè o per altrui senza paura,

perchè nostro operar sempre Idio vede.               66

Per virtù certo s'acquista ventura,

benchè contrario per alcun si dica;

se mal gli prende fu la su' sciagura [203].                  69

Car mio figliol, se Dio te benedica,

a tal quistione non tener di mano,

perchè la mente sempre più s'intrica.                   72

Pria che la branca lavorassi invano,

e facessi il trattato stoltamente,

per che le case sue fur poste a piano" [204],          75

l'eccelso arcivescovo possente,

milanese visconte imperiale

in Toscana mandò molta sua gente [205],             78

per redur tucti sotto le sue aie

ei ghibellini ch'erano scacciati

da' comun ghelfi per diverse scale [206].                    81

Si chè gli Ubaldini dal lion stracciati,

dal caval Petramala et Ubertini

erano lungamente maltractati [207].                    84

Quel da Casal anchor da' Perugini

oltraggiat' era per toller Cortona,

et delargar più oltre suoi confini [208];                 87

miser Crespolto [209] e gli altri da Bettona,

ghibellin tucti ch'eran stati queti

per tema di non perder la persona.                       90

Fra i quali quei che fuor lupi secreti

nell'amore e cospetto del biscione [210],

e quei che dell'impresa fuor più lieti,                    93

fo el valoroso miser Pier Sachone,

degli Ubertini el padre miser Buoso,

franco et ardito più che mai leone,                       96

benchè non fu a me mai sì gratioso,

perchè manchò l'ho nor del vescovado

palesemente et non miga nascoso [211].               99

Molto me fo, figliuolo mio, a grado,

quando el biscion distese la sua mano [212]

contro Fiorenza, sopra el suo contado.                 102

Quel da Uleggio fu suo capitano [213]

nel cinquantuno, sopra Scarperia,

benchè la spesa si facessi invano [214].                  105

A miser Pier fu dato in compagnia

el dosgio Analdo tedesco pregiato [215],

el quale monstrò ben sua vigoria.                         108

Presso a Torrita du' fo honorato

con mixer Piero il vescovo ch' ho detto [216],

miser Biordo, suo consorte, a lato [217],                111

con gli altri suoi consorti ch'a lo stretto

gionsero el conte Luffo e sua brigata

che non andava però a diletto,                              114

a schiera facta et bene ordinata

e proveduto ancor di tale assalto

partendose da l'Olmo ver Quarata,                      117

per soccorrer Fiorenza che ne l'alto

assalito era e campeggiato forte

e fece alhor per certo duro smalto.                        120

E combattendo fin presso a le porte

del cerchio mio, fu da lor sconfitto

e de sua gente assai provar la morte [218].            123

Io taccio di contar quei ch'ivi ricto,

quali Ubertini over Petramaleschi,

fecer il conte di dolor afflitto.                                 126

Ma sopra tutti Ungheri e Tedeschi

fu valoroso miser Lunzimborgo [219]

con gli altri frati suoi prodi et freschi,                   129

la cui virtù magnanima ti porgho,

che dimostrò del suo nemico preso,

Bostolin dico come qui ti porgho.                         132

El Borgho Sansipolcro poi fo preso [220]

per lo valente baron miser Piero;

a miser Masgio Anghiar non fu conteso [221].     135

Rifer Citerna [222] et anco sai per vero,

che se ciaschun havessi senza infenta [223]

suo poter fatto, se fornia intero                             138

lo stato di color, che più di trenta

anni passati havian fuor di lor nido,

e parte ghelfa in Toscana era spenta [224].           141

Ma ciaschedun faciva per sè grido

e per sè procacciava farse grande,

perchè Bettona ne fe' grande strido [225].                 144

Sicchè convenne che per tai vivande

che 'l signior vidde tra lor discordanti,

nullo rentrasse dentro a sue grillande.                  147

Fece la pace e per sé tenne alquanti

castelli del contado pistorese,

di Lunisgiana, e ricevè contanti [226].                   150

Poco da poi in Italia discese

quel ipocrito, avaro quarto Carlo,

el qual dovea cercar le mie difese [227]                 153

Lungo saria, figliol, a ringratiarlo

del pacifico stato in che dispose

Toscana, che bramava d'aspectarlo.                     156

Moneta assai in sua borscia ripose,

e dei suoi privilegi fe gran copia

non reguardando le ingiurie gravose [228].          159

Stato fuss' egli prima tu l'Etiopia

e non fusse venuto a far più servi

quei che son stati in sì longa inopia                      162

dei lor vicini sì duri et protervi,

nemici sempre de l'imperio sacro,

e' qual per lui fuor facti riservi.                             165

Quanto credi, figliuol, che paress'acro

a quel che riceptar sì largamente,

che poi da lui fu facto sì macro.                            168

Quel da l'Agniello, che sì tostamente

Pisa li diè et anche quel da Siena

che merto ebbe da lui ben l'hai a mente [229].      171

Quei che fuor sempre de imperiale vena

e seguitar con honor la corona,

tucti lassò al varcar de la piena [230] .                    174

Ne l'anno quinto en l'ora non bona

fu sua venuta, passato el cinquanta,

che ' padre sancto a ciaschedun perdona [231].    177

Nè spero de rifarme per sua pianta,

che resurgendo nel ramo paterno

de cupida viltà tucto s'amanta.                             180

Io non lessi per lui miglior quaderno

che quel che prima m'avessi apparato,

ne provai maggior pena che d'inferno,                183

però che 'l guelfo populare stato

che per li quarantotto se tenia

fo sempre a' ghibellin poco amicato [232].           186

Tucta mia guardia per sè si voliva [233],

officii, dignità et grandi honori,

cusì tra lor la torta si partiva.                                189

E benchè forse alcun di tai sapori

talor gustassi, non potea far fiamma

che fessi al suo laveggio far bollori.                      192

Ghelfo di libbra et ghibellin di dramma

era nel concistoro, e più rimesso

che fanciullin a la matrignia mamma [234].        195

Tu sai, figliuol, com'accadiva spesso

ch'e' tre eran mandati alla cucina

e nei secreti miei stavan da cesso.                         198

Se gli acadiva tema fiorentina

o de' Bostoli, ch'avenne alcuna volta,

volean i ghibellin per medicina,                            201

e se compagna o gente fussi folta

nel mio, ch' havessi ghibellin rispetto,

a' ghibellin tost' era cagion colta.                          204

Lor regimento fu savio e directo

se stato fosse de' miei più comune

e de' miei popular non far dispecto,                      207

tirando insieme equalment'una fune

et ai miei grandi far vetar el segnio

e 'l lor peccato non lassare impune,                      210

seguito non saria sì gran disdegnio

fra' miei figliuoli et mio mortal disfatio

che sarà sempre d'ingiuria sì pregnio.                  213

Di ciò parlar, figliolo, non me satio

per lor cieca virtù che non conobbe

l'unita carità per lungo spatio.                              216

Eron tiranni sotto lunghe robbe,

passionati troppo in la giustitia,

come ser Nieri el frate riconobbe.                         219

Ei quai commisser sì crudel nequitia,

perché fu dato l'iniquo consiglio

da chi tenia vexil de la militia,                               222

reparato da chi portava el giglio

sotto le stelle, approvato legista,

nato nel cielo, nel campo vermiglio [235].             225

De cui per certo io ho la mente trista

e la casgion, figliol, qui non ti tocho

per non uscir de l'ordinata lista.                            228

Figliuolo, intendi quel ch' ora ti scrocho,

che pena hebbe Gozzar del tradimento,

per cui ne morì el Giallo che fu sciocho,               231

e dell' assasinato fallimento

che fece fare a più de' Geri del Vechio,

ch'atenagliati fur con grande stento [236].            234

Quando ciò penso et quando in ciò mi spechio

de lor virtù non so che possa dirti,

che tal difecto lor ponga parechio.                        237

Padre mio caro, ben mi dole udirti

sì lamentar di color che credia

che commendassi fra celesti spirti.                        240

Io non ti dico, figliol, ch'io fallia;

volessi Idio che non fussi suta

co' fo la lor piacevol tirannia !                               243

La lingua loro non stette mai muta

in disfar Petramala sol per parte,

chè tardi alle lor man saria caduta,                      246

vera e non vera usando ogni lor arte,

riponendo Viccion e Schifanoia

e Pianettolo anchor con nove carte [237].             249

Tennermi in pace, che non hebbi noia

nè di là nè di qua per lor sapere,

nè mai perdetti pecora nè troia.                            252

Con lor vicin si seppon mantenere,

inimicati de lor in occulto,

dal lion e grifon contra dovere,                             255

per non recarse contra lor tumulto,

a cui bastevol non era lor possa,

se vivo havesser ciaschun lor sepulto.                   258

La conscienza lor fu molto grossa

verso de' miei figlioli bianchi e neri

per altrui sospiction ch'havien nell'ossa.               261

Che colpa havien color che sempre veri

for miei figlioli, e l'onor mio voluto

di molti che son stati molto altieri?                       264

E di ciò tanto, figliol, m'è doluto

veder per gelosia dar parte a quelli

che de lor pace poco gli è caluto.                                   267

Senza più dir, figliolo, o ch'io novelli,

so che m'intendi e che hai ben compreso

che buono stato non vol mai ribelli.                      270

Et io, benchè suo dir havessi inteso,

dissi a lui: Padre, molto certo sono

che gelosia fa l'animo sospeso,                              273

e dà pensiero iniquo a chi è buono,

e buona donna alcuna volta falla

che mestier non havia chieder perdono.               276

E so che troppo fece maggior balla

d'amici miser Piero, odendo dire

che i Ghibellini al bando andaro a galla [238].     279

Dal suo nemico fa l' huom ben partire

servitor ch' ha e non crescer gli amici

e quei cotali cercar d'agradire.                              282

Tu dici el ver, figliuol, di quel che dici;

se i quarantotto questo havesser facto,

sarieno stati perpetuo felici [239],                           285

nè seguito saria del lor baratto,

come tu odirai al tempo et hora

ch' ebber dai ghelfi stessi scacho matto.               288

Credemi, figlio, ch'invano lavora

chi ne la terra studia setteggiare,

che perde el suo e convien che ne mora.              291

E questo è vero senza motteggiare;

or seguiam, figliol mio, per alto thema,

chè non è tempo anchora d'alloggiare,                294

benchè di doglia troppo il cor mi prema

contar le cose che poi son seguite

in mio gran danno per possa suprema.                297

Le cose giovanili e mal notrite,

seguendo l'appetito, ch'è corrotto,

recano cose dietro non udite,                                 300

et fanno far un non pensato botto

non dello scanno, ma dell'alta torre

e tardi si rileva chi va sotto.                                   303

Non vo', figliuol, queste parole abborre,

ma scrivele per certo e fanne nota,

e sappia, se verun ti vuole apporre: 

faccia el huom sì che non caggia 'n la mota.               307

CAPITOLO VII.

CAPITULUM SEPTIMUM.

DE CAPTURA BIBBIENE ET FILIORUM DOMINI PIERI,

DE MORTE DOMINI EGIDII DE CELARIA, DE GUERRA CONTRA

 PERUSIUM, DE CAPTURA MONTIS SANCTI SAVINI,

CASTELIONIS ET ALIORUM ET CONFLICTU DOMINI IOHANNIS.

Perché naturalmente, figliol mio,

felicità perpetua esser non puote,

se non congionta col voler de Dio,                        3

m'hai tu udito sì cambiar le note

de me e miei figlioli, e ancor peggio

se' per udir da squarciarne le gote,                       6

come disceso d'uno e d'altro seggio

fu miser Piero e di lega lombarda,

ei suoi figlioli a più infimo scheggio,                    9

E quel decreto che nessun riguarda

poi observò con militar honore,

passata molto la su' hora tarda [240].                   12

Lo inimicato et ardente furore

che per Fighine giamai non sospinse

oltra l'antica nimistà del fiore [241]                       15

contra 'fgliuoli a Bibbiena se pinse

per forza d'arme e gran tempo hostegiolli

e poi per tradimento pur li vinse [242],                  18

e benchè di virtù non fusser molli,

el primo, el quarto e 'l buon miser Leale

per sua prisgioni a Fiorenza menolli [243].            21

Sesto di Iano in pasqua triomphale,

mille trecento sessanta correa,

quando fuor messi per l' obscure scale [244].        24

De lor castella ciaschun li mordea,

la Rocha, Chiusi, Caprese et Agniano,

de la lor parte adversa tolomea [245].                    27

Nov'anni e mesi nelle Stinche stano [246],

e con fatica si puon mantenere

cinque lor terre che principali hano.                     30

Stettersi gli altri consorti a vedere

con senno e con virtù e con malitia

de' guelfi artin che li volian partire.                      33

E ben fu cogniosciuta lor nequitia

da quel da Ranco e quel da Montanina [247]

e da chi honorò ben sua militia.                            36

Per cui Anghiar che giocava de schina

sì spessamente per sua vigoria,

fu reparato et ai figlioli inclina [248]                      39

Questi mantenne ben sua maggioria,

moltiplicando con honor ricchezza

e redoctata fo sua signoria.                                    42

Questi fu cavallier di gran prodeza

dallo schachier tenuto tanto caro,

più che figliol da padre in la vechieza.                 45

Questi più volte con savio riparo

dè consiglio d'aiuto a' suoi consorti,

miga non fu, com'udirai, avaro.                           48

Ne' casi fertunosi, gravi e forti

per sè e per altrui fu proveduto,

nè mai se misse aspectando fra' morti.                 51

Da Dio per certo a lui fu conceduto

che germinasse virtuosa pianta

per sua grandeza et per altrui adiuto.                  54

Doppo e' nov'anni, passato il sessanta,

venend' a coronarsi l' avar Karlo,

chè di null'altra virtù già si vanta [249],                 57

e sol de questo posso ringratiarlo

che liberò ei figliuol di misser Piero [250]

e quei che poco valse a liberarlo [251] ,                  60

e per virtù, figliuol, dicendo li vero

di quel che fu mio figlio e mio pastore,

e gli altri fuor m'han facto vitupero,                     63

fur liberati et funne gran dolore

fra li miei cittadini, a chui dispiacque

lo scampo lor, che gli offendiva il core.                     66

Più et più anni Petramala giacque,

bench'oltreggiati fussero in coperto,

fortuneggiando per le gelide acque,                     69

chè il reggimento mio era per certo

partial contra loro et lor seguaci

e chi di lor parlava era diserto,                              72

chè i quarantotto come can mordaci

monstrando d'amicar a questo e quello,

poi nell'effetto loro eran tenaci.                             75

E anchor peggiore poi lor drappello

quanto più crebbe in numer crebbe in vitio,

che cacciati fuor di loro hostello [252].                   78

Del lor crudel, malvagio precipitio

qui non tocho, figliol, chè non è 'l tempo,

volendo seguitare il vero initio,                             81

bench'ad ogni hora mi sarà per tempo,

perchè fu la cagion della mia doglia,

la qual con più ricordo, più mi stempo.               84

Io veggio, figliol mio, che tu hai voglia

ch' io dica cosa ch'a te stesso dole,

per quella carità che 'n te germoglia.                   87

Tu sai ben, padre mio, che non si vole

tacere il vero; hor segue la promessa,

finchè lo spirto mio governa il sole.                      90

La morte, figliol mio, che fu commessa,

sol per parole di quel gran legista,

o per altra cagion che fosse espressa [253],            93

per quel ch' havia giovinetta vista

de gli Albergotti tutto me commosse

e fece a molti haver la mente trista [254].              96

A quelle amare e sue triste mosse,

che fu di luglio nel sessantacinque

la fede tua convenne che vi fosse.                         99

La molta gregge, el figliol che relinque,

tutta rimase per su' morte sciolta

e cento ritornar in men di cinque.                         102

La morte del Ferrante anchor sì tolta [255]

che fu da prima et più non la prolongo,

per la brutta cagion che se rinvolta,                     105

fe nel mio corpo parturire el fongo

sì venenoso, che m'ha attoscato,

sì che mai sanità più non ringiongo.                    108

El reggimento mio a ghelfo stato

venne in sessanta con poca virtute

coi ghibellini e fra sé nemicato [256]                      111

Ma ben certo e' fo di mia salute

e francamente, a non voler mentire,

e molte terre racquistò perdute.                            114

Come Perusgia comenzò sentire

per sua division la gran potenza

del successor di Pietro [257] e del gran Sire [258],  117

per cui adiuto tacque alhor Fiorenza,

e sola col visconte milanese

se ritrovò e non fe resistenza [259],                         120

rechiesta fo per parole cortese

dal reggimento mio che mi rendessi

terre e castella mia che s' havia prese.                  123

Resposto fu per lei, che non credessi

Peroscia esser inferma per testare,

chè render non volea cosa ch' havessi.                  126

Deliberosse a la Chiesa accostare

et esser contro al grifon perugino,

veggiendolo infermato et male stare [260].            129

Prima li tolse il Monte san Savino [261]

e non valse sochorso che mandasse

e l'arroganza sua men d'un lupino,                      132

poi cavalcando, prima che callasse

messer Giovanni Agudo e sua compagnia

dalle montagne al pian, giù dalle Chiasse [262],   135

uscì el populo mio alla compagnia

di fuor di Porta Buia [263] alla difesa,

poi gionse miser Flach de la Magna.                    138

Contro di cui non potè far contesa,

sconfitto fu et tutta sua brighata

con grande mio honore allor fo presa.                  141

Per aiutar Perosgia era mandata

dal biscion milanese per suo scampo,

e ricevè alhor tal bene andata.                              144

Vito et Modesto fecer tale stampo [264]

giù nel pian mio nel lor sancto giorno

su ne la strada fo [vermiglio] campo.                   147

Mille trecento corriva d'intorno

settantanove del mese di giugno,

che Perosgia ebbe da me tale scorno [265].           150

E tenni contra lei ben fermo il pugno,

chè poco poi li tolsi Castiglione,

bench' altri pria di me s' ognessi il grugno [266].  153

Mammi e Largniano senza far tenzone

ritornaro a lactar mio dolce petto,

Foiano [267] anchor per patti ritornone.                156

Contra di Lucignian per gran dispetto

si campeggiò per animosa parte,

sì che 'l senese ne fa suo ricepto [268].                    159

 Monterchio anchora poi rivolse carte [269] ,

perché Perosgia per costa e per fianco

morsicat'era per forza di Marte.                           162

Poscia che fu di sua virtude stanco,

per i suo' vitii arroganti e superbi,

en servitù divenne el grifon bianco [270].              165

Perdendo assai de sue carni et nerbi

fu coronato con suo grave danno

per suoi peccati crudeli et acerbi,                          168

et stette ben cinque anni a tale affanno,

di sua grandeza al tucto disceso,

sedendo sotto altrui nel basso scanno [271]         171

Padre mio, riverente io ò inteso

ciò che m'hai detto et molto m'agrada,

perchè Perosgia t' havia molto offeso.                        174

E veggio che Dio vol che così vada,

e ch' ei raddoppia ciò che 'l tempo indusgia

e poi pur vuol che con più pena cada.                  177

Ma s'ei trardasse quanto ch'a Perusgia

di vendicarti, padre, io non darebbi,

se poi l'ardesse, una vil fava busgia.                     180

S' io nol vedessi tosto io credarebbi

che preterisse sua ferma iustitia,

e ciò ch'è fatto per te disfarebbi.                                    183

Figliolo mio, disse, da tua pueritia

se' per la iuventù al vespro gionto,

e hora vedi tanta mia tristitia,                               186

ma se tu fermi ben qui ora il ponto,

 l'ira che mostri sarà tosto queta,

et al ben operar sarai più pronto.                          189

La mente tua può nel mal star lieta,

pensando nell'altrui gravose pene,

e che sempr' hai di quel ch' altrui si vieta.               192

Si par che tardi l'aspectato bene

di vendicar mie ingiurie e te ristori,

non ti curar che 'l termine pur vene.                     195

Quanti più gravi sono e' gran dolori,

e sono l'offension senza mesura,

ne vanno al ciel li exauditi clamori                       198

di quei che stanno in infima pressura,

religiosi, vedove e fanciulli,

che mendicando van per affrantura.                    201

Hor non creder, figliol, ch'io trastulli.

chè, se ricordi ben ciò ch' hai veduto,

non curerai verun che 'l capo crulli.                      204

Dimmi, figliol, s'avessi mai creduto

che 'l gran poter ch' havia la chiesa sancta

fussi in sì breve tempo giù caduto                        207

della Marcha, Romagnia tucta quanta

del Ducato, Perosgia e Patrimonio

sì subito la chiesa se ne smanta.                            210

E' miei ancora figliuoli del demonio

ingrati della pace a lor donata

quanto duraro! Dio n'è testimonio.                       213

Tu m'hai sì, padre, la mente quetata,

odendo te parlar sì dolcemente,

con la ragion che tu m'hai dimonstrata,              216

ch'io son disposto seguir certamente

il tuo voler, et quel voglio obedire

come se dia a padre veramente.                            219

Car mio figliolo, per voler seguire

la mia promessa, io ti farò noti

fasti, che certo non te dean gradire.                      222

Certi miei ciptadin, ch' eron rimoti

da gli onor miei per quella sessantina,

che sol fra sè giurati haveano i voti,                      225

d'esser vocati a sera e da mattina

più de lor degni eran ne' segreti,

deputat' eran sopra la cucina.                               228

Lor consigli eran recusati e spreti,

s'eran chiamati in alcun generale,

e i lor tenivan per fermi decreti.                            231

Perdoname, figliol, se dico male,

ei fecer quell'impresa mattamente,

facendola sapere a tale e quale.                             234

Per quel tractato che sì stoltamente

menato fu, insieme teco piango,

per quei che presi fuor certanamente [272].          237

Di quel dolor, figliuol, tutto me frango

per la tua doglia e per lo gran dispetto

che alhor fu facto ai miei ch'eran nel fango.        240

Non te doler, figliuol per quel difetto,

chè tale infamia sol venne a coloro,

che cercan di fallire et han buon letto,                  243

Et poi ancor quel giovan concistoro

pazescamente prese Schifanoia,

e tosto fu disfacto lor lavoro [273],                          246

si che tornò ai più in grave noia,

il regimento mio con gran superba

a molti fece alhor perder le coia,                           249

e mosse guerra crudele et acerba

contro di Petramala e gli altri suoi

consorti tutti, e miser Masgio serba [274].             252

più per paura ch'haia di lui

che per amor e per servarli patto

o promessa, ch' havessi facto altrui.                      255

Si fu quel movimento savio o matto,

tu lo sapesti, figliuol, da lontano,

che de' a' sexantini scacco matto.                          258

Persero el Battifolli a mano a mano

sopra di Petramala e Cathenaia,

e tosto poi perdetter Pontenano [275] .                  261

Bagniena anchora da loro si dispaia,

Faltona, Sallutio et anchor Talla;

similemente avenne di Capraia.                            264

Lo stato loro sì osteggiando avalla.

che perder poi Valenzano e la Rocha,

Savorgnian per loro anchora calla [276].               267

Hor vedi bene e la impresa fu sciocha,

per che il voler partial li transcorse,

convenne che rompesse la lor cocha.                    270

Tre C con M e sette e sette corse [277]

del mese che solia cominciar l'anno,

che la Montagna da ghelfi transcorse [278].          273

Press'a du' anni durò quel affanno

con smisurate spese e con fatiga,

sì che convenne lor mutare scanno.                      276

E mentre ch'era l'affannata briga,

el padre giovin del mio vescovado

che del suo zio non segue la riga [279] ,                279

per chui memoria m'era assai a grado,

contro a' Sesanta cercò su trattato

tenendoi per parole sempre a bado.                     282

E forse havia ragion di tal mercato,

perch' i volian la torta per lor propri

e non ne dare al compagnio da lato.                    285

Non posso far, figliol, ch'io non ne scopri

alcuna nemistà, che fu casgione

de quel tractato e di maggiori obbrobri [280].      288

La morte de Christofano Guascone [281]

e l'altr'offese da' vicin proximani

fece a doi frati perder le persone.                          291

Assaliro e' sessanta come cani

col popul mio il vescovo alle case,

et fecer lui haver i pensier vani.                             294

A doi suoi frati fur le chierche rase [282] ,

et ei fu preso alhor con gran vergogna

e del palasgio suo nulla rimase,                            297

che non ardessi, senza dir mensognia,

con danno anchora dei consorti suoi,

forse di tale che niente agognia.                            300

Poi di prigione se fuggì costui

a Petramala, et fo ben riceuto

per le sue terre più che per l'altrui [283],                303

sì che per certo era ben tenuto

honorar quella casa e' suoi amici,

contra i quai poi non è stato muto,                       306

chè sempre gli ha hauti per nimici,

come udirai in altra parte appieno,

se tu me seguirai, come tu dici.                             309

In quella guerra già non venne meno

il savio miser Masgio a Petramala

ch'a le sue terre tucti ricorrieno,                            312

e racogiendo lor sotto su' ala

con gran vertù per mantener sua fede

aitò a sostener dritta la scala [284].                        315

El reggimento mio, perchè si vede

diviso drento, et di fuor la gran guerra,

a tractar pace a Fiorenza procede.                        318

perchè condur si vedieno alla serra

sì del contado et sì della cittade,

e far gozaie molte per la terra [285].                      321

El fiorentin con l'usata mistade

constrense Petramala a far la pace

per loro amore et propria caritade.                              324

Remisser dentro, sì come a lor piace,

per prava voluntà dei sessantini

e partiale et animosa face!                                     327

Ubertini, Albergotti e Bostolini,

che della guerra non havian sentita,

e de fuor Pretamala per confini

et a mal fine preser tal partito [286].                              331

CAPITOLO VIII.

CAPITULUM OCTAVUM.

DE EXPULSIONE DOMINI AZI ET GUELFORUM ET DE LIGA FACTA

CUM PETRAMALENSIBUS ET GUERRA, ET QUALITER GUELFI

DOMINUM KAROLUM QUARTUM IN DOMINUM ELEGERUNT ET ALIORUM.

L'altissimo Signiore, a cui nascosa

nostr' opera non è nè nostra mente,

per sua divinità ch'è luminosa,                              3

perchè la pace fu sì fraudolente,

fatta a mal fine e con falso partito

fuor d'ogni carità partialmente,                            6

permise tosto al lor mortal convito,

ch'un anno o poco più di tempo spatia

nel ciel contra di loro stabilito                               9

che i Bostol fecer la lor voglia satia

con Albergotti e tutta la lor setta

de lor nemici con vergognia e sgratia [287].              12

 Miser Azo co' suoi hebber gran fretta

de fuor fuggir a pungenti speroni,

compagno nè famiglio non aspetta.                     15

                                                                                 In vener santo fur questi sermoni,

per riverenza del divino offitio

e fo per certo operation di demoni [288]                    18

Cusì punito fu lor malefitio,

chè credetter de fuor tener Tarlati,

et ei fecer di sè tal sacrifitio,                                   21

che pur dai ghelfi fur di for scacciati

per giusto merto, senza ei forestieri,

per divina giustitia e mal tractati.                         24

Sì come suole per gravi pensieri

talvolta l'uomo per dolor ch'egli abbia

che non ricorda quel che s'è fact' hieri,                 27

e come quei ch'è uscito di gabbia

che sta smarrito et non sa che farsi,

e come che per freddo trema labbia;                    30

cusì quel padre non vede ove andarsi

facia sua voce, in qua e là promira

e stava fermo e prova d'accostarsi.                       33

Et io credendo forse ch' haves' ira

per accidente caso a llui occorso,

che 'l cor de l' huomo subito martira,                   36

dissi a lui: Padre, perchè si trascorso

l'animo vostro pare e vostra vista?

o che nuovo accidente v'ha rimorso?                    39

Figliuol, diss' egli a me, se la mia vista

ti par mutata, non è maraviglia,

che così fa chi grave pensier mista.                              42

Mo' nuovamente il cor me se assotiglia,

perch' io me veggo gionto alla vigilia

di quella infirmità che più mi piglia.                    45

Non so se io so' qui o in Cicilia,

non so quel che m'ho detto o quel che dica,

non so se ho dieci anni o cento milia,                   48

sì gran travaglio la mia mente intrica,

perchè mi veggio apressar alla doglia,

che di tristitia mia mente notrica.                         51

Padre, diss'io, pregoti che voglia

prender conforto e lasciar quest'angoscia,

che più ti grava quanto più germoglia.                    54

Piacciati dirmi quel che segui poscia

e chi fur quei, ch' uscir a sì gran prescia,

non curando erta nè sepe nè stroscia.                   57

Et egli a me: Se fosse stato a Brescia

o più lontano ancor, dovea redire

per veder far allhor sì brutta vescia.                     60

Poichè tu voi, figliol, io tel vo' dire,

perch' essi fuor casgion di mia fortuna,

chi ben vol giudicar senza trasdire.                      63

Et volian metter Roma per la cruna,

non mesurando ben la lor potenza,

nè giudicando che volge la luna.                          66

Se volian somigliare a Fiorenza

de senno, di potere et di virtude,

ma molto variava lor sentenza.                             69

Non eron le lor lingue al mal dir mute,

nè le lor man per aggrappar ratracte

e non valia per esser cognosciute.                         72

Quanti n'ha governati già l' mio latte

dei miei figliuoli ingrati, senza legge,

che sempre furon come cani e gatte!                    75

ché bene è pravo chi non si corregge,

vedendose una e dua volte essere tocho,

e pur nel suo mal far saldo si regge.                     78

A quanti è suto già tochato el mosho!

detto t'ho gia d'alcun poco davante

et alcun altro, che se tenia rocho.                          81

Hor non andiam, figliol, più hora innante

con questo tema e seguitiam nostr' orma,

ch'io non potria contar lor cagion tante.              84

E Saxoli e Guasconi tutti in torma [289],

Donato Ugucci e Filippo de' Testi,

quel dalla torre che facia gran norma,                 87

Francesco ser Rigacci e i figliol mesti

ancor fugiron e Giovanni da Mussa,

che facìa di parlar sì larghi gesti.                          90

Francesco ser Guadagni trovò scussa

sua masaritia che di fuor tornava,

et ancho fece per fuggire smussa.                         93

L'abbate Santa Fiora ch' aspettava [290]

el vescovado et il suo fratel Fino

e Nicholò di Manno anchor n'andava.                 96

Masgio di ser Ranucio, cittadino,

el qual non era già co gli altri volpe

e Giovanozo e 'l savio Ghirardino.                        99

Agnol di Iacopozo non per colpe

per lui commesse e i fii d'Andrea di Cola

e' fuoro robbati in fino a le polpe.                         102

Quel d'Altomeri anchor provò le sola,

e 'l figliol di Francescho Ghinalducci

fuor de la porta quanto più po' vola [291].                      105

Assai fuor più per lor che furon mucci,

e' quai non conto per cessar longheza,

e non son gente da trattarvi succi.                        108

Poichè quei dentro hebber la largheza,

renovar tutti officiali et onori

fra lor brigata con grand' allegreza,                     111

e a i poderi mutar lavoratori

provedendo spedali e luoghi sacri

a lor piacere e di nuovi rectori [292],                          114

Assai di loro, che eran suti macri,

poi impinguano dell'altrui guadagnio,

che sarien viti per tre soldi ad Acri [293].                   117

Non ti maravigliar se io mi lagnio,

figliol, che lo 'ngrassar che volser fare

subitamente di quel del compagnio,                    120

fece la mia sciagura rafrettare

coi datii che poniamo e grandi spese,

e tale e quale del loro sforzare                               123

multiplicando anchor le gravi offese,

tiraneggando quanto e più che prima,

e non valia con lor esser cortese.                           126

So ben, figliuol, che la tu' mente stima

s' io dico vero, et che da ciò divenne

la guerra che seguì et l'aspra lima.                       129

Quei cittadini che usar le penne

nel settantotto de lor dolce nido

con quei che inimicai trattar convenne,               132

facendose ciascuno amico fido

di Petramala et casa d' Ubertini,

contra quai prima far solian grido [294].                   135

Hor nota, figliol mio, questi latini

ch' alcuna volta ti daran diletto

e i pensier ch' hai saran tutti chini.                       138

Sempre Dio vede ogni nostro difetto

e quanto più multiplica il peccato

per contrario punisce il rio concepto [295]                 141

Con Petramala e Ubertin fer trattato,

e cusì insieme fecer ferma lega

e ciascun s'obbligò a tal mercato.                         144

De Petramala ciaschedun si spiega

con lor potere tirando una fune,

degli Ubertini nullo se diniega.                             147

Ogni lor forze insieme si fer une,

e cavalcarme fin presso alle porte,

e molte case non lasciano impune [296]                     150

Fu la guerra crudele, aspra e forte [297],

l'anno seguente, e de ciascuna parte

fuor presi i caporal senza haver morte [298].            153

Agnolo di Francescho con sua arte

a Lodovico tolse Castellane,

et ancora ci usò di quel di Marte [299].                      156

Bartolomeo con brigata d' Anghiare

e de Monterchi prese Pantaneto

e Lodovico Ornina fe' rifare [300],                              159

E mixer Azo repose Oliveto,

e sotto se ridusse ancor Ciggiano,

et io per non poter mi stetti queto [301].                    162

Prese anchor Lodovico Marciano,

Montoto miser Azo et la Valdambra

e Guido alhor riprese Sintillano [302] .                              165

E non potendo i ghelfi uscir di Zambra

e molto essendo dalla guerra offesi,

e da spender non v'era oro nè ambra,                  168

non vedendo per cui esser difesi,

poichè mancate eran loro entrate,

pur gli appetiti al mal havien accesi.                    171

Oymè, figliuolo, or fosser radoppiate

prima le spese e tutte le gabelle

e le fatiche anchor moltiplicate,                            174

et ogni dì renovate novelle

a tucti i ciptadin non troppo acette

di prede, de prigioni e de cartelle;                         177

tolte s'avesser prima per lor nette

ei Bostoli, Albergotti e Camaiani [303] 

tutte l'entrate et votie le cassette [304],                       180

che se mettesse en le forese mani,

de colui dico ch' havia falso nome [305]

e d' Ongari, Pugliesi e tramontani,                       183

che gionto era a Bologna con le some [306].

Mandarli Carchascion col pien mandato

ch'altramente campar non vedian come [307].         186

Costui cogli Ongari s'era acompagnato

mandati al genovese per lor facti

fin d'Ongheria con loro accomandato [308],             189

el qual con lui ordinò fermi patti

di darli me e tutta mia ghirlanda,

e che tenesse fuor chi n'eran tratti,                        192

e non mutasse allo stato vivanda,

però che suo voler era conforme,

e così fo accettata sua domanda.                          195

Questo s'affretta et di venir non dorme,

et per lo nome suo tanto famoso,

sollecitando suo venir per torme [309].                      198

E quel da Ogobbio non stette nascoso,

dielli la terra e fecelo signore,

perchè li desse di pace riposo [310].                            201

Poi venne a me con triomphale honore

con cerimonie e con solenne festa

fu riceuto per ver sanatore                                     204

d' ogni mia brigha et tirannia molesta,

al terzo dì del mese di settembre

mille trecento ottanta in feria sexta [311].                  207

Oymé, ben rintoscò poscia novembre

in gran tristitia el gaudio ch'io mostrai

che so' disfatto per ogni dicembre [312].                    210

Nella sua entrata tutto me scorai

per l' homicidio ch' alhora si fece

del fiorentin con dolorosi guai [313].                          213

Trattar di lui, figliol, qui non mi lece

e tu lo sai e chi 'l fece mi taccio

ma ongharo non fu nè migha grece.                    216

Preso non fu nè hebbe alcun impaccio,

perchè iustitia lesa se ne dolse,

e forse a lui ordena tal laccio [314].                                      219

A tali auguri molto creder suolse,

e io, benchè alhora nol pensasse,

veggiol verificare al mal che volse                        222

Nullo rimase che non se allegrasse

per la venuta di cotal campione,

e lui, come Dio, non adorasse.                               225

O Karlo, indegnio di tal possessione,

camera antica del Romano Impero,

di tua felicità prima cagione [315],                             228

O Karlo ingrato, senza verun vero,

non ti ricorda quel che promettesti?

E tu m' hai fatto tanto vitupero!                            231

Sia maledetto el dì, che tu mettesti

el piè dentro a mio giro, poichè dovia,

tener di me ei modi che tenesti!                             234

Sia maledetta la tua baronia

e bever possa quel che bevve Crasso [316],

e 'l giuditio divin sopra te sia,                                237

che m'hai condotto in stato vile e basso

di grande alteza e dignità che fui;

hora se fa de me mortal fracasso.                         240

Sien maledetti gli anni e i mesi tui,

e 'l latte che tua madre anchor ti diede,

che degnio non sei già regger altrui.                    243

In te per certo e per vero si vede

che la sacra scrittura già non mente

Al regno guai che il giovin re possiede [317]

E questo terrai ben, figliolo, a mente [318].               247

CAPITOLO IX.

CAPITULUM NONUM.

DE INTROITU DOMINI KAROLI, DE CAVALCATA FACTA

CONTRA FLORENTIAM, DE EIUS RECESSU AD URBEM, ET ELECTIONE

SUI VICARII, ET DE GUERRA ET PACE FACTA CUM EXITITIIS ET ALIIS.

Come li primi et antichi parenti

stati nel limbo, aspettando salute,

alla voce di Cristo fuor contenti,                           3

così fuoi io, perchè le mie ferute

rimbeferate nel mio corpo bello

sperai che per costui fusser guarute.                     6

Crese ciaschun che costui fussi quello,

che raquistassi tucte le mie terre

sforzate da vicin e da rubello,                               9

che terminasse tucte le mie guerre

dentro e di fuora, e con la sua potenza

secur tenessi piani, monti e serre [319].                      12

Con tucta gente cavalcò a Fiorenza [320],

partorì el monte e prese San Bracazio

e venne a llui fallita la credenza,                           15

perchè non fece lo suo voler satio,

trovando alhor Fiorenza sì disposta,

non prolonghò al suo tornare spatio.                    18

Gli usciti di Fiorenza, a cui già costa

era la sua venuta gran tesoro,

fin d'Ongheria venendo a questa posta,               21

fuoro scherniti et alquanti di loro

non ritornar giamai, et tali andaro

per le campagne aspettando ristoro [321].                 24

Tornato a me perchè fussi più chiaro

d'aver del tutto: de me il bacchetto,

che mi tornò, figliuol, poi si amaro,                      27

dato li fu in tutto il cassaretto,

et io de gaudio tutto rinfrescai

non divinando mio futur dispetto.                        30

Perchè credetti miei infinitì guai

fosser finiti per la sua iustitia,

però cordialmente me allegrai.                             33

Presa ch'egli hebbe in tutto la militia,

con gran piacere del ghelfo e ghibellino,

da la vechieza infino a pueritia,                            36

el reverente meser de Iurino,

virtuoso signior et proveduto,

vicario lassò al suo popul artino [322].                       39

Partisse, che non fussi mai venuto!

e verso Roma prese suo viaggio,

e dal sommo pastor fu cogniosciuto [323]                 42

quanto vile era el suo baronaggio

e quanto degno era aver corona

et quanto in acquistarla egli era saggio.               45

Incontra gli era ciascuna persona

e gratia non havia del padre sancto

effettual nè di parola bona.                                   48

Solo el raccolse con gratioso manto

d'aiuto, di favor et buon consiglio,

e ciascun altro il dileggiava tanto,                        51

da Petramala quel capel vermiglio

famoso di virtù oltr' all' etate;

l'accolse lui con amoroso ciglio [324],                         54

et come puoi fuor ben meritate

l' immense gratie da lui ricevute

ei suoi consorti el sano e ancho il frate [325].             57

Come udirai furon tutte perdute

a tempo e luogo, e chi l'ingrato serve

tardo ritrova del servir rendute.                            60

Le conditioni crudeli e proterve

delli miei cittadin conobbe tosto

el Iauriese e le mie parti acerbe,                            63

el qual con gran virtù e senza costo

recò a sè tutte le mie forteze,

per riparare a' vitii ben disposto.                           66

E quei che solean far le larghe peze

all' altrui spese e de l' altrui guadagno,

mala sua voglia convien che si sveze.                   69

E chi porgeva a quel mio padre lagno

d'alcun mesfatto era bene inteso

e ben rendiva a la moneta congnio                       72

Io credo ben, figliol, ch' ai già inteso

che spessamente, co' Dio vole, incappa

l' huomo nel laccio ch'ha per altrui teso.              75

Un ch'era usato di fare alla rappa

e come tirannel si facia rota,

non li valse vestir la bigia cappa [326],                      78

che non torcessi da lato la gota

per la franca iustizia di quel padre,

la quale ciascun fece a l'ora nota                           81

E io conoscia tutte l' opre ladre,

e la virtù de' buon non conosciuta

più che non fa el suo figliol la madre.                   84

Non fu giamai ragion così tenuta

fra i miei figliuoli, ch'eran di ciò degni,

che tal medico avesse mai feruta,                         87

per la qual generar gravi disdegni

a certi miei di voler conformi

ch' hebber de ciò sempre gl' animi pregni.          90

Figliol, so che m'intendi, se non dormi,

e qui si cominciò la gelosia,

che sempre parve a llor esser deformi                  93

La guerra sempre de fuor si facia

da Petramala et Ubertini usciti,

e l'uno e l'altro forte s' offendia,                             96

e' quai voliven esser rivestiti

di mia cittadinanza e de' lor beni

comunemente et esser rebanditi [327]                        99

E non volgendo al trattato le reni

el savio padre sempre facia guerra,

già non restrinse alle genti sue freni.                    102

Havendo cavalcato a l'alta serra

Bartolomeo de la Val del Bagnioro,

subito uscì brigata di mi' terra.                             105

Giù nel Cerfone si scontrò con loro,

e fuggendo per lor si mise in rotta.

sí che Pandolfo e molti presi foro [328].                     108

Permisse Idio la sua captura alotta,

perchè la pace subito seguisse [329],

che tosto fu a termini ridotta [330],                            111

che ciaschedun i suoi beni rihavesse,

e tornasse ciascun sotto sua ala

o ghelfo o ghibellin che fuora stesse;                    114

salvo che gli Ubertini e Pietramala

che a certo tempo potesser tornare,

e con licentia sua salir la scala.                              117

e ch'esso anchor dovesse riformare

de' cittadin comun il reggimento

e gli offitii e gli honor comunicare.                       120

Et benchè a molti fosse increscimento,

fermati fuoro i capitoli espressi

di tal concordia con buon sodamento.                 123

Mille trecento ottantun fuor rimessi

tutti gli usciti miei del mese corto,

e ghelfi e ghibellin quai fosser essi [331]                    126

fuor che color che per altrui sconforto

vennero a riverir quel padre degno

con sua licentia pria per non far torto.                 129

Multiplicò allor forte il disdegno,

che partorì da poi mia vedovanza,

che fece d'odio a molti il cor sì pregno.                 132

Vennersi tutti a far tal honoranza,

Tarlati et Ubertin per sè ciascuno,

tutti onorando mia cittadinanza.                          135

Ei cittadini tutti ad uno ad uno

fecer gran festa della lor venuta,

ma più però di lor la fece alcuno,                          138

la qual da molti fu tanto spiaciuta,

e nella mente lor tanto gravosa,

perchè lor tirannia parea scaduta.                        141

Lor voluntà, che sempre fo vitiosa,

non obliando lor vechio costume,

ben dimostrò com'era venenosa.                           144

E quei che in ogni parte vedia lume

del lor pravo pensier s'accorse tosto,

e fece a più di lor mutar le piume.                        147

Per questo, figlio mio, io t'ho risposto

alla dimanda che tu mi facesti,

che chi fa male fa pur a suo costo.                        150

                                                                                 Quattro ne fe' pigliare alhor di questi [332];

el cavallier è l'uno et altro Checo,

Nanni de' Camaian, che non fur presti                153

a fuggir, come gli altri, da lo speco,

Bostoli et Albergotti che si fero

capitoli non stando fermi al becho [333].                   156

Ei quai poi tucti con gran vitupero,

per lo vicario messi fuoro in bando

con lor brigata e non so se per vero.                     159

S'avian commesso error acumulando

e se d'altro difetto erano insonti,

colpevoli si fecer forte errando,                             162

perchè a prender Quarata fuor sì pronti,

du' se ridusse tutta lor brigata

d'amici, cittadini e di congionti;                            165

la qual subito fu poi hosteggiata,

ne l'ottantuno, del mese di luglio,

con bastie e con gente assai armata [334].                 168

Campato non sarebbe remasuglio

de lor brigata, se onesta dolceza

non fuss'usata al lassar del cespuglio.                   171

Non valse alhor nè forza nè aspreza,

nè de tale e de qual dato sochorso,

ch' a patti non lassasser la fortezza.                      174

A Castiglione fecer lor ricorso,

e poco poi ripreser Puliciano [335],

ma perchè non gli havien da dar di morso,         177

di notte tempo si partir del piano

senza contesa de l'hoste che c'era,

e questo sai, chè non eri lontano.                          180

Col de Gragnion remase poi lumera

di lor brigata, facendo gli assalti

a Petramala de mane e de sera [336].                        183

Io non ti posso dir tucti i difalti

comessi per ciaschun da ogni parte,

che per le Chiasse stanno e per monti alti,           186

ma tu, figliol, sei savio di quest'arte,

abbi a la mente, e fa che non ti scordi

[di] dirlo a colui che usa nove carte.                     189

Io so certo, figliol, che te ricordi

che gli antichi de' giovin di cui dico

d'aiutar Petramala non fur sordi.                         192

De' quali anchora sempre fui amico

col parentado e hor giovinilmente

non si ricorda alcun servisgio antico.                    195

Non sia l' huom grande mai, nè si potente,

che de l'amico e vicin non bisogni,

e più del proximan che de l' absente.                    198

Io veggio, padre mio, che tu non sogni

e bene intendo ciò che tu mi dici,

e niente mi pare che tu agogni.                             201

Ei giovinetti da l' alte pendici,

forse oltreggiati da cui non doviano,

non dovia Petramala far nemici,                          204

E così essi anchor che si sentiano

non si poter resister alla possa

per ben di lor e suoi tacer potiano.                        207

Nova amistà non dura alla percossa,

ché tanto serve quanto può ritrarne,

dove l'antica e vera non fa mossa.                        210

Se prima, figliol mio, fece allegrarme

l'entrata adventurosa del mio sire,

molto maggior poi festa fece farme,                     213

allhora ch'esso mi fece sentire

come del regnio era incoronato

felicemente, senza alcun fallire [337]                          216

e da cui fu, figliolo, più exaltato

el nome e gloria sua, come se vidde,

che da color, ch'egli ha poi condennato,              219

con romper d'aste e con danze e con ridde,

giovani dame con stormenti e canti,

e in contrario nulla se rividde.                               222

Io non ti farò qui larghi milanti,

figliol, di tal materia che rentosca

con più ricordo in diversi pianti [338].                       225

Io credo ben, figliol, che tu conosca

ch'io farei ben di dir per su' vergogna

l' honor ch'io feci e quanto più m' atosca,            228

ma perch' altro di lui senza menzogna

me converrà spiegar su trista fama,

taccio qui di grattar più la sua rogna [339].              231

Poi l'empia setta mia che sempre brama

viver di ratto e non volse mai pace,

con false informasgion[i] lor si richiama [340].         234

de miser Iauriese, a cui dispiace

loro sfrenato e corrotto appetito

e l'animosa loro ardente face.                                237

Et questo fu dalla corona udito,

ch'esso havia preso ei sua cari fideli

e discacciato senza haver fallito,                           240

et altre più assai con falsi veli

propose infamasgioni del signior degno,

che forse è meglio ch'io qui te le celi.                    243

Et esso, a cui non si confà el regno,

sì false information prima raccolse,

e concepette alhor gravoso sdegno                       246

contro del padre e de color che volse

per pace richiamar con gran consiglio,

e del vicariato lo distolse.                                       249

Per successor mi mandava Marsiglio,

comandando che fosse receuto

e di ciò fu nel popul gran bisbiglio [341],                   252

e fo di ciò parlamento tenuto,

che se mandasse al re ambasciaria

a dir del padre quel ch'era dovuto.                       255

E fatta sopra ciò gran diceria,

fu ottenuto, e non so se fo meglio,

che se mandasser homin d' ogni via.                    258

Stato sarebbe assai miglior conseglio

che Marsilio vicar fussi acettato

per real riverentia e ben del veglio                        261

Volesse Dio, figliol, che fosse stato

quel che tu di' e non facto per gara

ciò che si fe, che m'ha cusì trattato!                      264

Ma doppo il facto ciascheduno impara,

chi può andar deritto e va obliquo

a sinistro ch' advien tardi ripara.                          267

Mandato fu Andrea e Lodovico,

Saxol' e Petramala a l'ambasciata

a Napol, di settembre, come dico [342].                     270

E come fu per loro al re narrata,

subito fu a lor per lui risposto,

monstrando la sua vista non turbata,                   273

com' esso havia in tutto desposto,

che più non fusse miser de Iurino

vicar di me ed altro v' havia posto                        276

e che tornassi ghelfo e ghibellino

ch' uscito fussi e chi fallito havesse

pena portassi e no stesse a confino,                       279

e che volia ch' al tucto se partisse

el vescovo vicar, perchè volia

che per suo cancellier del regnio gisse.                 282

Dispiacque a molti e crebbe la resia

per la facta risposta en del cassare

che del virar predetto facta havia,                        285

e che novo virar dovia mandare,

el qual sarebbe signior franco e giusto,

che ragione e giustizia dovia fare.                        288

O quanto grave, noioso e ingiusto

a molti de' miei fu cotal decreto,

però che non gli andava bene a gusto!                 291

E di ciò fu alcun dei miei sì lieto

che la sua voglia non può ricoprire,

e tale sparla e tal se ne sta quieto

e tal s' alegra assai del suo partire [343].                    295

CAPITOLO X.

