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The Project Gutenberg eBook of Il segreto dei fatti palesi seguiti nel 1859, by Niccol? Tommaseo. /head>

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The Project Gutenberg EBook of Il segreto dei fatti palesi seguiti nel 1859, by 




Niccol? Tommaseo









This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with




almost no restrictions whatsoever.  You may copy it, give it away or




re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included




with this eBook or online at www.gutenberg.org














Title: Il segreto dei fatti palesi seguiti nel 1859









Author: Niccol? Tommaseo









Release Date: January 15, 2011 [EBook #34969]









Language: Italian









Character set encoding: ISO-8859-1









*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL SEGRETO DEI FATTI PALESI ***
























Produced by Carlo Traverso, Leonardo Palladino and the




Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net




(This file was produced from images generously made




available by The Internet Archive)


































[I]

IL

SEGRETO DEI FATTI PALESI


SEGUITI NEL 1859


INDAGINI

DI

NICCOL? TOMMASEO.


I PATTI E I FATTI.—NECESSIT? URGENTE.
IL VENETO.—L'ITALIA DI MEZZO.
IL PAPA NON ? RE, MA IL CARDINALE ANTONELLI.
GL'ITALIANI, I MAGIARI, GLI SLAVI.

FIRENZE,
BARB?RA, BIANCHI E COMP.
Tipografi-Editori, Via Faenza, 4765.
1860.

[II]


Propriet? letteraria.


[III]

 

Chi leggesse per primo lo scritto intitolato Il Papa non ? Re, ma il Cardinale Antonelli, o l'altro l'Italia di mezzo, badi che alcune delle cose toccate in quelli hanno al possibile dichiarazione dagli altri nell'opuscolo contenuti. Dico al possibile, perch? certe cose non ? lecito esprimere nelle stagioni che la libert? comincia o finisce, come in quelle di piena servit?, quando il dire ? pericolo; dove all'incontro in quell'altre il reprimere i propri affetti pu? essere pi? difficile coraggio, perch? pi? forte astinenza. Ci? nondimeno [IV]accennasi qui entro a cagioni o circostanze di fatti, non indicate ne' documenti e ne' libri finqu? pubblicati. La novit? non ? invenzione, ? sincerit?: ma la sincerit? non detrae del rispetto alle persone, n? della gratitudine per quella parte di bene che han fatto, e per quella a cui si sono col desiderio sollevati.

Uno scrittore milite, marchese artista, politico d'ingegno elegante, uomo di felice facilit? in ogni cosa che opera e dice e patisce, affermava dianzi che il mondo d'oggid? comincia a essere governato non dalla fede cristiana ma dal principio cristiano. E ne reca in prova il non si essere nella guerra di Crimea dato patenti di corsari a infestare il mare con legittime ruberie. Io non so veramente se da legittime ruberie siano o sperino farsi in breve sicure le terre; e se quel nuovo pudore, certamente lodevole e fausto, non sia dovuto almeno in parte alla potenza diplomatica del commercio, al prevalere della bottega sul gabinetto, all'essersi fatta la stessa politica pi? e pi? trafficante. Non [V]so se il principio cristiano, anco che vogliasi senza fede, abbia trionfato nella guerra di Crimea, la qual guerra non tolse i seguaci del Vangelo alla scimitarra e agli strazii che il Corano santifica; non so se trionfasse nella Grecia, impedita d'insorgere dalle armi cristiane; se trionfi in Polonia dove il rito orientale ? predicato tuttavia a suon di busse, e lo knutte ? l'aspersorio cruento del prete benedicente; se trionfi in America sotto il patibolo di Giovanni Brown, dove la libert? ? macellaia e mercante di umana carne, e siede a banchetto tracannando sangue che il boia le mesce. Forse coteste eccezioni al principio cristiano vengono appunto dal mancare a esso fede vera: ma di questa non pare che possa farsi apostolo degno il Cardinale Antonelli.

6 Gennaio 1860.


[3]

I PATTI E I FATTI.


[5]

I.—Assunto.

Il non conoscere certi fatti, il trasandarne taluni, o il non li collegare insieme, il fondare sopra cotesto imperfetto e caduco edifizio troppo grandi speranze, apparecchia disinganni gravi; dai quali poi l'inscienza stessa o la negligenza de' fatti ci toglie poter dedurre utili insegnamenti per il tempo avvenire. Acciocch? dunque le recenti vicende ci fruttino, importa collegare tra loro certi fatti dispersi, accennare come meglio si pu? a certi altri o ignorati da molti o non voluti avvertire; i vuoti che lascia anco la storia coetanea, riempierli colle induzioni che porge l'esperienza, e la conoscenza sicura di certe particolarit? quanto pi? minute o intime, tanto pi? rilevanti. La cronaca del giorno d'ieri ha anch'essa la sua critica come le indagini dell'antichit? pi? remota: e il giudizio intero d'avvenimenti recentissimi, bisogna talvolta saperlo comporre al modo che si[6] ricompongono i mastodonti. Questo studio d'archeologia contemporanea noi tenteremo qui, e non per vana curiosit?.

Ragioneremo, senz'odii n? amori di parte, cose meno gravi a udire che a dire; ma ci asterremo da ogni acerba parola.

II.—Prime mosse nazionali.

Nell'agosto del 1856 lo scrivente ebbe contezza del concetto di Giuseppe La Masa, maturato da esso, a quant'egli dice, assai prima; del francare l'Italia con moti concordi di tutta la nazione, e nel fine e ne' mezzi avviarla a unit?. Interrogato, per discarico di coscienza e non gi? ch'io dessi peso al mio voto, io sottoscrissi alla proposta, con le due condizioni espresse: che l'unit? fosse il fine, che tutta la nazione concorrere ne' mezzi, con libere forze ma docili concorresse; che i governi e gli eserciti regolari, di queste forze non volessero diffidare, ma sapessero fortemente ordinarle. Altri soscrissero: uomini che si dicevano devoti al Piemonte, s'astennero come da soverchio ardimento. Usc? nel settembre la lettera di Daniele Manin, scritta in nome proprio di lui solo, che dava l'Italia al Piemonte, senz'altra condizione se non che il Piemonte facesse l'Italia. Cotesto parve a taluni imporre troppo poco, e troppo; perch? nazione non si fa n? da un re, n? da un ministro, n? da una parte d'essa nazione, per valida e sapiente e risoluta e omogenea che sia. Ma forse era semplice impropriet? di linguaggio: la risoluzione[7] del posporre il bene delle parti al bene del tutto, era di buon cittadino. Chi si trovava allora in Piemonte, e chi ne leggeva i giornali anche fuori, sa come parecchi, nell'atto stesso del trionfare di tal concezione quasi di confessione, se ne facessero beffe, serbandola per? come un'arme, e pensando a trarne profitto per fini pi? angusti ancora, e con pi? larghi arbitrii di quelli che consentiva il Manin. Fu poi fondata la Societ? il cui assunto era l'indipendenza di tutta intera la Penisola sotto la dittatura di Vittorio Emanuele, senz'altra condizione nessuna in guarentigia de' popoli combattenti, ma in guarentigia del leale condottiere concedendo che, se non il tutto, facessesi di liberare il pi? possibile delle parti. Condizione che nella mente di Giorgio Pallavicini, l'egregio Presidente della societ?, era l'ultimo caso e pi? remoto, nella mente d'altri il pi? prossimo ed unico. Chi s'avvedeva della segreta discrepanza nell'apparente concordia, se amico schietto d'Italia e del Piemonte, ne prendeva mal augurio e dolore; se faccendiere o uso a ridere del pro e del contro, se ne faceva gioco. Taluni temevano che la Societ?, creata per indirizzare il governo, non fosse da certi interpreti del governo, o che per tali si spacciavano, troppo indirizzata essa stessa; che di stimolante che intendeva essere modestamente, non fosse da ultimo se non frenabile dagli stimolati; che parendo operare come d'autorit? e quasi d'uffizio, non mettesse nei lontani fiducia pericolosa e troppo precipitose speranze, confondendosi la sua voce con la voce dello stesso governo; che[8] di qui si destassero i sospetti non inerti e non mansueti degli avversi, i quali griderebbero s? provocati, e si armerebbero in tempo, e potrebbero intanto infierire sugli incautamente speranti, resi dalla speranza minacciosi in parole, e malaccorti a discernere l'altrui simulata paura e il proprio pericolo; finalmente, che l'impresa diretta ad effetto d'ispirazione non paresse una mezza cospirazione, e non ne apportasse gl'inconvenienti. Delle intenzioni pie e generose del Presidente e di non pochi Socii, sarebbe stato calunnia e crudelt? dubitare, e non gliene rendere onore. Ma il fatto si ? che al rompere della guerra, il degno uomo credette inevitabile sciogliere la Societ?, non gi? che il fine, cio? l'indipendenza delle parti, non che l'unit?, fosse allora ottenuto; ma perch? la condizione segreta e palese de' fatti, se non degli animi, a lui stesso appariva mutata. Lo scoramento dell'onest'uomo, e non tanto credulo quanto a certi goffamente furbi piaceva spacciarlo, era presagio; e di pi? settimane precorse ai fatti.