CAPITULUM DECIMUM.

DE RECESSU DOMINI IAURIENSIS, DE PRIMO

RUMORE INCEPTO AD DOMUM BOVACCI ET

DE VILITATE DOMINI IACOPI VICARII ET ALIORUM.

Figliuol, tu vedi ch'io so' ora al ponto

de mie fortune sì crudeli e prave,

e veramente io so' a l'uscio gionto,                        3

e fo come colui che nella nave,

fortuneggiando da venti percosso,

smarrito sta e con prece soave                               6

a Dio se raccomanda, sì che possa

uscir di tal fortuna a salvamento

e di paura li trema la cossa.                                   9

Hor pon, figliol mio caro, intendimento

a quel ch'io te dico in questa rima,

et non mutar il tuo proponimento.                       12

Io te dirò chi fu la cagion prima,

e chi potiva al mio mal[e] dar rimedio,

de mia adversità chi bene stima.                           15

Quei ch' ebber della pace si gran tedio

e de' tornati hebber tanto dolore,

che dentro e fuor di me facian resedio [344]          18

non potevan celar loro amarore

ne' miei consigli, che per riformarme

faciva fare il mio caro signiore,                             21

chè certi sessantin volean recarme

a un consiglio usato a tirannia,

e a lor senno pur volean guidarme [345].              24

Lor colorato dir con fellonia

fu cognosciuto, sì che non s'ottenne

in più consigli che 'l signor facia.                          27

Poco da poi nel mal ponto venne

el successor vicar del re mandato,

di cui entrata gran festa si tenne [346].                  30

A l'entrar suo li fu sopra portato

per Lodovico el gonfalon reale,

e di ciò fu per molti mormorato.                           33

Non si pensava nel futuro male,

che costui era la mala radice

di mia adversità perpetuale.                                  36

In sua venuta si mostrò felice,

pacifico, senza ira e mansueto,

non partiale, e per ciascun fenice.                         39

E 'l popul mio si mostrò sì lieto

di sua venuta e poi della sua scorta,

vedendo tolto il precorso decreto.                         42

Questo anzi dì faciva aprir la porta,

e la sera serrare al primo sonno,

monstrando che paura fussi morta.                      45

Ai cittadini ch'a parlar gli vanno

era piacente el traditor pugliese,

che cusì tutti per usanza fanno.                            48

Questo monstrò, nel consiglio, palese

esser venuto sol per darmi pace

e de cessar l'angustie e le mie spese.                     51

Voler monstrava quel che a me più piace

de reformar in stato d'ugual parte,

secondo il dir d'alcun che qui si tace [347].           54

Costui con sua losinghevol arte

richiese de' denar simoneggiando

pria Pretamala, e poi rivolse carte.                       57

Non andava costui ponto gridando,

ma con frode e malitia provedia

che tornasser color, ch' eron in bando,                 60

per observare el precepto ch'havia

in secreto dal re di dare in fondo

ghibellin tutti, sì come da pria [348].                     63

e per menarli, figliol, tutti a tondo,

mosse con lui, ei ci verrà da poi,

quel Villanuccio, che non fosse al mondo            66

nato già mai  et con li altri suoi

sollecitò con diversi colori

che 'l cassaretto fussi dato a llui [349].                   69

E mandò per color ch'eran de fuori,

che tornassero a lui securamente,

i quai tornar con gli usati furori.                           72

Bostoli et Albergotti certamente

et Camaian con altri lor seguaci,

come fallito non havesser niente.                          75

Costoro, come can sempre mordaci,

andavan menacciando questo e quello,

facendo ei boni a llor parer mendaci [350].          78

E seguitando il proposito fello,

volendosi partire il padre degnio

e rassegnar la guardia del castello [351],              81

presente lui, con oltraggioso sdegno

quel da Castel gli pose mano al pecto,

che di mirarlo già non era degnio [352].               84

Questo dovia recarselo a dispetto,

per riverentia del passato offitio,

e perchè in sua presentia fu 'l difetto                    87

che dovea di lui fare sacrifitio

di iustitia real per haver pregio,

e per non dare al mal fare inditio.                         90

Stettesi queto per suo gran dispregio,

e perchè tenia mano a cotal fallo,

per sua promessa fatta nel collegio.                      93

Alhor, figliolo, si comenciò 'l ballo [353],

però che Ludovico come drago

diss' : io non monti già mai a cavallo,                   96

se de Nofro punir non me n'appago,

sicome si convien a tal ragazo,

che del suo sangue ai can farò far lago [354],       99

amazarlo come se dia pazo,

ch' ha ardimento far o dir vergogna

di tal signor, presente miser Azo [355].                102

E' non rispose e non fè più rampogna.

Gli animi si turbar tucti per questo:

cusì fuss' elli stato in la Borgogna [356]!               105

Alhor fu Ludovico coi suoi presto

per dar scorta a miser de Iurino,

perchè non fussi da verun molesto [357],              108

perch' ei fo padre d'ogni ghibellino,

bench'esso non facessi che potiva

contro di ciascun ghelfo bostolino.                       111

Degna cosa è che talhor se riceva

graveza per la non facta iustitia,

che non caggia ad altrui per leva leva.                 114

Chè perch' ei desse a' Bostoli tristitia

di quella morte che oscura far fece,

a un de lor, ch' aviva la militia                              117

el qual di nominar hor non mi lese,

ma tu sai ben, figliol, però chi era

e se l' opere sue fur dritte o biece [358];                 120

se ver trovava quel che ditto gli era,

e de ciò hebbe ragionevol prova,

doviali punir tucti in una schiera,                         123

e poi che morta havessi quella cova,

era sanato e d'alcun rimanente

non me saria curato tre boglie ova [359].              126

Era nel casser grande molta gente [360],

quando 'l signor che ho detto si partiva;

Bartolomeo in forma apariscente                          129

alcun seguace bostolin prendiva

lui per la briglia, che non gisse fuora,

se prima ei suoi denar non gli rendiva [361].        132

Io cresi ben, figliol, che in quell' hora

per tale ingiuria ch' alhor fosse spenta

la setta loro, perchè: mora, mora?                        135

gridavan tutti senza nulla infenta

miei cittadini, e con le pietre in mano

monstravon di voler dieci per trenta [362]            138

Tutti fuggendo nel palazo vano [363],

Bostoli et Albergotti e loro amici,

e per la piaza niente restano.                                 141

Io so ben, padre, ch'è come tu dici,

però che io fui presente a quella tresca,

che di novembre fu al tre e dieci [364].                  144

Pregoti, figliol mio, che non ti incresca,

se ti rampongno, che con gli altri tucti

voi non volesti una vil fava fresca [365],                147

chè potevate a lor gli ultimi lucti

senza troppa contesa far provare,

e i miei nemici in tucto far distructi.                     150

Partissi il padre senza più restare,

acompagniato da Petramaleschi,

e reposossi alcun dì ad Anghiare [366].                 153

Caro mio padre, prima che tu eschi

d'esta materia fa' che non gavazoli

e la mia mente un poco me rinfreschi.                 156

Dimmi che fece Iacomo Carazoli,

si invilire paura o tradimento,

o se così i pugliesi fan tramazzoli.                        159

E' non parria ch' havessi sentimento

d'homo sensato et fra gli altri grande,

chè sol la vista dovia dar pavento.                        162

Figliol, diss' egli, già di tal vivande [367]

t'ho detto prima non molto da longue

et hor vo' satisfar a tue domande.                         165

Di certo questo vo' che tu repogne

che raguagliato si partì di Puglia

de ciò ch' ei fece et empissi le pogne.                    168

Poi fece anchor coi Bostolin guasbuglia,

ricevette danar, e fu con loro

traditor ver ch'havessi al cor la guglia.                 171

Non per paura, ma per brama d'oro

monstrò viltà e servò sua promessa,

cusì son fatti nel pugliese coro [368].                             174

In quel dì poi, come nona s'appressa,

havendo dentro ei Bostoli con seco

e gli Albergotti e tutta lor trasmessa [369],                   177

mandò di fuori col voler suo bieco

per miser Azzo et poi per Ludovico [370],

ch'ero, con loro amici tucti mero,                                 180

ch' andasser ciascheduno come amico,

perchè voliva con lor consigliare,

o forse usare lor costume antico.                                  183

E' quai deliberar di non andare,

temendo forte di non esser colti

forse allo stretto, come s'usa fare [371].                        186

Certamente, figliuol, non fur stolti,

e presen per partito di mandarve

doi cittadini cogniosciuti a' volti,                                 189

perchè non fa mestier di qui nomarve,

però tu sai, figliol, chi furon quelli,

e so' tenuto assai di meritarve.                                     192

Ei lor pensieri iniqui, rei et felli

se dimonstrar per l'opre seguite,

e come sempre fuor per me ribelli.                              195

Mentre che l' ambasciate riferite

per li doi eran al vicar predetto,

detto fo a lui: O signor nostro, udite.                          198

Ei ghibeliin con furore e dispecto,

a popul sono a casa di Bovaccio [372],

et era ver, ma non con quello effecto                          201

che detto fu per tal ch' hora mi taccio,

e ciò non l'insegnò Giustiniano

nè altra legge quale imparò vaccio.                           204

Miser Iacopo alhor, che tenia mano

a tal mercato, subito levosse

e i suoi colleggiati non restàno.                                  207

ch'esso e ciaschun a più potere armosse,

et aperse la porta a gente d'arme,

che a lui fuggia per non haver percosse [373].          210

Padre mio caro, piacciate ascoltarme,

e me riprende, se dal ver mi parto,

e vogli a tal dimanda satisfarme                               213

el popul tuo che  non era sparto,

come disse colui, che domandava?

e chi prima cercò di fare squarto?                             216

Caro figliuolo, ciaschedun mirava

vantaggiar nel compagno e più temendo

l'ingiuria fatta ch'ognun ricordava.                          219

Per lo tuo dire, padre mio, comprendo

che l'una parte e l'altra havia timore

di quel, che sempre fu comunal mendo.                  222

Quel ch'è offeso teme più dolore

recever da colui, che di far l'usa,

e chi offende temè del furore.                                    225

Così temendo ciaschedun s'accusa,

chè contra carità ciascuno excede

ch' ha la sua mente a oltreggiar diffusa.                  228

Ludovico a robar prima si diede

casa di Simo [374] e fu vi ancor ferito,

perchè 'l furor di fuora al mal procede.                    231

Hor non ce fusse giamai apparito,

volesse Idio, a farme tali scotti

quel che da me fu così reverito.                                 234

Allora furon nel borgo Albergotti

case affocate pur da' Sexantini

per vendetta de' già lor dati botti.                             237

Carco di ciò fu dato ai ghibellini,

senza difecto havere in ciò commesso,

e ciò ti provo per quei cittadini.                                 240

Vanni di Chese ghibellin fu esso

e l'altro fu Andrea del Thegliuzo,

ch' agli Albergotti stavano da presso [375].               243

Figliol, se alcun dicesse: io te renunzo

del ver che i ghibellin poi fecer peggio,

ch' a molte case poi fecer far puzo,                           246

consentelo, figliuol, perch' io non deggio

negare il vero e dei lor gran difetti,

ch' allor fuor fatti et in ciò non falleggio.                  249

O figliuoli invidiosi e maledetti,

che potevate haver tanta quïete

et havete tra voi tanti suspecti [376]                           252

Alhor per far le voglie tucte quete

l'un Ludovico et l'altro insieme giro [377],

ma quel non fu già bere da quella sete.                    255

Quanto più penso e quanto più ce miro,

più mi sento di doglia il cor turbato,

e famme fare più mortal suspiro.                              258

Però che 'l popul mio sì incitato

era a furor e ciascun non s'intende,

s' alcun di pace cercava tractato,                              261

l'animo sempre al mal far più s'accende

e l'una parte e l'altra non se fida,

e buon amor fra lor non si comprende.                    264

Unita pace per ciascun se grida

e che lo stato tutto se riformi

per cittadini e chi non se confida.                             267

Molte cagion, figliol, se tu non dormi,

notate l'hai, e già per quel venire

che fero i tre di fuor [378] non poi appormi             270

Securi furo nello stare e partire

e di ciò fu la petra e 'l lion rosso

biasmati assai per non voler fallire [379].                 273

Al vero bene ciascun era grosso,

chi per lor vechio et usato costume

e chi per non saltar de fuor del fosso.                       276

El buon virar, che già non vedea lume,

benchè de fuor venisse per far vista

de trattar pace e poi revolsè piume.                          279

Tanto più penso in lui mio cor s' atrista

per li suo' inganni, e quanto più racordo,

più la mia mente teco se contrista.                            282

Padre mio caro, al tuo parlar m'accordo,

perch' io il viddi e sua virtù conobbi

poco dinanzi, di che non mi scordo [380].                 285

et anco dir di lui convien ch'io sgobbi

di sua viltà e di sua tradimenti,

e de l'empir che fece d'oro i gobbi.                            288

Si però, padre, di cor ti lamenti

con meco forte, non è maraviglia,

considerando li suoi argomenti.                                291

El buon signior fa buona la famiglia,

e s' ella è ria, giustamente gastiga,

e s' elli è rio, a essa si somiglia.                                  294

Per altrui detto non esce di riga

el buon maestro el suo discente batte,

e sue lusinghe già non cura miga                             297

Chi va per governar le genti matte

robusto sia e non vile e codardo,

le volpi si cognioscon dalle gatte;

ciò ch'io dico di lui non so' busgiardo [381].              301

CAPITOLO XI.

CAPITULUM XI.

DE PROSECUTIONE RUMORIS, DE CAPTURA MAGNI CASSARI

ET ETIAM DE ROBBATIONE ET DE INUTILI REPARATIONE

FACTA CONTRA CASSARETTUM ET ALIIS.

Et cusì stando con gli animi accesi

miei cittadini, seguendo lor ira,

e chi temendo non esser offesi,                              3

chi a virtù con l'animo sospira,

nè può fra tanti rei adoperarla,

perchè ciascun per sè la fune tira.                         6

Ciascuno intende pure a consumarla

quella potenza ch'era per lor pingue,

nè pensa mai veruno d'aiutarla.                            9

Et a ciò fare di diverse lirgue

vennero gente armate contadine,

e chi d'un animo era e chi bilingue [382]:              12

di tutte terre amiche e vicine,

di Bagno [383], di Valdambra [384] e di Montagna [385]

vennero il giovedì a mal mio fine [386],                 15

di Verona [387], di Massa [388] e de Romagna,

amici d'Ubertini e Petramala,

e medicar non sepper mia magagna.                   18

El venardì montar con alta scala

a piei del vescovado [389], al casser grande,

e subito fu vento e anchor l'ala [390] .                    21

El primo che saltasse alle ghirlande [391]

del vescovado fo 'l fi' de Sovatto

e gli altri seguitar poi le vivande.                          24

Fu infocata la porta in un tracto,

e non valse palazzo nè la torre [392],

chè gli arcighelfi fuor messi a baratto [393].         27

Nel casseretto [394] ciaschedun ricorre,

lassando la lor robba e i lor cavagli,

si che ciascun di fuor ne potè torre.                      30

Si alhora fosser passati i serragli

del cassaretto, la mia gente tanta

non potea sostener a quei brezagli,                      33

perchè fuggendo a vinti, a quaranta,

entrare non potian da lo sportello,

e non s'apria la porta tutta quanta [395].              36

Chi lascia l' arme et chi straccia 'l mantello

per canpar la persona sbigottiti,

pensando haver alla gola el coltello [396],            39

Ma la troppa avaritia degli usciti,

dei contadin rapaci e 'l poco aviso

dè quei ch'esser dovian de ciò notriti,                   42

non volse ch'io havessi tanto riso

perpetuale e fussi senza brigha,

non prevedendo se fussi conquiso.                        45

E trasse lor dell'ordinata righa

la qual dovian seguir con ogni effetto,

e lor difesa montava una figha.                            48

Ma credo ben, figliol, che 'l gran dispecto,

ch'era Pier di Doctino al popul mio,

l'indusse per robbarlo a tal difecto [397].               51

El traditor pugliese sempre rio

se fuggì dentro e tutta sua brigata,

e prese sancto Alberto per suo fio [398].                54

La setta che con lui era scampata

liberar quelli ch'eran dentro stretti

e prima cominciò tale ambasciata.                       57

Cusì indurati sempre e maledetti

nè patti nè concordia qual trovaro

volser giamai per li gran dispecti,                         60

che fatto havien a quei che ritornaro

e ghelfi e ghibellin senza mesura,

e de non haver gratia impauraro [399].                 63

Naturale è in ogni creatura

de ragion dico quanto più offende,

più se dispera e di sè ha paura.                             66

Invano poi ad acquistar s'attende

il cassaretto, ch'era ben fornito

di quelle cose con che se difende [400].                 69

Sol per doi modi se fornia l'invito,

e l'uno e l'altro, benchè si mostrasse,

figliol, manchò com' io ti mostro a dito [401].      72

Prim' era pace, e che ciò si tractasse

per persona mezana non suspecta,

ch' a l'una e l'altra parte el ver parlasse                75

per l'Abbate, ch'era della setta [402]

contraria sexantina a ciascheduna,

se ben ci pensi con mente perfecta,                       78

perch' ei parlasse alhor non pur volt'una,

riportava a ciascun quel che non era,

onde pace voler ciascun disgiuna.                        81

Era di quei di fuor la voglia vera,

per aver pace obedire al vicario,

come dovian con mente sincera.                           84

Che esso riformassi haviano caro

mio reggimento de' car cittadini,

s' a tanto mal voleva dar riparo,                           87

comunemente ghelfi e ghibellini,

e ciaschedun senz'arme andar dovesse

alle sue case, senza haver confini [403],                90

che la guardia a llui rimanesse

del casseretto con alquanti fidi

aretin, che comun esso volesse.                             93

Bostoli et Albergotti seco guidi [404]

securamente e gli altri che volia

e de tal pace ciascun se confidi;                             96

castella che alcun de lor tenia

render dovesser, e se ciò non piace,

prender potesser securi ogni via,                           99

non maculando l'ordinata pace,

de ciò se dessi sicurtà che basti

per ogni parte con stretta vivace.                          102

Alhor multiplicando i gran contrasti

e' forse non credeano a' detti suoi,

et anchor non dicia tanto che basti.                      105

Doler mi posso, figliuol mio, di lui,

perchè excedia el mandato a lui imposto

e trasportava la risposta altrui.                              108

L'altro mod'era che ciascun disposto

fosse all'offesa e fra la gente stolta

un capitan vi fussi dato e posto,                            111

però che la brigata che sta sciolta

e non ha reggitor che la conduca

e che faccia di lei savia ricolta,                              114

car mio figliol, non vale una festuca:

così ogniuno si facia barigello

per comandare, e voliva esser duca.                     117

 Di tanti buon figlioli hor chi fu quello,

che sapesse ordinar la mia difesa?

Ma ciaschedun dormiva al suo hostello [405]!      120

O negligenza, che tanto discesa

fusti in la mente de si facti viri,

che l'un con l'altro pur facia contesa!                    123

O avarizia, che tanto martiri

ei miei figlioi per racquistar lor nido!

e temo, figliol mio, ch' io non m'adiri.                  126

O principal difetto, che fai grido

esser de te fra' miei figlioli tanti

che m'ha' già facto far più volte strido,                129

che aiuto mi fecer tutti quanti,

conti, signiori, cavallieri e donzelli,

soldati, cittadini e molti fanti?                               132

Io posso dir che me fuoro ribelli

de gir robbando e stavansi da canto,

e più se disse anchor perchè fur felli.                    135

Quella difesa da lunga cotanto

che pro facia e dentro lassare

che poi tornato mi è in grave pianto?                   138

Non era più securo dentro armare

con stechati, con fossi e con bertesche,

che star di fuora tutto dì a cavare?                       141

Non si gettavan le pietre manesche

su delle torre mia contr' a nemici,

ch' andaro di fore facendo le tresche [406].          144

Non eron dentro de noi troppi amici,

chè fidarsi de loro era gran dubbio,

stando di fuor a guardar le pendici.                     147

Tant' accia [407] non si avvolge sur un subio

quant'era longha mia difesa grande,

nè tanta corda ha Folignio o Ugubbio [408],        150

Andaron molti per mortal vivande

presso del cassaretto ad azuffarse,

s' alcuno usciva fuor delle ghirlande [409].           153

A questo ben potiva repararse,

s' un fussi stato maggior capitano

che proveduto havesse a rinforzarse,                    156

perchè ogni cosa se faciva invano,

non proveduta e con lungho consiglio,

qual sì, qual no, ce teniva di mano.                     159

Tu hai odito assai, caro mio figlio,

et ancora Vegetio tel dimonstra,

che turba non fa bene a dar di piglio [410]           162

a grande impresa, se non se li monstra

per suo signiore che governi el morso,

e altrimenti sol perder la giostra.                          165

Cavalcar li suoi messi in breve corso

al ponte di san Gianni, alla campagna

e mai non hebbe el traditor rimorso [411].           168

Im breve spazio quanto può calcagna

di dì e notte per lo cortonese,

et ancho el perugin, ch' hebbe magagna.            171

E tutto questo Petramala intese,

nè seppe dar riparo a sua venuta,

ch' haverian facto certo buone spese.                   174

O cieca providentia, o virtù muta,

o gentileza avara, o gente sciocha,

o matta plebe mia, che sei perduta [412]!             177

Fusti a quel punto prima che tu cocha

rompessi sì e sommergessi in fondo,

che tardi omai suo podere rentocha.                    180

che 'l dolce sito mio tanto giocondo

è devenuto pauroso e selvaggio [413],

e so' ancor sotto gravoso pondo [414].                  183

Car mio figliolo, perch'io non aggio

virtù alcuna de seguir più oltra,

pur repetendo l'amar beveraggio,

io tacerò e tu fa che te spoltre.                                     187

Note

________________________

[1] Annotazione sul codice C: "L'autore annota di quale età si messe a scrivere cioè di 54 anni, al 29 d'agosto"; secondo il codice E: 6 maggio.

[2] C nota: Memoria, intellectto e volontà, potentie dell'animo

[3] Dante, Vita nova, cap. I

[4] Vedi Vocabolario di voci aretine di F. Redi, Bib. Marucelliana di Firenze, ms., alla voce stroppare; "Stroppare, spiccare, levar via con violenza che che sia tirando a sè. E si usa attivo e neutro. Innamoramento di Cecco dagli Orti: Ed a la fine ogni corda se stroppa".

[5] Vedi Guittone d'Arezzo, Rime, Firenze 1867,  p. 219, sonetto sulla Superbia. Nella R. Galleria degli Uffizi di Firenze, primo corridoio, si trova un quadro in tavola rappresentante san Giovanni Evangelista che sale al cielo, di Giovanni del Buono, scuola fiorentina, seconda metà del sec. XIV. Ha sotto i piedi tre figure, una delle quali è la superbia, rappresentata nella immagine d'un guerriero armato e con due corna in testa.

[6] Fazio degli Uberti, Liriche, Firenze 1883, p. 139, sonetto sulla Superbia.

[7] Codice G: "Hic dicit de Avartia"

[8] Dante, Inf., I, 49 e segg.

[9] Dante, Inf., principio del canto VII, Fazio degli Uberti, op. cit., p. 143, sonetto sopra l'Avarizia e Guittone d'Arezzo, op. cit., p. 219, sonetto sullo stesso soggetto.

[10] C annota: "Vol descrivere l'invidia e suoi effetti e qualità", e G: "Hic ponit Invidiam que fuit causa principalis desolationis Aretii". Cf. anche Guittone d'Arezzo, op. cit., p. 220, sonetto sull'Invidia.

[11] Dante, Vita nuova, cap. III.

[12] Cf. Dante, Inf., III, v. 48.

[13] C annota: "del peccato d'Adamo".

[14] G annota: "In ista parte ponitur quod propter "Invidiam que erat et fuit inter Guelfos et Ghibellinos et etiam inter Ubertinos et Petramalenses ac etiam inter filios D. Pieri et Bertum D. Masgij destructio civitatis Aretij sine dubio est secuta".

[15] C annota: "Superbia, avaritia, Invidia".

[16] Cf. Dante, Inf., IV, vv. 1 e 2; I annota: " Il dolor rompe il sonno", e poi al verso seguente: "Di nuovo l'autore sogna".

[17] C annota: "La mattina sul far del dì". Cf. Dante, Inf., XXVI, v. 7.

[18] Cf. Dante, Purg., IX, vv. 13 sgg.

[19] G annota: "Hic significat Civitatem Aretij in figura flentis et lamentabilis de illis a quibus et propter quorum opera eius derobbatio et desolatio est seccata". Vedasi Pasqui, La Cattedrale Aretina, Arezzo, 1880, p. 68, ove si parla del mausoleo al Vescovo Guido Tarlati di Pietra Mala e si descrive la formella terza dal titolo: Il Comune pelato, sotto il quale si volle satireggiare il Comune sopradetto, pel cattivo governo, tiranneggiato e spogliato dei suoi beni dai magistrati, innanzi che il vescovo Guido ne prendesse la signoria. Sopra ad un soglio ornato di fogliami, nel cui mezzo campeggia l'arme del popolo, sta un vecchio istupidito, dalla folta chioma e della barba lunga, intorno al quale sono vari personaggi intenti a tirarlo chi per la barba, chi per i capelli, chi per le vesti. Questa satira del Comune pelato fu ripetuta da Giotto nella sala grande del Podestà di Firenze (Vasari, Vita di Giotto). Vedi anche lo stesso Vasari, Ragionamenti della pittura, ecc. Firenze, 1619, p. 160, Giornata II, ragionam. sesto. "P[rincipe Francesco de' Medici]. Chi è questo vecchio che innanzi a S. E. [Cosimo] sta cortese, con le mani al capo e con una benda a uso di sacerdote antico? - G[iorgio]. Questo è Arezzo, finto in quel modo per i sacrifizi che già si facevano in quella città nel tempo dei Romani.... ed ha a' piedi lo scudo entrovi il cavallo sfrenato, insegna di quella città, ecc.". Cf. anche questi versi con la terzina 202 del cap. I di questa Cronica. Fra gli imitatori del proemio allegorico di Ser Bartolomeo, d'imitazione dantesca, ce n'è uno già ricordato nell'Introduz. (p. XIV, nota ) Antonio da San Miniato, Hist. obsidionis Plumbini, per actae anno Christi MCCCCXLVII,  in MUR., RR. II. SS., tomo XXV, cap. II della parte ii, col. 326, che immagina lui pure, come abbiamo avvertito, di incontrare un vecchio venerando, colla differenza però che la sua non è figura allegorica.

[20] Cf. Dante, Purg., I, 36.

[21] G annota: " Hic dicit de Guelfis qui primo propter guerram quam habebant cum exititiis submiserunt Civitatem Aretij Karolo qui vocabatur Carolus de la pace". Il cod. E aggiunge: "de Durazzo, rex Ungarie".

[22] E annota: "Di messer Iacopo Caracciolo Napolitano".

[23] C annota: "La pietra per i Petramalesi, che "la loro arme è

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dadetti quadrati, e il leon rosso è l'arme delli Ubertini"; e il cod. G: "Hic conqueritur et blasfemat Petramalen ses et Ubertinos, quia non permiserunt interfici Lodovicum de Bostolis, et D. Lodovicum de Albergottis et ser Antonium ad domum Bovacci pro eorum fide servanda, et etiam apud Quaratam et maledicit diem xviij novembris, de quo mense fuit captus Dominus Pierus de Petramala in II". Vedi anche il Vasari, Vite dei pittori, scultori, ecc., Firenze 1846, vol. II, p. 5, Vite di Agostino e Agnolo Senesi: "Sono anche intorno a questa sepoltura [il mausoleo del Tarlati nella cattedrale d'Arezzo], in molti luoghi, l'insegne ghibelline e l'arme del Vescovo, che sono sei pietre quadrate d'oro in campo azzurro, con quell'ordine che stanno le sei palle nell'arme de' Medici, ecc.". Cf. anche di questa medesima Cronica il cap. X, v. 200 e  e il cap. XVIII, v. 192.

[24] Qui si allude alla data della invasione in Arezzo della compagnia di San Giorgio (18 novembre 1381) e alla vendita che della città fece il Coucy ai Fiorentini  pochi anni dopo (1384), nello stesso mese.Vedasi più avanti; per il sacco dato ad Arezzo dalla compagnia di San Giorgio, il cap. XII.

[25] G annota, citando il v. 460 del I lib. dell'Eneide con una leggera variante: " Que regio in terris nostri  non plena doloris? Virgilius".

[26] annota:« Si duole della guerra civile d'Arezzo".

[27] Cf. Dante, Parad., XVII, 118 sgg.

[28] G annota: "Hic dicit de Petramalensibus et de Ubertinis", ed il cod. I: "Il rinascimento d'Arezzo, doppo la cacciata di Desiderio, re de' Longobardi, fu debole e qui abitavano tutti li Aretini, e chi arte non faceva non era ammesso alli offitii, e queste sono quelle famiglie nominate dall'autore e durarono d'essere sole al governo della città fino alla venuta di Federigo primo imperatore, di Ottone Quarto e di Federigo Secondo, Re di Sicilia, e i quali nobilitando con privilegi le città de' Toscani, furono causa che li nobili, quali tenevano tutte le castella del contado venissero ad habittare Arezzo e questa fu la rovina, perchè il popolo non li voleva".

[29] G annota: "Hic dicit de Bostolis, Albergottis et " Camaianis".

[30] L'arme d'Arezzo è un cavallo sfrenato.

[31] I annota: "Chi dice la verità non fa ingiuria a nessuno".

[32] G annota, sbagliando però nella citazione, perchè non è la seconda, ma la prima deca: "Titus livius ponit in secunda deca sicut tria sunt Etrurie capita: Aretium, Perusium et Bulsenum". Cf. Dazi, Storia di Firenze, Firenze, 1735, p. 22, nota 2: "Che Arezzo sia una città antichissima e nobilissima è cosa chiara e manifesta". Livio, deca prima, lib. IX, cap. 37, lasciò scritto che ella era uno de' capi o sia Metropoli dell'antica Toscana "Itaque a Perusia et Cortona et Aretio quae ferme capita Etruriae populorum ea tempestate erant, etc.". E nella stessa prima deca, lib. X, cap. 37, lo stesso istorico: "Tres validissimae urbes Etruriae capita, Volsinii, Perusia, Aretium pacem petiere, etc.".

[33] Vedi Fazio degli Uberti, Dittamondo, III, 9: Di là dall'Ambra Aurelia mo' ci aspetta, | Aurelia dico alla città d'Arezzo, | perch'era anticamente così detta.

[34] G annota: "Hic dicit quod Civitas Aretii fabulose vocabatur Aurelia, que fuit usor Etrurii, quam ipsam sui filii posuerunt sub infelici nomine". Opinione falsa questa, secondo la quale Arezzo avrebbe avuto  nome da Aurelia, moglie di Etrurio da lui fuggita e a lui ribellatasi insieme col figlio. Cf. anche Villani (Mur., RR. II. SS., XIII), I, XLVII. Il nome Orca che le attribuirebbe, secondo il Nannucci (Manuale, II, p. 201) Restoro d'Arezzo nel famoso articolo dei Vasi Aretini è, come si vede dalle posteriori edizioni, per es. del Narducci, un errore di lettura per Orelia. Quanto alle leggende sull'origine di Arezzo, un ingenuo sincretismo le aveva foggiate di ricordi biblici, mitologici e storici e derivarono dalla Chronica de origine civitatis al buon Villani. (Gaspary, Storia della lett. ital., II, ). CF anche A. Graf ., Il zibaldone attribuito ad Antonio Pucci, in Giornale storico della lett. ital., I, 287, 289 e 296. Cf. anche De Bonis, in op. cit., Ecloga intitolata Florentia: ". . . . Secula clara quidem iam Aurelia magna vocabar - Aretium post multum, etc.". (E. Carrara, Milano. 1898, p. 30).

[35] I annota: "Superbia vana delli Aretini, che non avendo nulla, presumono far gran cose". Cf. Dante, Purg., XIV, v. 47.

[36] G annota: "Hic dicit De umine Arni". Cf. DANTE, Par.  XIV, v. 48

[37] G annota: "Dicit Sibilla Comana Aretium situ pulcherrimnm cives invidos parit, nunquam reipublice amatores, quorum bona, ipsis astantibus, alienigene devorabunt". Tito Livio dice che Varrone volle per ostaggio centoventi dei primi cittadini di Arezzo, acciò non si ribellassero e fece fermare le porte della città con nuove serrature, parendogli che gli Aretini fossero inclinati a darsi ad Annibale (lib. XXVII, cap. 24).

[38] Fazio degli Uberti, op. cit., loc. cit. "E sono di natura e d'uno ingegno | tanto sottil, che in ciò che afar si danno | passan degli altri le più volte il segno".

[39] G annota: "Prima destructio civitatis Aretii facta per Attilam seu Totilam, quando venit contra Romanos et destruxit civitatem Florentie et plures alias civitates in Lombardia et Tuscia et alias partibus. Vedi anche Leonardo Bruni, Hist., Firenze, 1860, vol. I, p. 150; Villani, Op. cit., lib. I, XXVII, e Fazio degli Uberti, Op. cit., loc. cit.: "Vero è che questa [Aurelia] mutò nome e vezzo, | quando Attila la prese, e che dappoi | arar la fece tutta a pezzo a pezzo". Alla leggenda d'Attila, distruttore di tante città d'Italia e quindi anche di Toscana, si dava fede nel Medio evo. Vedasi questa iscrizione che riporta Girolamo Perelli in un suo ms. della Bibl. della Fraternita dei Laici di Arezzo (ms. 81): "D. D. Anno MCCLXI, Indictione IV. Die dominico,  Februarii exeunte, Domini | Magnifici Comites Guido Novellus et Simon Fratres | Magnifici Guidonis, Dei | Gratia Palatini Tuscifi, et Magnificę, Dominę Comitessę Ioannę fecerunt incipere ędificare Portas et Muros Castri | Puppii iam ab Attila Dei flagello, deiecti".

[40] Aveva Arezzo belle mura a cui accenna anche Livio al lib. XXII, cap. 3. Vedi Burali, Vite de' Vescovi Aretini, Arezzo, 1638, p. 4, e Lami, Lezioni di Antichità Toscane, Firenze, 1766, p. 440 sgg., ove riporta a  proposito delle mura d'Arezzo, un decreto supposto di Desiderio: " Rursus plures antiquas nobiles urbes ampliavimus, et muris cinximus. Et nulle idem agimus, circa Lucam, Pistorium, Arecium, Orbitum et Ethruriam nunc Viterbum, etc.". Donde apparisce  che già prima erano state rifatte le mura ad Arezzo. Il cod. D avverte che qui si parla della prima cinta di mura ch'ebbe la città.

La città d'Arezzo non fu disfatta da Totila, come dice ser Bartolomeo, ma dall'imperatore Enrico V che intervenne nel 1111 nelle gravissime discordie scoppiate fra il clero e il popolo aretino nel primo decennio del sec. XII e la demolì, come si crede, fino dalle fondamenta (Vedi MUR., RR. II. SS., tomo XXIV, parte I di questa ristampa, p. 74, II 6-8.-. Cf. anche il cod. num.  della Bibl. della Fraternita dei Laici di Arezzo, già citato nella Introduz. agli Annali d'Arezzo (MUR. op. cit., loc. cit., pp. XVIII, 20 - NIX, 12). Ivi, negli spogli di Leonardo Bruni, fatti dall'Alessi trovasi 1108: Hetruriam cum exercitu ingressus Henricus Arretinos, qui sibi parere recusabant obsedit, et post multam cladem mandata facere compulit". L'Ammirato, St. Fior., Firenze, 1647, 48, riferisce diversamente il fatto, attribuendo poi la distruzione della città ad Enrico imperatore. "La città d'Arezzo, egli dice, fu disfatta dall'imperatore Enrico che dagli Aretini fu male accolto quando venne in Italia a prender la corona in Roma dal papa. Egli dunque che aveva invece avuto grandi accoglienze dai Fiorentini fu indignato e sui primi dell'anno spianò quella città, superba per l'altezza delle sue torri e la fortezza delle lor mura infino a' fondamenti".

[41] G annota: "Hic dicit qualiter duodecim domus Aretii reposuerunt civitatem post destructionem factam per Atilam". Gambino D'Arezzo, Rime, in Scelta di curiosità letter. inedite o rare, sec. XIII-XVII, dispensa CLXIV, lib. II, cap. x. Quanto all'espressione tal banda, del verso preced., intendi: tale via che dai Pescioni a sommo piazza, ecc., e dice il poeta: "parmi che a nominarle tu ti dorma", volendo significare che conosceva bene tali famiglie. Il sopra citato Gambino, op. cit., loc. cit., dice: "dodici case magne e singolari | che la rifecer poi in breve spatio", e secondo il medesimo le dodici case più antiche, più nobili aretine sarebbero: Bostoli, Guidoterni, Albergotti, Camaiani, Sassoli, Catenacci, Testi, Ubertini, Montebuoni, Paganelli, Oddomeri e Guasconi.

[42] G annota: "Hic dicit secundum augumentum civitatis Aretii factum per episcopum Marcellinum qui fuit" de Aretio, qui postea voluit dare civitatem Florentinis propter quod Dominus Imperator fecit eum suspendi". Vedi Pasqui, Docc. per la St. d'Arezzo, ecc., Vol. IV, p. 283 e Annales Arretinorum minores, all'anno ; MUR., op. cit., loc. cit., donde risulta falsa l'opinione che attribuisce questa nuova cinta di mura a Marcellino: a tempo suo era già stata fatta. Vedi anche gli Annales Arretinorum maiores in Mur., op. cit., loc. cit., all'an. 1249, e nota. Di Marcellino poi l'Alessi (cod. ms. della Fraternita dei Laici d'Arezzo già cit., c. 134 v.), dice: "Marcellinus episcopus Arretinus Frederici Imp. iussu a Saracenis apud oppidum S. Plamiani triduo ante Victoriae civitatis ab illo conditae eversionem suspenditur. Sanctitatis vero inani fama notatus. Matthei Parisiensis Sancti Albani Monachi Anglicani Hist. Anglic. anno 1249, p. 736 in Invect. Epist. Cardin. Remerii in Imperat., ex Bibl. Vatic.". Anche il Burali, op. cit., p. 63, parla  di questo secondo cerchio di mura fatto ad Arezzo dal Vescovo Marcellino.

[43] D annota: "Quartiere di Porta Crucifera". I quartieri in cui si divideva Arezzo nel sec. XIII erano: Porta Crucifera, Porta Sant'Andrea, Quartiere di Borgo e  Quartiere di Foro, Porta Crucifera era così detta anche dall'antichissimo monastero di Santa Croce che lì presso sorgeva. Vedi Pasqui, Docum. per la Storia d'Arezzo nel Medio evo, vol. IV, pp. 61 e 240, nota 48. Per questo luogo detto Crucifera vi era una porta, dentro la quale seguendo il cammino si entrava nel Borgo e contrada di San Martino e sì l'uno come l'altro erano sulla sommità della città, dove era la cittadella (Gamurrini, Istoria genealogica delle famiglie toscane ed umbre, vol. I, p. ). Il cod. C annota: "Il contratto della compra del mezzo di Castel di Colle fu fatto in questa contrada di Porta Crucifera, l'anno  1301" e nel cod. G troviamo "Hic ponit nobiles civitatis Aretii tam antiquos quam modernos". Poi segue, d'altra mano: "In alio exemplari: Hic incipit numerare a nobilibus qui habitabant iuxta portam Collis Citere vulgo Porta Colcitrone, que in primis temporibus christianitatis ad exortationem cleri et devotorum monachorum in publicis scripturis fuit appellata Porta Crucifera, ut non recordaretur amplius nomen Citeree idest Veneris, sed frustra, nam populus semper voluit dicere Porta Colcitrone".