III.—Svolgersi del concetto.

Ma ed egli, e tutti i veramente avveduti, cio? gli onesti, non disperano per?, e disperare non devono. Se la prova non ? riuscita qual si voleva, ? nondimeno in certi rispetti riuscita oltre alla speranza di taluni, oltre alla tema o agli angusti desiderii di tali altri. Intanto la forza delle cose ha voluto che delle braccia e delle volont? concorrenti da diverse parti della nazione dovesse fare suo pro anco chi sulle[9] prime ne diffidava, e non avrebbe imaginato in altrui tanta fede, n? forse voluta. La prontezza bramosa colla quale migliaia d'Italiani, che pochi anni fa non se lo sarebbero n? anco sognato, affrontarono il dolore de' cari loro, i sospetti e le persecuzioni de' governi, la pena del confino o della carcere o della morte, per venire dopo i terrori di furtiva e lungamente tortuosa e dispendiosa fuga a affrontare gli splendidi pericoli della guerra; la docile pazienza con cui sostennero gl'inaspettati rifiuti, e gl'indugi fatti tormentosi dal desiderio e dall'inopia e dal pensiero dei cari lontani indarno abbandonati, e i disagi del quartiere pi? gravi che quelli del campo, e gl'imperii militari talvolta pi? duri che la disciplina non richiedesse; ? fatto nuovo nella storia italiana, e, checch? possa accadere, fecondo. E quand'io parlo di rifiuti e d'indugi e d'imperii duri, non intendo incolpare tutti, anzi nessuno, quant'? all'animo e alle intenzioni. Dacch? gli abiti del vivere e quelli del temperamento non mutano a un tratto; e l'educazione civile mutua ? cosa di secoli. Ma certo ? che, a dispetto di tutti gl'impedimenti, gl'Italiani nati in paesi il cui nome a non pochi forse de' Piemontesi era ignoto finora, si strinsero ad essi come a fratelli, e al loro fianco combatterono degnamente. Col piemontese La Marmora e col savoiardo Mollard stettero i modenesi Cialdini, Cucchiari, Fanti; e il nizzardo Garibaldi, col nome suo a certi Italiani spaventoso forse pi? che ai nemici, attrasse a s? una schiera diversa di patrie, unanime di cuore, la quale, aiutata poteva[10] ancora pi? efficacemente aiutare. E in Piemonte altri non Piemontesi tennero grado onorevole di milizia, e lo meritarono; e Piemontesi altrove ebbero quasi trionfale accoglienza. Quanto poi al concetto finale dell'unit?, io non dir? che il pensiero di taluni tra quegli stessi che pi? ne parevano vaghi corrispondesse alle parole, o le parole quanto potevano ai fatti; ma dir? che dal cinquansei ? grande anche in ci? l'intervallo; e non ? colpa di tutti gl'Italiani se ad allargare le idee e le voglie di taluni ? bisognato o giovato anco l'aspetto e l'invito d'uno straniero potente. E qui per ispiegare vicende le quali ai pi? paiono inesplicabili, forza ? salire alquant'alto, toccando soltanto quel ch'? necessario a farsi capire o indovinare, ma alle persone e alle intenzioni osservando la debita o riverenza o piet?.