[44] I Montebuoni possedevano Montebuono. É ricordato un Guidoguerra Montebuonus, come un de' giudici nel torneamento fatto in Arezzo, in occasione della investitura a milite d'Ildebrandino Giratasca nell'anno 1260 (Pasqui, op. cit., p. ). Vedi anche Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 106. Sono pure ricordati da Gambino d'Arezzo, op. cit., lib. II, cap. xiii: Il Montebuon, Paganelli, e Oddomeri". C'era anche una porta in Arezzo che prendeva nome da loro (Porta de Montebonis). Vedi Pasqui, op. cit., p. 61, e un codice della Cronica di ser Bartolomeo, il cod. S, fu copiato dal Gamurrini per uso di questa nobile famiglia.

[45] Trovasi rammentato Uguccione di messer Giannotto Marabottini nel , come generale della lega che fanno gli Aretini coi Senesi Ghibellini; poi nel  Federico Marabottini ha dagli Aretini l'incarico di trattar la pace col Fiorentini per la parte ghibellina, e nel  Cecchits Fucci de Marabottinis è nominato come testimone nella pace tra guelfi e ghibellini nel castel di Civitella (Gamurrini, op. cit., vol. IV, pp. 158, 11. 120, 158). Troviamo ricordato un Andreassus filius Marabuttini, come un de' quattro strenui milites che assistono in casa e in chiesa nella investitura a milite il sopra nominato Ildebrandino Giratasca. (Pasqui, op. cit., p. 32).

[46] Vedi Gamurrini, op. cit., vol. I, 131; II, 463, III, 385, IV, 131

[47] Vedasi ricordato in una lettera di C. Salutati a Domenico Bandini d'Arezzo (27 giugno 1400) un Ser Giovanni de' Maffeguidi come uomo di lettere (C. Salutati, Epistulae, Roma, 1891, III). Vedasi anche Gamurrini, Op. cit., vol. I, 96.

[48] È ricordato un Pierus Paganellus, come uno dei cavalieri che prendon parte al torneamento dato in Arezzo nell'occasione della investitura a milite del sopra nominato Ildebrandino Giratasca ed ottiene il secondo premio (Pasqui, op. cit., p. 33). Vedasi anche Gamurrini, op. cit., vol. II, 67, 169, 187, 414, 463.

[49] B annota: "D. Filippus filius Cecchi Domini Brandaglie Domini Boninsegne de Brandaglis fecit primus se vocari de Guidoternis, fors eternus volebat fieri" e nel cod. C troviamo: "I Guidoterni sono i Brandagli". Trovasi ricordato un Guilfredus o Gilfredus Guidoternus come uno dei quattro strenui milites che assistono nella investitura a milite il sopra nominato Giratasca (Pasqui, Op. cit., p. 32).

[50] Arch. Stato Firenze, Carte Strozziane, Seconda Serie, 60, c. i. È quivi nominato un Bartolus Domini Alberti de Bostolis de Aretio stipendiarius Comunis Florentie (1329). È poi ricordato un Toniaccius de Bostolis come uno dei cavalieri che prendono parte al torneamento fatto in Arezzo in occasione della investitura a milite del Giratasca sopra nominato e che se ne esce colle beffe in barella derisoria facta de fustis (Pasqui, op. cit., p. 33).Gambino d'Arezzo, op.cit., lib. II, cap. xiii: "Prima fu il sangue bostolin preclaro". Questa famiglia fu capo della fazione guelfa, opponendosi sempre con tutto lo spirito alla fazione ghibellina. De' Bostoli parla anche Cristoforo Landini nel comento che fece di Dante, al VI canto del Purg., v. 13, "Quiv'era l'Aretin che da le braccia, ecc.". Furono cacciati d'Arezzo, nel 1347 e nel 138 vi ritornarono e chiamaron nella loro città Carlo di Durazzo che si portava alla conquista del regno di Napoli contro alla regina Giovanna, come apparirà meglio in seguito. La loro arme può vedersi in Gamurrini, op. cit., vol. IV, p. 108: è uno scudo con mezzo campo rosso e mezzo bianco, nel bianco tre rose vermiglie.

[51] Vedasi ricordato un Naimerius de Totis come un de' giudici nel tornearnento fatto in Arezzo in occasione della investitura a milite del sopra nominato Giratasca (pasqui, op. cit., p. 33).

[52] É ricordato un Farolfus Catenaccius votus Squarcina, come uno dei due che accompagnano al torneamento Ildebrandino Giratasca dopo la sua investira a milite (Pasqui, op. cit., loc. cit). Erano signori Catenaia, oriundi d'Arezzo (Gamurrini, op. cit., . III, P. I)

[53] Il Muratori (RR. II. SS., XV, pp. 809 e 822) nota che la famiglia Sinigardi non è tanto antica e il nome è forse stato corrotto e sta invece di Sighinardi.

[54] Ghibellini potenti e nobili si trapiantarono di Firenze in Arezzo, come tutti i cronisti e storici fiorentini ci dicono. Nel  è nominato Dominus Sacchus quondam Domini Caponsacchi nell'atto di lega che fanno gli Aretini coi Senesi ghibellini, della quale fu capitano generale Uguccione di messer Giannotto de' Marabottini. Fu molte volte questa famiglia eletta al grado di gonfaloniere di giustizia (Gamurrini, op. cit., vol. IV, 155 sgg).

[55] Vedasi ricordato un Guillelmus Miser Angeschi come uno dei quattro cavalieri che "tenuerunt enses nudet elevatos" nell'evangelio della messa solenne per la investitura a milite del sopra nominato Giratasca (Pasqui, op. cit., p. 32)

[56] Altro quartiere che prendeva nome dalla porta omonima (Pasqui, op. cit., loc. cit., nota 51 e la pianta della città d'Arezzo a p. 61).

[57] Vedi Pasqui, op. cit., pp. 31 e 35, nota i.

[58] Troviamo il nome di uno di questa famiglia come uno dei Guelfi che con un contratto, nell'anno 1380, costituiscono ser Agnolo di ser Vanni Ricciardetti da Civitella arbitro coi Ghibellini in loro vantaggio, e si confidano tutti in lui: è questi Dominus Philippus Federici de Testis (Gamurrini, op. cit. vol. II, p. 442)

[59] Ser Michelangelo di ser Cristoforo Domigiani intervenne nel 1453 insieme con messer Benedetto di messer Michele Accolti alle solenni esequie di Carlo Marsuppini a Firenze, come ambasciatore del comune Arezzo (Gamurrini, op. cit., vol. 1, p. 122). Troviamo rammentato un Albertus Domigianus fra i quattro "strenui milites„ che vennero a prendere a casa Ridolfoni Ildebrandino Giratasca per condurlo alla chiesa e assisterlo durante la investitura a milite (Pasqui, op. cit., p. ).

[60] Troviamo rammentato un messer Goro degli Altucci d'Arezzo, che consiglia come guelfo l'esercito fiorentino a passare ostilmente nel Casentino alla battaglia di Campaldino; 11 giugno 1289 (Gamurrini, op. cit, loc. cit., p. 242).

[61] Lo troviamo rammentato nella citata vestizione a milite di Ildebrandino Giratasca, come colui in casa del quale si veste il nuovo cavaliere. (Pasqui, op. cit., p. 31 sgg.).

[62] G. annota; "Hic dicit de Recuperis qui venerunt de Castro Quarate et antea sarculabant cucurbitas et cetrullos". Il Burali, op. cit., p. 69, dice che essendo, per la rotta di Campaldino, la città d'Arezzo quasi priva di cittadini ghibellini, i Guelfi fecero una legge che si chiamassero i contadini del territorio e si onorassero di cittadinanza, "li quali (ecco le sue precise parole) levatisi dalle zappe e altri esercizi contadineschi, essendo diversi di costumi ai Nobili, di nuovo accrebbero nella città confusione, perchè detta cittadinanza, venuta dai campi di Quarata, dove eran soliti sarchiare zucche e cidroni, di Rondine, di Subbiano e d'altre popolate ville e castelli, causarono nella città d'Arezzo la medesima confusione che fa la diversità de' cibi nello stomaco, ecc.".

[63] Il Quartiere di Porta di Foro (Pasqui, op. cit., p. 61).  

[64] Una nota di mano posteriore, a questo punto, in G avverte: "In codice Iohannis Caroli de Iudicibus ait: "Hic dicit de Ubertinis et Petramalensibus qui erant Cattani vel Castellani multorum castellorum et de aliis nobilibusCattanis sicut Pazzietilli a Catenaia". Gulielmino Ubertini, vescovo d'Arezzo, morì a Campaldino nel 1289. Vedi Annali Maggiori, ad annum. Gli Ubertini furono signori di molte terre e castella (Gamurrini, op. cit., vol. I, 10). Il papa Giovanni XXII sollevò gli Ubertini contro i Pietramalesi per deporre il vescovo Guido da Pietramala, pensò di far vescovado la città di Cortona per smembrare la giurisdizione così vasta del vescovato d'Arezzo ed elesse a questa chiesa Rainerio di Biordo degli Ubertini, fratello del proposto Boso, ma non gli riuscì, sicchè il Tarlati più che mai irato gli confiscò quello che possedeva nell'Aretino: Casserum de Montolo, Castrum de Chitignano, etc. (Vedi Annales cit., ad annum 1324 e Gamurrini, op.cit., loc. cit., 208). Intorno agli altri fatti notevoli di questa illustre famiglia, vedi il sopracitato Gamurrini, op. cit., vol. I, pp. 96,100 , 101, 306; II, 531, ecc. e Capitoli del comune di Firenze. Per quel che riguarda la famiglia Tarlati rimandiamo prima di tutto agli Annali già citati e al Gamurrini, op. cit, vol. I, pp. 194, 195, 198, 208, e vol. II, p. 331. Del resto così di questa famiglia, come delle altre, che in ser Bartolomeo sono ricordate nel seguito della Cronica, torneremo a parlare via via che ne capiterà l'occasione. Anche dei Tarlati si occupano i Capitoli del comune di Firenze, sicchè possono consultarsi con profitto e precisamente ivi abbiamo: (1369-1391) Promissione di fedeltà al comune di Firenze, VI, p. 59 e (1385) Capitoli con Guido figlio del fu Pietro (Pier Saccone) da Pietramala pei suoi castelli di Chiusi, Murlo, Vezzano, ecc., pp. 53-55.

[65] La famiglia dei Sassoli combattè con quella dei Dragomanni fino al 1355; erano conti di Palazzuolo, e signori di altre terre: a tal segno si inimicaron tra loro, che fu necessario che la Repubblica stessa vi mettesse mano per far loro fare una pace, il cui trattato si conserva nell'Archivio di Morello d'Arezzo, nel Protocollo X di ser Guido di Rodolfo, a c. 29. Si trovano poi anche registrati i Sassoli fra quelli che costituirono nel 1380 ser Agnolo di Ser Vanni Ricciardetti di Civitella col mandato di far quello che volesse per la parte guelfa che in lui aveva piena fiducia (Gamurrini, op. cit., vol. II, pp. 241 e 442). Fuggirono da Arezzo coi Guasconi, gli Adimari ed i Rinalducci a tempo del vescovo Buoso degli Ubertini, e, benchè guelfe, queste famiglie doverono far lena coi Tarlati contro il governo della città d'Arezzo dei Sessanta (Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 246).

[66] Erano signori di Lignano (Gamurrini, op. cit., vol. I, 106).  

[67] Di questa famiglia, secondo il Redi (Vocabolario di voci aretine, ms. cit., della Marucelliana di Firenze, c. 7) sarebbe Braccio Bracci d'Arezzo, poichè parlando di lui e della sua famiglia dice: "Ne fa menzione ser Gorello nel cap. II: Tagliabuoi, Appariti, Bracci fidi", etc.

[68] Quartiere di porta di Borgo (Vedasi Pasqui, op. cit., p. 61).

[69] Ludovicus de Odomeris è uno dei quattro cavalieri che tengono enses nudos et elevatos, nell'evangelo della messa solenne per la vestizione a milite del sopraricordato Giratasca (Pasqui, op. cit., p. 32). Nelle antiche carte si trova più spesso Lodomeri e Ludomeri. Fu famoso legista messer Buonaguida che visse nella prima metà del set. XIII (cfr. Fabricius, Bibliotheca latina mediae et infimae aetatis, etc., Florentiae , tomo I, p. 1858). È poi nominato un ser Dominicus Gerozzi de Lodomeriis fra altri che costituirono nel 1380, ai 16 marzo un tal ser Angelo come procuratore dalla parte guelfa. Vedasi il documento che è registrato intero nel Gamurrini, op. cit., voi. II, p. 441. L'atto è stipulato in Castro Montis Benichi Vallis Ambrae, ciò che prova come in quell'anno i Lodomeri fossero fuorusciti.

[70] Leonardus Godi de Rosellis trovasi nel più volte citato contratto del 1380, col quale alcuni di parte guelfa danno pieno mandato a ser Agnolo di ser Vanni da Civitella di far tutto quello che crede meglio in vantaggio della detta parte (Gamurrini, op. cit., vol. II, p. 442)

[71] Furon signori di Col di Gragnone e Verrazzano, capi del partito guelfo. Del vescovo Giovanni Albergotti, della congiura e del tentativo di porta Buia, parleremo a suo luogo. Cf. intorno a loro Gamurrini, op. cit., vol. I, pp. 100, 105, 106, 300, 305. Vedi pure Burali, op. cit., e Don Angelo Razzi, Istorie di Camaldoli. Gli Albergotti furono sempre nemici della loro patria e  perciò dai Fiorentini ebbero privilegi, e furono poi fatti cittadini di Firenze, perchè furono essi pure cagione della caduta e perdita della libertà d'Arezzo nel 1384 (Vedi Visdomini, Racconto della ribellione Aretina del 1502 da noi pubblicato in MUR., RR. II. SS., tomo XXIV, parte i, p. 130, 11. 40-45)

[72] Famiglia guelfa: furono costretti a far lega coi Tarlati contro il governo dei Sessanta nel  (Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 246). Nel 1380 un Guasconi (Egidius Donatus de Guasconibus) interviene nell'atto più volte ricordato, con cui i Guelfi d'Arezzo danno piena autorità di fare in vantaggio della parte a ser Angiolo di ser Vanni di Civitella (Gamurrini, op. cit., vol. II, p. 442). A suo luogo parlando della sollevazione provocata in Arezzo dal vescovo Giovanni Albergotti, ricorderemo anche un Cristoforo Guasconi che rimase in essa ucciso.

[73] Nel 1311 erano guelfi bandidi da Arezzo. Questa famiglia insieme con i Bostoli, i Corbizi, gli Albergotti, i Saracini e altre potenti, teneva testa alla repubblica aretina (Gamurrini, op. cit., vol. III, p. 307). Un Bertoldus olim Cenci vocatus Barbaquadra è ricordato nella relazione più volte citata della investitura a milite di Edebrandino Giratasca, fra i sei giudici del torneamento (Pasqui, op. cit., p. 33)

[74] Gli Azzi sono ghibellini: appariscono come tali in una lega che i ghibellini d'Arezzo fanno con quelli di Siena nel 1251 (Gamurrini, op. cit., vol. IV, p. 163). Vendono nel 1332 l'anfiteatro aretino che ab immemorabili era loro appartenuto; l'atto di vendita trovasi nell'archivio di Murello d'Arezzo, protocollo I di ser Guido di Rodolfo c. LXXXII (Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 31 e 58)

[75] Furono guelfi e signori di Giovi (Gamurrini, op. cit., I, p. 106). Nel 1313 troviamo il dottor Camaiano Camaiani con Bico Albergotti capi di fazione guelfa e vengono tutti e due nominati suoi segretari dal vescovo Guido da Pietramala, che, benchè ghibellino, tirava a favorire anche i guelfi, per esser poi eletto signore d'Arezzo da tutti e due i partiti (Gamurrini, op. cit. vol, I, p. 198); nel 1347 un Camaiani (Nuto d'Accorso) fu complice nella congiura fatta dai Brandagli per impadronirsi d'Arezzo, come diremo a suo luogo (Gamurrini, op. cit., loc. cit., p. 100).

[76] Vedasi per tutto ciò che riguarda questa famiglia, Gamurrini, op. cit., vol. III, p. 150 sgg. Furono ghibellini i Pazzi di Valdarno. Nel 1289 Guglielmino de' Pazzi fu tra i morti in Campaldino. Nel 1345 i Fiorentini guerreggiarono contro di loro e li spogliarono, per cui nel 1350 essi si accostarono al Duca di Milano, capital nemico dei Fiorentini, e nel seguente anno si confederarono coi Tarlati allora dominanti e scorsero e predarono  lo stato di Firenze, onde i Fiorentini dettero il guasto a tutte le possessioni di quella nobil famiglia. Tentò Beltrame de' Pazzi di indurre Giovanni da Oleggio ad assalir Firenze, ma non riuscì, fu scoperto e la persecuzione contro la sua famiglia continuò.Vedasi oltre il citato Gamurrini, anche in Pasqui, op. cit. pp. 84-85  il Protocollo VII di Ser Guido di Rodolfo, anno 1343. Sostennero una lunga e grave guerra coi Guelfi, durante la quale furono sconfitti da Giovanni de' Bostoli. Nel cod. B, dopo la didascalia del capitolo seguente: "Capitulum tertium incipit in quo tractatur", etc., leggesi: "Ut claram habeas notitiam de prosapia et cognomine nonullorum predictorum, supra, in capitulo precedenti, copiavi de verbo ad verbum capitulum 126 de lib. IIII. Statutorum antiquorum, que sunt in Archivio hodie  fraternitatis sancte Misericordie, ac etiam filiorum ser Mariani de Burro, sub Rubr.: De pena Magnatum offendentium populares, Rub. 126, prout seguitur et infra: Ut superbia Magnatum reprimatur, qui consueverunt plerunque opprimere populares, statutum et ordinatum  est, quod quilibet de civitate, comitatu, vel districtu Arretij sit et esse debeat et intelligatur popularis vel de numero popularium et beneficio et privilegio popularium gaudere consequi et habere, et Magnates sint et esse intelligantur omnes et singuli de Agnationibus et domibus infrascrittis tam legittime, quam non legittime nati et si quis de dictis Magnatibus tam legittime, quam non legittime natis de civitate, comitatu, vel districtu Arretij offenderit vel offendi fecerit, etc..... Domus vero Magniatum et ipsorum prosapia iste sunt videlicet: Testi, " Filii Dñi Brandalie de Guidoternis, Bostoli, Nobiles de Monte bono, Cioncholi, Sasoli, Grinti De Cathenaria sive de Montegiovj, Tarlati, Ubertinj, Pazi, Magalottj, Rattuccj Vichij, Azi, Marabottinj, filij Dñi Segnie, Niertolis, Descendentes Domini Angeschi, Lodomerij, Ranierguidi, Guillechinj, descendentes Domini Pucci item del Fede hodie Sinigardi, Ubaldinj, Ghirataschi ghibellini, Nobiles de Talla et de Bagnena, Nobiles de Montaguto supra Tallam, Petrelle, filii Masgij Meus et filius Francischinj Cathani de Classe, Nobiles de Valenzano, Nobiles de Castro Focogniano, Comites de Montedoglio et Nobiles de Faggiola". Vedi questa stessa Rubrica degli Statuti Aretini del 1345 nel ms. 9 della Biblioteca della Fraternita d'Arezzo, Memorie !storiche aretine, tomo I, c. 5, ove le famiglie nobili nominate sono alquante più. Alla c. 10 il predetto ms. fa questa osservazione a proposito del II capitolo dove ser Barlolomeo nomina i magnati d'Arezzo. "Vuolsi che l'autore abbia mentito alquanto, o almeno taciuto d'altre nobili famiglie aretine, atteso anche il piccolo numero di 45 da lui come sopra nominate. Omette i conti di Bivignano e di Montedoglio, i Signori da Montanto e da Savorgniano, quei da Montauto sopra Talla, quei della Faggiola, i Lambardi di Mammi, i Guillichini, i Pantaneti descritti nella serie dei nobili del 1390 e nella creazione del Cavalliere Bagnato del 1260 e nel Ditirambo del Redi, carte 153 e l'istesso Gorello nel cap. 13° di detto suo Poema pare che confessi d'aver taciuto di più famiglie, laddove parlando dei figli di questa patria scrisse: Io mi ricordo, padre, che dispiacqui, | ad alcun forse toccandogli il vero | di tal materia, onde di molti tacqui. Nomina egli però alcune altre famiglie aretine nel suo canto ottavo, verso la metà, dove narra che nel 1378 alcuni guelfi furono cacciati da altri guelfi e convenne loro fuggire per opera dei Bostoli e Albergotti".

[77] Le terzine mancanti potrebbero essere più di una; secondo il codice I cinque o sei

[78] Qui il Pasqui, op, cit., p. 240, nota 56, avverte che il poeta ne' versi che si sono perduti seguitava a parlare delle famiglie nobili e che in questo verso parla di messer Tebaldo de' Bostoli, capi di parte guelfa, nemici de' Tarlati e rimanda alla nota che egli fa al capitolo seguente, verso 22. "Hic dicit de Bostolensibus etc.". I Bostoli d'Arezzo hanno origine da quel Bustula, figlio di Ugo che troviamo a p. 48 del vol. I della op. cit., del Pasqui (Codice Diplomatico) : Signa manus Bustole, filii quondam Ugonis, etc. (l'anno è il 1153). Accenni ad altri di questa famiglia si trovano nello stesso volume, a pp. 504 e 510. Vedi poi in generale intorno alla predetta famiglia, Gamurrini, op., cit., vol. IV, pp. 115 sgg. e 118, nonchè Annales Aretinorum cit., agli anni 1218 e 1311, nel quale ultimo anno avvenne la pace fra i Tarlati e i Bostoli.

[79] Nella pace tra i Tarlati e i Bostoli dell'anno 1311, fra gli altri di questa famiglia sono nominati messer Tebaldo e messer Fumo così: "Viri nobiles: Dominus Albertus quondam Domini Thebaldi de Bostolis, Dominus Fumus, Carluccius et Bostulus eius filii, etc." (Gamurrini, op. cit. vol. IV, p. 122). "Fumo de' Bostoli, dice lo stesso Gamurrini - (op. cit., loc. cit., p. 118) - fu uomo di gran cuore e molto sperimentato nelle guerre, e perito negli affari politici: fu eletto dalla repubblica fiorentina Capitano del Popolo et Ufficiale Generale della Custodia di Fiorenza per suo distretto, come si legge al protocollo 19 di queste Riformagioni di Fiorenza, l'anno 1315, alli 3 di gennaio". La stessa notizia troviamo negli Spogli mss. del Del Migliore, XXIII,  (Bibl. Nazionale di Firenze), Così: "Nel Fumo de' Bostoli era capitano di guardia del comune di Firenze". Del misfatto di cui qui parla il poeta niente di più ci è dato conoscere.

[80] Qui intende di Guglielmino, contrapponendolo a Buoso Ubertini, che a' tempi del poeta, era vescovo d'Arezzo (1326-1365). Vedi Pasqui, op. cit., vol. IV, 287.

[81] G annota: "Exercitus Florentinorum qui castramentatus est in Podio Torrite". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores, cit., all'anno 1288: "Et erant Florentini una et Senenses, et in Turrita aggeres erexere, et inde fugati". È anche opportuno ricordare che la guerra tra' Fiorentini e gli Aretini ncominciò fin da quando furono cacciati i Guelfi d'Arezzo (Villani, op. cit., lib. VII, cap. CXIV).

[82] G annota: "Conflictus Plebis de Toppo factus per episcopum Guglielminum de Ubertinis contra exercitum Florentinorum et maxime contra Senenses". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores, all'anno 1288. Di  questa battaglia parlano piú o meno estesamente tutti gli storici fiorentini e senesi.Vi morì anche quel giovane senese Lano, a cui DANTE, (Inf. XIII, v. 120 sgg.) fa dire da Iacopo da Sant'Andrea:".... Lano, si non furo accorte  le gambe tue alla giostra del Toppo".  

[83] Vedi Annales Arretinorum, ad annum 1289.

[84] G annota: "Conflictus Campaldini factus per Florentinos contra Episcopum Gulielminum et Aretinos in die Sancte Barnabe de Mense Iunij". Il cod. E aggiunge, ch'ebbero in compagnia et in loro aiuto Carlo  re di Napoli [è questi Carlo II detto lo Zoppo, re di Puglia e di Sicilia] con due compagnie d'uomini d'arme. Vedansi anche gli Annales Arretinorum, ad annum 1289.

[85] Quanto agli Ubertini in generale e a lui in particolare, vedi il capitolo precedente, e la relativa nota 64.

[86] B pone come nota il notissimo verso virgiliano, En., II,: "Una salus victis nullam sperare salutem".  

[87] G annota: "Pro quo superato conflictu curritur  Bravium Florentie in die dicte Festivitatis Sancti Barnabe". La battaglia di Campaldino e la conseguente vittoria de' Fiorentini fu, come sappiamo anche dal precitato Villani (lib. VII, tap. CXXX), il giorno di san Barnaba apostolo: "e ciò fu un sabato mattina a dì 11 del mese di giugno, il dì di santo Barnaba apostolo».

[88] Vedi Annales Arretinorum, loc. cit., nota: "Arretio absque menibus tum vallo a mulieribus et senibus tutato". Par proprio che qui ser Bartolomeo traduca da essi. Dice il Villani (loc. cit. cap. CXXXI) che per  scherno del vescovo Guglielmino degli Ubertini, manganarono i Fiorentini asini mitrati dentro la città. È vero però che gli Aretini si batterono come leoni e difesero da eroi le loro mura.

[89] G annota: "Hic condolet senex de filiis suis qui boni et viriles fuerunt, et postea viles".

[90] Vedi Dante, Inf. I, 28.

[91] Vedi Dante, Parad., XXVII, 19 e 20.

[92] G annota: "Hic dicit de origine Petramalensium". Il cod. D avverte che il poeta fa derivare la famiglia Tarlati dal castello di Tubbiano. Secondo il Gamurrini (op. cit., tomo I, 194 sgg.) i Tarlati discendono dai Marchesi di Colle. Anticamente acquistarono i  castelli di Casale, di Soci, di Buiano e di San Martino in Vado e poscia fabbricarono il forte castello di Pietramala, da cui presero anche il cognome. Il cod. C nota: "Era tale castello a confine del fiume Chiassa". Per Casale, di cui i Tarlati si intitolarono signori s'intende Casale d'Anghiari in Val Tiberina, sulla pendice orientale dei poggi che stanno fra il torrente Lovara e quello di Chiassacce, lungo l'antica strada mulattiera che da Arezzo per Pietramala porta ad Anghiari (Vedi Repetti, Dizionario geografico storico della Toscana, Firenze, 1833, I, 496). Il Pasqui discute in una nota che fa a questo punto (op. cit., pp. 240-241, nota 62) se la loro origine sia da Tubbiano o Tulliano, ma lascia, a dir vero, la questione insoluta, non essendo sufficienti a provare il suo asserto i documenti che porta.

[93] La famiglia dei Tarlati alza un campo azzurro con sei pietre quadre di color bianco (Gamurrini, op. cit., vol. III, p. 5. Così sono disposte le pietre sullo scudo

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[94] Vedi Dante, Inf., II, v. 60.

[95] Questo parlare metaforico, così volgare, trovasi  spesso nei cronisti popolari rimasti dei sec. XIII e XIV (vedi Moschetti, op. cit., p. 65).

[96] Qui accenna ai partiti dei Verdi e dei Secchi, intorno a che puoi vedere oltre gli Annales Maiores in Mur., op. cit., p. 12, nota 4, e p. 14, nota 1, il Redi, nel  suo Vocabolario di voci aretine (ms. Redi, 69, Biblioteca Marucelliana di Firenze, alla voce Verdi e Secchi): "Verdi e Secchi sono nomi di Parti nate in Arezzo da Guelfi e da Ghibellini. Imperocchè, essendo stati sconfitti gli Aretini di Parte ghibellina da' Fiorentini di Parte guelfa nella famosa giornata di Campaldino, l'anno 1289, i Guelfi Aretini acquistarono in Arezzo gran vigore e perciò pigliarono nome di Verdi, e i Ghibellini, che per la gran rotta aveano perduto l'orgoglio e andavano mancando, furon chiamati Secchi. Onde ser Gorello fa dire ad Arezzo: Non era il popol mio però in bassezza | quando d'invidia crebbe nuova setta | da cui discese la civile asprezza. Tra Verdi e Secchi si facea vendetta | e Guelfi e Ghibellin non si contava | essendo drento podestà Ciappetta, | e il qual con Uguccion si guerreggiava, etc."

[97] G annota: "Divisio inter Virides et Siccos Aretij existente Potestate Aretij Ciappetta de Monteaguto et Capitaneo Uguccione de Faggiola, cum essent Petramalenses cum eorurn secta exclusi et exititiis Viridorum, et ivissent ad faciendum vastum Monterchi, existente capitaneo Comite de Monte Dolio, dum essent apud sanctum Fumasgium dixit: Partansi le lancie da le mannaie, et tunc fuerunt interfecti ibi multi de Guelfis ibi existentibus". I Secchi erano propriamente allora i seguaci dei Tarlati. Vedansi gli Annales Maiores cit., all'anno 1309 e notinsi le parole: "Et tunc redierunt in Terram Tarlati (che ne erano stati cacciati l'anno prima), et fuerunt ad proellum cum eorum sequacibus arretinis; et tunc fuit sconfictus Ciappetta et Guelfi tam terrigine quam forenses et Virides, etc.". Si trovano ricordati più volte i Verdi negli Annales Maiores cit., agli anni 1307, 1308, 1309 e 1310, e si comprende chiaramente che erano una fazione del partito Ghibellino, meno intransigenti, più pieghevoli al governo comunale, e il loro appellativo forse indicava questa loro qualità, mentre gli altri Ghibellini fieri, intolleranti del governo comunale, come i Tarlati, erano detti Secchi, cioè che non piegavano. Il Villani, op. cit., VIII, xcix dice, che i Verdi erano un misto di guelfi e ghibellini: "e quelli che signoreggiavano la cittade ch'erano mischiati guelfi e ghibellini si faceano chiamare la parte verde".

È, secondo noi, errata l'opinione del Redi, che abbiamo sopra riportato. Vedi inoltre la nota  all'anno 1307 negli Annales Maiores sopra cit. Su Ciappetta da Montauto, capitano del popolo e poi potestà d'Arezzo, vedi Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 530.

[98] Uguccione della Faggiola. Vedasi Bruni, op. cit., vol. I, p. 530.

[99] Cf. Dante, Inf. , XXVII, v. 75.

[100] Vedasi a questo proposito, Egidio Menagio, op. cit., p. 27: "Separar le lance dalle mannaie", egli nota, "è proverbio tritissimo tra gli Aretini e l'origine di esso raccor si può da quanto scrive Ser Gorello nel cap. terzo della Cronica ms. d'Arezzo in terza rima, comunicatami dal Signor Francesco Redi, gentiluomo aretino: Non era 'l popol mio però in bassezza", etc. San Fomagio è luogo prossimo due chilometri alla città, ad oriente, così denominato corrottamente dal monastero di san Tommaso, che ivi rimase fino al sec. XV (Pasqui, op. cit. vol. IV, 241, nota 65) Menaia è voce aretina per mannaia (Redi, Vocabolario, ms. cit,  alla voce sopraddetta). Vedasi finalmente per tutto questo Sant'Antonino, Croniche, tomo III, lib. xx, cap. 1, § 4.

[101] Allusione al Conte Ugolino, Dante, Inf. XXXIII.  

[102] G annota: "Bellum civile inter virides et siccos, in quo virides debellati fuerunt et exclusi, et sicci cum Capitaneo et illis de Petramala obtinuerunt".

[103] Il cod. D annota: "I Tarlati erano capi della fazione dei Secchi". Vedi Villani, op. cit., VIII, cvii.

[104] G annota: "Hic dicit de Etrurio et filiis suis, seu Eurialo et Niso, qui iverunt in adiutorium regis Latini contra Turnum". Qui il poeta vanta gli aiuti che Arezzo dette a Roma, sia quando Eurialo e Niso, figli di Etrurio, secondo la leggenda, aiutarono Latino contro Turno, sia quando la soccorse ai tempi di Porsenna. Vedi De Bonis, Cronica ms. de' fatti di Arezzo di questi stessi tempi che pubblicheremo di seguito a questa nella presente Raccolta, capitoli 18 e 35.

[105] G annota "Hic narrat de adventu serenissimi Imperatoris Arrigi de Luzimborgo, et qualiter militavit Dominum Petrum et Dominum Tarlatum de Petramala et qualiter fecit eis amplissima privilegia". Il cod. E aggiunge: " anno 1309. Et andò a Roma a coronarsi, poi si voltò a' danni di Fiorenza e morì a Buonconvento di veleno l'anno 1312. Per la cui morte la città d'Arezzo fece il cavallo nero, che prima era bianco". A  proposito di quest' ultimo fatto, lo Scarmagli al tomo I, p. 257, della Storia d'Arezzo dell'Aliotti, annota: "Tria fuerunt Arretinae Civitatis insignia. Primum fuit victima super aram ardentem Vestae immolata, ut tradit Fabritius Palmieri, De insigniis urbium, lib.  2; secundum equus effrenis albi coloris, cui niger in morte Henrici VII sustitutus fuit, ut ait Auctor Notarum ad Poema Gorelli Arretini apud Murat. T. 15, RR. II. SS., col. 285 et sq. Sunt, qui docent hoc stemma datum fuisse Arretinis a Q. Fabio Maximo, alii autem a Sylla. Utcumque res sese habeat, ad eradicandas superstitiones tertium insigne fuit vexillum Sanctae Crucis, quae in antiquis nummis conspicitur, quamquam adhuc equus retineatur. De tricolori veste accensorum non loquor, quum id extet vestigium factionum Guelphae et Ghibellinae". Vicario di Arrigo VII, in Arezzo, l'anno 1312, fu Guglielmo della Pernice (Vedi pergamena di San Bernardo, oggi dell'Arch. Capit. Aret., num. 240, rogata Ser Amideo di Puccio di Amideo). Negli Annales Arretinorum Maiores, all'anno  si rammenta un altro suo vicario, che egli mandò in Arezzo e morì subito, Messer Simone da Padova.

[106] Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., all'an. 1311 "Hic Henricus Rome donavit vexillum armorum Tarlato et Sacconi, ducibus belli ex petramalesci genere, et concessa ab imperio olim privilegia compluribus titulis confirmavit eisdem".

[107] G annota "Hic dicit de Bostolensibus qui se dicunt esse antiquos nobiles Aretij, allegant quod scribitur de Beato Donato quod decollatus fuerat ante domum Bustolorum. Sed si fuerunt, propter eorum vicia et defectus, acceptam a maioribus lucem in  tenebris conversi sunt (?) iuxta illud Valerii: Non ergo fastidioso aditu, et ex Capitulo de hiis qui humili loco nati sunt, etc.". Vedasi anche Pasqui, op. cit., p. 241, nota 70.

[108] C annota: "Intende dire delli Bostoli: descrive la loro arme". L'arme dei Bostoli è un inquartato a croce di Sant'Andrea di rosso e argento con banda azzurra seminata di quattro gigli d'oro interi e otto mezzi (Pasqui, op. cit., p. 241, nota 71).

[109] Guido Tarlati (1312-27, ottobre 16). Uno dei più rinomati vescovi d'Italia. Fu figliuolo di messer Angelo di Tarlato da Petrramala, famiglia d'antica schiatta, longobarda, tra le più potenti di Toscana. Venne eletto vescovo, mentre era arciprete nella Pieve di Santa Maria e nel tempo stesso canonico in Cattedrale. Clemente V ne confermò l'elezione il  luglio  (Pasqui, op. cit. vol. I, Cod. diplomatico, documento ad annum) e la sua consacrazione avvenne il 19 agosto: "Apud Capellam, 19 augusti 1312. Servitium episcopi aretini in Tuscia XIX cardin. Dominus Guido electus promisit sub eadem forma 800 florenos auri et 5 servitia solvert hinc inde ad proximum festum sancti Iohannis Baptiste (Arch. "Vatic., Clemente V, Obligationes praesulum, append. num. 218)". Vedi anche lo stesso Pasqui, op. cit., vol. IV, p. 286. Dice il Gamurrini (op. cit., vol. I, p. 198) che per essere eletto poi capo supremo della Repubblica come felicemente gli riuscì, fingeva di mostrarsi in tutto e per tutto neutrale.

[110] Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., all'an. 1321 e nota : "fuit electus .... in dominum generalem totius civitatis et comitatus Aretij ad vitam suam, in consilio IIIIc, comunis ad bussolos et pallottas, nemine discordante".

[111] Gambino D'Arezzo celebra le lodi del vescovo Guido (op. cit., lib. II, cap. vi).

[112] G annota: "Hic dicit de Domino Episcopo Guidone de Petramala, qui crevit civitatem Aretij prout nunc est", segue poi: " Fu eletto signore d'Arezzo l'anno 1321 a dì 14 aprile", come appare nelli Statuti d'Arezzo che sono appresso Girolamo di Giovan Battista Pezoni al cap. 30. Vedi anche intorno alla data della eiezione, Annales Arretinorum cit., loc. cit.: "Eo anno [1321] electus fuit dictus dominus Guido episcopus in dominum civitatis Arretij et comitatus pro certo tempore die xiii aprilis, etc.". I codd. B ed E dopo le parole: "prout nunc est" aggiungono: "ad similitudinem navis". Vedasi A. e U. Pasqui, La Cattedrale Aretina, p. 70, in nota: Il giro superiore delle mura che sembra coronare la collina è quello della cittadella, la quale occupava quello spazio piano ed elevato  della città compreso fra il Duomo, via degli Albergotti, dei Montetini, di Sassoverde, come si può constatare per gli avanzi della forte cinta munita di frequenti torrioni, sui quali è tuttora fondata la maggior parte delle case poste entro il limite accennato. Gli Annali Aretini notano nel 1319: "moenia civitatis Arretii constructa vi et ordine domini Guidonis de Petramala, tempore Boccacci comitis de Petroio potestatis Arretii". Fu aiutato dalla parte ghibellina di Milano, che gli mandò  muratori (Vasari, Vite, ecc., vol. II, p. 5). Firenze, 1846, Vita di Agostino e d'Angiolo Senesi. La cinta anteriore cingeva la città al piede della collina, ed egli pensò di estenderla oltre il Castro, verso la fortezza del Duomo Vecchio, come anco per certi tratti delle mura rimaste si può riscontrare. Gli avanzi delle mura Pietramalesche si veggono in quel lungo tratto tra la fortezza e la porta San Clemente, nel quale circa a metà sporgono a guisa di baluardo ed ivi hanno una porta denominata porta San Biagio. Altro tratto di mura si estende tra il baluardo di San Clemente e quello di San Lorentino, il quale si ritrova poi oltre lo il baluardo della Parata fino a quello di Santo Spirito, il quale ultimo tratto indica che le mura dovevano proseguire fino al Castrum Sancti Donati, dove era il Duomo vecchio, prendendo così la intera cinta la forma di nave, come dice il Vasari, op. cit., loc. cit.

[113] G annota: "Hic cepit civitatem Castelli et alias terris". Vedi anche Annales Arretinorum cit., all'an. 1323 e la nota 4 e Gamurrini, op. cit., Vol. I, p. 201.

[114] G annota: "Hic cepit castrum Lucignani quod per Senenses violenter tenebatur".

[115] G annota: "Hic destruxit Castrum Montis Sancti Savini, Castrum Laterini et Castrum Focognani". Vedasi anche A. e U. Pasqui, La Cattedrale Aretina, ecc. pp. 71-77, nella illustrazione che ivi si fa del cenotafio di Guido Tarlati.

[116] G annota: "Hic ivit ad coronandum Ludovicum Imperatorem in Mediolano, et ibi ipsum propriis manibus corona ferrea coronavit". E aggiunge: "an. 1326" ed I dopo la nota in latino: "Videlicet incoronò Ludovico II, Bavaro, duca di Baviera per imperatore". Vedi Annales Arretinorum Maiores all'anno 1327: ... "die viii mensis mai, dominus Guido de Petramala, episcopus arretinus et etiam Cincius Vannis de Petramala cum multis militibus et etiam cum quinquaginta famulis indutis de uno panno [iverunt] ad coronandum dictum dominum imperatorem corona ferrea. Die xxvi iunii, episcopus dominus Guido principaliter manibus suis Dei gratia coronavit". Alla detta incoronazione di Ludovico il Bavaro fu messer Cane, signore di Verona Villani, op. cit., X, xvii) con settecento cavalieri, e' marchesi da Esti ribelli della Chiesa con trecento cavalieri, e 'l figliuolo di messer Passerino signore di Mantova con trecento cavalieri, e più altri caporali di parte d'Imperio e ghibellini d'Italia.

[117] Intendi il Monte Santa Maria, che era stato stretto d'assedio dalle armi del vescovo (Villani, op. cit., X, xxxiv).

[118] G annota: "Hic dicit qualiter decessit in Montenero, dum veniret a civitate Pisarum, et ibi a Castruccio offensus et vulneratus fuit„. Il cod. E aggiunge "Castruccio Castracani Lucchese, signore di Lucca, Pisa e Pistoia,,. Il cod. A porta nel margine destro questa nota: "Il vescovo Guido morse a Montenero  et a Santa Fiora fu messo in deposito". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores, ad an. e le note 7 e 8. Il Pasqui (op. cit., p. 242, nota 81) pubblica per la prima o volta una "Lamentatio Aretii" di anonimo, scritta nell'occasione della morte del Vescovo aretino e che noi riproduciamo direttamente dal ms. per essere un documento raro, che attesta la simpatia e benevolenza che il vescovo godeva presso di tutti in Toscana. Vedi  poi, quanto a questi lamenti storici, A. Medin e L. Frati, Lamenti storici dei secoli XIV, XV, XVI, raccolti e ordinati, ecc., vol. IV, Appendice alla disp. 236 della "Scelta di curiosità", ecc., Introduzione.

"Heu, heu, dolorosa civitas aretina! multis viduata consiliis, graviter dolore compelleris, repletis voce faucibus, intermistis singultibus, clamitando tuos interrogans genitos, luctuosis vestibus denigratos: Ubi pater noster et dominus qui nos paterno affectu  lugiter est amplexus? Ubi rector egregius, cuius regimine leo poterat velud agnus? Ubi pastor immensus, sub cuius custodia noxius artabatur luporum rapacium appetitus? Quod filii doloris acerbitate conflicti respondere sicut potuerunt: Heu mater tantis obpressa tristitiis, cuius per viscera vibratus est gladius dire mortis inoppinata celeritas, cum sic subito, sic repente a nostris, proh dolor! subripuit oculis, et cordibus nostris immensi doloris materiam irroravit.Quare dies luctus, dies amaritudinis, dies et calamitatis nos opprimit. Quod filii doloris ergo solaris splendor est passus eclipsim, qui, rutilanti fulgore corruscans, cunctis fere italias cesarie maiestati subiectis, viam rectitudinis ostendebat. Heu! turris fortitudinis est subversa, que pugnandi viriliter prestabat audaciam in adversos. Heu! iustitie gladius de medio est sublatus, qui merito puniebat sontes et relaxabat insontes, et dignos munere munerabat. Ve milhi matri! Ve vobis filiis! suntne ista sui redditus alacritatis expectata convivia? Suntne iste vestes nuptiales, quas genitos suos sperabat induere vero? Me miseram! risus in plantum convertitur, extrema gaudii occupat mihi luctus. O tempestivitatis doloris eventus! O repentina subitaque mutatio! O seva mors, cur uno ictu tot corda fidelium sauciasti? cur de magnis maximum, cur de potentibus potentissimum, cur de floribus lilium  eligisti? Ha Deus! cur non ipsius cursum freno tue potentie reprimebat? Credo equidem tali tantoque viro indigebat celestis glorie celsitudo plorare; igitur filli plorent, mater unaque vobiscum, et tota pars ghibellina condoleat tantum imperii gladium amisisse. Demum consolationis remedium summite, cum sit ipsius mortis comune iudicium; nam omne compositum, filosofo testante, dissolvitur, et preter angelos omnis dissolvitur creatura" (Bibl. Nazionale di Firenze P. viii, 4; c. 72). Vedi anche ciò che scrive il Gamurrini intorno alla morte di questo eroico vescovo (op. cit., vol. I, pp. 201-202). Si formò contro di lui una lega dei Fiorentini, Perugini, Bolognesi, Orvietani, Gubbini e Senesi e il Papa medesimo e i nemici sollevarono i grandi d'Arezzo contro di lui, sicchè l'invidia fu veramente la causa della rovina del vescovo. Il Vasari poi (op. cit., vol. I, p. 330), parlando del cenotafio che gli fu eretto dopo la morte nella cattedrale aretina dice "Pier Saccone e Dolfo da Pietramala dettero l'incarico a Giotto di far il disegno per il cenotafio", e nella vita di Agostino e Agnolo senesi (vol. II, p. 5) ci fa sapere che ad essi fu da Giotto data a fare la sopradetta sepoltura. Del vescovo Guido Tarlati ci rimane una lettera che è pubblicata dall'Ughelli nella sua Italia Sacra, tomo I, p. 425. Cf. anche a questo proposito, l'appendice del tomo IX dello stesso autore.