IV.—Guerra di Crimea.

Ognuno rammenta che uomini e Piemontesi e d'altre parti d'Italia, amici e questi e quelli all'onore di tutta Italia e in specialit? del Piemonte, dalla guerra di Crimea dissentivano. Le ragioni a concorrervi erano timore de' potentati invitanti, se rifiutati; se obbediti, speranza. Potevasi opporre che la speranza d'ingrandimento, il quale avesse dalla guerra a venire, non era bene augurata, se nel timore del contrario leggevasi una confessione di debolezza; e che la forza vera del Piemonte dovevasi attingere dal seno della nazione stessa, non da aiuti di fuori. E questo tanto pi?, che la paura dei tristi[11] effetti del rifiuto era vana; perch? nessun potentato d'Europa, n? anco il vicino pi? nemico di tutti, avrebbe permesso che con invasioni si fosse esercitata vendetta sopra il Piemonte, difeso dalla sua giacitura e dalle reciproche gelosie. E quanto al non sperare dai corrucciati soccorso al bisogno; ognun sa che siccome la gratitudine di per s? sola non ? la ragione del porgere soccorsi politici, cos? n? anco l'ingratitudine altrui ? ragione a negarli, quando il soccorrente sia mosso dalle utilit? proprie e dai propri pericoli. Intendimento degli alleati d'allora nell'invitare il Piemonte non era tanto d'avere il sussidio de' suoi ventimila, del resto valenti, quanto d'attrarre Austria a s? con la minaccia d'un'amicizia che potrebbe tornarle molesta. I negoziati allora tenuti lo provano in modo assai chiaro: a chi non bastasse la conoscenza degli uomini e della storia, lo provano i fatti seguiti. Austria intese; e il gioco rivolto contro lei torse a proprio vantaggio, promettendosi alleata se le assicurassero quieto intanto il dominio in Italia, e dal Piemonte nessuna briga. Collegarsi per gratitudine a Russia non poteva, s? per timore d'una vendetta e in Italia e altrove, s? perch?, ripetiamolo, la gratitudine ? una virt? privata, tutt'al pi? un consiglio evangelico ai Gabinetti. N? l'innalzamento del Russo e la depressione del Turco potevano all'Austria parere desiderabili. Dall'altro lato prestare servigi d'accordo col Piemonte a Francia e a Inghilterra, foss'anco in pro di Turchia, non stimava comoda cosa; ma pi? spediente, risparmiando le[12] forze proprie risparmiare anco la Russia, quasi una mezza alleata; occupando i Principati, renderle meno grave il peso della guerra; e stare intanto a vedere da qual parte pender? la vittoria. Accusarla di perfidia, nella condizione in cui l'avevano posta tutti i precedenti suoi atti, nella presente moralit? della politica comune (la quale fa vieppi? risaltare le eccezioni generose, ma non le pu? convertire in legge per ora), ? semplicit? in cui non cadono gli uomini di Stato, n? anco quelli che del riservo dell'Austria hanno poco a lodarsi. Nessuno si pensa di chiedere l'impossibile; e i sagrifizi pericolosi senza guarentigia di compenso sono un impossibile agli uomini pratici.

V.—Cose desiderate da farsi tra il 49 e il 58.