[119] G annota: "Hic dicit qualiter Dominus Pierus electus fuit vicarius Imperialis Aretij". Vedi anche Annales Arretinorum ad an.: "Franciscus de Alviano de terris Patrimonij intravit in potestatem pro Domino Piero, vicario domini Imperatoris, etc.", e la nota 9. Vedasi pure un "libro de' fitti, diricti, censi, pigioni, comandigie, loderie, albergherie, grano et altra biada, datii, passaggii, vino, et altre cose che diano pagare tutte le terre del Viscontado, cioè il Bucino, la Torre, Galatrona et Rennola, e i quali huomini delle dette terre pagano a messer Piero et a messer Tarlato da Pietramala" in Archivio Storico Italiano Serie prima, IX, Appendice pp. 200-216 per farsi un'idea più chiara dalla potenza di questa famiglia.

[120] Dopo la morte di Guido, prese l'assoluta signoria d'Arezzo e contado il fratello di lui Piero, soprannominato Saccone.

[121] G annota: "Hic dicit de D. Bico de Albergottis de Luto de Guasconibus, de Azolino de Camaianis, de Piero Vannis Bocche et aliis Guelfis quos secum retinebat pro secretariis et consiliariis". Di Bico degli Albergotti ci fa sapere Ser Guido di Rodolfo ne' suoi Ricordi, protocollo VII (segnato nel repertorio VI). c. xvii che fu eletto gonfaloniere di giustizia: " .... Item dominus Bichus de Albergottis electus fuit per dictum dominum capitaneum in vexilliferum iustitie et populi civitatis predicte„ (Arezzo Archivio di Murello). Da messer Lando di Beltrame nacquero Guiduccio, padre di Iacopo, di Pietro e di Giovanni, che fu abate Cassinense e poi vescovo di Arezzo e messer Bico degli Albergotti (vedi Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 300) Messer Bico suddetto generò Lando, Lodovico, messer Bartolomeo e messer Francesco, padre di Nerozzo, di Lodovico e di Niccolò, ecc. Nell'Archivio di Murello d'Arezzo è notizia di lui nel Protocollo di Ser Pace di Puccio, a cc. 88-89. Suo figlio Francesco fu valente giureconsulto, andò a Bologna ambasciatore dei Fiorentini e fu anche lettore nello studio di Firenze (Matteo Villani, op. cit., lib. VIII, cap. xciv), e Bartolomeo fu proposto della Cattedrale Aretina dall'anno 1373 (ved Archiv. Episcopale Aretino, in protocollo dall'anno 1371 all'anno 1375, p. 52).

[122] G annota: "Laonde il detto: «maius periculm in insidiatore occulto, quam in inimico manifesto. Aliud in corde, aliud in ore». Dante pone la pena di questi tali nell'inferno al canto 26 e più nel canto 28".

[123] Il Papa Giovanni XXII, per abbattere la potenza dei Pietramalesi, sollevò contro loro gli Ubertini, che del resto erano anche essi ghibellini e promise a Buoso Ubertini, che era allora proposto della Cattedrale, di nominarlo vescovo e successore a Guido, purchè si opponesse con tutti i suoi parenti e aderenti ai Tarlati (Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 202). Piero Saccone, perchè la Chiesa aretina non fosse retta da Buoso, fece consacrare vescovo dall'antipapa Nicolò V un tal frate Mansueto dell'ordine dei Minoriti (Vedi Annales Arretinorum Maiores, ad an. 1330 e la nota 1).

[124] G annota: "Hic dicit de Ubertinis et Nerio de Faggiola, contra quos hostiliter ivit, et castra Nerio accepit, ex quo Nerius se recomandavit Perusinis et accepit civitatem Castelli, Burgum et Anglarium, quod fuit principium subdivisionis Petramalensium"; e il cod. C: "Nieri fu figlio di Uguccione". Vedansi anche gli Annales Arretinorum Maiores, ad an. 1332 e la nota 2, dove si parla di questa guerra fatta da Pier Saccone ai Faggiolani, e anche Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 200.  

[125] C annota.: "Intende de' Perugini, chè tale è la loro arme".

[126] Vedi Annales Arretinorum Maiores, all'anno 1335 e la nota 5. Vedi anche Repetti, op. cit., vol. V, p. 120 per San Sepolcro, e vol. I, p. 86 per Anghiari. Vedi pure Arch. Storico Italiano, Serie prima, XVI, parte I, p. 109, nota 1. Ivi il Graziani, Cronaca di Perugia, ecc., dice che nel 1335, a dì 15 d'aprile, la gente del comune di Perugia si scontrò con la gente degli Aretini ad un castello chiamato Anghiari e ivi i Perugini sconfissero gli Aretini. Il primo giorno di ottobre poi fu dichiarato festivo dai Castellani (Statuti di Città di Castello, lib. II, cap. 104), "ad decorem, memoriam et reverentiam propter recuperationem... status per expulsionem tyrannicae pravitatis Petramalensium". La data di questo avvenimento è incerta. Della durezza del governo dei Tarlati in Città di Castello fa fede la bolla di Benedetto XII, data a Ugolino, vescovo castellano, il 2 dicembre 1335, nella quale si dice come la città fosse stata interdetta dal Pontefice Giovanni XXII, e "a multis annis citra pernonnullos Ecclesie Romane rebelles fuerit occupata, et sub gravi tyrannide detecta„ (Muzi, Memorie ecclesiastiche e civili di Città di Castello, II, 207). Si riferiscono ai rovesci dei Tarlati nel 1335 i tre sonetti di ser Marino Ceccoli da Perugia, contemporaneo, del cod. Barberin. XLV, 130; pp. 18, 118, 119.

[127] G annota: "Hic dicit de conflictu quem dedit Pierus contra Peruginos in codicibus Cortone et qualiter ivit per planum Lagi et prope Perusium". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores cit, loc. cit. ".... Divina potentia concedente predicti Perugini amiserunt, etc.". La battaglia accadde a Carbognana, luogo posto in quel di Cortona (Vedi pure Villani, op. cit., lib. XI, cap. xxviii).

[128] Vedasi per questo la lettera di Pier Saccone in Annales Arretinorum Maiores cit, loc. cit, e le note. Secondo il Gamurrini, op. cit., Vol. I, p. 200, l'originale di tal lettera trovavasi presso la famiglia.

[129] G annota: "Arrigus Romanus de Colonna dux fuit exercitus Aretij". Vedi  Annales Arretinorum Maiores cit., loc. cit., e la nota: ".... et ceperunt signia, videlicet la colonna et la croce amore Arrigi, filij Domini Stephani de Colunna, qui electus fuit in capitaneum nostrum". Pare che morisse prima del 1347 (P. Litta, Famiglie celebri italiane, vol. VII, tav. v, edizione del 1836).

[130] G annota: "Hic nominat captivos de dicto conflictu et maxime aliquos". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores cit., intorno a questo avvenimento, loc. cit., in fine e la nota 4. Il Graziani nella sua Cronica cit., ci fa sapere che Cechino di messer Venciolo fu mandato nel  potestà a Castiglione: "Tornaro [i Perugini] con vittoria, però che quigli de' Castiglione se erano rendute et così el nostro Comuno ce mandò el potestà, quale fu Cechino de messer Venciolo de Peroscia". Ed aggiunge: "Et allora li Peroscini volsero che Castiglione Aretino si chiamasse Peruscino„ (Arch. Storico Italiano, Serie prima, XVI, parte I, p. 135 sgg.).

[131] Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., loc. cit.: "Item die dominico XII novembris, exercitus Perusinorum venit domum veterem" e la nota 2.

[132] G annota: "Hic dicit de falsis consiliariis quos habuit Dominus Pierus".

[133] G annota: "Hic dicit de concordia quam Dominus Pierus fecit cum Florentinis et Perusinis et qualiter dedit Florentinis custodiam civitatis Aretij, Castilionis Aretini, et Perusinis officium appellationis in civitate Aretij et Castra Lucignani, Foiani, Montis Saneti Savini et Anglaris". B aggiunge: "e col malanno e mala Pasqua". Vedansi anche gli Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1337. Cf. anche i vv. 262-264 di questa stessa Cronica, in questo stesso capitolo.

[134] Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1336: "Et tunc comperti fuerunt aliqui proditores qui debebant dare dictam civitatem Aretij, etc." e la nota 5. Furono i falsi consiglieri la causa per cui Pier Saccone dette per dieci anni Arezzo in accomandigia ai Fiorentini.

[135] Su questo vedasi Villani, op. cit., lib. XI cap. lix. "... Nel detto anno a' 7 di Marzo  si compiè il trattato ed accordo dal Comune di Fiorenza a' Tarlati d'Arezzo in questo modo, che elli hebbeno dal Comune di Fiorenza venticinque mila fiorini d'oro per la dazione della terra e rinunziazione della signoria di quella e 14 mila fiorini d'oro di loro ragioni", ecc. Vendè Pier Saccone a Firenze per 10 anni anche tutto il Viscontado del Valdarno per 42800 fiorini d'oro a dì 14 maggio 1337. Vedi Archivio di Murello di Arezzo, Protocollo 18 di ser Pace Pucci di Classe, notaro aretino. Per aver un'idea più chiara della potenza di Pietro e Tarlato da Pietramala, può vedersi il già citato libro de' fitti, diritti, ecc., pagati dalle terre del Viscontado di Valdambra ai signori da Pietramala", in Capitoli del Comune di Firenze, ecc., Firenze 1866, vol. i, IV,  e anche in Arch. Storico Italiano, come è detto avanti a p. 32, nota 1.

[136] E annota: "Qui con giusto motivo rampogna a Messer Piero per la sua fellonia, uti Iudas mercator pessimus".

[137] Il cod. C, in una nota che fa a questo passo, rimanda a un albero genealogico che è nel codice stesso a c. 127. Vedasi anche Gamurrini, op. cit., vol. I, pp. 194 e 210, ove è l'albero genealogico della famiglia Tarlati non possiamo però ricavar di lì il nome di questi tre figli di Masgio, perchè l'albero sopradetto termina con Masgio, Ridolfo e Giovan detto Tedesco, che sono fra loro fratelli e figli di Messer Tarlato (1320).Vedi anche nell'Appendice a questa Cronica il docum. 8°.

[138] Il Villani (op. cit., loc. cit.), dice anche acutamente la causa per cui i Parlati concessero Arezzo in accomandigia per dieci anni ai Fiorentini, con queste parole:.... "ma di certo, se non fosse stato la nobile e alta impresa di Lombardia, e resistenza fatta contro messer Mastino per lo comune di Firenze e per quello di Vinegia, non venia fatto, che i signori Tarlati non v'avrebbono mai acconsentito; ma fecionlo per le cagioni dette per non potere altro, perduta ogni speranza di soccorso". E nota che più di sessanta anni era stata retta la città d'Arezzo per parte ghibellina e imperiale, e quasi in guerra col comune di Firenze.

[139] G annota: "Nota possessionem quam habuerunt Fiorentinj huius civitatis Aretij". Vedi anche Bruni, op. cit., vol. II, p. 236.

[140] G annota: "Hic dicit introitum Florentinorum civitatis Aretij anno 1337, die xxv Martij". Quel de' Peruzzi fu Bonifazio, capitano di girstizia (Vedi Pasqui, op. cit. p. 235, nota 95). Entrò questi in ufficio il 25 di marzo. Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., all'an.: "... Et tunc formaverunt populum arretinum, quod nunquam fuit nisi tunc et parum durabit; et fecerunt capitaneum, qui fuit Bonifatius de Perutiis de Florentia", etc. Il 29 d'Aprile di quest'anno si fece la pace tra Perugia, Firenze e Arezzo, a' piedi del campanile di san Lorenzo in Perugia. Rappresentante di Firenze fu Antonio degli Albizi, di Perugia Leggieri di Nicoluccio d'Andreotto e di Arezzo Ceccolino Camaiani, e ci fu presente messer Ridolfo da Pietramala (Vedi Annali di Perugia dal 1194 al 1352 tratti da un codice della Bibl. comunale di essa città in Arch. Storico Italiano, loc. cit., p. 67)

[141] Alludesi alla notissima favola esopiana del leone e del topo.

[142] ".... et formati tunc sunt priores in civitate Aretij, gonfalonerium justitie et VIII gonfalonerios, videlicet in totis 4or portis, videlicet unum guelfum et unum ghibellinum" (Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1337 e nota relativa).

[143] G annota: "Hic dicit de iustitia filij Cecchi Massi qui fuit suspensus suo uno gladiello quem acceperat a quodam merciario in settaria, non tamen animo furandi". B dichiara anche meglio la colpa di costui così: "... qui furatus erat gladium, quem acceperat  a merciario in sericaria non tamen, etc.".

[144] B annota: "Hic dicit de terminatione facta omnibus stratis Aretij per actionem stratarum fiendarum per comunitatem". Si può anche vedere a questo proposito lo Statuto d'Arezzo dei tempi del Duca d'A tene (1342), sotto la rubrica: "De stratis fiendis, etc.,, (Arch. Comunale di Arezzo, Stanza I, Armadio A).

[145] G annota: "Hic dicit de edificatione Cassaretti in Podio sancti Donati". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores, loc. cit.: "Et die xx mensis maij inceptum est facere casserum in podio sancti Donati, quod est fortissimum et pulchrum, et parum durabit. etc." colla relativa nota, e Bruni, v. II, p. 392: "Florentini, etc., arcem in summa urbis parte facere coeperunt, quam complevit deinde atque absolvit Gualterius, Athenarum dux, cum Florentinis simul Aretinisque dominatus est. Pulso deinde tyranno, libertateque recepta, Aretini, arcem nacti, eam non everterunt, metu contrarie factionis, sed illam servantes, fidos ad custodiam cives deligebant. Est autem in ea turris portam urbis complexa, quae ingressum tradere extera nis potest".

[146] G annota: "Hic dicit de tempore quo Florentini ... Domini Aretij, et quamvis essent (?) in dicto tempore ut in 1340 conflictus Florentinorum apud Serchium a Pisanis, tamen illi de Petramala et Aretini fuerunt legales (i codd. B ed E hanno obsides) Comuni Florentie". I Fiorentini ambivano il possesso di Lucca, i Pisani pure, onde la guerra e la sconfitta avuta dai Fiorentini, narrata dal Bruni nella sua storia. La causa della sconfitta è ivi attribuita alla fretta di cacciare gli avversari. (Bruni, op, cit., loc. cit., p. 270).

[147] Guglielmo Altoviti (Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1341). "Die xx novembris Guilielmus maladictus de Altovitis de Florentia, capitaneus civitatis Arretj cepit dominum Petrum de Petramala, dominum Luzi, dominum Rudulfum cum duobus suis filiis, et positi sunt in carceribus discurrendo per civitatem, clamando sepius: Vivat populus florentinus et pereant proditores!".

[148] Vedi Arch. di Murello, Ser Guido di Rodolfo, I protocollo VII (nel Repertorio segnato VI), c. LII.

[149] C annota: "Bico Albergotti era il segretario di messer Piero. Dopo la caduta dei Pietramalesi e l'abbattimento del partito ghibellino, sormontando i Guelfi, Bico fu fatto vessillifero di giustizia e del popolo di Arezzo (Vedi Ricordi di ser Guido Notaro in Pasqui, op. cit., p. 84"). È rammentato dallo stesso ser Bartolomeo al capitolo precedente. (Vedi p. 32, nota 3). In un protocollo di ser Bartolomeo stesso (Arch. Capitolare di Arezzo, num. 878 bis), c. 53, è rammentato Bico degli Albergotti così: ... "vice et nomine sapientis domini Francesci domini Bici de Albergottis", ed é anche indicato l'anno 1353. Intorno al medesimo vedi anche il protocollo di Ser Pace Pucci (1335-1360), in Arch. di Murello, citato dal Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 197: "Egregius, nobilis et potens Dominus, Dominus Pierus Sachone de Petramala natus quondam, etc. constituit suum procuratorem sapientem virum D. Bicum, D. Landi de Albergottis ad faciendam pacem cum viro, etc.". Da un prcotollo dal 1371 al 1375, c. 52 dell'Archivio Comunale aretino, rilevasi che nel 1372 Bico era già morto: "Anno 1373 die 11 Iunij, Venerabilis vir Dominus Bartolomeus olim domini Bici de Albergottis de Aretio, etc.". Lo stesso Gamurrini, op. cit., loc. cit., p. 300, dice che nacque da messer Lando di Beltrame e che generò Lando, Lodovico, messer Bartolomeo e messer Francesco e che Lodovico fu de' Priori nel 1384.

[150] Fu Cecco di messer Brandaglia di Buoninsegna, annota a questo punto il Pasqui, op. cit., p. 243, nota 102. Intorno a Brandaglia di Buoninsegna puoi vedere in Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 92, un contratto del 1301 rogato da ser Monta Campanesi da Cinina della famiglia de' Toeri, nel quale apparisce compratore della metà del Castello di Colle nella Valle di Cerfone e del Castello di Corciano. Abitavano i Brandagli entro  la città, nella contrada di san Martino, così chiamata da una chiesa dedicata al detto Santo, nel quartiere di Porta Crucifera (Vedi lo stesso Gamurrini, op. cit., loc. cit., p. 95).Quanto poi alla malattia di cui morì (patrisonno), vedi il cit. Vocabolario di voci aretine del  Redi, alla voce medesima, ove è scritto: "Patrisonno: "Spezie di malattia. Letargo. Lat. Veternus, Lethargus. Ser Gorello, Stor. d'Arezzo: L'altro fu de' Brendai, ch'essendo sano, | Di subito morì del Patrisonno".

[151] Intorno a questi traditori che morirono entro l'anno tutti, vedi Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1341, in fine. Ivi, nelle note filologiche, è riportata un'aggiunta che si trova nell'Alessi (Bibl. Aretina della Fraternita dei Laici, codice num. 63, c. 164r): "Et ser Gorellus dicit V, [nel cap. V] conspirationem insimulasse cum Altovito contra Petramalenses et finxisse eos contra Guelfos conspirasse Guelfus de Testis, Franciscus Albergotti iureconsultus, Nepos Alberti de Montebono, qui pro latrina obiit, Niccolaus de Castro Focogniano, qui a suis ceditur, alius ex Brendaglis, qui in somno obiit, et omnes de anno obiere".

[152] Pier Saccone non era lungi dalla propria abitazione che era entro la cittadella, presso la fortezza, ove oggi è il pubblico Prato, luogo che si chiamò pure Podium Petramalensium (Pasqui, op. cit., p. 243, nota 103).

[153] G annota: "Hic dicit tractatum factum per aliquos cives Aretinos cum Guglielmo de Altovitis, capitaneo, contra Petramalenses, et fuit apertus ille tractatus die 20 novembris, in quo fuerunt capti D. Pierus, D. Luzimborgus, D. Rodulfus et Gulielmus et eius filius et plures alij et capti fuerunt 300 ghibellini meliores et postea missi ad confinia", e poco sotto aggiunge: "Hic dicit capturam predictorum nobilium et postea generalem expulsionem Ghibellinorum de civitate Aretij". Vedi anche i Ricordi di Ser Guido Notaro in Pasqui, op. cit., pp. 83-84. L'Alessi, (cod. cit., c. 140 v) sunteggiando Leonardo Bruni, scrive: "... Saccon qui Arretinorum tyrannidem et urbem florentinis tradiderat capitur Arretij et carcer mancipatur". Vedansi pure gli Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1342.

[154] Vedasi Bruni, op. cit., vol. II, p. 274. "Per idem tempus suspicio ingens fuit apud Aretinos, ne Sacon, rebus adversis fiorentini populi elatus, tyrannidem rursus invaderet, etc.". Intorno a Luzimburgo, figlio di Pier Saccone, servano di illustrazione questi versi di Gambino d'Arezzo (op. cit., p. 46): Che direm noi del franco Luzimborgo, | Che fu nell'arme un singolar Catone? | E sì di lui trattar breve trascorgo | De l'opre degne che fuor tante e tante, | Che delle mille l'una non m'accorgo: | Non fu al tempo suo miglior giostrante; | Sei volte combattè a campo chiuso | Sempre colla vittoria triunfante.

[155] G annota: "Hic dicit qualiter Bostolenses cum Guelfis fecerunt insultum et rumorem contra D. Pierum et alios captos volentes eos interficere".

[156] G annota: "Hic dicit qualiter Guelfi dextruxerunt sepulturam marmoream et omnes victorias habitas D. Guidonis episcopi in capella [sacramenti, aggiunta dei codici B ed E] ferrea, iuxta altare maius ex parte dextra". Il magnifico mausoleo fatto nel 1330 da Agostino e Agnolo senesi, ed eretto ad onore e in memoria del vescovo Guido Tarlati, si ammira tuttora  nella Cattedrale aretina, ma fu tolto dal suo luogo nel 1810. Le teste delle figure vescovili e alcune figurine delle storiette rappresentanti le vittoriose imprese del defunto vedonsi staccate a colpi di martello.

[157] Avverte il Pasqui che il luogo dove sorgevano  le case dei Pietramalesi era detto Podium Petramalensium, per cui qui il Poeta intende della distruzione di quelle case, non già del castello di Petramala, come intendono i cod. B ed E: "Hic recitat dextructionem castri Petramale„. Si potrebbe però osservare che quei codici, con quella espressione, si riferiscono probabilmente alla abitazione dei Petramalesi, che per esser entro la cittadella, presso la fortezza, era fortificata a guisa di castello.

[158] Vedi Dante, Parad., XXII, v. 16. C annota: "Dij habent pedes laneos".

[159] G annota: "Hic dicit qualiter dicti captivi missi fuerunt in Cassarettum in Carcerem".

[160] Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1341"... Prima die, scilicet die mercurij, citati fuerunt bene cc Ghibellini de qualibet contrata, etc.".

[161] Intorno a questo, vedasi Bruni, op. cit., vol. II, PP. 274 e 282.

[162] G annota: "Hic dicit expulsionem generalem Ghibellinorum in festo Sancti Andree factam". Vedasi anche Annales Arretinorum Maiores cit, ad an. 1341, in fine: ... "Die ultimo novembris, in festo Sancti Andree, bannitum fuit in civitate quod omnes Ghibellini a XVII annis usque ad LX exirent civitatem per januam Sancti Spiritus".

[163] G annota : "Captura castri Laterini facta per D. Uguccionem de Petramala". Il cod. I: "Qui dice la presa di Laterina e di Bibbiena fatta per messer Uguccione da Petramala". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores cit., loc. cit. "Ipso die (il giorno di Sant'Andrea, ultimo di novembre), expulsi fuerunt Guelfi de Laterina", e la nota 2.

[164] Alludesi alla disfatta data dai Pisani a' Fiorentini il 2 ottobre. Vedi Villani, op. cit., XI, CXXXIII, Bruni, op. cit., II, p. 270 sgg. e Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1341, i quali ultimi però pongono questo avvenimento al  settembre: " Die xxv septembris habuerunt Lucam Pisani, quia amplius occasione famis non poterant se tenere; et hic maximam victoriam, habuerunt Pisani".

[165] Questa porta fu fatta dal Vescovo Guido Tarlati, quando nel 1319 alzò le nuove mura.

[166] Evidentemente il passo è guasto, come è detto sopra nella nota filologica. G annota: "Hic dicit tractatum de Porta Buia qui fuit in anno 1342 de mense Maij et invidiam domini Tarlati, cuius defectu dictus tractatus perfectionem non habuit". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores cit., ad an.  1342 ..." Et ipso die (l'ultimo di novembre giorno di sant'Andrea), nocturno tempore, fuerunt ipsi Tarlati cum aliis Ghibellinis ad  portam Buiam, et extrinseci aperuerunt ianuam et inciserunt portam fluminis (il fiume Castro), et ingressi fuerunt bene cccti famuli. Dominus Tarlatus cum aliis militibus et peditibus voluerunt frangere murum ianue, nec noluit intrare, quod tunc potuisset reducere ad tranquillum statum. Guelfi autem civitatis ceperunt xx Ghibellinos in ipsa civitate et suspenderunt ipsos aprope portam Buiam et aliquos non culpabiles et domos, edificia, viridaria Petramalensium dextruxerunt ad ruinam". Vedi anche Bruni, op. cit., vol. II, p. 282. In seguito a questo tentativo furono cacciati da Arezzo tutti gli altri ghibellini che ancora rimanevano nella città. Avvertasi anche che Messer Tarlato da Pietramala era fratello di Pier Saccone.

[167] G annota: "Hic dicit qualiter Florentini fecerunt dominum civitatis Florentie et Aretij Ducem Athenarum, qui plures iustitias dignas fecit et inter alios decapitavit Gulielmum de Altovitis qui fuit captus Aretij ut dicitur sopra." (Vedi sopra i vv. 88 sgg.). Troviamo negli Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1342: "Florentini autem non habentes repagolum a Pisanis, eligerunt in eorum dominum et dominum generalem perpetuum dominum dominum Gualterium ducem Athenarum, qui pertractavit pacem generalem cum Pisanis et alios Gibellinis de Arretio et remittere .... omnes Ghibellinos infra sex menses in civitatem Arretij, etc.". L'Alessi, nel ms. cit., c.  165, (Supplementum Annalium etc.). Parla di lui così: "Hic mira arte et vafro ingenio plebis gratiam et popularem auram aucupans tyrannidem invasit urbis, etc.".

[168] A dì 24 di settembre del 1342 ebbe il duca la signoria d'Arezzo (Vedi Annales Arretinorum Maiores  cit., ad annum e la relativa nota).

[169] Il cod. C dice di lui che fu impiccato. Secondo il Villani (op. cit., lib. XII, cap. II), gli fu tagliata la testa.

[170] G annota: "Hic dicit qualiter Dux Atenarum Dominus Florentie liberavit dominum Pierum et alios de Petramala et eos remisit ad terras eorum et dicit tempus dominationis dicti Ducis". Non furono però riammessi i Petramalesi in città. "Occasione non remittendi dominum Pierum de Petramala et alios Ghibellinos in civitate, falsam causam assumpsit, et dicebant quod ipsi erant fideles sui, quia instructi a Guelfis Arretinis et consiliariis suis; quod consilium non fuit sanum pro eo" (Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1342, in fine e nota 8). Fu Vicario generale in Arezzo per il Duca d'Atene, Giovanni Panciatici (Arch. di Murello, Ser Guido di Rodolfo, Protoc. III, segnato nel Repertorio VI, c. LXXVII), e suo capitano della guerra contro i ribelli d'Arezzo fu per il 1343 un Cancellieri di Pistoia e per il 1344 Ugolino Marchese del Monte Santa Maria. Protocollo cit., cc. LXXXVI e CXXIX.

[171] C annota: Li Ghelfi consigliarno a ciò il Duca e Giovanni Panciatici pistoiese, suo vice regente, eseguì l'ordine di fare edificare la cittadella. Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1343. "Dominus Iohannes de Panciatichis de Pistorio, vicarius generalis civitatis Arretij missus a domino duca pro sex mensibus. Tunc inceptio secundi casseri in civitate Arretij". Il Pasqui (op. cit, p. 244, nota 117) dice che questo secondo cassero fu la rocca del cassero grande, detto di San Donato.

[172] Vedi Annales Arretinorum Maiores cit., loc. cit.: "Die xxvi iulij, sicut placuit Deo dissipare tyrannum ducam, populus florentinus inclusit dictum ducam in palatio, et multi de sua familia perierunt", e la relativa nota. Cf. anche Alessi, ms. cit., loc. cit.,... "Angeli Acciaroli presulis opera, uti aiunt, ipsum Tyrannum inlesum rerum direptione ac cedis ab urbe exigerunt ne iniuria Robertus afficeretur. Verum deinceps, plebe excandescente adversus noblles, eos urbe expulit ac bona in predam vertit, edificia urbana ac rustica igni asumere".

[173] In una nota marginale del citato protocollo VII di Ser Guido di Rodolfo (segnato nel Repertorio VI), c. LXXXVIII, leggesi di mano di Francesco Maria degli Azzi: "Anno 1343, a dì 27 di luglio la città d'Arezzo resta libera. La città rimase alla parte guelfa. Matteo Bostoli, capo della parte guelfa".

[174] G annota: "Hic dicit qualiter Aretini Guelfi et Ghibellini simul liberaverunt Civitatem Aretij a dominio Florentinorum et D. Ducis et ceperunt simul arma contra Cassarum San. Clementis et Cassarethum et primo violenter habuerunt casserum San. Clementis et postea in pacto habuerunt Cassarum Sancti Donati". Vedi intorno a questo, Annales Arretinorun Maiores cit., ad an. 1343. "Die VIIII augusti ordinaverunt dicti Guelfi civitatis cum aliquibus Ghibellinis accipere Florentinis casserum civitatis, et, preliando continue, ipsum acceperunt et duxerunt ad ruinam", e la nota 3. Bruni, op. cit. vol. II, p. 302: "1343 Dum haec Florentiae geruntur, Aretini, cognita obsidione tyranni, arma et ipsi corripiunt. Tres erant Aretij arces: una ad florentinam portam, duae in summa urbis parte. Earum primo statim impetu duas expugnarunt. Restabat tertia ars et ea munitissima, quam omni conatu oppugnare dum pergunt, Sacon, dudum Aretinorum tyrannus, magna multitudine superveniens, contra ipsum arcem extra urbem consedit. Hinc iniecta civibus formido est, ne arx Saconi dederetur. Ob haec intermissa oppugnatio est, et per colloquium res tentata". E seguita a narrare che Guelfo dei Buondelmonti, preposto alla custodia, dà la rocca agli Aretini. Dopo di che, questi mandarono ambasciatori a Firenze per ottenere di rimaner liberi non ostante che si fossero ribellati. Stefani, Ist. fior., rub. 597: "Lo Comune il fece [cioè lo concesse] dando perciò d'ammenda al Comune [d'Arezzo] per ipso fatto certa quantità di moneta, e 100 uomini a cavallo quattro anni". Contro Guelfo di messer Bindo de' Buondelmontì del popolo di Santo Stefano presso il Ponte Vecchio di Firenze, vedasi la Sententia Domini Iohannis Marchionis Sanctae Mariae, Potestatis, contra Guelfum domini Bindi de Bondelmontibus etc.", in Arch. di Stato di Firenze (Anno 1343, 15 novembre), c. 160. É condannato, se venga preso, essendo contumace, a esser decapitato e alla confisca dei beni, per aver, per baratteria, dato il possesso del cassero d'Arezzo agli uomini della detta città, privandone il comune di Firenze.

[175] G annota: "Hic dicit quod Dominus Pierus cum magna copia armatorum se posuit in Tuoro supra Castrum Petramale et ostendebat velle cassarum a castellano et ipse postea die x Augusti 1342 cepit violenter terram et castrum Castelionis Aretini". Vedi anche Annales Arretinorum Maiores cit., loc. cit., e note 4 e 5. Ser Guido di Rodolfo, protocollo cit., c. XCVI. La guerra coi ribelli fiorentini durava anche nel luglio del 1344, come apparisce dallo stesso protocollo, c. CXXXIV, e podestà d'Arezzo furono in quell'anno Messer Francesco da Cagli e il nobil uomo Dego di Messer Biagio de' Tornaquinci di Fiorenza (protocollo. cit., cc. CXV e CXXXIV).

[176] Vedi Annales cit., loc. cit.: "Guelfi vero, hoc facto, expulserunt Ghibellinos de civitate" e le note 3 e 4 e anche i Ricordi di Ser Guido Notaro, in Pasqui, op. cit. p. 84 (an. 1343): "Et statim guerra incepta fuit crudelissima per nobiles de Petramala, dominum episcopum aretinum, Ubertinos et Pazos et alios ghibellinos exititios civitatis Aretij etc.".

[177] Così detto bizzarramente per Fiorenza.

[178] Vedi Annales Arretinorum Maiores, ad an. 1343, p. 37, 11. 6-9 e nota 5.

[179] G annota: "Hic dicit de exercitu et obsessione Castellionis Aretini facta per omnes Guelfos Tuscie. Vedi anche Bruni, op. cit., vol. II, pp. 318 e 320 a proposito di certa lega che fanno i Fiorentini e gli Aretini in questo stesso anno 1343.

[180] G annota: "Hic dicit capturam castri Citerne quod erat comunis Civitatis Castelli et tenuit usque in annum 1345, quo facta fuit pax apud Sanctum Polum". Vedi quanto alla liberazione di Citerna dalle mani dei Tarlati, i Ricordi di Ser Guido di Rodolfo in Pasqui, op. cit., loc. cit., p. 86 (1345): ".... Item die ultimo dicti mensis iulii, de mane, habuimus literas ab Andreucio Salamoncellis, capitaneo guerre Civitatis Castelli, factas die xxx iulii, hora vesperarum, qualiter dictus Andreucius cum tota gente armigera castellana intravit, elevatis banderiis, in castrum Citerne, quod occupatum et rubelle Comunis Castelli fuit per annum vel quasi cum fortia Petramalensium, et quod obsessum fuit per Castellanos toto dicto tempore unius anni.". Fu ricuperata Citerna il 30 luglio: in seguito ritornò nelle mani dei Tarlati. L'Alessi nel più volte citato ms., e. 64 v. (Ex Ser Gorello in latinum versa): "1344-1345 Citerna capitur. Pierus Sacco cum evasisset e Florentia et aree Castilionis in deditionem accepta, illic.... ac supra xii mensibus a Perusinis ac ceteris Hetrurie Guelfis obsideretur, Aretij Guelfis commorantibus, verum clanculum arcem egressus Citernam abstulit Tifernatibus, qui tum in castris apud Castilione erant et cum ceteris Petramalensibus quibus plura oppida parebant bellum continuo gessit, etc.".

[181] Vedi Ricordi di Ser Guido di Rodolfo in Pasqui, op. cit., p. 85: "ob quam pacem facta fuerunt multa capitula scripta manu ser Petri de Pratoveteri cancellarii Comunis Aretii, sub dicto Millesimo, (cioè 1345) et die (3 giugno)". Il cod. I annota precisando il  giorno di detta pace, così: "il giorno de Santi Lorentino e Pergentino". Cf. anche Villani, op. cit., XII, XLIV. La guerra che i Pietramalesi intrapresero contro la loro città incominciò il 27 luglio 1343 e terminò colla pace conchiusa presso la pieve di San Polo il giorno 3 giugno 1345. In questo periodo di lotta già Firenze nel 1344 nel primo di Marzo, essendo gonfaloniere in Arezzo Spinello da Mosciano per la terza volta, dice l'Ammirato, op. cit. p. 487, aveva fatto la proposta d'una lega per 10 anni coi comuni di Perugia, Siena e Arezzo a difesa comune, ma per causa de' Petramalesi andò a monte: fu rinnovata tale proposta agli 11 di maggio e fu stabilito di tenere in Arezzo e suo contado  cavalli e  fanti de' quali 200 balestrieri a spese comuni, e bisognandone d'avvantaggio si doveva concorrere egualmente: l'idea della repubblica fiorentina era che Arezzo fosse retto a parte guelfa e si abbassasse l'orgoglio dei Pietramalesi ghibellini. Vedi anche Reumont, Tavole Cronologiche e sincrone della Storia fiorentina, Tarlati, anno 1344. Guerra dei Fiorentini coi Tarlati. Vedi anche Gamurrini, op. cit., vol. I, p. 426. In questo anno venne poi nominato podestà d'Arezzo messer Angelo Neri degli Alberti (Vedasi la "Nominaio potestatis Aretii die xii iunii", in Capitoli del Comune di Firenze, vol. II, XVI, 12). Lo Stefani (op. cit., Rub. 610), parla di una lega fatta col Vescovo d'Arezzo della casa degli Ubertini dai Fiorentini: "Come il comune di Firenze avesse a far guerra a' Tarlati e rubelli d'Arezzo".

[182] Qui evidentemente si allude ai Pietramalesi coi quali anche fu fatta in quell'anno la pace, avendo essi dato ai Fiorentini la guardia del Castel della Penna, che guarda la strada da Firenze ad Arezzo (Ammirato, op. cit., p. 493). G ha questa nota: "Hic declarat dictam pacem factam inter Petramaleses et Guelfos in anno 1345, die festi Sancti Laurentini et Pergentini, et Castrum Castilionis ex pacto remansit Perusinis". Il cod. B aggiunge: "De qua pace etiam vide statutum vetus, tempore libertatis factum, quod est in Fraternitate, in Rubrica cuius apparet cum dicit: In nomine Domini, etc., in principio ipsius apparet et ego legi". Il cod. E ne dà più esatta indicazione dicendo: "statutum signatum N., tempore libertatis, etc.". Lo statuto di cui qui è parola è quello del 1345 e trovasi ora nel'Archiv. Comunale di Arezzo, Stanza I, Armadio A, num. 2. In esso non si accenna a questa pace di San Polo, che fu ai 3 di giugno, ma ad una anteriore di qualche mese, i preliminari di quella di cui fa cenno la nostra cronica di Ser Bartolomeo. Poco dopo la Rubrica cxliij del lib. IV, lo statuto, dopo aver detto che la città d'Arezzo deve governarsi per sempre a popolo e parte guelfa e dopo aver parlato del consiglio del popolo e di guardia della città d'Arezzo e della sua autorità, conclude così: ".... de quibus (cioè per quello che si riferisce alla guardia della detta città), vel super quibus Ghelfi Civitatis dicte habent auctoritatem seu podestatem aut disponere possunt secundum formam capitulorum pacis inite cum exititiis Aretinis Anno domini MCCCXLV Indictione XIIj a die tertia Iunij". Intorno a questa pace e all'altra del 30 luglio dello stesso anno tra il Comune d'Arezzo e gli Ubertini, vedansi in Appendice alla Cronica che qui pubblichiamo i documenti 2° e 3°.

[183] Il cod. I annota: "I sopraddetti concessero ai Perugini per patto Castiglione".

[184] C manda alla Politica del Lipsio. "Ad pugnam consiliis meis satis te instruxi: aliquid etiam de iis quae post pugnam usui sunt, dicam, et hoc velut flexu ducam te ad candidam illam metam, id est Pacem (I. Lipsi, Operum Antuerpiae 1637, tomo IV, lib. V, cap. XVIII).

[185] C annota: "1345, a' 3 di giugno, festa delli Aretini, cioè SS. Laurentino e Pergentino. Questo anno "fecion la lista delli magnati". Il Villani, op. cit., XII, lxxix, così si esprime: ".... e furono sotto l'arme [gli Aretini  per cagione dei guelfi d'Arezzo, ond'erano capi i Bostoli, per poter meglio tiraneggiare i loro cittadini, dicendo, che troppi ghibellini parea loro che fossono mischiati fra loro negli ufici e nel reggimento della città; e convenne che si facesse la cerna, e che i Ghibellini, ch'erano ne' sacchi ovvero bossoli per essere rettori e uficiali, ne fossono tratti, etc.".

[186] La borsa dell'estrazioni che tenevasi in una cassetta cofano: la ricorda il poeta anche più sotto. "Nel Museo d'Arezzo si conserva una di tali cassette, o cofani, decorata sulle faccie e nel coperchio, che è a doppia pendenza, da 136 piccole armi dipinte a colori araldici in incavo a forma di scudetto, spettanti a famiglie aretine e ammesse alla imborsazione. Questo prezioso cofano era rimasto sino ai di nostri in casa degli Albergotti„ (Pasqui, op. cit., loc. cit., p. 244, nota 127).

[187] Vedasi Alessi, ms. cit., c. 165v: "Arretij regimen, ducibus bostolinis et Guelfis cgptum, in  quo priores vici Guelfi et tres Gibellini elegebantur. Verum, triduo exacto, Gibellini e palatio abibant: collegis Guelfis suffragiis traditis, Ser Gorellus". Il cod. G fa a questo punto la seguente glossa "Hic dicit quod Priores Ghibellini erant quasi nihil in Palatio et stabant duobus diebus in palatio, postea ibant domos suas". Notasi inoltre che era stato stabilito dall'imperatore, come dice M. Villani (op. cit., IV, lxxxiv), fino dall'uscire dell'anno 1355, nella città di Siena che tutti i cittadini non ribelli d'Arezzo raccomunassero gli uffici, e che tanti vi fossero di Ghibellini, quanti di Guelfi, «ma che le due castella della città si guardassero solo per li Guelfi, come erano usate di guardare, per più fermezza dello stato della città etc.". Come è chiaro, egli si fidava poco dei Ghibellini.

[188] Intorno a Lorenzano, vedi Repetti, op. cit., vol. II, p. 806.

[189] G annota: "Hic dicit quod Bostolenses ceperunt castrum Lorenzani et qualiter expulserunt de Platea et palatio priorurn illos de domo Brandalliorum, qui dextruxerunt et fregerunt capsam priorum et fecerunt novos priores de eorum septa". Vedi anche su ciò Ammirato, op. cit., p. 530. La città d'Arezzo, egli dice, dopo il Duca d'Atene s'era ridotta a libertà. I Bostoli, famiglia di fazione guelfa e molto potente, vedendo fuori i Tarlati, e sentendosi essere i maggiori cittadini della terra, volendo con troppo rigore esercitare il grado della lor maggioranza, ne erano stati cacciati l'anno 1347.

[190] Vedi nota 185, come anche: Ricordi di Ser Guido di Rodolfo, protocollo IX, c. xi v: "(1346). Nota quod die dominicho, de mane, quinto novembris, maximus rumor insurrexit in civitate Aretina, occasione cuiusdam discordie, que erat inter guelfos dicte civitatis; et ob hoc accidit quod capsa in qua erant inclusa nomina dominorum priorum in dicto rumore spezata fuit per amicos Bustolensium, qui credebant se esse exclusos ab offitio dominorum priorum. Finaliter ipse rumor dicto die quievit etc.".

[191] Vedasi Villani, op. cit., XII, cxvi " Nel detto anno 1347, all'uscita d'ottobre, quegli della casa de' Bostoli a rumore di popolo furono cacciati d'Arezzo per forza e tirannia che faceano a' cittadini o popolani di quella città, e benchè in Arezzo e' fossono capo di parte guelfa, erano isconoscenti e ingrati spezialmente contra il comune di Firenze etc. Ed eglino per loro superbia peggio trattavano i nostri rettori e cittadini che v'erano per lo comune di Firenze, del continuo puttaneggiando col comune di Perugia, per diminuire la signoria al comune di Firenze, e per meglio potere tiranneggiare la loro città. Ma a ciò non guardò il nostro comune, perchè erano guelfi, di fare loro rendere i beni loro e ordinaronli a' confini a loro castella e possessioni fuori d'Aezzo etc.".

[192] G ha questa glossa: "Hic dicit de expulsione Bostolorum de civitate Aretij per portam Colcitronem, facta per Brenzallinos et eorum sequaces". Vedi anche Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Sed inseguenti anno [1346] Bostoli seditiosi et a Guelfis pelluntur ad Colcitronis portam cede peracta, ceteris eiectis Guelfis bostolinis, populare regimen cepit consilio 48 virorum". Nello stato e autorità dei Bostoli cacciati subentrarono quindi i Brendagli, famiglia guelfa anch'essa, e la quale, come avevano fatto i Bostoli, s'era in apparenza mantenuta amica dei Fiorentini, ma in segreto con animo di seguire o di lasciare quella congiunzione ogni volta che il così fare tornasse utile ai loro pensieri, i quali non essendo diversi da quelli dei Bostoli, che avevano avuto la mira a seguir l'esemplo dei Tarlati, tendevano tutti in occupare la pubblica libertà. Il che non potendo fare senza l'aiuto dei loro fuorusciti, pensarono valersi dei medesimi Tarlati, potenti così per la funzione e per le molte castella da loro possedute,  come per la persona di Piero vecchio e reputato valente soldato, e perciò lo aiutarono a trarsi d'impaccio nella guerra de' Perugini all'Olmo del 1351, (Ammirato, op. cit., loc. cit.). Della guerra co' Perugini, all'Olmo parleremo più avanti a suo luogo, nel seguente capitolo.

[193] C annota: "Qui parla delli Bostoli che essendo d'Arezzo cacciati, come in Matteo Villani, lib. II, cap. 36, si legge, liberando gli loro nemici, si volsono impadronire d'Arezzo come questo capitolo dice, fino al verso: E ciò non volse Iddio che avesse effetto. Leonardo Aretino mette l'impresa e la causa nel lib. III, a c. 146. El detto Matteo, oltre il detto capitolo ne parla al cap. 37 del detto libro".

[194] G annota: "Hic dicit de tractatu facto per aliquos cives pro remitendo Bostolenses per portam Colcitronem, ex quo plures fuerunt decapitati". Vedi M. Villani, op. cit., II, xxxvi e xxxvii, che fa una particolare narrazione di tutto questo tentativo de' Brandagli di impadronirsi della città e parla anche della pena che ne portarono sulla fine del cap. xxxvii, ove  dice: "E così uscirono [i traditori] col Brandagli insieme; e il seguente dì furono tutti condannati per traditori, e i loro beni disfatti e pubblicati al comune". Quando si fossero potuti impadronire di Arezzo, poi l'avrebbero venduta all'Arcivescovo di Milano.

[195] C annota: "Descrive l'arme et impresa delli "Brendagli". Vedi quest'arme in Gamurrini, op. cit., vol. III, p. 3. Essa ha in campo rosso una branca di leone che tiene una palla d'oro e sopra detta branca una corona d'oro.

[196] Intendi popolari. Raspanti erano veramente a Perugia i popolari in opposizione ai nobili. (Vedi Annali di Perugia già citati in Archivio Storico Italiano, loc. cit., p. lxi sgg.).

[197] G annota: "Hic dicit de sapienti consilio 48 et eorum bonis operibus, et qualiter statuerunt se defendere a tractatu Florentinorum qui petierunt cauto modo custodiam Aretij et qualiter armata manu fuerunt expulsi ambaxiatores et gentes Florentinorum existentes Aretij per portam Colcitronis". Dice il Gamurrini, (op. cit., vol. I, p. 100), che, cacciato il Duca  d'Atene nel 1343, gli Aretini si fecero un reggimento di quarantotto cittadini e un consiglio di novantaquattro per riformare le leggi e gli statuti e fu fatta quella rubrica iniqua, contro i Magnati «De poena magnatum offendentium populares» già ricordata nello statuto  del 1345 (vedi addietro cap. II, p. 19, nota 5), ove furono compresi i figliuoli di messer Brandaglia che erano otto, come si ricava dal suo testamento che furono tutti esclusi dagli uffici, e però nacquero le congiure dei Brandaglia stessi contro Arezzo. I Fiorentini, alla notizia che Carlo IV scende a far vendetta di Andrea d'Ungheria, s'affrettano a fare cogli Aretini, Perugini e Senesi una lega (an. 1347), per la conservazione degli stati e libertà dei collegati: la lega si fa in Arezzo, nella Cattedrale e per cinque anni. Vedi Ammirato, op, cit. p. 488-500. Vedasi poi per intero questo atto di concordia e lega in Appendice a questa Cronica, documento num. 3.

[198] C annota: «Alli.... d'ottobre 1351 furori cacciati d'Arezzo i Brandagli per la porta Colcitrone e si ritirorno a Cortona e quello che seguì vedasi qui innanzi all'Arcivescovo Giovanni e sua pace che manda al mio libro detto registro de' benefiti". Che libro sia questo non si è potuto trovare. E più tardi, nel 1351, io quando si sparse la notizia che Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano, si avanzava, Firenze s'affrettò a confermare cogli Aretini, Perugini, Senesi la lega del 1347. Intorno a questo vedansi in Arch. Storico Italiano, Serie prima, indici 1842-1854, le lettere del 1350,  17 e 23 febbraio; 16 e 17 novembre, tutte importantissime e riferentisi al congresso da farsi ad Arezzo per questa lega guelfa; Bruni, op. cit., voi. II, pp. 338, 340; Ammirato, op. cit., pp. 500, 518 e 537 e finalmente Bracciolini, op. cit., p. 21: "Eodem anno [1351] inter Florentinos, Senenses, Aretinos, Perusinos, decreto equitum peditumque numero quem singuli pro communibus fortunis defendendis praestare deberent adversus Archiepiscopum [Giovanni Visconti], foedus est initum". Non è da passarsi sotto silenzio questa frase che l'Ammirato (op. cit., p. 537) usa parlando della riconferma della lega tra Fiorentini, Perugini e Senesi per conservare il buon governo guelfo in Arezzo, già stretta in alleanza, ma turbata dalle interne fazioni:.. .. "sperava [Firenze] pur un giorno in conservando la giurisdizione di quella città di fare il servizio proprio".

[199] G annota: "Hic dicit tractatum per illos de Brendaliis et filios domini Angeli D. Corbizi cui Domino Cortone de dando cassarettum civitatis et hoc fuit in annis 1351 et sine requisitione D. Petrus (sic) qui erat Bibbiene cum gente mediolanense". In B troviamo aggiunto dopo la glossa: "fu figlio di meser Angelo del Cassaretto messer Biasgio che è sepolto in campo santo in Pisa, come appare a man sinistra, quando si entra, in campo santo giú a basso". Il fatto avvenne precisamente il 27 ottobre 1351, e i figli di messer Angelo di messer Corbizo furono Ser Gregorio, Nicolò e Donato. (Arch. di Murello di Arezzo, Ser Guido di Rodolfo protocollo X, in Repertorio segnato XVI c. CCCIII). Il Bruni (op. cit., vol. II, pp. 390-392) racconta con gran copia di particolari questo avvenimento. I Brandagli, egli dice, famiglia potente e di gran seguito "quamquam honore et gratia apud cives pollerent, tamen offensi legibus, quae grandiores familias a reipublice gubernatione secludunt, infensi etiam popularibus quibusdam, qui plus minis posse in civitate videbatur, de invadenda republica consilium iniere.Spem vero favebat mediolanensis praesul etc.". Aspettavano i congiurati che a qualcuno di loro toccasse far la guardia alla torre del cassero grande, dove era la porta della città. Toccò a due fratelli chiami Corbizi, ma furono scoperti. Gli Aretini, lasciata una parte di loro intorno alle case dei congiurati, andarono a cacciare i nemici che erano 600 cavalli e 3000 fanti. E così i nemici fuggirono, sebbene quei della forteza li richiamassero. I Brandagli furono cacciati e l'arcivescovo di Milano li accolse amichevolmente. Col Bruni concorda l'Ammirato (op, cit., 530). Vedi pure Sant'Antonino, op. cit., tit. XXI, cap. viii, § ix, e M. Villani, op. cit., II, xxxvi e xxxvii.

[200] Alludesi qui a Pier Saccone che coi suoi Tarlati e aderenti, nel suo castello di Bibbiena alloggiava 250 barbute mandategli dall'arcivescovo di Milano (M. Villani, op. cit., II, VII; Ammirato, op. cit., p. 524 e Sant'Antonino, op. cit., tit. XXI, cap. viii, § vi).

[201] C annota: "Patres manducaverunt uvam acerbam et dentes filiorum obstupescunt".

[202] Cf. cap. V, v. 109 di questa Cronica.

[203] C pone qui la glossa: "Virtute duce, comite fortuna, Cicerone".

[204] G annota: "Hic dicit de predicto tractatu, domus Brendalliorum et filiorum D. Angeli fuerunt devastate".

[205] L'Alessi nel ms. cit., loc. cit., dice: "Iohannes Vicecomes Mediolanensis presul ac Dominus bellum florentinis intulit ad Scarpariam usque et cetera Gabelli Tusci eius nutu". I capi di parte ghibellina d'Italia e più specialmente i Ghibellini di Toscana fecero lega coll'arcivescovo di Milano contro i Fiorentini e i Pazzi, i Tarlati e gli Ubertini li assalirono poi nella guerra fra questi e l'arcivescovo di Milano, Giovanni Visconti (M. Villani, op. cit., II, IV e VII).

[206] G pone qui la nota "Hic dicit de archiepiscopo mediolanense qui cepit iuvare omnes Ghibellinos oppressos a comitibus Tuscie". Vedasi anche Bruni, op. cit., II, 356 e 358.

[207] C annota: "Li Ubaldini eron cacciati di Fiorenza e questi d'Arezzo eron maltrattati". Qui alludesi alla condanna inflitta dal comune di Firenze agli Ubaldini il 15 febbraio 1345 (G. Villani, op. cit., XII, xxxv). Per il cavallo si intende Arezzo la cui arme, com'è noto, era ed è il cavallo sfrenato nero su campo bianco.

[208] Cioè il predetto Bartolomeo di Rinieri Casali. Come nell'aprile del 1352, i Perugini aiutati dalle forze fiorentine assalissero Cortona, vedasi in M. Villani, op. cit. II, LXXVIII. Nelle Croniche di Perugia citate, leggesi: A dì 4 de febbraio il signor de Cortona traditore, chiamato Bartolomeo de meser Raniere, ruppe guerra al Comuno de Peroscia senza nulla cagione, et con esso insieme ce era messer Piero Zacone de Rezzo con la gente de l'arcivescovo de Milano. Poi i Perugini riebbero Cortona ecc." (Graziani, Cronica di Perugia in Arch. Storico Italiano, Serie prima, XVI, pp. 157-158).

[209] C annota: "Ricevette molta gente del Arcivescovo. Matteo Villani". Vedasi M. Villani, op. cit., III, xxiv, xxv e specialmente il cap. xxvi, nel quale si racconta che Bettona fu arsa e disfatta dai Perugini: Messer Crespoldo era signore di Bettona.

[210] C annota: "Intende del detto arcivescovo Giovanni di Milano, l'arme del quale è una biscia„.

[211] G annota: "Hic dicit de D. Buoso episcopo, qui ad hoc ut frater suus haberet episcopatum Cortone, qui propter occisionem episcopi devolutus erat de iure canonico episcopo aretino, absolvit et renunptiavit dicto iuri et Cortonenses elegerunt episcopum eius fratrem". Questo fratello di Buoso fu Ranieri, detto anche Ranuccio, degli Ubertini. (Annales Arretinorum Maiores cit., ad an. 1324, verso la fine e le note 4 e 5 e Pasqui, op. cit., loc. cit., p. 245, nota 142). Intorno a Buoso, vedi Pasqui, op. cit., loc. cit., p. 287. Fu eletto vescovo d'Arezzo dal pontefice Giovanni XXII, perchè fosse contro Guido Tarlati, deposto per lui dal vescovado della città ma non potè accedere alla propria sede, se non quando la potenza e autorità di Pier Saccone e de' suoi consorti venne a poco a poco attenuata per le diuturne guerriglie coi Faggiolani, coi conti di Modigliana, coi Boccognani di Borgo San Sepolcro, coi Perugini e per l'antipatia dei propri cittadini. I Fiorentini poi nel 1351, come dice l'Ammirato (op. cit., p. 529), "facevano ogni procaccio in corte del Papa, perchè Buoso vescovo di Arezzo fosse privato del vescovado, dando aiuto all'arcivescovo di Milano, nimico della Chiesa il quale [stava] facendo loro la guerra per il Mugello; il vescovo, convocato i Ghibellini, la faceva loro per il Valdarno etc.". Clemente VI nell'anno stesso (marzo 19 e 27), prega il  comune di Firenze a restituire a Buoso, vescovo di Arezzo, certi castelli Ecclesie Aretina che si tengono in nome del comune e aiutare il vescovo e la sua chiesa nelle loro occorrenze (Capitoli del comune di Ftrenze, Inventario e regesto, Firenze 1893, tomo II, XVI, 70 e 71). Vicario generale di Buoso fu Ranieri Corsini, patrizio fiorentino e proposto della chiesa cattedrale d'Arezzo (Burali, op. cit., p. 81).

[212] C annota: "Arcivescovo Giovanni Visconti".

[213] Giovanni Visconti da Oleggio. Vedi M. Villani, op. cit., II, xv. "Messer Giovanni da Oleggio Capitano dell'oste etc."

[214] Principio della guerra con Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano. Le truppe milanesi, capitanate da Giovanni da Oleggio, varcano l'Appennino fra Bologna e Pistoia ai 28 di luglio del 1351, e si accampano presso Pistoia, poi a Campi, a sei miglia da Firenze, mentre tutti i nobili ghibellini del contado, Ubaldini, Tarlati, Pazzi si levano nel Mugello e nell'Aretino. Mandato un soccorso dai Perugini al comune di Firenze, è disfatto da Pier Saccone dei Tarlati, il quale col suoi corre il contado e qualche tempo dopo, essendo in età di novant'anni, prende e arde Figline. Dopo molti fatti d'arme e grandi perdite dall'una parte e dall'altra, si conchiude la pace a Sarzana, pubblicata poi il dì 1 aprile 1353. (Vedi Reumont, op. cit., Tarlati (famiglia) anni 1351). L'Ammirato poi (op. cit., p. 547) così parla di Pier Saccone Tarlati, uomo veramente meraviglioso. "Non la lunga età, non la tema d'alcun avverso avvenimento, nè la vicinità della morte stancava tra questo mezzo (anno 1352) l'inquieto animo di Piero Saccone; il quale avendo passato il novantesimo anno della sua vita, con raro esempio di robusta e vigorosa vecchiezza, cavalcava, armava e tutti quelli esercizi faceva, che posson fare i giovani gagliardi e valenti". Intorno poi all'assedio posto a Scarperia dall'Oleggio il 20 d'agosto, vedi Sant'Antonino, op. cit., tit. XXI, cap. ix § ii; Ammirato, op. cit., p. 528 e Bracciolini, op. cit., p. 12. Tutti presso a poco narrano che i Tarlati e i Pazzi di Valdarno davano il guasto ai luoghi vicini a Firenze e agli alleati di Firenze. Pietro Tarlati, dice l'Ammirato, insieme coll'arcivescovo Buoso degli Ubertini e co' Pazzi di Valdarno, vedendo che il tener i Fiorentini sparti avrebbe grandemente giovato all'assedio di Scarperia, accresciute le lor genti infino a 350 cavalieri e 2000 pedoni, di nuovo si mosse per entrare nel contado di Firenze, e calato nell'Ambra, accennava di voler per quella parte entrare nel Valdarno e occupare Montevarchi o Figline per aver un luogo stabile, onde con più comodità potesse continuamente danneggiare gli avversari. I Fiorentini, avuto sentore del pensiero de' nemici, comandarono ad Albertaccio de' Ricasoli che con cinquecento cavalieri, che aveano tratto dalle frontiere e centocinquanta che tenevano in Arezzo e con tutti i popoli di Valdarno s'opponesse ai nemici e facesse quello che in lui confidava la repubblica. Albertaccio giunse la sera all'Ambra, ove era Saccone e, perchè vedesse stanchi i suoi, o perchè l'ora gli paresse tarda, non volle attaccar battaglia. I nemici nella notte fuggirono chetamente. Poi una parte di loro fu raggiunta, assalita e vinta, ma Saccone era fuggito di mano ai Fiorentini. Intorno alla presa e incendio di Figline per opera dei Tarlati può vedersi anche M. Villani, op. Cit., III, xxxviii, e Gamurrini, op. cit., vol. IV, p. 52. Il Villani dice che i Tarlati colle loro genti d'arme stettero in Figline due giorni e raccolsero la preda, lasciando la vittuaglia, e l'altro giorno poi, dopo avervi messo il fuoco, si partirono senza alcuno impedimento, e tanta era la nebbia e il fumo, che quelli delle castella di Figline non potevano vedere il fuoco.

[215] Rinaldo Tedesco (Vedi M. Villani, op. cit., II, XXII).

[216] Il vescovo Buoso degli Ubertini.

[217] Biordo degli Ubertini. Dobbiamo qui ricordare varie sentenze pronunziate a Firenze contro degli Ubertini. Quelle che più si riferiscono al fatto di cui qui si  parla, sono le Sententiae Domini Loysii quondam Domini Carli de Actis de Saxoferrato Potestatis, (1344, 18 febbraio e 17 marzo). Son condannati vari degli Ubertini per aver tentato di prendere la Scarperia per il Vescovo di Milano. In altre, una Domini Francisci de Fortebracchiis de Montone Pbtestatis (1344, 14 dicembre), una Domini Antonij Domini Thome de Firmo Capitanei (1351, 9 gennaio) e una Domini Albrichi Malvicini de Fontana Potertatis (1363, 9 gennaio), son condannati come rubatori di strada, a esser impiccati e alla confisca de' beni per aver tentato di ribellare a Firenze o questo o quel castello del Valdarno. (Arch. di Stato di Firenze).

[218] G annota: "Confictus comitis Luffi et eorum "gentis, qui a perusinis missus erat in adiutorium Florentinorum pro exercitu D. Archipiscopi qui erat apud Scarpariam, factus per D. Pierum et alios". L'Alessi (ms. cit., loc. cit.): "1351... Pierus sacco petramalensis Arretinus una cum Duce Raynaldo germano adversus comitem Luffum qui ab Ulmo versus Quaratam ad Florentinorum suppetias properabat, prope urbem, in aciem eductus, hostem profligavit accesis plurimis, Luximburgi maxime victoria emicuit netramalensis qui Bostolinum in proelio infensum sibi cepit etc.". L'Ammirato (op. cit., p. 530) e il Bruni (op. cit., vol. II, 380 e 382), raccontano il fatto con copia di particolari, discordando in questo, che mentre l'uno dice che erano venuti in aiuto de' Fiorentini i Perugini, gli Aretini che avevano l'obbligo di aiutarli secondo i patti della lega del 1347, quando seppero che era contro loro Pier Saccone, il quale avrebbe forse anche potuto impadronirsi della città d'Arezzo e ridivenirne tiranno, corsero subito a difender le loro mura e abbandonarono gli alleati, mentre invece il secondo afferma che Pier Saccone era stato fatto prigioniero da' Perugini, quando sopraggiunsero gli Aretini, che per renderselo riconoscente, lo liberarono e allora i Perugini furono rotti. Sant'Antonino (op. cit., fit. XXI, cap. viii § viii), così racconta l'accaduto: "Perugini etiam, cum plures misissent et in via essent, ad Ulmum prope Aretium, ad duo miliaria, de notte, Sachon (qui ut supra dictum est dominatus olim fuerat Aretii) cum duobus milibus peditum et quingentis equitibus eis obviavit et illis improvisis irruit super eos bellumque fuit inter eos non leve. Demum Sachon pene omnes illos Perusinos occidit vel vulneravit, aut etiam captivos duxit". Vedi anche Bracciolini, op. cit., p. 19, e nota. Egli accostandosi all'Ammirato, dice che poco mancò che Pier Sacconi non fosse fatto prigioniero da' Perugini. Vedi pure M. Villani, op. cit., II, XXII, xxii e Arch. Stor., italiano, Prima serie, tomo XV, p. 70, ove sono i Capitoli della condotta del conte Luffo al soldo del comune di Firenze, nell'anno 1370 (stile fiorentino).

[219] G annota: "Da Pietramala".

[220] G annota: "Hic dicit de captura Burgi Sancti Sepulcri facta per dominum Pierum et alios cum gente D. Archiepiscopi Mediolanensis". Il Bruni (op. cit., vol. II, pag. 396 sgg.), narra con molti particolari questa occupazione del Borgo San Sepolcro: "Tempus erat procellosum et suboscurum, ventorumque violentia custodes ipsos in aedicolam turris incluserat. Haec omnia usque adeo Saconis coeptum adiuvarunt, ut prius scalis capta sit turris portae supereminens, quam a custodibus quicquam sentiretur". E seguita poi a raccontare che la fazione ghibellina del Borgo si unì a Saccone, sicchè gli fu anche piú facile l'impresa. Il Borgo poi riebbe la sua libertà nel 1353, quando fu fatta la pace fra l'Arcivescovo di Milano e i Fiorentini. Altri particolari aggiunge il racconto di M. Villani (op. cit., II, xlii). Dice che l'Arcivescovo sopra nominato dette un aiuto di 400 cavalieri, capitanati dal conte Pallavicino e assegna al fatto la data 20 novembre 1351. Si può inoltre consultare Alessi, ms. cit., loc. cit.- Sant'Antonino, op. cit., tit. XXI, Cap. VIII, § ix; Bracciolini, op. cit., p. 21 e nota y; Ammirato, op. cit., p. 540. Il Graziani (op. cit., loc. cit., pp. 156-157), assegna al fatto la data 26 novembre.

[221] I Perugini tenevano detto castello fino dal 1335. Lo avevano perduto nel dicembre del 1348, nel qual anno erasi dato agli Aretini e il 5 aprile del 1349 lo avevano ripreso (Graziani, op. cit., loc. cit., p. 150-151, M. Villani, op. cit.,). Vedi anche Bruni, op. cit.,  vol. II, p. 400: "Per idem tempus Anglare oppidum ad Saconem defecit etc.", Bracciolini, op. cit., Alessi, ms. cit. Il Graziani così comincia il racconto del fatto (op. cit., p. 157): "A dì 12 de dicembre, nel dicto millesimo (1351) ditto messer Piero Zacone aravve el castello de Anghiara; se rendette a lui per volontà etc.".

[222] Andreuccio Salamoncelli, capitano della guerra per Città di Castello aveva ricuperato Citerna, il 30 luglio 1345.

[223] Infenta = infinta, infingimento. La stessa voce occorre altre volte nella Cronica, così nel v. 136 del cap. X; nel v. 5 del cap. XII, nel v. 35 del cap. XVIII. Vedi Redi, ms. cit. 69, alla voce predetta.

[224] Alessi, ms. cit.,: "Verum dictus Pierus sacco burgum cepit, Anglare ibidem oppidum Magius petramalensis ditionis sue fecit. Item Citernam reaptare operam dedere. Qui quidem in propriis intendissent, hetrusca omnis guelforum factio perditum isset, ut Gorellus alt etc.".

[225] M. Villani, op. cit., III, xxiv, xxv, xxvi.

[226] G annota: «Hic dicit de pace facta inter D. Archiepiscopum et Florentinos". La pace sopradetta fu conclusa fra il comune di Firenze e l'arcivescovo di Milano, Giovanni Visconti, il 31 marzo 1353: i patti di essa furono fissati il 10 di gennaio dell'anno stesso. (Lünig, Codex Italiae diplomaticus, etc., Francafurti et Lipsiae 1725-1735, tomo III, p. 1523 sgg. Pacta conventionis inter Iohannem, vice Comitem, Mediolanensemque Archiepiscopum atque eius adherentes ex parte una, comunia vero Florentiae, Perusii, Senarum, Aretii, Pistorii, et Civitatis Castelli eorumque seguaces ex altera parte sancitati, quibus damna sibi invicem illata remittunt, parsque altera alteri proscriptos suos in gratiam et civitatem recipere atque ab omnibus bannis relaxare et ablata restituere promittit, die X Ian. An. 1353). Tale documento è da noi ripubblicato in Appendice a questa Cronica, documento num. 4. Vedi anche Bruni, op. cit., Vol. II, p. 416 e 418, Sant'Antonino, op. cit., tit. XXI, cap. ix, § xi, Ammirato, op. cit., p. 552 e M. Villani, op. cit., III, XLVII, e LIX. Più o meno in tutti i sopra ricordati si parla del richiamare gli usciti, che per cagione della guerra fra l'Arcivescovo e i Fiorentini fossero stati cacciati dalla patria. Cf. inoltre Alessi ms. cit., "Verum Iohannes, egli dice, diversam factionem Ghihellinorum videns, pacem cum Florentinis sanxit, pistoriensis agri quepiam oppida et lygurie et pactionibus tradita fuere ac bello finis impositus. Gorellus cap. VI". Dobbiamo qui ricordare varie scritture originali dell'Archivio di Stato di Firenze, Riformagioni, cl. X, Dist. 1, num. 10, c. 97v; 99, 104, 107, 121 etc., riguardanti tutte la guerra contro l'Arcivescovo di Milano di cui si è parlato. La pace fu conclusa dopo una tregua di un anno che potè essere ottenuta con la mediazione del papa. (Vedasi Arch. Storico Italiano, Prima serie, XVI, Parte seconda, 538). Possiamo qui aggiungere che nell'anno 1354 il territorio di Arezzo ebbe a soffrire danni dalla compagnia di Fra Moriale di più di seimila cavalli e innumerabile quantità di fanti. (Vedasi Arch. Storico Italiano, Prima serie, XVI, Parte prima, p. 171 sgg., e Arch. di Murello di Arezzo, Ser Guido Di Rodolfo, protocollo XII, in Repertorio segnato VIII, c. liv).

[227] G annota:  Hic dicit de adventu Karoli Imperatoris anno 1355". Carlo IV di Lussemburgo calò in Italia nell'ottobre 1354. Prese in Roma la corona dell'impero da due cardinali, perchè il papa aveva trasferito la sede pontificale in Avignone in quel tempo. A Pisa ricevè gli ambasciatori mandatigli da Firenze, Arezzo e Siena che erano fra loro unite in lega, e nel tempo stesso quelli degli esuli delle sopradette città lo supplicavano gli uni di non rimetter gli esuli nelle i loro città, gli altri di aiutarli a tornarvi. L'imperatore piegò alle preghiere dei messi delle città confederate e non concesse che gli usciti tornassero; quanto al governo, fu contento che la città d'Arezzo si governasse con un reggimento misto di Guelfi e Ghibellini; le castella di essa però si tenessero da Guelfi; prese poi da tutti denari. Vedansi inoltre Bruni, op. Cit., vol. II, 426 Sgg.; Sant'Antonino, op. cit., tit. XXI, cap. ix, § II; M. Villani, op. cit., IV, LXII, il quale rileva il superbo contegno de' Tarlati davanti all'imperatore, e cap. lxxxiii, donde si ricava che l'omaggio degli ambasciatori aretini a Carlo avvenne in Siena all'uscita di marzo 1355.

[228] Due privilegi concesse Carlo IV alla città di Arezzo che possono leggersi nell'Arch. Capitolare di Arezzo (Pergamene num. 861 e 863,  marzo e  maggio 1355). È  importante poi un suo privilegio "datum Senis, anno domini MCCCLVI, Mense Maij", con cui si restituiscono ne' loro possessi gli ambasciatori e sindaci d'Arezzo che erano andati presso di lui per pregarlo di non far rientrare in città gli usciti ghibellini. In forza di tal privilegio, che può anche vedersi in Burali, op. cit., pp. 84-85, la parte guelfa acquistò vigore, perchè occupò molti castelli tenuti e posseduti dalla parte avversaria e dai Perugini, e ne nacquero guerre sanguinose per quei Sessanta che governavano Arezzo, la maggior parte uomini popolari, faziosi e fatti insolenti: essi non poteron esser più comportati e perciò presero occasione alcuni della fazione ghibellina, conoscendo che questi erano al governo mal d'accordo, di disunirli totalmente; e facilmente venendoli fatto, accaddero maggiori dissenzioni, che in ultimo cagionarono agli Aretini la perdita della libertà. Altro privilegio concesse Carlo IV, al nobile Biordo del fu Franceschino degli Ubertini, specialmente per essere stato podestà di Pisa e aver con ogni zelo adempiuto al suo ufficio. Concesse (iv non. Iunij MCCCLV) a lui e suoi eredi legittimi alcune terre della diocesi aretina e lo fece conte palatino (Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, seconda serie, 60, c. 72.

[229] Vedi per quel che riguarda Giovanni dell'Agnello Stefani, op. cit., rub. 706: "Come Carlo imperatore venne in Italia e fece guerra a messer Bernabò, e poi venne a Pisa e a Lucca.... ove fu ricevuto da Messer Giovanni dello Agnello, lo quale v'era signore e rimise messer Piero Gambacorti in Pisa, e messer Giovanni fece cavalieri, ove cadde un ponte di legname in Lucca, in su ch'erano ruppesi la coscia messer Giovanni dello Agnello". Possiamo pure consultare Arch. Stor. Italiano, Serie quinta, tomo II,  sgg; Neri di Donato, op. cit., in Muratori, op. cit., XV, col. 190: "Messer Giovanni dell'Agnello, egli dice, fu fatto primo Duogio di Pisa, di concordia di molti cittadini pisani della parte de' Raspanti, senza saputa d'alcuno Bergolino e senza romore alcuno. E poi a dì 13 d'Agosto" (l'anno è il 1366), "all'ora del mattino fu posto in sedia, ecc.". Di Giovanni dell'Agnello abbiamo lettere varie alla Signoria di Firenze, anche su cose di Arezzo; in una (13 settembre, 1364) si firma Iohannes de Agnello, dei gratia dux Pisarum. (Arch. di Stato di Firenze, Signoria, Carteggio, Responsive, 1364, numeri 62, 72, 86, 93). Vedi anche Lünig, op. cit., vol. III, 2051. A Siena l'imperatore prepose il suo fratello naturale Patriarca d'Aquileia, (M. Villani, op. cit., V, xx), e Siena ne fu contenta. Dette a tutti buone parole, privilegi, prese da tutti denari e passò così burlando tutti.

[230] M. Villani, op. cit., cap. xxi. I fuorusciti, cioè i Tarlati, gli Ubertini, i Pazzi ed altri ricorsero all'imperatore per esser restituiti alla patria, come abbiamo detto, ma le loro pratiche non riuscirono, sicchè mal contenti se ne doverono tornare indietro. Queste parole che seguono sono nel Villani la conclusione del suo discorso agli esuli ghibellini che lo pregavano di aiutarli a ritornare in patria: "Noi sappiamo l'amore e la fede, ch'havete portato all'imperio, e' servigi fatti al nostro Avolo per voi non possiamo dimenticare, però che scritti sono ne' suoi Annali. Appo i nostri registri troviamo noi, che i mali consigli de' Ghibellini d'Italia, avendo più rispetto al proprio esaltamento, e a fare le loro proprie vendette, che all'onore e grandezza dell'imperatore Arrigo, mio avolo, il feciono mal capitare, e non il comune di Firenze, nè alcun operazione di quel comune, e però non intendo in ciò seguitare vostro consiglio".

[231] Il Pasqui in op. cit., p. 245, nota 155, dice che Carlo IV venne in Arezzo il 18 gennaio 1355, anno del giubbileo.

[232] G annota: "Hic dicit de regimine Guelforum per consilium  n. 48".

[233] Troviamo in una lettera della Signoria di Firenze (Arch. di Stato di Firenze, Signoria, Carteggi Responsive, 8 luglio, 1355, num. 63), che era venuto ad Arezzo come capitano di guardia, mandato dalla Signoria di Firenze, un tale Arlac Tedesco.

[234] Somiglia ser Bartolomeo di ser Gorello per idee politiche a Dante, di cui è un imitatore: non può dimenticarsi che ogni gloria ad Arezzo deriva dai Pietramalesi, che ne sono la più illustre e potente famiglia, ma d'altro lato, vedendo che Arezzo, ormai dato in accomandigia a Firenze, coll'aiuto di quella e del papa, vince l'orgoglio perugino, si acconcia al tranquillo e giusto governo misto dei Quarantotto, che cresciuti di numero vengono poi detti da lui i Sessantini. Sotto  il governo di essi la città d'Arezzo ha pace, sono sopite le fazioni, maledizione dunque a chi, guelfo o ghibellino, chiama lo straniero e attira sulla patria lo sterminio. 

[235] Si riferisce il poeta, pare, a messer Egidio da Celaio, di cui parla più oltre al v. 92 del capitolo seguente.

[236] Di questi fatti qui accennati non troviamo memoria negli storici e cronisti, per esser di carattere troppo particolare.

[237] G annota: "Repositio Castri Pianettoli, Viccionis et Schifanoie contra castra Petramalensium".

[239] G annota: "Hic commendat statum de 48".

[240] G annota: "Statutum est homini semel mori. Hic dicit de morte D. Pieri". Vedasi SAnt'Antonino, op. cit., tit. XXI, cap. ix, § 11; Bruni, op. cit, vol. II, p. 436-437. Saccone muore a Bibbiena; gli Aretini pongono il campo ad alcune castella della famiglia Tarlati. M. Villani pure parla di questo (op. cit., VI, xi e xvi), dando però del Tarlati un giudizio non molto giusto. Non può infatti Pier Saccone esser tacciato di aver mancato della data fede, constando chiaramente che egli sempre si rifiutò di venire a trattati di pace coi Fiorentini. Nel 10 marzo del 1337 fu costretto a restituire Arezzo ai Fiorentini, ma lo riacquistò ben tosto e lo tenne fino al 1342. Il Reumont, (op. cit., Tarlati Pier Saccone, 1336) dice: "Nel 1356 morì in Bibbiena quel fiero capitano etc.", e cita intorno a lui le parole del Bruni (op, cit.,): "admodum senex, erat enim supra octogenarius, sed corpore ita robusto, ut usque ad extremos ferme annos arma induere ac nocturnos diurnosque militiae labores suscipere ac proeliis periculisque interesse nunquam destiterit etc.".

[241] C annota: "Cioè Giglio e si piglia per Fiorenza2. Vedi Bruni, op. cit., p. 416 e M. Villani, op. cit., III, xxxviii.

[242] Pier Saccone ebbe dominio in Bibbiena e poi tal dominio passò al figlio Marco, a cui finalmente lo ritolse il comune di Firenze per congiura di certo mastro Acciaio bibbienese e di altri quarantotto popolari di quella terra, dopo più di quattro mesi di assedio. Vedasi in Capitoli del comune di Firenze già citati, vol. II, XVI, 312, 27 gennaio 1360, una lettera di Luigi di Taranto, re di Napoli, con cui egli si felicita della ricuperazione di Bibbiena. Vedasi poi negli stessi Capitoli. vol. I, pp. 87, 88, 91, 104. Circa lo stesso tempo 1359, troviamo una locazione fatta al comune di Firenze del Vescovato d'Arezzo, dei beni e diritti del vescovato nel castello e corte di Bibbiena per  anni 6 e col canone di 150 fiorini d'oro di retto conio e di peso fiorentino. Fu poi Bibbiena definitivamente riunita a Firenze. L'Alessi,  ms. cit., dice: "Fiorentini, cum nullis societatis mediolanensis iuvaret Petrus Sacco, intra Bibienam oppidum Sacconis filios obsidere ac tandem per proditionem accepere, ad diem vi Iunii hoc anno". Vedi anche M. Villani, op. cit., III, xi; IX, xlvii, xlviii, lii, lxi.

[243] Il primo e il quarto di questi Pietramalesi sono Marco e Lodovico, figli di Pier Saccone. Vedi Pasqui, op. cit., p. 246, nota 162, Bruni, op. cit., vol. II, p. 459 e Ammirato, op. cit., p. 599: "Marco, veduto che era perduta la terra, e nella rocca non essendo vettovaglia, avendola poco innanzi per tema delle cave sfornita, cercò di rendersi a patti, ma non volendo a ciò i capitani acconsentire, impetrò solamente lo scampo della moglie, figliuola del prefetto di Vico, e che essendo gravida, con un suo figliuolo, e con tutti gli arnesi se ne potesse liberamente andar dove volesse, egli poi con Lodovico e Piero, suoi fratelli, e Leale, loro zio, con quaranta masnadieri si dettero il dì seguente (7 gennaio 1360),  prigioni della Repubblica".

[244] Il cod. G annota: "Hic dicit de captura Castri Bibbiene, Domini Lancellotti, et Marci, Domini Pieri et Lodovici". L'assedio e la presa di Bibbiena ebbero questa cagione. Gli Ubertini erano in principio avversi ai Fiorentini. Or dunque in seguito, per servigi resi alla repubblica fiorentina, furono alcuni di loro ricevuti in Firenze e, sebbene fossero di partito uguale ai Tarlati, pur tuttavia essendo loro privati nemici, persuasero i Fiorentini all'impresa di Bibbiena. Gli Aretini stessi poi si vennero ad aggiungere a loro, così tutti insieme l'ebbero vinta sui Tarlati (Vedasi Bruni, op. cit., vol. II,  e Sant'Antonino, op. cit., tit. XXI, cap. ix, § v). La guerra cominciò il 2 agosto 1359 e dopo cinque mesi d'assedio, Bibbiena cadde; i Fiorentini vi entrarono il sei di gennaio a mezza notte (Cronichetta d'incerto dal 1301 al 1379, in Cronichette di vari scrittori del buon secolo della lingua toscana, Firenze 1733, p. 181 e Bruni, op. cit., vol. II, pp. 455 e 457). Vedasi inoltre Reumont, op. cit., Tarlati, anno 1359 e i Capitoli del comune di Firenze, vol. I, i, (1360, gennaio 7). Elezione dei sindaci a fare la sottomissione di Bibbiena al comune di Firenze, Bibbiena, nella chiesa di san Lorenzo. Il Graziani (op. cit., p. 190) così racconta: "1360 a dì 7 de gennaio. In questo millesimo el comuno de Fiorenza prese la terra de Bibbiena, la quale havvero per trattato de certe fante forastieri, quali erano dentro al soldo dei figlioli di messser Piero, ecc. Marco figliuolo di messer Piero predicto con gli frateglie e certi amici se redusseno al cassero ecc. Puoi al dì 9 del dicto mese el comuno de Fiorenza avve el cassero per patte, et mandaro a Fiorenza Marco de messer Piero et uno suo figliuolo, et anco ce mandaro messer Realetto da Pietra Mala". Vedi pure M. Villani op. cit., X, xlvii, xlix, liti, lxi, lxii. Nel 1364 si tentò da alcuni di Bibbiena con Nicola degli Ubertini d'Arezzo di far ribellare tal terra e Raggiuolo e la Serra ai Fiorentini, onde furono condannati a esser impiccati (Arch. di Stato di Firenze, Sententia Maffuccii Baglioni de Perusio Executoris,  1364 20 aprile.

[245] Vedi M. Villani, op. cit., IX, lxx.

[246] Le Stinche, dice G. Villani, VIII, .xxv, sono una prigione particolare di Firenze, così detta dal nome di un castello in Valdigreve, donde uscirono i primi che ivi furono imprigionati nella conquista d'esso, l'anno 1304. Ora a Firenze, nel luogo dove erano queste carceri, è il teatro Verdi già Pagliano. (Vedasi anche Documenti di Storia Italiana, VI, pp. 359, 374, 385, 511). Secondo una notizia raccolta dal Senatore Carlo Strozzi (Arch. di Stato di Firenze, Carte strozziane, seconda serie, 55, c. 22), nel 1307, il 5 gennaio, si fece nelle Stinche una prigione dei Magnati. L'Alessi (ms. cit.): "et supra IX annos in carcere quas stincas vocant coniecti misere. Verum exacto novennio, liberantur a Carolo 4 imperatore, dum Romani tendit, arretinis civibus adversis egre ferentibus, Ser Gorellus cap. VII. Vedasi anche Bruni, op. cit., 456". Dai Capitoli del comune di Firenze ecc. vol. II, XVI, 224, 225, 338, 340, 341 risulta che Carlo IV (1360, dicembre 22 e 25), la regina Giovanna (1363, maggio 24 e giugno 30) e Giacomo d'Aragona (stesso anno, giugno 30) pregano il comune di Firenze di liberare i Pietramalesi prigionieri e soprattutti Marco da Pietramala. Firenze tenne duro per allora alle loro preghiere e solo poterono quelli uscire dalle carceri dopo nove anni e mesi.

[247] Nel cod. B, di mano diversa da quella che scrisse le glosse, si trova notato: "Hic dicit de Martino domini Brandalie". Il Bruni (op. cit., vol. III, p. 168), dice che i Pietramalesi tenevano e dominavano detto castello. Nel 1391 i Fiorentini assaltarono il castel di Ranco in quel d'Arezzo, che i figliuoli di Pier Saccone tenevano, facendo guerra alla repubblica aretina, e perchè pareva inespugnabile, vi adoperarono la zappa. Il Gamurrini (op. cit., vol. I, p. 94) dice che, presi i figlioli di Pier Saccone da Pietramala e messi prigioni in Fiorenza, nelle Stinche, erano rimasti cinque castelli solamente ai Pietramalesi ghibellini, e i Guelfi a loro nemici non procuravano il riscatto de' detti figliuoli di Pier Saccone, anzi godevano di vederli gastigati.

[248] G annota: "Dominus Masgius de Petramala".  Vedi anche M. Villani, op. cit., II, xlii.

[249] Ad Arezzo del resto Carlo IV fece restituire dei castelli che nelle guerre delle fazioni guelfa e ghibellina le erano stati tolti, dette facoltà di batter moneta, nonchè dispensa dal pagamento di debiti fino allora contratti colla Camera Imperiale e finalmente le restituì l'antica facoltà di avere uno studio di diritto in utroque iure (Vedansi le pergamene num. 861 e 863, Arch. Capit. di Arezzo, anno 1355, marzo 7 e maggio 5) come è già stato detto nel capitolo precedente, p. 58, nota 2.

[250] G annota: "Liberatio Marci D. Pieri et Lodovici D. Lealetti facta per Karolum Imperatorem sollicitudine et virtute D. Iohannis de Aibergottis Episcopi Aretini". Principal causa della loro cattura era stato il vescovo d'Arezzo Buoso Ubertini, come già si è detto, di spirito guerriero e nemico dei Tarlati, coi quali fece sempre aspra guerra: egli morì durante la loro prigionia nel 1365 (Pasqui, op. cit., p. 287). Ecco come l'Ammirato (op. cit., p. 667) parla della liberazione di questi Pietramalesi: "Haveva l'Imperatore richiesto piú volte il gonfaloniere [Luca da  Panzano] e' Priori di liberar di prigione il cavaliere Leale, figliuolo d'Agnolo, et Marco, Lodovico e Pieronzolo, figliuoli del cavalier Piero da Pietramala, i quali si trovavano nelle Stinche dal principio del 60 fatti prigioni nella perdita di Bibbiena, onde non parendo alla signoria di poter allungar più la loro liberazione, volse prima che i medesimi Pletramalesi promettessero d'esser amici dei Fiorentini e di non offendere alcuno sotto pena d'infamia e di 10 mila fiorini d'oro di pena per ciascuna volta con la confiscazione de' beni da applicarsi alla Repubblica, il qual obbligo e promessa fu ratificata e confermata dall'Imperatore, da Guido di Monforte Cardinale e suo luogotenente e Vicario generale in Toscana e da Francesco, Prefetto di Roma".

[251] G annota: "Dominus Lealettus, qui post libertatem suam statim decessit".

[252] G annota: "Hic dicit de augumento consilij  usque ad 60". Secondo il Burali (op. cit., p. 78), il consiglio che era prima di quattrocento, dopo la morte di Guido Tarlati fu prima ridotto a trecento e poco appresso, per le gravi divisioni dei cittadini, restò solo ridotto a sessanta. In una lettera inedita, scritta, come pare, per il comune di Arezzo dal suo cancelliere ser Ristoro di Simoncino (?) trovasi ricordato questo consiglio dei Sessanta: "Ideoque convocato et in sufficienti numero congregato Consilio LXta Civitatis Aretij in solito palatio populi pro custodia ipsius civitatis eiusque comitatus ac pro tuenda dicti populi libertate etc., (Biblioteca Marucelliana di Firenze, ms. Redi , Frammento di Registro di lettere del comune di Aresso, dirette dal Cancelliere Ristoro di Simoncino (1368-1386), c. 1v).

[253] G annota: "Mors Domini Egidii de Celaria" Gilio o Egidio, ché nelle antiche scritture vale il medesimo, da Celaia, degli Albergotti, la cui uccisione avvenne nel luglio 1369, è rammentato anche nella citata Cronica sincrona inedita, di Giovanni de Bonis di Arezzo, al canto 46, dove enumera i morti di morte violenta, ed è cogli altri messo nell'infernum, che, come pare, ha dato il nome alla seconda parte del Liber Aretii:  "Bostol d'Arezo e Giglio da Celaria". Troviamo poi rammentato Egidio da Celaria anche in un protocollo di ser Bartolomeo stesso, autore di questa Cronica (Arch. Capit. d'Arezzo, num. 878 bis, c. 77 v) come giudice, con Cione Malavolti di Siena, capitano di guerra d'Arezzo, e Lando de' Gozzari, nel 1353.

[254] E annota : " Hic dicit de Ionctino de Albergottis".

[255] G annota: "Hic dicit de Nicolao Ugucci".

[256] Alessi, ms. cit., "  .... oboritur seditio Aretij mense Iulij, verbis Francisci Albergotti iureconsulti et peracta cede a guelfis: pulsi atque eiecti Guelfi, everso regimine eorum XLVIII virorum et ex his tandem rem publicam LX gubernare ceperunt, infensi tum et guelfis et gibellinis".

[257] Urbano V. 

[258] Carlo IV.

[259] Bernabò Visconti.

[260] G annota: "Liga fatta per Arretinos cum ecclesia". L'Alessi (ms. cit.,): "... hii  [sexaginta] tum multa oppida amissa recuperavere et cum per legatum a perusinis peterent ablata reddi, a pearusinis in hunc modum responsum: perusiam nequaquam infirmam ut credant ipsam testari, non reddere quidquam abnunt; ob eam rem Arretini cognito perusie factionem gliscere, cum pontifice adversus perusinos societatem iniere". Della lega degli Aretini col pontefice Gregorio XI, nell'anno 1371 è memoria anche in Bruni, op. cit., vol. II, 508 "et societas quaedam cum Gregorio renovata est, in qua Pisani et Senenses et Aretini et Lucenses cum Florentinis fuerunt" e in Ammirato, op. cit., p. 680  "24 ottobre 1371. Lega fra Pisa, Siena, Arezzo e Lucca a difesa comune, per quattro anni col papa". Il grifone era veramente l'arme del comune perugino, la parte  guelfa poi aveva come arme e distintivo un leone vermiglio in campo bianco (Vedi Graziani, op. cit., p. LXXVII).