Ma per ritornare al Piemonte, i vantaggi da quella alleanza sperati, non a tutti parevano tali che non se ne potessero attendere altri maggiori da chi sapesse aspettare, nel che consiste assai volte e la virt? e la prudenza degli uomini di governo. Io qui non intendo detrarre punto alle lodi d'un uomo d'ingegno arguto e di rara operosit?; che n? questo ? momento a riprensioni, n? io me ne sento autorit? n? prurito; e le riprensioni, se giuste, dovrebbero rifarsi da taluni almeno di quelli che precedettero ad esso. Ma non devo tacere che parecchi e Piemontesi e sinceri amici al Piemonte desideravano che per il bene d'Italia si fosse qui, fin dal primo, proceduto altrimenti. Desideravano[13] che nei pi? che dieci anni di costosa aspettazione; di troppo sicura incertezza, di non sufficiente apparecchio n? alla guerra n? alla pace, scemassero i dispendii sospetti dell'esercito, quanto al numero delle milizie, ma gli arnesi di guerra venissersi intanto accumulando; addestrassersi i militi cittadini sul serio; si raffermasse con la disciplina lo spirito militare congenito a questo popolo buono; s'imitassero in ci? le istituzioni di Prussia; che si provvedesse alla marineria, tanto negletta fin dopo intimata la guerra; non si sdegnasse in ci? l'opera degli esuli Veneti, n? il sussidio dato loro paresse gratuita carit?; con simile intendimento ascrivessersi almeno i pi? reputati fra i militi d'altre parti d'Italia, non aspettando di farlo agli estremi, con risico di non ottima scelta; prima che alla magnificenza de' porti, si desse cura al modo di degnamente, se non riempierli, munirli, e con essi le coste, acciocch? un altro Stato italiano, provocato provocante (e fu provocato abbastanza) non potesse con le ben guarnite sue navi impunemente assalire, e non si dovesse anche in questo riporre tutta intera la speranza nel sussidio, non sempre sicuro e pronto, non mai affatto gratuito, degli stranieri invocati. Desideravano che, scemate le spese di guerra in tempo di pace, se non scemare, non crescesse almeno il debito pubblico, che ? debito di ciascun cittadino, e ne pagano il pro pi? caro quelli a cui meno fa pro, quelli che meno possono; che le imposte non si aggravassero specialmente sulle arti minute e sul commercio minuto; che i possidenti[14] pagassero il giusto, e a tal fine il catasto fosse prontamente iniziato, e intanto una pi? equa distribuzione suppletoria attenuasse i danni dello Stato, e alleggerisse i pesi del popolo; che alla sorte de' villici si cominciasse a provvedere, buona parte dei quali in Piemonte sono in condizione pi? dura che in altri paesi non aventi Statuto; che alla prosperit? dell'industria s'aiutasse non solo con mostre di pompa che non creano, e con premii che non ispirano, ma promovendo la diffusione delle utili novit?, e principalmente curando che nelle Societ? degli Artieri l'amore della libert? e quel dell'ordine, la religione e la istruzione concorressero al fine medesimo, non fossero commessi a battaglia dissolutrice d'ogni vincolo umano; che al commercio fosse dato braccio, in ispecie al marittimo, il qual darebbe alle coste non pericolosa importanza, e, insieme coll'agricoltura e colle arti, vita nuova all'isola di Sardegna la qual si sospetta disamata e spregiata; che nel lusso delle strade ferrate, non tanto utile al vivere materiale quanto forse dannoso al civile e morale delle Provincie, troppo da meno di poche citt? dominanti, non si trasandassero, e in Sardegna e altrove le strade interne, che son come le vene del gran corpo, necessarie insino alle ultime sue estremit?. Desideravano sopra molte altre cose data al Municipio l'importanza dovuta, senza la costituzione del quale non solamente gli Statuti non valgono, ma possono farsi fomite di corruzione e strumento di tanto pi? cattiva schiavit? quanto pi? palliata; che delle deliberazioni municipali e delle provinciali facessesi[15] grado a quelle del parlamento; che il parlamento fosse da' governanti rispettato non solo co' modi urbani del dire e del sedere, ma principalmente col lasciarne la concezione vergine d'ogni macchia, le elezioni pure d'ogni sospetto, non dico di subornazioni ma n? anco