[261] G annota: "Captura Montis Sancti Sabini". L'Alessi (ms. cit.) scrive: "et bellum cum perusinis geritur et montis Sabini oppidum in primis abstulere Arretini insequenti anno. Ser Gorellus: cap. 7". Vedasi anche Graziani, op. cit., p. 202.

[262] Dice il Bruni (op, cit., vol. II, 480) che fin dal 1363 la compagnia degli Inglesi si era condotta nel piano di Ripoli, di poi insino alle mura d'Arezzo e che faceva ovunque grandi danni.

[263] Questa porta fu edificata a tempo del podestà Bolgaruccio da Matelica, nell'anno 1321 (Vedi gli Annales Arretinorum Maiores cit., ad an.).

[264] La festa dei santi Vito e Modesto cade il giorno 15 di giugno (Vedi Bollandisti, Acta Sanctorum, Venetiis 1742, tomo II, p. 1013).

[265] G annota: "Conflictus D. Iohannis Agudi in strata Porte Buie". L'Alessi (ms. cit.) ha: "1367. Perusini ad Classem hostiliter profecti sunt Iohannem Acutum spectantes, quem Mediolanenses in auxiulium misere. Verum Arretinis in aciem egredientibus cum Domino Flach germano ac Simone spoletano, ecclesie militie duce, extra portam buiam finito cum Acuto proelio, maximo honore profligavere, Iunij mense, die divi Viti et Modesti celebri, de quo vide in epistula ad pontificem et ser Gorellum, cap. 7°". Or la lettera di cui qui si fa cenno è da noi pubblicata in Appendice a questa Cronica (documento 5°). Da essa risulta (e notisi che è scritta proprio nello stesso giorno della battaglia) che la data  è errata: accadde invece il 15 giugno del 1368. Nella più volte citata Cronaca di Perugia del Graziani, loc. cit., p. 209, troviamo a proposito di questa battaglia: ".... Questo papa Urbano aveva fatto lega cogli Aretini, nostri naturali nemici, onde i Perugini, mandarono per aiuto a messer Bernabò Visconti, loro conlegato, il quale  mandò un buon aiuto; ma passando per lo piano, questa gente furono assalite da quelle del Papa congiunte cogli Aretini, dalle quali genti furono rotti, essendone molti ammazzati e molti fatti prigioni etc.".

[266] G annota: "Acceptio castellionis Aretini quod tenuit ecclesia et D. Iohannes, Episcopus Aretinus". Accadde questo, secondo la Cronica di Pietro Laurenzi di Città di Castello (ms. presso il cav. Giovanni Magherini Graziani), il 22 ottobre dell'anno 1369. L'Alessi, ms. cit.: "Ceterum plusculis interiectis diebus Castilionem Arretini Perusinis abstulere, Mammium ac Largnanum etc.". Da un foglio volante, inserito nel vol. III delle Provvigioni (Arch. di Castiglion. Fiorentino) risulta che le genti della Chiesa, entrate in Castiglione, commisero gravi eccessi; porta la data 1373. In esso è detto che "Errico de Sexa, vescovo Cumano, locum tenens et commisarius reformandi et statuta, ordinamenta et decreta faciendi et ordinandi in terra Castilionis Aretini, nec non alia in dicta terra per reverendissimum patrem et dominum Anglicum episcopum Albanensem Sancte Romane Ecclesie in Ytalia, citra regnum Sicilie etc., considerans immensam paupertatem hominum dicte terre et immensum dapnum passum et derobbationes passas per homines dicte terre Castilionis, tempore quo Romana ecclesia occupavit terram Castilionis predicti, etc.".

[267] G annota: "Concordia Foiani".

[268] G annota: "Exercitus contra Lucignanum". Nell'anno 1371 il comune di Siena, per causa delle scorrerie degli Aretini, fu costretto a recingere di mura il suo castello di Lucignano (Neri di Donato, op. cit., 230). Erasi Lucignano dato in accomandigia a quel Comune il  aprile  (Malevolti, Ist. Sen. II, 138).

[269] G annota: "Occupatio Monterchi" (Vedi Graziani, op. cit., p. 135)

[270] G annota: "Submissio civitatis Perusij facta Ecclesie et edificatio Cittadelle". I Perugini, dopo aver contrastato colle armi agli eserciti papali, scesero a patti colla Chiesa. Avendo Urbano V con sua bolla data in Avignone, il dì 13 ottobre 1370, commesso al  cardinale Anglico, Vescovo di Albano, di ricuperare la città di Perugia col di lei contado per la Chiesa, Conte di Sacco, Baldo di messer Francesco, Pietro di Venciolo, tutti e tre dottori, e Angeluccio di Ceccolo di Sinibaldo, sindici del comune di Perugia, a nome dello steso Comune, riconobbero e confessarono per loro legittimo sovrano il sommo pontefice. Anche nel 1378 i Perugini fecero confessione de' molti enormi eccessi e atti d'infedeltà commessi verso la Chiesa, e questa fu sempre opera degli avversari del governo popolare (Graziani, op. cit., p. 211).

[271] Vedi Alessi, ms. cit., c. 166 r: "Perusini libertatem amisere et iugo servitutis annos v pressi. Summarium. Gorellus cap. 7°". Vedi anche Graziani, op. cit., p. 202.

[272] G annota: "Hic dicit de tractatu facto per aliquos cives". Vedi anche i Ricordi di Simo d' Ubertino in Pasqui, op. cit., p. 90: "Memoria sia a me Simo ch'io fuoi preso a dì iii d'ottobre, anni 1376 e fuoi messo nelle mani di messer Pietro de messer Paulo da Spoleto podestà d'Arezzo alora; e fomme apposto ch' io dovia fare scalare il casseretto a petizione de quel da Petramala, e stetti sostenuto diciotto dì e mezzo, e albergai alla torre diciassette notti, etc." e Bruni, op. cit., ii, 544, il quale dice: "Per idem tempus [1376] apud Aretinos detestata coniuratio graviori motu civitatem concussit. Saconis enim filli cum amicis paternis suae factionis constituerunt redire in urbem ac dominatum arripere. Erant tunc Aretini in Florentinorum societate. Itaque spes omnis ac fiducia coniuratorum de inimicis florentini populi sumebatur. Nec deerant copiae vel Britonum vel Anglorum, qui opem in re conficienda afferrent. Verum ea coniuratio patefacta creditur ab ipsorum necessariis qui, sive invidia, sive indignatione quod adsciti non essent, cum aliunde rescissent, totam rem indicavere. Ob eam capti quidam coniuratorum supplicio afficiuntur, fugati reliqui, gibellinaeque factionis hominibus arma penitus honoresque reipublicae adempti". Vedasi anche Anonimo Fiorentino, Diario in Docum. di Storia Italiana, VI, 311: "Oggi a dì 29 di luglio, anno 1376, ecc.".

[273] Vedi il citato Anonimo Fiorentino, op. cit.: "Oggi a dì12  di novembre 1376, figliuoli di messer Piero Sacconi ànno rubellato una fortezza che è presso ad Arezzo a cinque miglia, chiamasi Ischifanoia. Onde gli Aretini v'andarono subito a oste e ànnolo riavuto, a' dì 17 detto mese. E ànno preso gli Aretini un figliolo bastardo ch'à nome Pieronzolo, ed ànno gli Aretini presi tutti coloro ch'erano dentro a quella fortezza. Non so quello che se ne faranno". Pieronzolo era fratello di Angelo e di Guido, e figlio di Piero, da Pietramala come apparisce dalla condanna che fu pronunziata nella città di Firenze contro Marco da Pietramala (1383, 22 aprile), per aver occupato Arezzo "per vim et violentiam" e aver tentato di trarla alla parte ghibellina, dall'esecutor di giustizia messer Andrea da Narni (Vedi tale sentenza pubblicata per intero nell'Appendice alla presente Cronica, documento num. 5. Schifanoia era di Masgio da Pietramala, secondo la glossa che fa a questi versi il cod. C.

[274] Vedasi Bruni, op. cit.: "Bellum quoque ob eamdem rem adversus Saconis filios impigre sumptum, etc".

[275] G annota: "Acceptio Pontenani et aliorum castrorum Montaneorum facta per Petramalenses".

[276] Vedi Alessi, ms. cit.: " ... Iohannes presul arretinus Schifanoiam oppidum domino Magio Petramalensi temere abstulit et ipsum cepit, et tum qui rempublicam gubernabant Lx bellum Petramalensibus iniuste intulere, et confestim aggeres supra Petramale oppidum posuere et Catenariam. Sed contra evenit; nam Pontenanum ab his ablatum est, Bagnena, Faltona, Salutium, Talla ac subinde Capraia; porro Valentianum et Arcem ac Savorgnianum: libidine igitur partium, bellum adversus scipsos movere; et ea martio mense omnia amisissent, circiter annos duos auro exhausti ac vexati bello cum Iohannes presulis opera in Lx conspiraretur etc.".

[277] C annota: "di gennaio".

[278] La Massa di Montagna comprendeva la ridente e montuosa regione del Casentino (Vedi Pasqui, op. cit., p. 247, nota 184).

[279] I vescovi d'Arezzo, Albergotti, sono due: il primo, Giovanni Albergotti (1371, luglio 18 - 1376, luglio) fu zio del vescovo di cui qui si parla. Monaco benedettino, figlio di Guiduccio di Lando degli Albergotti (Pasqui, op. cit., p. 289). A lui sono diretti i brevi pontifici che vengono riportati nelle Delizie degli eruditi toscani, tomo XIV, p. 315 dall'annotatore delle Storie fiorentine dello Stefani, e nelle quali è chiamato Seniore, per distinguerlo dal nipote. Vedasi un elogio di questo vescovo in Epistola Priorum Arretinorum ad Summum Pontifaeem Gregorium XI, de obitu Ihoannis de Albergoitis an. 1375, da copia scritta in que' tempi medesimi, Appendice a questa Cronica documento num. 5. Vedi anche intorno a lui Salutati, op. cit., I, 145. Fu vicario spirituale del Vescovo di Firenze (1361-1364) nel qual tempo tenne anche la prioria del Monastero di Croci presso Arezzo e legato pontificio a Bernabò Visconti nel 1365, per comporre le ostilità fra le genti della Chiesa e i Visconti e loro collegati. Sottentró nel vescovado di Arezzo al romano Iacopo de Militibus, nell'anno 1371. Il Cappelletti (Le Chiese d'Italia, ecc. Venezia, 1864, XVIII, 146), parla di questo vescovo e riporta anche la preziosa Epistola sopra ricordata. Non risulta quando ricevesse l'episcopale consacrazione; anche nel 1371 si qualifica col titolo di eletto. L'Ammirato non conosce questo vescovo se non appena di nome (Istoria dei Vescovi di Fiesole, di Volterra, di Arezzo, Firenze 1637, p. 224), l'Ughelli lo confonde con Giovanni III, suo nipote e successore, morto nel 1390 (op. cit., I, 427 sgg). Può vedersi intorno a lui anche Paliotti, op. cit., tomo I, 379, ove trovasi pure ricordata l'Epistola di cui si è detto sopra così: ".... et supremum diem explevit (parla della morte del vescovo Albergotti) anno 1376 mense Iulij, ut liquet ex epistola Dominorum Priorum ad Gregorium XI, quae extat in manuscripto codice, signato A Domini Equitis Ignoti Redii".

[280] G annota: "IIle dicit de tractatu facto per episcopum de Albergottis et quomodo Guelfi fecerunt insultum contra eum ad domum et derobaverunt, et etiam fuerunt mortui fratres sui et combuserunt Palatium, et Episcopus aufugit usque Petramalam". Vedi Alessi, ms. cit., "cum Iohannis presulis opera in Lx conspiraretur ac Cristoforus Guasconus cederetur, Lx cum omnipopulo episcopum ad cedem armis grassati sunt et ipsum cepere, eiusdem fratribus duobus cesis et episcopi domo illico combusta rerum omnium referta. Ser Gorellus in cap. VII". I Fiorentini in questo tempo avevano preso le armi e fatta una lega a cui avevano aderito anche gli Aretini, perchè presentivano che il papa avrebbe tolto loro la libertà. Il vescovo d'Arezzo che sperava d'esser dal papa fatto cardinale, cercò dunque di sciogliere gli Aretini dalla lega coi Fiorentini e volgerli alla Chiesa, ma il suo disegno fu scoperto. Il popolo tumultuando corse alle sue case, gli uccise due fratelli, gli bruciò il palazzo e lo fece prigioniero. Dalla prigione poi fuggì e si rifugiò presso i Pietramalesi. Questo è il racconto che giù per su fanno gli storici piú antichi come il Bruni (op. cit., vol. II, 552), sant'Antonino (op. cit., tit. XXII, cap. I, §v), il Salutati (Epistulae, pars secunda, Firenze 1724, p. 185), l'Ammirato (op. cit., p. 708 e i Documenti di Storia Italiana, vol. VI, p. 337). Quanto alla lega, alla quale parteciparono per invito dei Fiorentini anche gli Aretini per la guerra dei Fiorentini stessi con Gregorio XI, vedasi la bella pubblicazione di A. Guerardi, La guerra dei Fiorentini con Papa Gregorio XI, già citata. Fino dal 22 marzo 1375 scrivevano gli Otto agli Aretini maravigliandosi assai che il loro Vescovo ostacolasse tanto malignamente i loro desideri e li esortavano quindi a porci rimedio (Arch. di Stato di Firenze, Signoria, Carteggio, Missive, XV, 54 v). Essendosi poi scoperto il tradimento ordito in Arezzo dall'Albergotti, gli Otto di guerra di Firenze scrivono prima agli Aretini lamentandosi del fatto (Vedi Appendice a questa Cronica, documento num. 8), e poi ai Bolognesi, Perugini e Senesi ché fanno parte della lega contro il papa, in data 8 agosto 1376, esortandoli a sostenere in carcere ed inquisire diligentemente ogni cittadino aretino che già fosse entrato o in futuro entrasse nel loro territorio (Arch. di Stato di Firenze, Signoria, Carteggio, Missive, XV, 78 v).

[281] Cristoforo di Giovanni Guasconi, il quale ordì una congiura contro i Sessanta coll'opera di Giovanni Albergotti (Pasqui, op. cit., p. 247, nota 186), aveva la casa in Via Bicchieraia, di fronte alla chiesa di san Pier Piccolo, ov'è ora il palazzo della Banca d'Italia. Pare che costui morisse insieme con Tofano Ciambolini nel primo assalto che fu dato dai congiurati e che per questo si scoprisse la congiura (Farulli, Annali ovvero notizie ecc.. di Arezzo ecc., Foligno 1717, p. 77). Secondo il Gamurrini (op. cit., vol. I, 305), la cosa sarebbe andata diversamente. Avrebbe il vescovo, secondo lui, pensato di farsi padrone d'Arezzo, ma non gli sarebbe riuscito, perchè, avendo i suoi aderenti ucciso nel primo assalto Cristoforo Guasconi, uomo di sangue nobilissimo e amato dal popolo, fu causa che questo, vedendo una morte tanto ingiusta, si sollevasse contro tutta la famiglia Albergotti. Forse si potrebbe anche venire in chiaro della verità della cosa ma, essendo questo un particolare, non ci pare che meriti un lungo esame e passiamo oltre.

[282] Parlano di questo tutti gli storici citati nel racconto del tentativo che fece il vescovo. In Documenti di Storia Italiana cit., 432, si dà particolare notizia di uno dei due fratelli del vescovo di cui qui si parla: "Oggi a dì 9 di settembre anno 1377 venne a Firenze come il vescovo d'Arezzo è fuggito. Onde il popolo d'Arezzo, veggendo questo, si corsono, a casa il palagio del Capitano, gridando: al fuoco al fuoco! E 'l Capitano, avendo paura del furore del popolo, si aveva preso nel palagio suo un fratello del vescovo, per contentare la giente che gridavano, sì 'l gettò a terra del palagio e sì gli tagliarono il capo, sì che la giente si racchetò. A l'avanzo e sia tosto". Quanto al supplizio a cui qui si allude vedi De Bonis, op. cit., canto 19°.

[283] Il Gamurrini (op. cit.) dice esplicitamente che il vescovo fu arrestato e che poi corruppe le guardie col denaro e se ne fuggì presso i Tarlati, signori di Pietramala, i quali, sebbene egli fosse guelfo, benignamente lo accolsero e lo difesero. In F trovasi a questo punto la glossa: "Qui se suspendit per fenestram, die 7 settembris 1377, et aufugit versus Petramalam". L'una cosa non esclude l'altra, egli può aver indotto le guardie a lasciarlo scappare in questo modo. Coluccio  Salutati, in una sua lettera si lamenta fortemente di ciò cogli Aretini: "Nunc autem, quod non sine ingenti dolore percepimus, tam detestandi criminis auctor et princeps de mediis carceribus et catenis quibus tenebatur, aut teneri debebat, evasit. O nimia cecitas," etc. „ (Epistulae cit., p. 105 anno 1377, settembre). Vedi anche Alessi, ms. cit.: "Iohannes presul e carcere fugit ad Petramalenses, quos infestos habuerat, et benigne excipitur, etc.". Pare, per quanto si può ricavare dalla citata lettera del Salutati, che gli Aretini, fuggito che fu, si contentassero di imporgli una multa, per pagare la quale dovè impegnare la mitra e il pastorale che poi riscattò nel 1385 con una colletta fatta a suo favore dai suoi concittadini (Burali, op. cit., pp. 88-89).

[284] Essendo il vescovo Albergotti co' suoi fautori fuggito in esilio e rifugiatosi presso i Pietramalesi, questi per le esortazioni loro muovono contro i Sessanta, che intimoriti richiamano il vescovo in città, salvo, come è detto sopra, il pagamento di una multa. Vedi Alessi, ms. cit., "et ad bellum sollicitati Petramalenses adversus Lx properant, etc.". Il vescovo ritornò indubbiamente, l'anno 1378; il 13 agosto Coluccio Salutati (op. cit., p. 185) gli scrive: "Postquam vos tam honorabiliter atque concorditer ad se Vestra Patria revocavit, dignemini, tamquam Pastor bonus, oves vestri gregis diligentissime custodire ne pereant, et pro salute et statu vestrae civitatis studiis continuis vigilate". Quanto all'essergli stata imposta semplicemente una multa per il gravissimo delitto commesso d'aver tentato di sollevare la sua città contro i Sessanta, vedasi la citata lettera del Salutati (an. 1377, settembre 8), colla quale lamenta che gli Aretini si siano lasciati sfuggire di carcere il vescovo (op. cit., parte I, p. 105). Morì l'Albergotti non prima del 1390, potendosi ciò inferire con sicurezza da una sentenza di quell'anno (Vedi Aliotti, op. cit., p. 607), e tanto povero in quegli ultimi anni di sua vita, che dovè la Fraternita della Misericordia d'Arezzo dargli a titolo d'elemosina 300 fiorini d'oro (Arch. Capitolare D'Arezzo, Excerpta ex archiviis variis, vol. I, p. 101, Ex libro A, secundo Deliberationum dicte Fraternitatis laicorum Aretii, p. 40, anno 1381, dicembre 30). Vedi in Appendice a questa Cronica il documento num. 9.

[285] Alessi, ms, cit.,: "qui [Sexaginta] mox territi fiorentiam legatos misere qui de pace supplicarent petramalenses; quo impetrato, Ubertinis, Albergottis et Bostolis Arretium redire concessum, Lx fraudolenter operatibus reditum". Vedasi Salutati, op. cit., ove trovasi una lettera agli Aretini, (27 settembre 1377) colla quale li esorta alla pace e alle riforme civili e dice loro che non si curino dei Pietramalesi che bramano tirare in guerra la loro città.

[286] G annota: "Hic dicit de pace fatta per Comune Florentie inter Guelfos Aretinos et Petramalenses et remissi fuerunt ex patto Bostolenses, Ubertini et Brandalli". F aggiunge: "et Albergotti". Vedi Documenti di Storia Italiana vol. VI, p. 401 e 403, ove è detto che prima, il 19 settembre 1379 "venne in Firenze d'Arezzo 'n mazziere di nostri Signiori, come gli Aretini ànno fatto "pacie tra loro", e poi il 15 di marzo 1380, "venne in Firenze un ulivo a casa di nostri Signiori, come gli Aretini d'entro avieno fatta pacie con quel di fuori". Già da tempo si adoperava la repubblica a pacificare quel Comune coi fuorusciti, al qual fine erano anche venuti a Firenze oratori di Arezzo ed anche, l'un dopo l'altro, come pare, Azzo e Farinata degli Ubertini (Vedi Arch. di Stato di Firenze, Libri delle Consulte ad. an. e il Reg.  delle Lettere missive in più luoghi). La pace cogli Ubertini sappiamo con precisione quando fu conchiusa, potendosi leggere nel Reg. 18 delle Lettere cit., c. 63 "Vobis [scrive la Signoria al comune di Arezzo ai 16 di settembre 1379] ad gaudium et letitie cumulum nuntiamus, hodie, seconda hora noctis, operante Divino Numine, a quo tamquam omnium bonorum autore, pax et concordia derivatur, inter oratores vestros et nobiles de Ubertinis, optatam pacem fuisse, iustis et equis conditionibus, conclusione debita, terminatam". Possiamo anche leggere diverse lettere del Salutati, nelle quali non si fa altro che esortare gli Aretini alla pace: notevoli sopra tutte una del 1377 e due del 1378. Egli grida: Pace, pace! Attenti al governo della nave, che non naufraghi, i nemici vi circuiscono ogni giorno come leoni ruggenti. "Nonne scitis, ipsos [hostes] quasi leones rugientes vos quotidie circuire, ut in sua crudelitate devorent et absumant"? (op. cit., pp. 139 e 186; parte seconda p. 191). Gli Otto di Balla pronunziarono poi un Lodo fra il comune di Arezzo e i nobili di Pietramala (1378, settembre 11), nella loro residenza, nel Palagio dei Priori, con cui dettero al comune di Arezzo e di Castiglione Aretino alcuni castelli che i Pietramalesi volevano far apparire come di loro proprietà, mentre invece erano sempre stati del comune di Arezzo e di Castiglione Aretino (Capitoli del comune di Firenze, ecc., vol. II, XII, 33)

[287] Agli espulsi furono confiscati i beni. Il 21 febbraio, Cecco di messer Giovanni de' Bostoli domanda al podestà la restituzione dei beni confiscatigli "tempore expulsionis de civitate Aretii de ipsis Bostolensibus„ (ARCH. CAPITOLARE DI AREZZO, Carte di varia provenienza, num. 415, Sinopsi Paci). Dal 6 aprile al  novembre, Cecco di messer Giovanni de' Bostoli fu potestà di Castiglione Aretino.

[288] G nota a questo punto: "Hic dicit quod Bostolenses cum eorum sequacibus, die veneris sancti, expulerunt D. Azzonem de Ubertinis et multos cives eorum sequaces Guelfos de numero et consilio 60". In una lettera inedita del citato ms. Redi , c.  v (BIBL. MARUCELLIANA DI FIRENZE), scritta nell'anno 1364, troviamo rammentato Azzo degli Ubertini come Capitano del popolo del comune di Todi. La stessa lettera ci fa sapere che il comune di Arezzo deliberò che non si facessero rappresaglie contro il comune di Todi, mentre che durava in ufficio il sopra ricordato Azzo degli Ubertini. Lo stesso ALESSI, ms. cit., Op.cit: .... "In die Veneris sancti, cum pax fuerit dolo inita, Albergotti et Bostoli cum sequacibus in insidias quas tendebant prolapsi, a Guelfis eiciuntur, ex quo dominus Azo Ubertinus fugam ocissime arripuit, etc. „.

[289] G annota: "Hic nominat guelfos expulsos„ Vedasi Alessi, ms, cit., loc. cit., "1378 Saxoli, Vascones, Donatus Ugucci, Philippus de testis, Franciscus Ser rigaccius, Iohannes damissa, Franciscus Ser guadagnus, Abbas Sancte Flore qui episcopatus morabatur, Niccolaus Manni, Magius Ser Panucci, Iacop mozus, Gherardinus sapiens, Altomeri postremo et Ghinalducci fugam arripuere etc. „.

[290] Egli fu Nicolaus Bandinucci di Arezzo (Aliotti, op. cit., tomo II, p. 374, nota; Pasqui, op. cit. p. 248, nota 193). Vedi anche più innanzi, cap. XI, v. 76 e relativa nota. Intorno alla congiura ordita dai Guelfi nel marzo 1379, nella camera dell'abate di Santa Flora, ed alla sommossa avvenuta il 6 del seguente mese contro i Sessanta, vedasi Anonimo, Diario in Documenti di Storia Italiana, loc. cit., p. 394: ... "E oggi, a dix d'aprile anno 1379, vennono lettere di Arezzo al nostro [Comune], com' Arezzo è sotto l'arme, e dicievano come i ghibellini d'Arezzo volieno cacciare i guelfi d'Arezzo». Vedi anche la Cronichetta già citata di incerto autore dal 1301 al 1379 in Cronichette ecc. p. 208.

[291] Vedi la nota i in questa stessa pagina.

[292] Alessi, ms. cit., loc.cit.: «....Quapropter interni Guelfi munerum sortes novas dixere, et omnia tyrannice invasere exulum, ac graves exationes et honera sanxere etc. „.

[293] A San Giovanni d'Acri, meta comune dei pellegrinaggi di penitenza nel Medio Evo.

[294] G a questo punto annota: «Hic dicit de liga fatta per illos de Petramala, Ubertinos et Guelfos expulsos „. Intorno a questa lega di cui qui si parla vedi anche Alessi, ms. cit., loc. cit. ... Verum miselli qui exacti fuerant, tametsi pridem petramalenses et Ubertinos infestissimis odiis prosequerentur, domo eletti, simultate omni omissa, adinvicem prius conciliati, fedus cum Petramalensibus et Ubertinis iniere, quis facile annuentes petramalenses et ubertini, unitis castris et conflato exercitu, adusque suburbia Aretij grassati sunt etc. „.

[295] C annota:  Nullum malum impunitum „.

[296] Vedi Neri di Donato, op. cit., loc. cit., 267, e i Documenti di Storia Italiana più volte citati, p. 415: "Oggi, a di xviiii di luglio 1380, gli Ubertini e Tarlati ànno posto campo ad Arezzo, ed ànno preso molto bestiame nel contado d'Arezzo, e sonvi intorno col molta giente". Il giorno innanzi ai fatti qui accennati, una grande Consulta di Richiesti si era tenuta in Firenze, per far prova al solito di pacificare gli usciti con quei di dentro.

[297] Cf. Dante, Inf., I, V. 5.

[298] C annota: "In questa guerra si puote credere che fusse quando il Conte messer Azzo e molti altri furon cacciati d'Arezzo che perciò poi egli e molti feciono un procuratore a far pace coi danari e simili cose che è il mandato in San Bernardo col num. 663 del anno  1380„. E nel margine destro dello stesso codice è aggiunto: "questo anno il sapiente e prudente messer Martino Brandagli fu podestà del monte San Savino per la città d'Arezzo come in una scritta che ho con il num. 96: albero de' Brandagli, a c. 7.„ Vedi per questo albero lo stesso cod. C, a c. 7. Vedi anche Alessi, ms. cit., c. 166 v: " 1379 Guelfis, pace inita cum petramalensibus, bellum atrox hoc anno geritur et utrinque et centuricens capti, etc. „.

[299] G annota: "Acceptio Castellaris facta per Angelum Francisci„. Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit.: m et "Ludovico Castellare oppidum interceptum, etc.„ e ARCH. DI STATO DI FIRENZE, Signoria, Carteggio, Responsive, 1358, n. 28 e 29.

[300] G annota: "Repositio Pantaneti iacta per Bartolomeum de Petramala„. Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit.: "et tunc a Bartolomeo petramalensi cum inquilinis Anglaris et Monterchij Pantanetum conditum, Ornina vero reaptata a Lodovico, etc. „.

[301] Azo degli Ubertini. Vedasi ricordato sopra al v. 13. Morì in Siena il dì 8 agosto 1385; così nel precitato Anonimo, Diario etc., loc. cit., p. 462: "Messer "Azzo Ubertini e quelli di Pietramala ricomincioro la briga contro gli Aretini, e commissero Bostolo, signore d'Arezzo, e ardeano ciò che poteano. E poi per mezzo di messer Carlo entraro questi in Arezzo il 14 di luglio„. Vedi anche. Neri di Donato, op. cit., loc. cit., 267. G annota a questo punto: "Acceptio Ciggiani et repositio Oliveti iacta per dominum Azzum„. Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit: ".... et D. Azo ex Ubertinis Olivetum condidit denuo Ciggianum ditionis sue faciens Montotum deinceps et Vallem Ambre „.

[302] G annota: "Acceptio Marciani facta per Lodovicum de Petramala„ e Alessi, ms. cit., loc. cit.: "... At Lodovicus Marcianum et Guido reedificavit Sintilianum„. Il Comune, affine di guerreggiare i fuorusciti chiede soccorsi al podestà di Castiglione Aretino, Cecco di Giovanni de' Bostoli, e il Consiglio, vedute il  agosto  le lettere dei Priori Aretini, colle quali domandavansi cinquanta fanti pro succursu Corezi obsessi per Comitem Guidonem de Bagno„ ne manda venti cinque. Richiesto ancora di altri duecento fanti "pro succursu Pianetti„ il 25 agosto, lo stesso comune di Castiglione delibera di inviarne cinquanta, e il giorno appresso altri novanta. (Arch. comunale di Castiglion Fiorentino, Provvigioni dal 138o al 1381, cc. 4 t, 5, 12, 13t, 14)

[303] C annota: "Cacciati li sopradetti Ubertini, Petramali e Brandagli, restorno al governo e alti onori li detti Bostoli, Albergotti e Camaiani„. Secondo l'Ammirato (St. Fior., p. 751) i Bostoli e gli Albergotti, cacciati i loro avversari, erano restati soli signori di Arezzo, e vi chiamarono Carlo di Durazzo.

[304] Così nel più pretto dialetto aretino, per "vuote le cassette „ (Vedi Pasqui, op. cit., p. 248, nota 198).

[305] Non so, pensa l'Ammirato (op. cit., p. 749), come mai Carlo di Durazzo sia detto "della pace", essendo stato autore di molte guerre in Italia e in Ungheria.

[306] Per l'itinerario che seguì Carlo della Pace nel recarsi alla conquista del regno di Napoli, può vedersi: Pitti, op. cit., pp. 26-27 e per maggiori particoari p. 114. Da Verona muove Carlo col seguito degli esuli fiorentini, passa il Po al Ponte alla Stellata, poi viene in quel di Bologna, a Castel San Piero, a Massa del Marchese, a Lugo, a Imola, indi a Faenza, a Forlì, a Cesena, a Rimini, a Urbino, a Cagli, a Gubbio, alla Fratta, a Borgo San Sepolcro, ad Anghiari ad Arezzo, ecc.

[307] G annota: "Missio Carcascionis ad Dominum Carolum de la pace ad dandum sibi civitatem Arettij". Tale Carcascione era della famiglia De Sirinaldis o De Florinaldis, secondo le note dei codd. B ed F. Fu governatore a Gubbio nel 1380 (Chronicon Eugubinum MURATORI, Op. cit., XXI, 938). Di questa dedizione spontanea di Arezzo a Carlo di Durazzo parlano, per esempio Bruni, in St. Fior. Vol. III, p. 32 e nell'altra sua opera Rerum suo tempore gestarum Commentarius (Muratori op. cit., XIX, 915); inoltre il Chronicon Regense (Mrator op. cit., XVIII, 88) e gli Annales Bonincontri (Muratori, op. cit., XXI, 39).

[308] Vedi quanto all'esercito che seguiva Carloi Durazzo, Bruni, Commentarius cit. in Muratori op., cit., loc. cit. "Carolus igitur satis magnis Hungarorum copiis,etc.„. Pitti, op.cit., loc.cit.; Ser Naddo da Montecatini, Memorie storiche etc. in Delizie degli eruditi toscani sopra ric. vol. XVIII p. 31. Era infatti il re Carlo III aiutato dal re di Ungheria nell'impresa del regno di Napoli (Vedasi Pandolfo Collenuccio e Mambrino Roseo, Compendio istorico del regno di Napoli Venezia 1591, Prima parte, p. 85), essendo nipote di quel re. E il già citato Pitti (op. cit., loc. cit.) ci fa anche sapere che egli era generalissimo delle truppe del Re Luigi d'Ungheria. Vedasi inoltre STEFANI, op. cit., rub. 860 " ... Di che del mese di luglio [l'anno è il 1380] lo detto messer Carlo passò d'Ungheria, e venne in Lombardia a Verona con  Ungari, e quivi o per poco consiglio, o perchè si fosse, si stette in Verona, e di là, doppo circa 15 dì passò Po, e stette in sul Bolognese circa altri 15 dì ed a Rimine dirizzò sua via, e stette poi là alquanti dì „. I predetti soldati Ungheresi poi si partirono dal re Carlo nel mese di novembre dello stesso anno e condotti al soldo de' Genovesi per messer Baldassarre Spinoli, partiti ed iti in quello di Lucca per passare a Serezzana o alla  Spezia, ed ire a guerreggiare messer Bernabó, che avea sue gente in quello de' Genovesi, la brigata di messer Bernabò li fece incontro e non gli lasciò passare„ (Stefani, rub. 880) e Neri di Donato (op. cit., loc. cit., 270) ci fa sapere che di costoro parte ne affogò parte ne morì di ferite, parte di malattie.

[309] Vedi nota 307.

[310] Vedi Alessi, ms. cit., c. r. (Ex documentis antiquis privatis, vernacula lingua annotatis excerpta, que post secundo eversam urbem Aretii a Florentinis in latinum verti): "Anno salutis 1380 Aretium datur Regi Carole. Sub hoc anno .vi. septembris, Dominus Gabriel de Gabrielis de Eugubio, cum bellum gereret adversus filios Iohannes Cantucci, atque impar virium, Carolo Pacis, regi Apuliae urbis dictionem tradidit, etc." ed anche Stefani, op. cit., rub. 869, il quale però non concorda nella data. Secondo lui, nel 1380 del mese di agosto, si partì Carlo da Rimini "e andò verso Agubbio, ed intrò dentro, per introdutto di messer de' Gabbrielli, vescovo d'Agubbio, etc.". La causa per cui il vescovo Gabbriele de' Gabbrielli dette Gubbio a Carlo, ce lo dice lo stesso Stefani (op. cit., loc. cit.), fu il timore di non poter difendere quella città "contro la volontà de' Perugini e dei suoi consorti e de' nimici dentro". Si immaginò che Carlo lo avrebbe molto aiutato e soccorso e per questo lo mise dentro come signore.

[311] Ser Bartolomeo pone l'entrata di Carlo in Arezzo il 3 di settembre. Vedi anche Alessi, ms. cit., loc. cit., ove egli nota l'errore di ser Bartolomeo così: "... Itaque xiv septembris, equites Caroli Arretium acciti, postero  die ab his Carole intra moenia, maximo honore excepto, qui, in aree cassari prefetto cum presidio relicto, Romam absit, atque, cum regni coronam accepisset, legatum Arretium misit Robertum Nole comitem, ea qua tempestate Iohannes Agutus Arretium se contulit. Verum diem adventus Caroli aliter Gorellus enarrat, vide supra". Rimanda evidentemente alla c. 167 v., ove dice: "Anno Christiane salutis 1380. Die igitur .iiJ. septembris, sabbati luce, maxima omnium alacritate Carolus ab Arretinis excipitur etc.". È inoltre importantissimo un ricordo di contemporaneo aretino, Matteo di Vanni, che così scrisse sulla coperta in pergamena di un suo libro di ricordanze familiari: "MCCCLXXX, dì xiiii di setembre entrone misser Carlo in Arezzo, e prese la signoria de la cità, e gioraro e' priori e castellani del cassero la fedeltà en sue mani. Fone e' venardì, e' giovedì de denanzi c'era venuto el suo vicario e prese la signoria per lui.".  Arch. della Fraternita di Santa Maria della Misericordia di Arezzo, Libri amministrativi diversi, filza VIII. Tutti poi i cronisti sono concordi nel fissare al 14 di settembre l'entrata di Carlo in Arezzo (Vedi Stefani, op. cit., rub. 870, Ammirato, op. cit., p. 751). Il citato Anonimo (Diario ecc., loc. cit., Vol. VI, p. 416) narra: "Oggi a dì .xxiiij. di settembre (l'anno è il 1380, e bisogna sottintendere: venne novella) da' nostri ambasciatori, come in Arezzo sono entrati cl, lancie di messer Carlo della Pacie, ed evvi dentro, e sono co' lui messer Lapo da Castiglionchio e Tommasso Cavalcanti, e dicesi che sono per venire più innanzi„. Stette Carlo, mentre fu in Arezzo, in camera Palatiii Comunis, già abitazione del Podestà. Vedasi l'atto con cui egli costituisce Dominum Guglielmum episcopum Iauriensem per 10.000 fiorini d'oro che doveva avere dal comune di Firenze, in Capitoli del Com. di Firenze, vol. II, xiii, 65. 

[312] Qui il poeta accenna alla sommossa avvenuta il 13 novembre 1381, al partire del vicario di Carlo (Vedi Ricordi di Sima d'Ubertino in Pasqui, op. cit., p. 90), oppure all'eccidio avvenuto in Arezzo nell'entrata della Compagnia di san Giorgio, nel  novembre dello stesso anno e di cui è detto più avanti.

[313] G annota: "Hic dicit de homicidio facto per Thomasinum de Panzano de quodam Mone Ambaxiatore Comunis Florentiae„. L'uccisione di costui è con varia copia di particolari narrata dai cronisti contemporanei. Vedi Bruni, op. cit., vol. III, p. 32; Ser Naddo da Montecatini op. cit. loc. cit. e Stefani, op. cit., loc. cit., il quale anzi fissa il tempo assolutamente dicendo che fu ucciso quasi un'ora prima che Carlo entrasse in Arezzo. Giovanni di Mone fu nel 1379 tra i gonfalonieri di giustizia di Firenze (Reumont, op. cit., p. 34). Sant'Antonino (op. cit., tit. XXII, cap. i, § vi) ci fa sapere che era stato uno degli Otto nella guerra così detta degli Otto Santi ". ... unus fuerat ex otto viris qui bello fuerant presidentes „ e l'Ammirato (op. cit., p. 751), dice: "Era Giovanni di Mone benchè nato d'oscuri principi nella città per le civili discordie grandemente cresciuto, stato degli Otto della guerra, ricevuto l'ordine militare, esercitato il supremo magistrato della Repubblica e trovatosi in molte ambascerie„. Allora si trovava ambasciatore ad Arezzo per confortare gli Aretini che non dessono la città a Messer Carlo„ (Pitti, op. cit., p. 26). Lo uccise un fuoruscito fiorentino, certo Tommasino da Danzano, che troviamo nella nota dei condannati da messer Cante Gabrielli da Gubbio in Firenze, per un trattato che ivi si scoprì l'anno 1379, e poi, di nuovo lo stesso anno per altro trattato che fece seguito a quello (Stefani, op. cit., rubb. 814 e 826). Alcuni dei cronisti ricordati ci fanno anche sapere il nome di altri due fuorusciti, cioè un Moscone Beccanugi e un Bartolomeo di Gherardaccio da Prato, ma forse esso solo lo aiutò nell'opera scelerata. L'Alessi (ms. cit., loc. cit.) male interpetrando la cronica di ser Bartolomeo o sunteggiando dal suo codice forse un po' guasto, in questo punto, intende che l'uccisore fosse un aretino. Il popolo di Firenze arse di sdegno all'annunzio di tale uccisione, furono presi gravi provvedimenti contro gli uccisori e le loro case distrutte (Sant'Antonino, op. cit., loc. cit.; Bruni, op. cit., loc. cit., etc.). Vedi anche Docum. di Storia Italiana, Vol. VI, p. 416: "Oggi a' dì xvi di settembre vennono in Firenze novelle d'Arezzo come messer Giovanni di Mone era istato morto in Arezzo e diciesi che l'uccise Tommasino da Panzano e l' Moscone Beccanugi e un Bartolomeo di Gherardaccio da Prato. Iddio gliene paghi„. Poi Firenze volle riaverne il cadavere e gli fece solenni funerali in Santa Reparata il 28 dello stesso mese di settembre (Vedansi gli stessi Documenti di Storia Italiana, loc. cit. p. 417). Riporteremo una lettera di Coluccio Salutati a Carlo della Pace che era rimasto molto indignato di quella uccisione e aveva fatto dire a quelli che l'avevano ucciso che non gli venissero avanti. Vedasi a proposito di tale gravissimo delitto Pitti, op. cit., pp. 26 e 27 e notisi che egli fu testimone del fatto che narra. La lettera del Salutati poi è nella stessa opera del Pitti a p. xxxi; manca nell'edizione che delle lettere del sopra ricordato umanista ha curato F. Novati (Roma 1891) e che abbiamo quasi sempre citato. Si vede di qui quale fosse il pietoso sentimento della patria verso l'ucciso suo caro cittadino. "Decrevimus, Clarissime Princeps, quod cadaver et ossa nobilis Militis D. Ioannis Monis, qui non odio suo sed patriae fuit extinctus, in Urbem pro qua crudeliter oblii reportetur, ut locum nativitatis suae, cui vitam, quam naturae debebat, exolvit, possideat mortuus, quem non potuit repetere vivus, ut maiorum suorum ossibus et cineribus coniungatur, quos suae mortis gloria reddet cunctis temporibus clariores. Dignetur igitur vestra clementia piae, et officiosae patriae benigne concedere excellentiae vestrae salvum conductum in tali forma, quod fili, quos ad afferendum hoc funus lacrimabile transmittimus, venire, stare atque redire valeant incolumes et illaesi. Dat Florentiae, die 17 sept. 3 Ind. 1380".

[314] Vedasi Neri di Donato, op. cit., loc. cit., 270: "Tomasino da Panzano uccise in Arezzo uno Cavaliere Ambasciatore del Comuno di Firenze e non fu chi li dicesse mal facesti, ma la repubblica fiorentina ordinò che quelli da Panzano fussero ribelli, se non ammazzassono, infra uno anno, o facean morire Tommassino„. Lo uccise un suo cugino, Giovanni di messer Luca, in Siena, o per non essere dichiarato anche lui rubello, o perchè gli furono promessi 1000 fiorini e la restituzione dei beni familiari e il permesso di trarre di carcere suo padre, ch'era carcerato a Faenza. Lo ammazzò dunque e recò la chiave della casa, dove morto l'avea lasciato ai Signori (Stefani, rub. 889. Vedi anche Ammirato, op. cit., p. 753). Neri di Donato (op. cit., loc. cit., p. 271) dice: " l'ammazzò sul letto in casa, in Siena, di dietro a' Cinughi; e fu de' maggiori mali e de' maggiori tradimenti che mai s'udisse. Erano cugini carnali. Lasso la scurità de' modi; e questo fu di gennaio etc.".

[315] Vedi Dante, Purg., VI, 97 sgg.: O Alberto Tedesco, etc. Una consimile invettiva leggesi nel ricordato Liber Aretii di G. DE Bonis, al canto 33: " Karlo Durazo dicto de la pace | ma al contrario che se' de la guerra, | sì che dir ben di te, ogni uom si tace, | tu hai el tu' reame e la mi' terra | a tal condocto collo tuo consiglio, | che l'una parte e l'altra s'afferra, | e non si po' fidare padre del figlio | il dico per Urbano papa sesto | et per Iohanna a cui desti di piglio ! et per quel d'Ongaria c'ai fatto mesto; | di me non cal parlare, che sto a puncto, | che so' tutta di rocta al teschio lesto, etc.„.

[316] Vedi Dante, Purg., XX, vv. 116 e 117 e Fazio degli Uberti, sonetto sopra l'Avarizia, op. cit., p. 143: "Di quel possi tu ber che bevve Crasso„.

[317] Vae tibi, terra, cuius rex puer est (Ecclesiaste. CX, v. 16).

[318] L'Ammirato (op. cit., p. 749) si maraviglia, come abbiamo detto, che Carlo di Durazzo avesse nome Carlo della Pace, essendo stato autore di molte guerre in Italia e in Ungheria. Tal nome (Pitti, op. cit., p. 26) si ebbe per la famosa pace ch'egli promosse fra i Veneziani e i Genovesi collegati co' Padovani, col Patriarca d'Aquileia e col Re Luigi d'Ungheria delle cui truppe Carlo era generalissimo, poco curandosi però di condurla ad affetto, essendo tal pace stata conclusa per l'intromissione di Amedeo VII di Savoia che ne firmò i patti in Torino l'anno 1381. In lui molto speravano i Guelfi, essendo discendente di quel Carlo d'Angiò che vinse Manfredi e rialzò il partito guelfo. Coluccio Salutati, segretario della repubblica fiorentina, scrisse per lui una delle sue forbitissime lettere esortandolo ad essere mediatore di pace (Salutati, op. cit., Roma , vol. II, 11). Ecco con quali parole piene di ardente passione lo esorta santa Caterina da Siena a venire in aiuto della Chiesa: "Adunque venite et nascondetevi ne la archa de la santa Chiesia sotto l'ale del vostro patre Papa Urbano VI, el quale tiene le chiave del sangue de Christo. Io so che se sarete virile, vi studiarete di compire la voluntà di Dio non curando di voi medesimo, altramenti no. Et però dixi ch' io desideravo di vedervi cavaliero virile et così vi prego per l'amore de Christo crocifixo che siate, che grande vergogna è a' signori del mondo e spiacevole a Dio di vedere tanta fredeza ne li cori loro, che per ancora altro, che con parole non hanno subvenuto a questa dolce sposa  male darebbero la vita, quando de la substantia temporale et adiutorio humano li fanno caro. Credo che grande reprehensione n'haveranno; non voglio che facciate così voi, ma con grande alegrezza diate la vita sel bisogna, ecc. (A misser Carlo da la pace, dovendo venire in adiuto de la sancta Chiesia, el quale poi fu di Puglia, o vero, di Napoli. Al nome di Iesu Christo crocifixo, et di Maria dolce),,. Santa Caterina da Siena, Opere, Siena, 1713, tomo III (Epistole), p. 41.

[319] Gli Aretini avevano, meschini, chiamato Carlo di Durazzo e gli si erano dati spontaneamente, perchè, come dice il Bruni (Commaentarius etc., loc. cit.), speravano di potere col suo aiuto schiacciare addirittura i loro esuli, uomini di diverse fazioni, che opprimevano con lunga e difficile guerra la misera città, ma furono ingannati.

[320] G annota: " Hic dicit de cavalcata fatta per D. Karolum cum gente et exititiis Florentinis et acceptio Castri Sancti Brancatij„. È San Pancrazio presso Cavriglia in Val d'Ambra. Qui si accenna alla mossa fatta da Carlo contro i Senesi e i Fiorentini: quando egli vide però i loro forti preparativi, costretto a firmare un accordo coi medesimi (8 ottobre) " pauroso e vituperato „ si riparò nuovamente in Arezzo " imperocchè gli usciti gentiluomini d'Arezzo ogni di cavalcavano sulle porti,, Neri di Donato, op. cit., loc. cit., XV, 270. Ricevè anche denari dai Fiorentini acciochè non si occupasse più di rimetter in patria gli esuli. Vedasi Bruni, Commentarius, etc. loc. cit.: ".... Eorum [degli esuli] precibus motus, Carolus Florentiam petere contendit, quasi eos in patriam vi et armis reducturus. Nec rectum iter tenuit, sed per agrum Senensem profectus, circa Stagiam et Bonitium, Florentini agri fines, ingressus est. Inde, seu non succedente conatu, seu pecunia delinitus, re infecta, Aretium rediit„. Il Pitti (op. cit. p. 27) dice che Carlo non proseguì per mancanza assoluta di denari da pagare i soldati. Avuti proprio qui nel Senese 25,000 fiorini d'oro dal comune di Firenze, si ritirò ad Arezzo, e abbandonò in tal modo gli esuli che tanto avevano in lui sperato e confidato, mancando della promessa che avrebbe cavalcato fin presso alle mura di Firenze per provare se il popolo di quella nobile città si fosse voluto riconciliare con essi.

[321] I  fuorusciti fiorentini lo avevano seguito, sperando che li avrebbe aiutati a ritornare in patria, ma furono tutti delusi: "E sendo là [in Arezzo tutti noi usciti di Firenze (racconta il Pitti, op. cit., p. 27) a chui egli aveva promesso di cavalchare infino presso a le mura di Firenze, ci dolemo cordialmente con lui, e fu il dicitore messer Lapo da Chastiglionchio. Risposeci col viso basso, lagrimando, che quello [ricevere gran somma di fiorini d'oro da Firenze col patto di non aiutare gli esuli] avea fatto per nicistà, promettendoci etc.". Carlo aveva stipulato delle convenzioni col comune di Firenze per mezzo di ambasciatori che furono messer Rosso di Ricciardo de' Ricci, messer Bettino di messer Covone Covoni cavalieri, Iacopo di Michele del Rosso e Salvestro di Giovanni Cortenuova. Tra queste convenzioni una fu che e' non potesse raccettare in Arezzo e in Gubbio i ribelli di Firenze che gli sarebbero stati dati in nota (Pitti, op. cit., loc. cit.). In questo accordo Firenze si obbligava verso Carlo di Durazzo a non far guerra ad Arezzo (Vedi i Capitoli del comune di Firenze, vol. II, xiii, 59, e Docum. di Storia Italiana VI, 419, nota). Lo Stefani, che ha qui per noi la più grande importanza, per l'alto  incarico che dal comune di Firenze gli era stato affidato (vedasi per questo la dottissima prefazione alla sua Cronica nella nuova edizione muratoriana Tomo XXX, parte 1a, p. cxvi), ci dà una preziosa notizia intorno a questi accordi, fra il comune di Firenze e Carlo. "Si conchiuse " egli dice " a di 9 di notte vegnente il dì 10 d'ottobre (l'anno è il 1380), e li 20,000 fiorini io portai, e feci il pagamento, e ricevetti le scritture in nome de' Fiorentini, e gli Ungari n'ebbono 10,000 e messer Carlo 10,000. Gli Ungari si partirono e vennono a Poggiobonizi sopra lo Monte Imperiale come amici, e adì 11 si fece il pagamento, e a dì  12 si partirono gli Ungari, e andarne per Val d'Elsa, e a dì detto messer Carlo si partì de Strova di quello di Siena, e andonne sotto Monte Reggioni e tirò per Chianti, e andonne ad Arezzo, e sotto mano, mano mostrando messer Carlo esser suoi, e che gli Ungari non ne sapessero nulla, fiorini 5000, oltre a' 40.000, ebbe„ (Stefani, op. cit., rub. 874). Da queste testimonianze apparisce chiaro quanto sia giusto il giudizio che di lui fa il nostro ser Bartolomeo, quando lo chiama ipocrito e avaro. Così fu veramente, piuttosto che un citolone, ossia fanciullone, come lo qualifica Neri di Donato (op. cit., loc. cit., 270), che parlando di messer Giovanni Bano, capitano degli Ungari, al soldo del Durazzese, dice: ".... che subito si partì che cento anni li parve per andare a Genova, per lassare quel citolone„. Quanto alle misere condizioni in cui rimasero alcuni esuli abbandonati così da Carlo, vedasi in Pitti, op. cit., loc. cit., ciò che egli dice di sè e di altri suoi compagni di sventura, i quali si partirono per miseria da lui che al pari degli altri non aveva più denari. Vedi anche Neri di Donato, op. ci, loc. cit., p. 270: "E così rimase solo messer Carlo colli Taliani, forse con 1500 cavalli; e li vili usciti di Firenze diserti con tanti saramenti, tante lettare di sua mano, tanti sugelli pendenti, grifati e scherniti per tutto,,. In lui avevano questi poveri esuli molto sperato, perchè era discendente di quel Carlo d'Angiò che vinse Manfredi e rialzò il partito guelfo di Toscana. "Erat enim Carolus regio genere a Carolo illo qui Manfredum superavit Guelforumque partes per Etruriam restituit exortus„ (Bruni, Commentarius etc. loc. cit., 915).

[322] G annota: "Qualiter data sibi fuit custodia cassaretti et, apprehensa custodia totius civitatis, recessit et dimisit vicarium suum Episcopum Iauriensem„. Il Pasqui (op. cit., p. 249, nota 206), avverte che da messer Bostolo di Guiduccio Bostoli (vedi la nota seguente) fu consegnato a Carlo il casseretto. Quanto a questo vicario del re, egli fu un Guglielmo, frate minorita (vedi Stefani, op. cit. rub. 862), vescovo di Güör Raab (latino Iurìnum) in Ungheria, suffraganeo di Strigonia dal 1377 al 1380, stato vescovo di Siena dal 1371 al 1377. Vedi Eubel, Hierarehia cathol. medii aevi, I, 203, 469. Il 5 di dicembre 1380 il vescovo sopradetto era già insediato come vicario di Carlo in Arezzo e aveva la sua residenza nel Palagio del Comune, già abitazione del Potestà e dove Carlo stesso aveva risieduto nella sua brevissima dimora in quella città (Capitoli del comune di Firenze, vol. II, xiii, 68). Vedasi pubblicato per intero in Appendice a questa Cronica, docum. num. 9, l'atto con cui Carlo di Durazzo costituisce il vescovo di Giurino suo procuratore per riscuotere dal comune di Firenze la somma di fiorini stabilita negli accordi di cui è detto alla nota precedente. Guascone di lingua lo dice lo Stefani (op. cit., rub. 873), e che aveva anche fatto parte di una ambasceria venuta in Firenze da parte del re Carlo, il 28 luglio dello stesso anno (rub. 862). Il Bruni (St. Fior., vol. III, p. 40) lo dice uomo esperto, la cui malignità non era nota al re e giudica il favore da lui concesso agli Ubertini e ai figli di Pier Saccone come vituperosi portamenti. Tra i moderni il Durrieu (La prise d'Arezzo in Biblioth. de l'École des Chartes, vol. XLI, p. 172-173) osserva: «La domination des Napolitains ne fût guére moin désastreuse que les anciennes luttes intestines„. Può anche farsi un confronto di questo capitolo con De Bonis, op. cit., canto 4°. Il De Bonis, concordando nel giudizio con ser Bartolomeo, contrariamente a ciò che dicono tutti gli storici anche aretini, giudica benignamente questo vicario di Carlo, che rimise gli usciti guelfi e ghibellini in Arezzo sol per amore di pace (Vedi più avanti in questo stesso capitolo, al v. 248). Egli chiama il vicario predetto: ".... quel da Turino | el qual ci mise in pace e buono stato". Ma in ser Bartolomeo abbiamo molto maggior copia di particolari; il vescovo vicario di Cario qui è detto "virtuoso signore et proveduto" e i Guelfi che chiedono, come vedremo fra poco, un altro vicario al re, sono giudicati coll'appellativo di "empia setta„.

[323] Carlo della Pace lasciò Arezzo il 28 ottobre 1380, secondo il più volte citato Anonimo, Diario, loc. cit., 432: « Oggi a dì xxviii, d'ottobre, dicesi che messer Carlo se ne va a Roma al Papa, ed à lassato in Arezzo da cl. lancie a la guardia d'Arezzo». Vedi anche Bruni, Commentarius etc. loc. cit., 915; Pitti, op, cit., p. 27. Giunto a Roma, il pontefice Urbano VI lo incoronò colla più grande solennità proclamandolo re di Napoli (2 giugno 1381) in sostituzione della regina Giovanna che era stata già da lui scomunicata. Del giorno innanzi è la bolla con la quale il papa lo investe del regno insieme colla promessa e il giuramento suo (Rainardo, Annales, ad annum §§ ii, xxiii; Lünig, op. cit., Vol. II, 1147, sgg.; Giannone, Storia del Reame di Napoli, Milano, 1823, lib. XXIII, cap. v. VII, 349). Partì da Roma e andò poi Carlo alla conquista del Reame di Napoli.

[324] Questi è Galeotto da Pietramala, fatto cardinale nel 1378, col titolo di San Giorgio in Velabro. Neri Di Donato, op. cit., loc. cit., 261, dice: [1378] "El papa fece 29 cardinali per le digiune di settembre, cioè due Colonnesi e misser Agabito di M.... e due Orsini, el  vescovo di Perugia, e l'arcivescovo di Piso e l'arcivescovo di Napoli e uno de' Malatesti e uno figliolo di messer Maggio da Pietramala ecc..." Lo stesso cronista (op. cit., loc. cit., 266) ci fa sapere che nel 1380 il cardinale visitò la città di Siena, ove fu onorevolmente ricevuto in casa Piccolomini (8 gennaio) insieme col fratello Pandolfo, e che aveva allora ventiquattro anni, mentre Pandolfo ne aveva venti soltanto. Si trattennero a Siena due soli giorni, poi tornarono a casa loro e il 22 dello stesso mese morì il loro padre messer Magio. Il Gamurrini (op. cit.. vol. I, p. 197) riporta questi versi di ser Bartolomeo, e aggiunge: "Vi fu anche il Cardinal Galeotto, che oltre la porpora, la quale sopra ogni altro lo faceva risplendere, era ornato di una finissima prudenza e di un coraggio insuperabile, per il che si era reso in posto di grandissima stima e desiderabile a tutti i Principi; onde nel 1380, egli fu quasi l'unico che sovvenne Carlo di Durazzo di consiglio e di denaro„. L'Alessi (ms. cit., loc. cit.) accenna alla causa per cui fu poco curato Carlo di Durazzo dal Papa Urbano VI con le parole "ob principum vilitatem ac morum„ e osservando che solo dal cardinale Galeotto da Pietramala fu ricevuto onorevolmente e ben consigliato, nota "immerito quidem excipitur benigne, licet in sinu serpentem nutriverit suo". Il Cardinal Galeotto Tarlati è sepolto alla Verna in Casentino (Vedi Giovanni Rondinelli, Relazione sopra lo stato antico e moderno della città d'Arezzo ecc., Arezzo 1755, p. 48).

[325] Bartolomeo, fratello del predetto cardinale, morto il 10 aprile 1406. Vedi anche Malevolti, op. cit., II, 150, il quale ci fa sapere che nell'anno 1384 i Senesi presero, per accrescere maggiormente le loro forze e la loro riputazione, in accomandigia e protezione, il signor Galeotto Cardinale di Sant'Agata e il signor Bartolomeo, suo fratello, figliuoli del signor Masgio de' signori di Pietramala, con tutte le loro castella, fortezze, ville etc. Poi nell'anno seguente 1385, Bartolomeo con gli altri figliuoli di ser Masgio fecero pace coi Fiorentini, per il che vennero sotto i detti Fiorentini Anghiari, Pianettolo, Gaenna e Montagutello, castelli de' Pietramalesi, e Pietramala stessa per la somma di 2000 scudi d'oro da Marco di Pietro da Pietramala fu ad essi venduta. Di questo diremo più avanti, a suo luogo. Vedi poi Appendice alla presente Cronica, docum, num. 12.

[326] G annota: "Hic dicit de iustitia fatta de ser Beccafumo„. Altro non sappiamo di lui. L'Alessi (ms. cit., c. 167 v): a Iurinus episcopus vicegerens Caroli in ditionem queque tenens Aretii, cognitis illico facinorosis viris, ius suumadministrare coepit probo aeque ac scelesto, quod nusquam antea factum perhibent. Quapropter facinorosum quemque terror cepit, flagitiis quorum pena presto aderat „.

[327] C annota: "Vedasi chi erano li capi di tal guerra che di fuori si faciva in certi contratti con il num. 663 in San Bernardo, che tra quelli vi erano messer Silvestro di Guidacelo, messer Filippo di Checco Rosso e Gaburrino, tutti delli Brandagli„. Tale domumento è riportato in sunto in Gamurrini, op. Cit., vol. I, p. 100. Ivi è detto che molti cittadini d'Arezzo fecero procuratore generale a far lega e pace con diversi popoli e signori in tempo di guerra, a trovar denari in prestito, a far tregua ecc., ser Angelo di ser Vanni da Civitella. I nomi de' principali furono: il magnifico cavalier Azzo di Guido di Biordo Ubertini ed Antonio di Niccolò di Guido Ubertini, messer Silvestro, Rosso e Gaburrino, fratelli e figliuoli di Guidacelo di messer Brandaglia, messer Filippo di Cecco di detto messer Brandaglia e molti altri. Erano questi allora di nuovo sbanditi d'Arezzo. Furono cacciati d'Arezzo nel 1379 i Brandagli, quando tornarono a levarsi a contesa i Guelfi e i Ghibellini, i quali ultimi erano stati riammessi nella loro città per la pace di Serezzana, e cosi erano rimasti dentro, al governo, i Guelfi, i cui capi erano i Bostoli gli Albergotti e i Camaiani. Questi mandarono Carcassone per ambasciatore a Carlo: costui trovatolo in Bologna, gli espose come i Guelfi d'Arezzo gli offrivano la città, se loro promettesse di tener o lontano, in esilio, i Ghibellini: egli accettò e nell'anno seguente 1380, fece l'ingresso solenne in Arezzo. Poi se ne partí e vi lasciò suo vicario il vescovo di Giurino. Onde, mentre che lo stato d'Arezzo era nella maniera descritta, que' di fuori, cioè i Ghibellini, facevano guerra a quel di dentro, cioè ai Guelfi.

[328] G annota: "Qualiter fuit captus in cavalcata facta per Bartholomeum de Petramala in Valle Bagnori, Pandulfus et alii plures, ex quo postea secuta fuit pax„. E l'Anonimo, nel suo Diario, loc. cit., 432): [1380] "A di xv marzo (stil. fior.) venne in Firenze un ulivo a casa di nostri signori come gli Aretini dentro avieno fatto pace con quei di fuori. Feciono bene". La pace fu conclusa nel febbraio, come si ricava dal v. 125 di questo stesso capitolo. Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit., "Verum cum bellum ab exulibus Petramalensibus ac pariter Ubertinis geritur ad urbis mox tuitionem, Iurini nutu, omnibus accinctis, cum Bartholomeus petramalensis Balnei adusque Aurei Vallem hostiliter excurrisset, Iurini nutu, internis civibus perdentibus, in Cerfone flumen diversi cum abirent metu exules, ex bis Pandulfus cum pluribus capitur. Cuius rei demum gratia, his quasi divinitus captus, pactione pax firmatur etc.". Il cod. F nella glossa a questi versi aggiunge un particolare e cioè che con Pandolfo e gli altri furono presi anche i fratelli di lui: "Qualiter captus fuit Pandulfus et fratres eius et alii etc„. Il cod. C, a proposito di Bartolomeo da Pietramala, fatto prigioniero egli pure in questo combattimento, annota: "Fu fratello del Cardinale Galeotto, fllio di messer Magio, del cavalieri messer Tarlato, fratello di Pier Saccone„.

[329] Questa pace della quale qui si fa memoria seguì per opera di ser Vanni da Civitella, come apparisce dal sopra ricordato contratto di San Bernardo (vedi sopra, la nota 327).

[330] Vedi il sunto che di questi versi fa l'Alessi nel ms. cit., loc. cit.:... "Imprimis cuique omnia ablata reddi lege decretum. Tum ex qualibet factione viris reditus in patriam concessus, Ubertinis ac Petramalensibus exceptis, hisdem in diem remeandi concessa venia: porro ut munerum sortes rei publice Iurinus " componeret idque publicis tabulis cautum, ex quo februario mense quamplures reversi exules, ad salutis annum 1381„. Vedi anche Bruni, op. cit., loc. cit. p. 41.

[331] G annota: "Remissio omnium exititiorum ut in Capitulis factis„. Per la pace surricordata, della quale il poeta ritorna a far parola al v. 16 sgg. del capitolo seguente, fu concesso ai Pietramalesi ed Ubertini di ritonare in patria insieme cogli altri fuorusciti, il che a taluno non piacque, quindi si congiurò per discacciarli. Essendosi accorto della cosa il vescovo di Giurino "ab iis etiam, qui redierant, iratus, praecipuos quosdam ex eo numero, qui dominationem Regi tradiderant, capit et in carcerem tradit, nonnullos etiam interficit, alios  fugat ac persequitur (Bruni, op. cit., loc. cit.). Fra quelli che mandò a morte vi fu anche quel Bostolino di cui si parla pure nella nota seguente. In generale i cronisti del tempo qualificano il giurinese vicario di Carlo come fazioso e così anche lo giudica ser Naddo da Montecatini (op. cit., loc. cit., p. 34): "Item nel detto anno, essendo mandato per lo re Carlo un vicario, il quale stesse in Arezzo, il vescovo di Giurino (o Giurri), il quale v'era suo Vicario in prima, vi aveva rimesso i Tarlati ed Ubertini e molti altri Ghibellini, e fu nimico de' Guelfi, perocchè fece morire in prigione messer Bostolino ed un suo nipote guelfi, che furono quelli che diedero Arezzo al re Carlo. Il detto vescovo stette molto a dare al detto vicario la tenuta d'Arezzo, e mentre che stette a darla, i Tarlati, ed Ubertini rubarono e fecero grandissimi oltraggi e torti ai Guelfi d'Arezzo ed erano i Ghibellini signori d'Arezzo„. Peggio ancora dice di lui il Bruni (op. cit., loc. cit.,) e in questo egli appariste senza dubbio un salariato della Repubblica fiorentina: "Carolus, superiore tempore, cum suscepto Aretii dominatu, ex Hetruria abiret, quemdam ex comitibus suis, episcopum Iurinensem, natione gallum, hominem ficte compositum, cuius malignitas regi erat incognita, Aretinis praefecerat„. Non è però questa l'opinione di ser Bartolomeo e del suo contemporaneo Giovanni de Bonis più volte ricordato (op. cit., canto 4°). Essi appartengono a quel partito di cittadini moderati,  quali da un lato non potevano dimenticarsi che ogni grandezza alla loro patria derivava da quel famoso Guido Tarlati di famiglia ghibellina che aveva nientemeno coronato Lodovico il Bavaro, ma che d'altro lato s'eran venuti per tante vicende adattando al tranquillo e giusto governo misto dei Quarantotto, i quali accoglievano una gran maggioranza di Guelfi. Ser Bartolomeo in sostanza dice che il vescovo di Giurino riammise gli Ubertini e i Tarlati ghibellini a fine di pace. Ed è, secondo noi, proprio così. Vedasi a questo proposito anche Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, Firenze 1876, vol. III, p. 56: "Un vicario di lui [di Carlo], - egli dice, - avendo a fine di pace fatto rientrare nella città i Tarlati e gli Ubertini e gli altri oramai da quarant'anni fuorusciti, di fazione ghibellina, questi con la potenza di fuori e le aderenze che avevano dentro, ne divennero come padroni, così da costringere gli amici stessi del re a fuggirsi nella rocca „.

[332] Il vescovo di Giurino per quel che si può giudicare aveva a fin di pace fatto rientrare gli esuli in Arezzo loro patria, ma presto si dovè accorgere de' loro pravi e scellerati consigli. Troviamo in Neri Di Donato, op. cit., loc. cit.: "Uno trattato si scoperse in Arezzo„ (l'anno è il 1381 ndr) che li Bostoli davano la città a' Fiorentini, ed era a petizione di misser Biagio di misser Guccio de' Talomei. El vescovo di Giurino li fe' pigliare ed ebbe tutta la verità chiara e asprissimamente li gastigò„. Oltre il Bruni (op. cit., loc. cit.), possono vedersi i Documenti di St. Italiana, VI, 424: "Oggi a dì xxvii d'Aprile 1381, vennnono in Firenze lettere d'Arezzo come messer lo Vescovo, ch'è in Arezzo per messer Carlo, à preso messer Bostolino con da xviii caporali, che l dovio' tagliare a pezzi. Non si sa quello che fia di loro„. Bostolino de' Bostoli secondo Neri di Donato (op. cit., loc: cit., 267) fu decapitato da Iacopo Caracciolo, ma noi diamo più fede a testimonianze di scrittori aretini, come il Bruni (op. cit., loc. cit.), il De Bonis (op. cit., canto 46°) e la Cronica d'Anonimo, loc. cit., secondo le quali morì in carcere. La Cronica d'Anonimo contemporanea dà anche la data precisa, 15 luglio dell'anno stesso: "Oggi, di..... (la lacuna del ms. si riempie con sicurezza, essendo questa notizia la prima della pagina 127 che ha in testa la data del di 15) di luglio - l'anno è il 1381 - morì in prigione in Arezzo, messer Bostolino di Bostoli, che diede Arezzo a messer Carlo". Vedi anche il sunto che fa l'Alessi nel ms. cit., loc cit.: ".... Verum exinde Iurini iussu mandatis parere Tarlati ac Ubertini maxima civium alacritate excepti rediere, a seditiosis verum ac scelestibus viris cum odio haberentur clam tum adversus hosdem coniuraretur, Iurinus providenter Nannem Camalanum equitem inde et utrumque Franciscum seditiosos intercipit„. Cf. anche intorno a questa morte oscura di Bostolino de' Bostoli il capitolo seguente di questa Cronica al v.  sgg. 115.

[333] Il cod. C annota: "Di sopra si è detto, come [furono] cacciati li Petramali, Ubertini e Brandagli, in San Bernardo nel contratto num. 663: Hora dal vescovo Giurino, vicario di Carlo, sono cacciati li Bostoli, Albergotti e Camaiani, che erano resti governatori d'Arezzo„. Di Nanni de' Camaiani parla lo Stefani (op. cit., rub. 891) come d'uno dei principali congiurati nel tentativo di far ribellare Laterina agli Aretini. "Addivenne, egli dice, che uno Nanni di messer Camaiano di Camaiani d'Arezzo, amico de' Boscoli, ha certe amicizie in Laterina, cerca di trattato, ed in effetto compone con cinque dare loro, 1000 fiorini, cioè 200 per uno, infra' quali furono questi: Niccolò di Piero del Migliore, potestà, Pero, suo padre, di Laterina, e Muccio di Casa, Matteo di Niccolò, Giovanni di Cenni, chiamato Toso, da Laterina tutti e tre, e Tribaldo di Santi da Monte Lungo del contado di Firenze. Di che apparve, secondo si disse, scrittura e suggelli dell'una parte e dell'altra per mano d'uno ser Francesco da Laterina, abitante in Arezzo. Di che a' dì 22 di gennaio 1380 dovea uno Riovardo da Monte Varchi, abitatore d'Arezzo, venire con quattrocento fanti a Laterina ed il figliolo del Potestà e gli altri predetti metterlo dentro, e perchè nel cassero era uno talosso (molosso) che cattiva guardia facea, si fidavano di avere lo cassero„. Il tentativo non riuscì e a tutti e cinque i congiurati fu tagliato il capo a' 16 di febbraio dell'anno stesso.

[334] F annota: "Acceptio Quaratae„, Quarata nel Valdarno a breve distanza da Arezzo, sull'Arno, fu spesso teatro delle contese dei signori Aretini: era terra sotto il patronato dei Benedettini di Santa Flora che  vi avevano la chiesa di sant'Andrea a Quarata. Vedi anche il sunto che fa l'Alessi, nel ms. cit., loc. cit.: ".... Quo ceteri eiusdem sortis Bostoli et Albergotti abiere. Qua fuga Iurini imperio exules dicti Quaratam illico occepere. Verum, adventante Iulio, ab Arretinis obsessi sunt„. Il De Bonis (op. cit., canto 4°), ci fa anche sapere che la fazione guelfa fu poi condotta a prender Quarata da quel tal Marsilio bresciano, che fu mandato da Carlo ad Arezzo in luogo del vescovo di Giurino.

[335] Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit.; .... "Ac cum in illos minime seviretur, ad Castilionem Arretinum confugere, Politianum porro redificantes etc.".

[336] G annota: " Hic dicit qualiter se posuerunt fortes apud castrum Collis Iunonis, vocabulo Colle di Gragnone„.Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit.:...." ex colle mox Gragnonis oppido dietim Petramalam usque grassabantur„.

[337] Nel 1° giugno del 1381 Urbano VI investì Carlo del Regno di Napoli, e nel giorno seguente gli dette la corona (Archiv. Storico Italiano, XVI, parte ia, 229). La notizia della sua entrata in Napoli, giunta a Firenze con gran ritardo, il 10 settembre del 1381, riempì tutti gli animi di allegrezza e fu celebrata con pubbliche feste. Lo stesso accadde, come testifica qui ser Bartolomeo, in Arezzo. Dalla vittoria del Durazzese si sperava la fine dello scisma e pace per tutto il mondo. Per questo l'epistola forbitissima, rimasta però incompiuta, del Salutati a Carlo di Durazzo, re di Sicilia e di Gerusalemme (Salutati, epistolario, Roma 1891, vol. III, p. 11 sgg). Vedasi Stefani, op. cit., rub. 896, ove si parla delle feste che si fecero per il lieto annunzio di tale avvenimento: .... '' ed il fante", egli dice, "fu vestito e fatto doni, che tra doni e vestimenti di sciamito e vaio, costò fiorini 350. E poi per la incoronazione della reina Margherita, sua moglie, la quale s'incoronò a dì.... (lacuna) una solenne ambasciata andò allo detto re Carlo: la quale feciono  robe per uno, e furono queste, cioè una roba di sciamito ed una roba di camucca per donare alla corte, ed una roba di scarlatto, ed una roba di azzurrino, ed una di berrettino" ecc.

[338] Nel comune gaudio per la lieta notizia dell'ingresso trionfale di Carlo di Durazzo in Napoli, a Firenze, nota lo Stefani con una espressione tutta forza e colore (op. cit., rub. 896), vi furono anche assai cittadini che "ne fecero ceffo„, perchè sapeano nel segreto non essere molto amico de' Fiorentini. Notinsi questi versi del De Bonis (op. cit., canto 30°), pieni di amara ironia contro il re Carlo: .... "da poi che tu venisti alle contrade | el tu' reame s'è riposato | che non si trovan più o lance o spade | .... et è venuto Angiò a gratulare | teco de la corona ricevuta, et fai ei regnicoli posare".

[339] Vedi Dante, Parad., XVII, 127. Il De Bonis (op. cit., canto 28°), viene alla conclusione che gli Aretini, non che vedere avverarsi le speranze riposte in Carlo, si sono cavati gli occhi con le proprie mani.

[340] Vedi anche il sunto in Alessi, ms. cit.. op. cit.: "Carolus hoc tempore regno potitur Neapoli. Quo demum Arretij cognito, et seditionibus agitati cives, guelforum interna factio ac scelesta et pacis inimica regem apud Iorinum episcopum falsis de causis insimulavit, quospiam a Iorino captos, alios utpote regie factioni amicos exactos patria memorare„. Nella fazione guelfa dunque che ormai, lasciata da parte ogni scissione, sembrava di nuovo riunita, serpeggiava un profondo risentimento contro il vicario di Carlo, il vescovo di Giurino, che venne taccciato di mala fede, sia perchè aveva riammesso in città tutti i Ghibellini, compresi gli stessi Tarlati (febbraio 1381), sia perchè aveva cacciato in bando alcuni di parte guelfa. Anzi i malcontenti denunziarono il Giurinese al re Carlo, perchè egli prendesse sollecitamente un provvedimento.

[341] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Quis cum facile rex assentiretur Iorinum officio amovit, Marsilium urbi preesse imperavit". Piacque il Vescovo Giurino, dice anche in succinto il De Bonis (op. cit, canto 4°), ma i fuorusciti lo diffamarono presso Carlo, che mandò in suo luogo ad Arezzo "un Marsilio bresciano | il qual non parve al popolo iusto sire. | Cum quella setta [coi Guelfi] ei cavalcò 'l piano | et tolsici la terra di quarata ! la qual si perdè poi a mano a mano ecc.". Mentre ser Bartolomeo ci dà larghe notizie (vv. 234-295) delle manovre dei Guelfi o per provocare la rimozione del Giurinese e sulle pratiche dei Ghibellini per impedirla, in Bruni, op. cit., vol. III, p. 42, se ne parla appena. In quanto poi a Marsilio Bresciano, mandato a sostituire provvisoriamente il vescovo di Giurino, non altro ci è dato conoscere  che il nome vero ed intero da due documenti del tempo, cioè l'approvazione dei capitoli o convenzioni della notte del 9 al 10 ottobre 1380, tra il comune di Firenze e Carlo di Durazzo, di cui abbiamo già parlato (vedi sopra nota 321), e una dichiarazione di Giovanni Bano, capo degli Ungheri, al quale pure abbiamo accennato ivi stesso, procuratore del re d'Ungheria, fatta ai sindaci del comune di Firenze relativamente a un mutuo di 40,000 fiorini d'oro. Da questi due atti stipulati in Villa Strove nel contado di Siena, apparisce quel tal Marsilio "Marsilius de Gonfaloneriis de Brixia„ e nel secondo, nel quale è prima di tutte la firma del vescovo di Giurino, egli si firma subito dopo di lui, segno che era molto in vista presso la corte di Carlo. I predetti documenti sono nei Capitoti dei comune di Firenze, pìù volte citati, vol. II, xiii,  59 e 62.

[342] C annota: "Andrea Sassoli e Lodovico Petramali, "imbasciatori a Carlo a Napoli". Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Quo demum in populo audito" (cioè la rimozione di Giurino dell'ufficio e la nomina dì Marsilio a sostituirlo) "tumultuatum est, concione mox habita, sententiam hancine dixere legatos ad regem qui Iorinum excusatum irent mittendos ac veluti Marsilium abnuerent: septembri igitur mense, Adreas Saxolus et Ludovicus Petramalensis legati Neapolim profecti sunt".

[343] Vedi il sunto dell'Alessi, ms. Cit., loc. Cit.: ".... Quis [legatis] benigne Rex Iorinum prorsus amovisse inquit ac ipsum Regni cancellarium adscivisse, postremo Guelfum seu Ghibellinum redire in patriam velle, tum qui deliquisset penam subire. Quo demum responso cognito, Arretii cives per partes gaudere admodum, per partes vero dolere ceperunt". Vedi anche Bonincontri, Annales, loc. cit., 40.

[344] Risedio - residenza. (Vedi Redi, Vocabolario di voci aretine piú volte citato).

[345] Vedasi a questo proposito Bruni, op. cit., vol. III, p. 30: "Pulso Athenarum Duce, qui Florentiae Aretiique dominationem habuerat, Aretini, libertate recepta, viros sexaginta delegerunt, quorum consilio respublica gubernaretur. Hi fuerunt clarissimi viri, et divitiis sapientiaque in ea urbe praestantes, quorum prudentia gubernata civitas longo tempore conquievit. Post multos demum annos, cum defunctis plerisque senioribus, iuvenes in parentum loco successissent, contentiones, simultatesque exortae pristinam concordiam delegerunt, nec prius certandi finis, quam inter se divisi alteros alteri pepulerunt. Per eorum divisiones insurgens nobilitas alterique inhaerens parti, favore plebis immodico, iam prope dominabatur. Hi Carolum vocantes, dominationem urbis illi tradiderunt etc.". Furon dunque i Sessanta, i quali erano ormai molto degeneri da' loro predecessori, la causa principale delle discordie civili col loro cattivo governo.

[346] Dopochè Marsilio Gonfalonieri da Brescia non piacque al popolo aretino e svergognato, come dice il De Bonis (op. cit., canto 4°), " ritornò a Napoli a pappare", gli Aretini - parole dello stesso De Bonis - : " riprovarsi da co' a dimandare | l'altro vicaro alle lor voglie unito. | Ma per li nostri peccati fu exaudito | et il proposito loro et il loro ello | c'a disformato questo nostro sito". Il cod. G annota: "Introitus "Domini Iacobi Caraccioli". Questo avvenne nel 6 giugno 1381. Vedi anche Bruni, op. cit., vol. III, p. 42: "Ille [Carlo di Durazzo] vero, detestatus illius [del vescovo di Giurino] malignitatem, successorem praefecto misit Iacobum Carazolum neapolitanum etc." e Commentarius, etc. loc. cit., 915. Ivi si accenna anche al tumulto avvenuto in Arezzo all'arrivo di questo nuovo vicario che riconduceva anche seco gli esuli in patria: "praeliaque per urbem commissa etc.". Vedasi anche il sunto di questi versi in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Iacobus interea Carracenus ab rege Carolo cum imperio Arretium missus est. Qui siquidem vexillo regio desuper illato a Ludovico petramalensi maxima pompa urbem ingreditur, tametsi huncine honorem multi damnaverint etc.". Contro il vicario Jacopo Caracciolo scaglia spesso i suoi più acuti strali il nostro ser Bartolomeo da questo capitolo X fino al XX passim; il De Bonis (op. cit., canto 38°) dice che, invece di mantenerlo in Arezzo, il re Carlo dovria farlo mangiare ai cani della città.

La data del suo ingresso in Arezzo sembra quella che abbiamo detto. Ser Naddo da Montecatini (op. cit., loc. cit, p. 34), dice che ne' giorni 15, 17 e 18 ottobre il nuovo vicario entrò in tenuta della città. Per cui sarebbe stato circa quattro mesi aspettando d'avere il pieno possesso. E anch'egli accenna, sebbene soltanto di sfuggita, alla parzialità del Caracciolo con le parole "e perché vedeva non poter far d'Arezzo come di terra  guelfa". Il De Bonis (op. cit., canto 5°) assegna al fatto della presa di possesso d'Arezzo la data 18 di dicembre: "Lasso ello mille trecento octantuno | de dicembre a diciotto dì del mese, | la sacrata memoria triste d'uno | jacomo Caracciolo si prese | la signoria d'Areço, alla malora | per lo re Karlo et de tutto el paese". Nè a noi sembra discordare dal sopra nominato ser Naddo, perchè quegli non considera avvenuta la presa assoluta di possesso, se non quando fu definitivamente sedato il tumulto sorto nella partenza del vescovo di Giurino, ma di un tal fatto parleremo piú avanti, il 13 novembre.

[347] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit: "In primis igitur simulator scelestus vicegerens haud quaquam factiosum sed pacificum finxit hominem. Populus autem, quasi nomine austero amoto et qui flagitia horrebat Iorino, ob hec letari, Iacobus ad hec, ceu omnis suspicio obesset, Arretij portas ante diem recludi, at prima noctis vigilia claudi imperat, pacem subinde firmam in senatu velle ait se, erumnas post hec sedare civium, urbis regimen componere, honera ad postremum auferre, bono aeque ac ignavo perbenignus habebatur, ea arte ac proditione in perniciem usus".

[348] Non era cosa ben certa, ma si mormorava che il nuovo vicario reale avesse a parole l'incarico di mettere e mantenere la pace tra le fazioni; ma si affermava che in realtà dovesse sacrificare ai Guelfl i Ghibellini. Ser Bartolomeo non lo mormora, lo grida a gran voce in questo capitolo (vv. 1-75 e 154-174), come pure altrove. Dei fatti molti e vari che accadono tra la venuta del Caracciolo e l'arrivo della compagnia di san Giorgio, il Bruni se la cava con poche righe, non dicendone quasi niente (vol. III, p. 42). Abbiamo un documento della parzialità del Carracciolo per i Guelfi, secondo accordo preso col re Carlo, suo signore, in una lettera di quel re, diretta da Napoli al comune di Firenze (1385, aprile ii), in cui si notano queste parole: "Ceterum exuberante circa vos et benivolentiam vestram spe nostra certissima, scientes, quod ipse Iacobus qui gessit in civitate predicta Aretii pro parte nostra vicariatus offitium, aliquas donationes, venditiones, alienationes et contractus fecit certis benemeritis de Parte guelfa, amicis equidem nostre Maiestatis et vestris, de bonis et rebus nonnullorum rebellium ipsius Maiestatis nostrae; propterea vos rogamus actente, quod non permictatis quod in dictis bonis novitas ulla fiat etc.". Vedi i cit. Capitoli del comune di Firenze, vol. II, XV, i.

[349] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Ceterum plusculis exactis diebus, petramalenses pecuniam poposcit, at contraria arte nec cuiquam imperiosus, verum malis artibus imbutus dolove, exules reversi operam dabat, eidem namque ab rege imperatum fuerat, semotis arbitris, gibellinam factionem omnem prorsus perditum ire; is Villanucum armis adesse decernere et ex regno accire, porro cum factionis amice guelfe civibus casserettum eidem tradi poscebat". Questo Villanuccio, di cui qui si fa menzione, è Villanuccio da Buonforte, condottiero di ventura. Vedi la presente Cronica, più innanzi al cap. XV, vv. 31-33: "E quei de fuor cridavan: non ferite | perch'è da Boniforte Villanuccio, | dal re mandato con bolle fornite". Donde anche apparisce esser egli stato mandato dal re Carlo, si intende, per sollecitazione del suo vicario. Intorno a lui può vedersi anche Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino 1847, vol. I, p. 180, il quale dice che Villanuccio di Villafranca era condottiero della compagna dell'Uncino e racconta che Alberico da Barbiano colla sua compagnia aveva a Carlo di Durazzo sottomesso Gubbio e Arezzo e gli era stato potentissimo braccio al raggiungimento de' suoi disegni. Presa poi Napoli dal Durazzese, Alberico corse ad Arezzo per mantenerla sotto la devozione di Carlo contro gli sforzi della fazione guelfa(!) la quale aveva costretto il regio vicario a ritirarsi nella fortezza e aggiunge: "Bentosto, come a convegno, si trovarono raccolte pel medesimo fine sotto Arezzo, oltre le genti del Barbiano, quelle della compagnia dell'Uncino, testè formata da un Villanozzo da Villafranca a ecc". In Bruni, St. Fior., loc. cit., se ne accenna soltanto l'arrivo: "Nec multo post aliae copiae non minores supervenere, quibus praeerat Villanuccius etc.".

[350] Vedi il sunto in ALessi, ms. cit., loc. cit.: "Inpunem ad hec quemquam exulem fore de industria decrevit. Camaiani igitur, Bostoli, Albergotti ac ceteri factionis eius reversi, qui siquidem ac veluti innoxii eadem insolentia ac flagitio cuilibuit minitari".

[351] C annota: "Giurino reggente detto si parte e consegna la roccha al Caracceno, detto messer Francesco dottor di leggi".

[352] F annota: "Nofri da Castello". Vedi anche De Bonis, canto 5°. É da riferirsi, per meglio intendere, quello che narra un certo Antonio Albergotti, il quale essendo stato chiamato nel 1389 a testimoniare in una quistione tra il Comune e alcuni cittadini, dichiara, che "nell'anno mille trecento ottantuno, di xiii di novembre, nel palatio che alora habitavano i Priori de Arezzo, fuorono certe parole tra misser lo vescovo di Giurino, vicaro ch'era stato del re Carlo, et Nofrio da Castello, per le quali parole certi citadini rumoreggiaro e corsaro la terra, et a dì xv del dicto mese ei detti cittadini combattero el cassero grande, ch'era misser Iacopo Caracciolo, vicaro del detto re Karlo cum certi altri cittadini, et vensorlo et robbarlo; per la quale chosa el dicto misser Iacopo cum li detti cittadini ch'erano col lui se redussero nel cassaretto picholo, e alora mandò el dicto misser Iacopo al conte Alberigo capitano de la compagnia di sancto Giorgio, che lli piacesse cum sua brigata venire a soccorrerlo, e chosi venne. Et a dì xviii di dicto mese gli mise el dicto misser Iacopo nella dicta cità de Arezo per la porta di sancto Alberto, et corsaro et rubaro la dicta terra, et in essa stettero dal dicto dì xviii di novembre per fino a dì viiii° de giugno proximo che seguitò, il quale dì la relasaro nelle mani del dicto misser Iacobo" (Arch. comunale di Arezzo, Proviones, 1385-1506 c. 28 t). Non c'è dubbio che questo Nofri di cui qui si parla sia Nofri da Castello e non Nofri Camaiani, come vuole Bastiano d'Arezzo, Storia d'Arezzo; ms. 6 della Biblioteca della Fraternità dei Laici di questa città, c. 32 r per la testimonianza che abbiamo citato. Quanto a Bastiano sappiamo che visse nella seconda metà del secolo XV, e la prima del XVI (Vedasi intorno a lui la Avvertenza al Racconto della Ribellione aretina del 1502, tratto ecc. in questa ristampa dei RR. II. SS. del Muratori, Tomo XXIV, Parte Ia, p. 157). Il sospetto che già si aveva sul Caracciolo, che volesse aiutare i Guelfi, acquistò così credito, perchè egli non punì Nofri da Castello, che insultò il Giurinese, mentre lasciava la città. L'atto partigiano e vile dette luogo a una prima zuffa tra Guelfi e Ghibellini (13 novembre 1381).

[353] Vedi Bruni, op. cit., loc. cit., "Saconis filii et agnati et Ubertini ac tota illa gibellinorum factio, sentientes novi praefecti adventum, magnam multitudinem ex castellis clientelisque suis in urbem contraxerunt, paratique et structi ad omnem motum perstabant. Itaque cum praefectus novus ad urbem venisset, et in abscessu veteris praefecti, vim illi afferre quidam pararent, moventes illi arma, ad aedes illorum qui redierant descurrerunt, et quamquam resistebatur egregie, tamen, quia copias illi permagnas habebant iampridem contractas atque paratas, tandem pervicerunt, pulsique adversarii ad arcem novumque praefectum se receperunt".

[354] Vedi Dante, Purg., V, vv. 83-84. Ludovico di cui qui si parla è Ludovico da Pietramala, uno dei figli di messer Piero. Vedasi Appendice alla presente Cronica, documento num. 12: "Messer Piero da Pietramala suddetto hebbe quattro figli: Marco, Guido, Agnelo, Lodovico, i quali furono suoi heredi e tennono Sorci ecc. Furono cacciati di signoria.... Marco, Guido, Agnelo e Lodovico furono cacciati da Sorci nel 1381. Agnelo e Lodovico morirono nell'esilio di quivi a poco tempo".

[355] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Dum hec interea agebantur, Iorinus abire illinc cupiens atque arcem tradere, a vecordi quopiam Hoenofrio manus pectori infertur. Quam reM aegre ferens Ludovicus petramalensis acrioribus verbis in scelestum virum usus ac cedem pavido, Azone coram Ubertino minitans, tum ne qua Iorino iniuria inferretur, tum quia gibellinis amicus fuerat, non tamen factionis adverse iniuria ipsum cum amicis ad Anglare usque oppidum comitatus est, etc.". Grande importanza aveva presso il suo partito Azzo degli Ubertini, tanto che era il rappresentante di esso. Ciò si desume anche dallo Stefani. Vedasi la dottissima Prefazione alle sue Croniche, già citata. Ivi è detto che nel 1380 lo Stefani partecipa in Firenze a un consiglio di richiesti e intorno alla condotta da tenere con gli Aretini propone: "Super facto Aretinorum mittatur pro domino Azone et pro oratoribus Aretinorum qui veniant huc etc.". E la notizia è tolta dall'Arch. di Stato di Firenze, Consulte e Pratiche. Reg. 18, c. 131t,  3 luglio 1380.

[356] Borgognone era il vescovo di Giurino, per cui, se l'insulto che Nofro da Castello gli fece, non in Arezzo, ma glielo avesse fatto nella sua terra natale, vuol dire il poeta, non sarebbe uscito vivo dalle mani dei Borgognoni. Fu dunque vile, perchè si approfittò che il vescovo era forestiero.

[357] Lodovico da Pietramala ed Azzo degli Ubertini accompagnarono il vescovo di Giurino fino ad Anghiari, come risulta da questo stesso capitolo, ai vv. 179 sgg. e più dal sunto che ne fa l'Alessi (ms. cit., loc. cit.) ove dice: "Carracenus Azzonem ac Ludovicum qui cum Iorino iverant accivit etc.".

[358] Vedi capitolo precedente, vv. 151 e sgg. "Quattro ne fe pigliare alhor di questi | el cavallier è uno etc.". Il De Bonis (ms. cit., canto 46°), nomina alcuni morti di morte violenta e fra questi anche Bostolo d'Arezzo. Il cod. C a questo punto nota: "Racconta la morte di uno delli Bostoli, fattali dare dal detto potestà o vicario dell'Imperatore". Vedi anche Ser Naddo da Montecatini, op. cit., loc. cit., p. 34 "e fu nemico de' Guelfi, perocchè fece morire in prigione Messer Bostolino ed un suo nipote Guelfi, che furono quelli che diedero Arezzo al re Carlo etc.".

[359] "Tre boglie ova" vale "punto, niente affatto": "boglie" vuol dire "marcie, andate a male".

[360] Il cassero di San Donato, nel poggio di San Donato, avanti al quale era una piazza, come rilevasi dal Consiglio e parlamento per la sottomissione d'Arezzo al comune di Firenze, documento del 29-30 marzo 1385, da noi pubblicato nell' Appendice II agli Annales Arretinorum (MURATORI, RR. II. SS. - nuova edizione - Tomo XXIV, parte I, p, 107): "Acta fuerunt predicta in civitate Aretij, in platea esistenti in cittadella et apud casserum dicte civitatis".

[361] Bartolomeo fu figlio di messer Magio da Pietramala. Venne cacciato da Anghiari, suo castello, nel 1384. Vedasi Appendice alla presente Cronica, o documento sopra citato num. 12.

[362] Vedi Dante, Parad., VIII, v. 75. Vedi anche il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Verum illo ab Arretio abscendente xiii novembris, pluribus iam in maiori arte coactis" - "nella parte del presule" aggiunge Bastiano, Ms. cit., c. 3 - "Bartolomeus petramalensis, frenis equi interceptis, detinet ne egredi possit, id namque facinus bostoline factionis amici patrati sunt, te ni pecuniam restitueret, illum abire dum abnegant, seditio in populo oborta est. Cives lapides capere ac in bostolinos amicosve, tum in albergottos caedem proclamare etc.".

[363] Questo palazzo di cui si parla è il Palagio del Comune, già abitazione del potestà, ove fino dal 5 dicembre dell'anno avanti era insediato il vescovo di Giurino (vedi addietro nota 322).

[364] Vedi il ricordo di Simo d'Ubertino, che si ritrovò al fatto, in Pasqui, op. cit., p. 90: "Memoria che mercordì xiii de novembre mille CCCLXXXI si levò rumore in Arezzo per casgione d'uno vicaro ch'era in Arezzo per lo re Carlo per fine a quel dì, el quale era veschovo de Giurino: e perchè certi cittadini d'Arezzo comme sono i Bostoli et Albergotti, se tenieno d'esser deserviti da lui, et Camaiani, quando fu per partirsi d'Arezzo con sue some d'arnese, si gli volsero fare novetà, perchè la terra si levò a rumore, et ongni persona andò sotto arme, et ghelfi et ghibellini con quelli de la casa da Petramala et de la casa degli Ubertini, et parte di guelfi n'andaro nel cassero e parte ne rimase di fore del cassero insiemi con quelli da Petramala e degli Ubertini e de' ghibellini, e stettero armati per fine che fu venardì mattina, che quelli del cassero uscirono fore armata mano per combattere: e robbaro la mia casa, et arseno alcuna et misere foco nella mia etc.". Vedi anche poi, quanto al fatto in generale, Bruni, op. cit., loc. cit.

[365] Qui ser Bartolomeo dice apertamente di aver preso parte alla dimostrazione che fu fatta in Arezzo alla partenza del vicario del re Carlo, il vescovo di Giurino, e di essere stato fra i difensori del vescovo, ma confessa candidamente che lui e tutti gli altri della sua specie non valsero proprio niente (Vedasi la Introduzione alla presente Cronica).

[366] Anghiari era di messer Bartolomeo da Pietramala, come è detto sopra alla nota 361.

[367] A proposito di queste ingenuità di forma, di queste metafore tolte quasi tutte dalla vita quotidiana e tanto usate nei cronisti rimati di questo secolo, vedasi in Moschetti, op. cit., p. 65. I fatti dolorosi e noiosi diventano, egli dice, amare vivande, mortifere vivande, strani sapori, acerbe bevande, a tal punto che Giovanni Santi nel suo colossale poema su Federigo da Montefeltro chiama bocconi acerbi e amari la sconfitta del duca Alfonso di Calabria.

[368] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: " Quo metu perculsi (avendo il popolo colle pietre in mano minacciato strage, come è detto nella presente Cronica), in palatium omnes confugere, re ob pusillanimitatem sedata, nam fato seu benignitate id factum sit, mortem, qua facile omnes seditio sedanda fuerat, evasere flagitiosi. Iacobus Carracenus tum his territus, homo longissimi corporis obstupuit, sed quid eo animo ex Neapoli advenerat proditor, pecunia a bostolis accepta, partibus illorum accedens, auro non timore correptus est etc.". Qui come abbiamo notato sopra (nota 341), il poeta dice chiaramente che il nuovo vicario aveva a parole l'incarico di mettere e mantenere la pace tra le fazioni ma che in realtà doveva sacrificare ai Guelfi i Ghibellini.

[369] Manicaretto fatto di carne battuta colla giunta delle uova e dell'agro. É vocabolo comunissimo fra gli Aretini. I Fiorentini dicono "ammorsellato". Questo vocabolo di tramessa degli Aretini credo che abbia origine dalla voce "entrements" dei Francesi, che significa quelle piccole vivande che si mettono in tavola fra un servito e l'altro. Il servito da' nostri antichi fu detto "messo". Redi, Vocabolario citato, alla voce "trasmessa".

[370] Sono quelli che, come abbiamo già detto (vedi nota 357) erano andati a far scorta al vescovo di Giurino, "perchè non fosse da verun molesto".

[371] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit, loc. cit.: "Verum ea die, circiter meridiem, iam amicitia Bostolinorum Albergottorumque fulctus, Carracenus Azzonem ac Ludovicum qui cum Iorino iverant accivit, ac veluti cum amicis quepiam consulturus. Verum illi, insidias veriti, legatos duo cives missere etc.". Il Carracciolo, simulando di voler comporre il dissidio appena  nato, riunisce nel suo palazzo i rappresentanti delle due parti. Se non che, mentre ha luogo l'abboccamento, per la notizia menzognera, sparsa ad arte, che alcuni Ghibellini abbiano assaltato la casa dei Bovacci, ogni trattativa d'accordo viene troncata e fra le due fazioni incomincia una guerra civile aspra, sanguinosa, tremenda.

[372] Messer Bovaccio di Cecco di messer Bernardino Tagliabovi, la cui abitazione era quel vecchio edificio contiguo al palazzo comunale, dalla parte di via Ricasoli (Pasqui, op. cit., p. 250, nota 218). Vedi anche il sunto in Alessi, ms. cit., c. 168 r: "Legati igitur qui fraudem adversus Petramalenses machinabantur, dum verba Carraceno enuptiant, confestim eidem seditionem in populo obortam ac Bovaccium domi obsidere relatum, sed ea res pessimum iureconsultum Carracenum haud latebat, quippe que eius nutu facta erat: igitur cum armatorum amica manu propere portam aperuit atque equites ad se se fugientes intromittit" etc.".

[373] D'ora in avanti il Carracciolo è apertamente e strettamente legato al Consiglio dei Sessanta, in cui siedono i caporioni dei Guelfi, che hanno ormai riunite in fascio tutte le loro forze, per meglio fronteggiare la fazione avversaria. Per ben tre giorni le piazze, le strade, i vicoli della città sembrano trasformati in un vero campo di battaglia, ove si combatte tra fratelli e fratelli all'ultimo sangue. In fine il partito dei Tarlati e degli Ubertini per i continui rinforzi che riceve dai Ghibellini del contado, prende il sopravvento; il partito invece dei Bostoli, Albergotti, Camaiani insieme col Carracciolo si ripiega sotto l'urto irrompente dei vincitori e ripara nella fortezza; cacciato anche da questa, si chiude, anzi si asserraglia dentro il casseretto, l'ultimo baluardo da cui tenterà l'estrema difesa.

[374] Vedi il ricordo di questo fatto in Pasqui, op. cit., p. 90. Il nome di Ludovico non si legge nel ricordo citato di Simo di Ubertino, ma devesi avvertire che il manoscritto ha molte lacune e proprio là dove sono scritti alcuni nomi de' rubatori e incendiari della casa di lui che era una delle più ricche, come apparisce chiaramente dalle parole con le quali termina il racconto ch'ei fa del danno arrecatogli nella sommossa del mercoledì 13 novembre 1381: "e robbaro la mia casa", egli dice, "et arseno alcuna et misere fuoco nella mia. Et fra gli altri che furono a rubbare la mia casa fuoro misser Feo de.... del Monte San Sevino e fu el figliuolo del Tosino da Fiorenza ch' à nome Simone e fu Domenico de....  mugnaio etc.... „. Fu Simo figlio di Ubertino di Simo di Ubertino di Anghiramo, mercante di lana, donde il suo cognome de Pannilineis. Nell'esteso commercio che egli tenne in Arezzo e in Pisa, mise insieme un cospicuo patrimonio, come appare dal suo testamento (Vedi Arch. della Curia Aretina, Inserto di diversi rogiti di ser Ristoro di Simone Ristori, c. 51, e Arch. di Stato di Firenze, Diplomatico, Carte di Santa Maria della Misericordia di Arezzo).

[375] Vanni da Chese, il Sessantino ghibellino che brució le case il primo giorno del tumulto, è forse la stessa persona che il Chischi rammentato dal De Bonis (op. cit., canto 9°):  "Selvagno et l'ubriaco et malaghisi | parevano gran siri in quella corte|, [nella masnada dei Ghibellini] |più che non fu fra i sessanta el Chisci"; Andrea del Tegliuzzo, ricordato nel verso seguente, è nominato in un documento del 1380, dicembre 21 -  Pagamento di 10.000 fiorini al sindaco sostituto di Carlo di Durazzo, Firenze nel palagio dei Priori - così: "Andrea magistri Teghiuzzi civis aretinus" (Capitoli del comune di Firenze ecc. vol. II, xiii, ).

[376] Anche in Guittone d'Arezzo (op. cit., p. 45. "O dolce terra aretina ecc.") è un'invettiva contro i nobili che la dilaniano colle discordie civili. Questo è uno dei molti passi notevoli da cui apparisce quanto equanime sia il nostro ser Bartolomeo. Vedasi a proposito di un tal suo pregio l'Introduzione alla presente Cronica, nota 9.

[377] Il primo Ludovico è Ludovico da Pietramala di cui abbiamo già fatto cenno di sopra alla nota  354, l'altro è Ludovico di messer Francesco degli Albergotti, che troviamo nominato nella Elezione di Guglielmo vescovo di Giurino in sindaco di Carlo di Durazzo, dell'anno 1380, ottobre 26, così: "Ludovicus domini Francesci de Albergottis" (Capitoli già citati, loc. cit., XIII, 65).

[378] Qui allude ai Bostoli, Albergotti e Camaiani (cf. coi vv. 70-75 e nota 2).

[379] I Tarlati e gli Ubertini; l'arme degli uni consisteva in sei pietre quadrate d'oro in campo azzurro, quella degli altri in un leone rosso rampante a sinistra in campo dorato. Vedi questa stessa Cronica al cap. II, v. 50, nota 4 al cap. III, v. 109, nota 1, e al cap. X, v. 272 e Pasqui, op. cit., p. 81. Dice Bastiano (ms. cit., c. 33), che è quasi sempre somigliantissimo all'Alessi, perchè o traduce da esso o derivano ambedue da una fonte comune: "benchè si gridassi la pace et union della republica, i Pietramala et Ubertini, che disprezzando ciò, con lassar fare, furon notati d' infamia pubblica" ecc. È certo che se il cassero non fu preso, questo avvenne per la lentezza di costoro e specialmente dei Pietramalesi. Come già a Firenze fra Bianchi e Neri, accadde che gli Ubertini, che erano stati scacciati dai Neri, diremo così, di Arezzo, cioè Bostoli, Albergotti, Camaiani  e altri, si unirono ai Pietramalesi e allora temibili e minacciosi sovrastarono con quelli ai rimasti in Arezzo. Ed erano, si sa bene, di famiglia ghibellina, ma il momento li fece accostare ai Guelfi temperati che le loro sorti seguirono.

[380] In tutto il racconto che fa in questo capitolo, ser Bartolomeo è assai più diffuso, si sente che racconta cose di cui egli stesso fu pars magna.

[381] Qui, come riepilogo di questo triste racconto, è utile riportare i rozzi versi con cui il De Bonis oscuramente narra l'avvenimento nel suo Liber Aretii tante volte citato, canto 5°. Parlando di Iacopo Caracciolo, esclama: "per la mia fe' che già troppo mei fora | che ci fusse venuto el gran soldano! | prese le chiavi  senza nulla dimora,  c' armise certi usciti c' a lon- tano | fussero stati cento miglia miglia | per l'opere cattive ch'essi fano, | e miser la città in gran bisbiglia | a la partita del vecchio vicaro; | tutti gridano al ladro: "piglia, piglia", | e ultimamente sì il robaro, | et se non fusser certi in su'aita, | che per onor del Re si lo scamparti, | privato l'avarino ancor de vita; | al popolo dispiacque lor tornata, | temendo che non fesson tal finita, | com'anno facta et si disordinata, | et volse che de ciò fosse iustitia | el tristo che tenè con lor brigata. | esso la denegò: perchè s'ennitia | il guastamento nostro et dei  roami, | risaltasi da essa propitia (?). | questa fu l'esca, questi furon gli ami | con che siate presi: parte van mendicando | con lor famiglie per li luoghi secani(?). | Vedendo 'l popolo inter moltiplicando | tanti inconvenienti si levò | et prese l'armi et mise loro in bando. | Padre, ridimi l'opra come andò, | quei si ristrinse su lo casseretto | el Caracciolo subito mandò | per la compagna, et fu il fatto el detto, | essendosi col lor composti prima, | et fuor si mossi, et vennero al assetto".

[382] Vedi Alessi, ms. cit., c. 168 r.: "Dum ea seditione urbs agitabatur, diversis habeuntibus civibus ob seditionem, agricolarum armata manus ex amicis itidem oppidis ex Balneo Flaminiae ex Ambrae Valle convenere Iovis die, ex Verona, Massa Trabaria, Ubertinis et Petramalensibus amici". A questo soccorso portato ai Tarlati ed Ubertini dai Ghibellini del contado, abitanti dei luoghi qui ricordati, che fu causa, sebbene indiretta, della, chiamata della maledetta compagnia di san Giorgio, allude il De Bonis nel canto 20° coi versi: "e la Verona n'ha già punictione ecc. | et duolsi el Viscontado ecc. | Val d'Ambra nuota come pescio a guado.

[383] Bagno di Romagna a cui conduce la strada provinciale di Romagna che passa per Banzena e Giona. In REPETTI, op. cit., I, p. 233, si legge che i signori di Bagno erano discendenti di quel conte Guido Novello di parte ghibellina, fautori ora segreti, ora palesi del governo di Firenze e costantemente ligi alla fortuna dei Visconti di Milano. I fratelli Galeotto e Riccardo, figli del fu conte Guglielmo di Modigliana, nel 1353, in "Burgo Balnei", ratificarono la convenzione di pace fra la Repubblica fiorentina e l'arcivescovo Giovanni Visconti di Milano e loro aderenti. (Vedi per questo in Appendice alla presente Cronica il documento num. 4)

[384] Il Viscontado di Val d'Ambra in Val d'Arno superiore fu Viscontado della Chiesa aretina, dominato dai Tarlati e quindi dagli Aretini, i quali ne furono spogliati dai Fiorentini. Si trova rammentata, insieme col Viscontado di Val di Verona nello statuto, del 1342 già citato, loc. cit., rub. XXX: " Quod nobiles et magnates datia solvant.... Nobiles Viscontariae plani Aretij et cortinae portae Burgi et Viscontariae Vallis Ambrae ab Arno citra ponantur in libra portae Fori, Nobiles Viscontariae Veronae et cortinae portae Cruciferae, non tamen eorum libra computetur Civium comitatus Aretij etc.„ Vedi pure Repetti, op. cit. loc. cit., p. 80. Era capoluogo di questo Viscontado Civitella. Ne parla anche G. Villani (op. cit., XI, XL ove dice che nel 1355, quando lo possedeva Saccone Tarlati, che l'aveva acquistato dal vescovo Guido suo fratello, le terre di quel Viscontado si dettero ai Fiorentini. In seguito alla convenzione di pace di cui abbiamo sopra fatto cenno, del 1353, doverono i Tarlati lasciarlo libero alla repubblica fiorentina. Al tempo in cui siamo colla narrazione dei fatti d'Arezzo (1381) pare, da quanto dice ser Bartolomeo stesso, che la Val d'Ambra fosse per gli Ubertini (Cf. più avanti cap. XIV v. 70 sgg, e nota).

[385] La Massa di Montagna comprendeva la regione del Casentino. Dal 1359 si chiamò Montagna fiorentina. Vedi Repetti, op. cit., III, p. 264.

[386] Questi rinforzi dalla campagna vennero il giovedì, e il venerdì, avanti vespro, ebbero espugnato il cassero grande d'Arezzo (Vedasi anche Ser Simo di Ubertino, op. cit., loc. cit. "per che combatterono insiemi quelli de fore del cassero, et per forza entraro nel cassero grande e ebberlo el venerdì anzi vespero ecc.).

[387] La Verona è una terra nel centro degli Appennini, in quel di Pieve Santo Stefano, dalla Verna fino alla Pleve suddetta. V'è la Val di Verona e un casale, Massa Veronese; anch'essa venne sotto Arezzo per opera dei Tarlati. Si chiamava Massa di Verona o semplicemente Verona o Viscontado di Verona ed era, secondo il Repetti (op. cit., III, p. 176), nella parte superiore del Vicariato di Pieve Santo Stefano. Abbracciava diversi popoli e comunelli che prima del 1338 dipendevano dal comune di Arezzo ovvero dai nobili Tarlati da Pietramala.

[388] Massa Trabaria o Trabara (Vedi Repetti, op. cit., III, p. 174 sgg.). Nel sec. XV fu descritta da Flavio Biondo che la pose nella parte dell'Appennino che per difficile salita divide la Toscana dalla Romagna, là fra i gioghi che stendonsi fra il Metauro e la Foglia, dal borgo di Mercatello sino alla città di Sant'Angelo in Vado. L'appellativo di Trabaria, secondo il predetto Flavio Biondo (Blondi Flavii, Italia Illustrata, Basileae, 1559, p. 336), le fu dato dalla quantità di travi che da essa si trasportavano per il Tevere a Roma per le costruzioni specialmente delle basiliche. "Eam vero regionem a Federigo Feretrano possessam, quae Massa trabaria appellatur, Romanam ecclesiam, cuius iurium est, sic votasse constat, quia ex ipsis Appenninis iugis immensae magnitudinis abiegnae trabes Romani in tedium, basilicarumque structuram portare consueverint, prout etiam nunc portantur". Nel 1335, fu tolto ai Tarlati d'Arezzo il Borgo San Sepolcro e tutte le sue castella e quelle di Massa Trabaria, giacchè essi dominavano come tiranni infino nella Marca (G. Villani, op. cit., XI, XXV). Vedasi anche Sozomeno Specimen Historiae in Muratori, op. cit., XVI, 1120: "Durius id certamen faciebat quod Tarlati et Ubertini principes Gibellinarum partium, aliquot millia armatorum hominum ex oppidis clientelisque suis in urbem contraxerunt, paratique et compositi ad arma devenerant. Eo praesidio muniti superiores habebantur, et compulsi sunt Guelfi cum praesitle in arcem refugere. Et currentes per urbem clamabant: Vivat Libertas et interficiatur praefectus regis. Ac currentes ad habitationes Bostolorum et Albergottorum, illas igne consumpserunt, depredando omnia ipsorum bona".

[389] Così era chiamata comunemente, quasi per antonomasia la chiesa cattedrale. Le mura del cassero erano prossime alla tribuna della medesima, recingendo il Prato (Pasqui, op. cit., p. 250, nota 222). Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Ceterum Veneris luce que sequitur, admotis scalis ex adverso episcopatui magne arti, ea confestim potiti sunt, quique episcopatus fastigium primus scandere ausus est Sovatti filius fuit, porro igni porte admoto, ex palatio ac turri Arciguelfa factio in Casserettum confugit etc." Qui dunque il testo dovè esser diverso, trovandosi nel sunto dell'Alessi: "admotis scalis ex adverso episcopatui magne arci„ e nel volgarizzamento che fa Bastiano (ms. cit., c. 35 v)di un sunto simile a quello in Alessi, "posto le scale alla rocca maggiore al incontro della cittadella". Il Burali (op. cit., p. 4)  parlando del Cassero e casseretto dice che il Poggio di San Donato dove sorgevano queste fortezze era circondato dal primo cerchio di mura di laterizi romani, pigliando il principio di detto monte e venendo al Canto de' Pescioni, passava fino a sommo la Piazza grande arrivando al Murello vicino a Montetino, forse Mons Titanus, poi tirava per la volta di San Domenico piegando verso l'oriente, ricongiungendosi sotto detta fortezza, vicino alla porta di Col Citerone, corrottamente Colcitrone, qual ne' tempi più bassi fu appellata  Porta Crocifera.

[390] Era, pare, un avancorpo del casseretto, come può desumersi da questo passo di Simo d'Ubertino più volte citato, loc. cit.: "Memoria che giovedì da terza, dì IIII° de ferraio (l'anno è il 1381) fuoi preso nel casseretto ... E fuoi menato nel casseretto et di subito fuoi messo nella torre, et in su la scala di pietre di la torre, ch'è nel cantone di sopra a la porta et di sopra a l'ala ecc.".

[391] Cf. indietro, cap. V, vv. 40-42: "In cima de mia cresta | facta me fu per guardia la corona | che stata sempre m'è così molesta".

[392] Qui si intendeil palazzo e la torre del popolo. Vedi quanto alla torre ciò che è detto negli Annales Arretinorum Maiores ad annum 1331: "Et tunc elevata est turris palatii populi die xxvij mensis septembris, posita est super ipsa turri campana Comunis etc.".

[393] Cioè furono frodati, ingannati. Vedi Menagio, op. cit., alla voce barattare. Intorno al fatto di cui qui si parla, i cronisti del tempo hanno solo poche parole. In Bruni, op. cit., vol. III, p. 42 si dice solo: "Cum vero et arx ipsa novusque in ea praefectus obsideretur oppugnareturque aperte etc."; il Cronicon Estense (in Muratori, op. cit., XV, 508) vi accenna di sfuggita narrando che il Caracciolo chiamò in aiuto contro i Ghibellini d'Arezzo la compagnia di san Giorgio: "quia seditio inter Guelfos et Ghibellinos dictac civitatis orta erat". Così pure in Ser Naddo da Montecatini, op. cit., loc. cit., p. 34, non si dice se non che "i Tarlati ed Ubertini rubarono e fecero grandissimi oltraggi e torti ai Guelfi d'Arezzo, ed erano i Ghibellini signori d'Arezzo". Vedasi inoltre Giovanni Sercambi, Cronica, In Fonti per la Storia d'Italia Istit. St. It., vol. XIX, p. 223 e Anonimo, Diario ecc., già citato, loc. cit., VI, 432. Ma sopra tutto interessante è il racconto che fa Simo d'Ubertino nelle Memorie citate, in Pasqui, op. cit., loc. cit., p. 98. Secondo lui non furono solo Ghibellini quelli che dettero l'assalto ed espugnarono il cassero, ma anche Guelfi. Un altro particolare poi assai notevole è che l'assalto lo dettero perchè provocati: "per che la terra si levò a rumore et ongni persona andò sotto arme, et ghelfì et ghibellini con quelli de la casa da Petramala et de la casa degli Ubertini, et parte di guelfi n'andaro nel cassero e parte ne rimase di fore del cassero insiemi con quelli da Petramala e degli Ubertini e de' ghibellini, e stettero armati per fine che fu venerdì mattina, che quelli del cassero uscirono fore armata mano per combattere ecc."

[394] In F troviamo annotato di mano posteriore, nel margine: "a di 15 di novembre 138... fu preso il cassero grande, et li altri si ritirarono nel cassero piccolo con messer Iacopo Caraccioli". È certo che il cassero grande o di San Donato, che per mezzo di un corridoio comunicava, come attesta G. Villani (op. cit., XI, lx) col cassero di San Clemente, era anche collegato e molto vicino al casseretto chiamato di sant'Alberto che trovavasi sulla porta omonima, quella appunto per la quale passò poi la compagnia di san Giorgio, e che anzi formava insieme con quello una cosa sola, un solo forte e grande castello. Così ci sembra che debba intendersi il seguente passo del sopra ricordato Villani (op. cit., loc. cit.): "Ordinarono [i Fiorentini] "e feciono cominciare e compiere uno grande e forte castello al di sopra della piazza di Perci della città di Arezzo, il quale costò piú di 12 mila fiorini pagati per li Fiorentini; e ordinarvi due castellani". L'espressione: "ordinarvi due castellani" fa certo pensare che il forte e grande castello risultasse composto di un cassero e un casseretto.

[395] Qui il passo è alquanto oscuro; il senso è che i Ghibellini, sol che avessero passato i serragli fatti per difesa dinanzi al casseretto, non avrebbero molto faticato a sterminare i Guelfi e gli altri Ghibellini che s'erano a loro accostati e seguivano il Caracciolo, perchè dovendo essi passare a stento per lo sportello della porta, erano costretti ad affollarvisi offrendo così più facile bersaglio ai colpi. Brezagli vale bersagli. Apparisce poi chiaro da questi versi, che gli Aretini rifugiatisi col Caracciolo nel cassero non solo vi si erano afforzati, ma avevano alzato i serragli avanti al casseretto e l'avevano munito di quelle cose con che se difende", come leggesi in questo stesso capitolo, più avanti al v. 69, per cui più che mai troviamo esatta la testimonianza di ser Simo già ricordato che ebbe anche parte in questi avvenimenti. L'assalto al cassero fu dato, egli dice, dopochè il venerdì mattina ebbero gli assediati fatta una sortita contro gli assedianti. Cf. di sopra, la nota  393 "e stettero armati per fine che fu venardi mattina, che quelli del cassero uscirono fore armata mano per combattere".

[396] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit...: "ex palatio mox ac turri Arciguelfa factio in Casserrettum confugit, equis et impedimentis in predam aliis derelictis. Verum ipsi Guelfi cuneatim adnixi ingredi ab hostio pollebant ac vix uni binive confractis etiam palliis ingrediebantur etc. ".

[397] I annota: Piero di Dottino Gozzari teneva il castello di Schifanoia. Di lui parla anche il De Bonis nel Liber Aretii, canto 19° e 46°. Egli fece sì che i Ghibellini si lasciarono sfuggir l'occasione di penetrare nel casseretto, ove era il Caracciolo quando dettero l'assalto al Vescovado. Lo stesso ser Bartolomeo torna a parlar di lui al cap. XV, vv. 190 sgg.: "Pier di Dottino pur è stato colto | però che ha fatta dispietata morte | da bruchi vermi in prigion roso il volto". A tutti era venuto in odio, perchè "era e non era del vicar rubello", (Ser Bartolomeo, cap. XV, v. 201).  Fu fatto dal vicario venire con salva-condotto, e poi imprigionato. Ma ciò avvenne quando già il Villanuccio era entrato in Arezzo.

[398] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Avaricia ad hec exulum petramalensium ac manus agricolarum in victoria prorsus contabuit. Proditor vero Carracenus in arcem confugiens Sancti Alberti, turrim cum suis occupavit etc.". È questo di cui qui si parla il baluardo di sant'Alberto sulla porta omonima, situata a nord-est della città (Vedi sopra nota 394).

[399] Vedi Alessi, ms. cit., loc. cit.: "At cum pridem reversos exules iniuria affecisset, ob id frustra de pace agebatur". Vedi pure il volgarizzamento di Bastiano (ms. cit., c. 33 v e 34 r), che in questo punto aggiunge qualche cosa al sopra ricordato sunto alessiano. Egli dice dunque:... "et colui che prima havea ingiurato li forusciti ritornati, allora vedendo i nemici che in vano si sforzzavano di espugnare la rocca fortissima, ove egli si trovava, non voleva della pace sentir nulla ecc.". Il Platina, Lib. de vita Christi ac omnium pontificum, in Muratori, op. cit., (nuova ediz.), tomo III, parte I, p. 287), dice che il Caracciolo era giusto ed equanime, ma non è attendibile: "Aretini guelphi, tumultu excitato, Iacobum Carazolum Neapolitanum civem eo a rege missum, fugere in arcem compellunt. Confugere eo et gibellini, quibus certe vir aequus non magis quam guelphis consulebat. Volebat enim omnia pari iure in civitate agi".

[400] Vedi addietro in questo stesso capitolo la nota  352 e Alessi, ms. cit., loc. cit.: - "tum cassarettum munitissimum frustra oppugnar!".

[401] Non si ebbe nè la pace che prima d'ogni altra cosa si sarebbe dovuto desiderare col vicario in quella circostanza e non si ebbe poi nemmeno una difesa salda, rispondente al bisogno, perchè mancò perfino la concordia fra gli assalitori Pietramalesi, Ubertini e gli  altri Aretini di dentro e i contadini venuti, come s'è detto, dalla campagna.

[402] I annota: "L'abbate Santa Flora, huomo doppio". Era questi Nicolò Bandinucci di Arezzo (Nicolaus Bandinucci de Aretio), come risulta da diverse pergamene dell'Arch. Capitolare di Arezzo, Santa Flora e Lucilla. Egli fu abate del monastero di santa Flora e Lucilla dal 1376 fino al 1385. Aveva grande autorità, spesso interveniva ad adunanze delle persone più ragguardevoli della città nella curia episcopale che allora era nella chiesa di Murello. Vedi per questo in Arch. citato, loco citato, pergamena num. 1378, dell'anno 1378, ove, a proposito del vicario generale del vescovo Giovanni Albergotti, troviamo questa espressione: "pro tribunali sedens in ecclesia de Morello ubi residet episcopalis curia aretina". Bastiano d'Arezzo (ms. cit., c. 34 r.) aggiunge a questo punto che l'abate di Santa Flora desiderava il vescovado.

[403] Vedi il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Abbas ad hec Sancte Florae adversarum partium LX utrisque separatim quae in mandatis non habebat referre, Verum qui extra aderant vicario Iacobo obedire se pacem cupiebant. Urbis regimen ab eo componi, custodiam casseri habere, ex utraque factione quemlibet domum abire, porro quod oppida ab hisdem redderentur etc.".

[404] I Bostoli, gli Albergotti e i Camaiani erano, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, i capi degli Arciguelfi, che erano quei Guelfi che a Firenze si sarebbero chiamati Guelfi neri.

[405] Vedi sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "Sui vero abirent liberi, postremo rerum harum vades utrinque darentur et haec publice conciones ab Abbate relatae, aliae deinceps relatae offensae quemque presto esse, ac dux militiae hisdem constitueretur ne diversi abirent propria voluntate freti. Ceterum omnes segnitie et socordia ducti avaritiae proinde ac populationibus intendere ac cuniculos tempore terentes effodere, omissa prorsus ignaviter cura urbis internae custodiae, ac sine duce multitudo confusa in cassum omnia conari etc ". Fiero rimbrotto di ser Bartolomeo contro i Ghibellini, che per la negligenza e l'avarizia non compirono la propria vittoria già quasi guadagnata, perchè i vincitori, invece di snidare i vinti anche dalla rocca, si danno, come vili soldati di ventura, a porre a sacco le case dei Guelfi. Il vicario, d'accordo coi Sessanta, approfittò di quella negligenza e potè sollecitare gli aiuti del conte Alberico da Barbiano, che, assoldato dal re Carlo, trovavasi colla sua tremenda compagnia sotto Perugia, al Ponte San Giovanni. Vergogna dei Tarlati ed Ubertini e dei Ghibellini in generale che non impedirono tale richiesta.

[406] Di qui si conosce che gli assedianti non seppero far niente con senno: la difesa che apprestarono fu quanto mai debole attorno ad Arezzo, perchè la distesero imprudentemente in un circuito troppo vasto. Cf. con questi, i versi seguenti 148-150. Vedasi anche Bastiano, ms. cit., loc. cit.: "et mentre che si perde il tempo in far cave, lasciata interamente la cura della città, ogni cosa dal populo confuso et senza capo et guida si governa ecc. ".

[407] Accia vale lino o stoppa o canapa filata e subbio o legno rotondo, sopra il quale i tessitori avvolgono la tela ordita (Menago, op. cit., alle voci Accia e Subbio).

[408] Era, secondo il Sercambi (op. cit., loc. cit.) castellano della fortezza "uno cittadino di Luccha, nome Anfrione delli Opizi". Ed è opportuno notar qui ciò che il predetto cronista narra in proposito: "doppo certo tempo [da quando Arezzo si dette a Carlo di Darazzo], li ghibellini col loro seguaci, ciò furono quelli da Pietra Mala et messer Azzo delli Ubertini, romoreggionno la dicta ciptà in tal maniera "che 'guelfi funno costrecti a partirsi d'ella, et ricorrare in nella roccha, e i ghibellini rubando e ardendo i guelfi, et prendendo le fortezze d'Arezzo, cioè lo castello del Vescovo, lo palagio del podestà, e taglando il muro che andava alla roccha, e aparecchiandosi combattere la roccha d'Arezzo etc. ". L'Alessi pure ms. cit., loc. cit., Ex documentis antiquis privatis, così racconta: "Arretij inter Guelfos Gibellinosque gliscente seditione, armis utrinque concursum XIIIa novembris urbe Gibellis potitis, preter cassari arce, quam regis Caroli prefectus, presidio tutabatur, Guelfis ad eum concurrentibus atque a Gibellinis omnifariam obsessis dum tempus frustra teritur, Divi Georgij militaris agmen prepotens, quam Campagnam vocitabant, ex ponte Sancti Iohannis, perusino agro, accitur huc cuius prefecto nomen Albrigo, comiti de Barbiano ducentis ac supra mille equitibus. Hic Arretium convocans in urbem intromittitur".

[409] Vedi sopra v. 22, e nota.

[410] F annota: "Vegezio Renato, dell'arte militare" Vedi Flavii Vegetii Renati, De re militari. Vegezio parla del duce più volte nella sua opera, ma specialmente nel secondo libro. Per quel che qui dice il poeta, vedasi il cap. X del lib. III, e il relativo Comentarius Godescalci Sterwechi. Del resto questo ricordo di Vegezio è troppo vago e indeterminato.

[411] Il Ponte San Giovanni è presso Perugia; ivi era accampato il conte Alberigo da Barbiano. Il fatto è confermato e illustrato con copia di particolari in Bruni, op. cit., vol. III, p. 42. "Cum vero et ars ipsa novusque in ea praefectus obsideretur oppugnareturque aperte, cives in arcem compulsi una cum praefecto remedia cogitabant. Forte per id tempus Albericus comes Italicique sub eo, in societatem coatti, in finibus Perusinorum Cortonensiumque degebant. Hos advocare placuit, ac bona inimicorum praedam illis polliceri. Missis ergo qui haec rogarent offerrentque, motus impigre Albericus cum omnibus copiis, advenit receptusque per arcem et in urbem immissus, cum etiam ex aree descendentes cives amicique eorum adiuvarent, Saconis filii et agnati Ubertinique omnes eorum copiae ex urbe pelluntur. Sed Albericus Italicique sub eo militantes non illorum dumtaxat domos, sed universam civitatem diripuere, corporibus quidem parcentes, bona vero sine distinctione aliqua rapinae predaeque subiicientes". Non è esatto il Bruni nel dire che il Barbiano era fra Perugia e Cortona; era invece nel piano d'Assisi e gli ambasciatori furono mandati dal Caracciolo a chiamarlo al Ponte San Giovanni, che è proprio alle falde del colle su cui è posta Perugia, verso Assisi. Col racconto di ser Bartolomeo concorda quello del comtemporaneo aretino ser Simo più volte citato, il quale si trovò presente agli avvenimenti: egli ci fa anche sapere il nome del capo degli ambasciatori, come pure il giorno preciso nel quale furono spediti a chiamarlo. Dice dunque (Ricordi citati, in Pasqui, op. cit., loc. cit.).- " el dì subbito [è il Venerdì] mandaro [il Caracciolo e i Guelfil Meo di Bostoli con altri citadini in quello di Perosgia, per  la compagnia di San Giorgio ecc.,. Il più volte citato Anonimo, Diario ecc., loc. cit., p. 432: "Oggi a dì XV di novembre  vennono in Firenze novelle come i Tarlati e Ubertini erano entrati per forza in Arezzo per cacciare fuori Albergotti e Bostoli e Camaiani. Onde sentendo quel vicario, ch'era in Arezzo per lo re Carlo, si trattò subitamente con quella compagnia di Taliani, e sì la misse dentro a dì 18 di novembre, per campare. Egli sì s'accordò e misegli dentro con questi patti che s'avesso' tutta la  roba e le famiglie, e solo lasciassono la terra e le mura a re Carlo, e così hanno fatto". Si veda anche il sunto in Alessi, ms. cit., loc. cit.: "At dum frustra id agitur, Carracenus numptium in perusinum agrum ad Sancti Ianni pontem promissit, Alberigum comitem accersitum: is cum militaribus copiis, quae societas Divi Georgij dicebatur, perusino agro et cortonensi iter properans, Arretium contendit. Petramalenses interea haud rerum ignari, tametsi cladem prospexissent, avaritia ducti, segnitia torpentes tutelam prorsus omissere. Gorellus, cap. XI". Anche il Platina sopra ricordato op. cit., loc. cit., si accorda col nostro ser Bartolomeo: "Accito itaque ob acceptam iniuriam Alberico Barbiano a Tudertinorum finibus, urbem ingressus, dum Guelphos ad oflicium redire conatur, Gibellinorum quoque bona diripit". Pietro Laurenzi, Cronica castellana, ms. cit., in Pasqui, op. cit., p. 250, nota 231: "Rumoreggiossi la città di Arezzo, che la teneva il re Carlo di Puglia et il rumore fu tra Guelfi e Ghibellini; i Gibellini vensoro tutta la terra, salvo che il cassare minore, nel quale era il castellano del detto re Carlo; lì dentro si ridussero tutti li Guelfi. Mandorno per la compagnia di san Giorgio; era al Ponte di San Gianni, contado di Perugia; erono doddici centinaia di cavalli. I Guelfi per vendicarsi dei Gibellini misero dentro la detta compagnia, vinsero la terra e cacciarono i Gibellini e quelli di Pietramala e li Ubertini, e robbarono tutta la città», ecc. Vedansi inoltre le Consulte che intorno a ciò si tennero in Firenze, cominciando appunto dal 15 di novembre (Arch. di Stato di Firenze, Reg. 22) e sopratutto le molte e importantissime lettere della Repubblica ai suoi collegati, in ispecie ai Bolognesi, per impetrarne aiuti, nel caso che la gente che aveva dato il sacco ad Arezzo entrasse nel territorio di Firenze, come poi avvenne; a Iacopo Carracciolo ed anche allo stesso re Carlo ch'ella chiama «serenissimo e vittorioso principe, columna fidei, spes guelforum et huius nostri devotissimi populi praesidium singulare" (Missive, Reg. 19, c. 191 sgg.). In Graziani, op. cit., loc. cit., p. 228 si legge: "In questo mezo la compagnia de gli Italiani sopradetti pigliarono Arezzo per tradimento, donde fuggir quasi la maggior parte dei cittadini, et dette genti tenner la città ad istanza loro". In una pergamena dell'Arch. Capitolare Aretino troviamo questa invasione della Compagnia di san Giorgio detta "soccorso", chè tale la considerarono i Guelfi. Il documento è del  novembre di quell'anno. In esso un tale dice di aver avuto da Antonio Albergotti la somma di 300 fiorini a prestito per riscattarsi dalla prigionia in cui era tenuto da un caporale della compagnia predetta  "tempore succursus fatti per dictam brigatam" (Pergamene di varia provenienza, num. 889).

[412] Le parole che chiudono malinconicamente la rubr. 907 dello Stefani, op. cit., a riguardo dei Fiorentini, potrebbero certo ripetersi anche qui per gli Aretini: "E così vanno i fatti di Fiorentini, per le dissensioni dentro, quelli di fuori n'arrichiscono ed i Fiorentini ed i contadini cattivegli ne rimangono diserti, e le Compagnie se ne allievano, e pigliano vigore e ardire".

[413] Poniamo qui, per illustrazione a questo passo, alcuni dei versi coi quali Bandino d'Arezzo termina la descrizione di quella nobile città, che pubblichiamo in Appendice alla presente Cronica (documento num. 13). É Arezzo che parla: "Et son fatta spelunca de ladroni | casa et hostello d'ogn'on di mala vita. | Così son fatte le mie conditioni | che spesse, volte me convien dire ita | a la mia morte e miei distructioni. | o dimagrati ei miei buon citadini,  masenadieri ingrasso et asassini ".

[414] Intorno a questo sacco che la città d'Arezzo ebbe a soffrire per le interne dissensioni nell'anno 1381, vedi oltre il citato Liber Aretii del De Bonis, anche la sua egloga Arretium, "ubi describitur destructio Aretii". Carrara, Giovanni L. De Bonis d'Arezzo ecc. Milano 1898, p. 32. In Ser Naddo da Montecatini, op. cit., loc. cit., 34) si dice che il Caracciolo, perchè vedeva di non poter far d'Arezzo come di terra guelfa, e temendo di perderla, mandò a chiamare il conte Alberigo da Barbiano colla sua compagnia di san Giorgio: assegna come data ai fatti sopra narrati dal nostro cronista i giorni 15, 17 e 18 di novembre. Giovanni Sercambi pure (op. cit., loc. cit., p. 223 sgg.) narra con molti particolari il fatto e aggiunge anzi che con lui sarebbe venuto anche

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Ultimo aggiornamento: 04 febbraio 2009