di suggestioni indirette, di promesse di cose lecite, di lusinghe insolitamente benigne. Desideravano che i lavori del parlamento fossero meno travagliosi per lunghezza e verbosit?, e insieme pi? fruttuosi per leggi non disputate senza concludere, non fatte per poi disfare e rifare, leggi che l'ordine civile col nuov'ordine politico conciliassero; che le penali fossero cos? ritemprate da non far parere necessario il lusso de' patiboli, lusso il qual non corregge i costumi, ma li fa atroci laddove non sono; che provvedessesi alla sanit? e moralit? delle carceri, fogne di tutta sorte contagi; che nei processi di stampa le sentenze de' giudici alla coscienza pubblica vera, non allo schiamazzo di pochi giornali, n? al cenno de' governanti, neppur sospettato, ubbidissero; che non solamente la calunnia ma lo scherno, specialmente se v?lto contro interi ordini di persone, fosse esemplarmente punito, perch? stupra la libert? e nel cospetto de' nemici la infama; che a frenare la licenza non fosse bisogno d'imperii venuti di fuori; e che della necessit? di servire a tali imperii si approfittasse per frenare a un tratto ogni maniera di licenza, e non permettere che, dall'un lato repressa, dall'altro essa si scagli a insolentire pi? che mai sopra i deboli, e le credenze del popolo senza n? civilt? n? pudore conculchi. Desideravano[16] che l'istruzione educatrice si promovesse non per moltiplicazione di scuolette impotenti o tentatrici e di maestrucoli arrogantelli o scandalosi, e d'ispezioni sopra ispezioni, d'esami sopra esami, di testi sopra testi, di norme e di guarentigie sopra norme e guarentigie, le quali mai non giungono a regolare e ad assicurare s? stesse; ma per fondazione di buone scuole a formare maestri, per scelta pronta e rispettosa di direttori e precettori autorevoli, senza prova oltraggiosa di concorsi e inutile di attestazioni; che coi riguardi debiti non alle fazioni ma alla pubblica moralit?, non ai gazzettieri, ma ai padri di famiglia s'aprisse libero l'adito all'insegnamento privato; che il letargo delle universit? per il paragone si scotesse; che dell'illustre Accademia delle Scienze si facesse un consiglio di civilt?, un modello delle Accademie rinnovellate, si accettassero o chiamassersi gli uomini insigni di tutta la nazione, che sarebbero accorsi riconoscenti; e si levasse un vessillo men minaccioso del bellico, e pi? unificatore davvero, e pi? trionfale. Desideravano che la prima mossa civile dopo le calamit? militari non paresse un voler, non potendo con Vienna, attaccare la guerra con Roma; che alle necessarie franchigie della potest? secolare prendessersi gli auspizi dell'esempio di Francia e di Toscana e di Napoli, ma senza piglio inimichevole n? in forma di sfida, giacch? con una potest? che resistendo immobile, stanca, e vince aspettando, le impazienze non valgono; che dei vescovi, non ancora provocati, scegliessersi i meglio disposti, e la loro autorit? si opponesse ai restii;[17] che tra' preti si rivolgesse l'occhio a que' tanti i quali alle mutate cose s'erano dimostrati propensi, n? tutti si lasciassero da goffe impertinenze o inasprire o condannare al silenzio; che inutilmente non s'aizzassero i frati, con la minaccia alienando da s? anco i non tocchi, e facendo gridare all'usurpazione intanto che lo Stato e il popolo sopportavano dalla confiscazione improvida pesi pi? gravi, come se fosse gloria e lucro e trastullo il crearsi a bella posta, e a proprie spese quasi assoldarsi, nemici. Desideravano che le divisioni, per le quali il vecchio Piemonte non ? ancora ben fuso in s? e per? invalido a fondere nuovi paesi che non siano provincie, divisioni ad ora ad ora prorompenti in discordia, fossero per savie elezioni di magistrati e per avvedimenti morali meglio che politici mano mano composte; che tra gli esuli facessesi tale discernimento, da non eccedere n? in predilezioni e indulgenze malcaute, n? in diffidenze ingiuriose, n? in severit? precipitose o tarde, le quali paressero atti d'arbitrio o di ubbidienza soverchia a cenni stranieri. Desideravano che alle relazioni cogli esteri Stati fosse tenuto dietro con veduta pi? ampia; che si sbrattassero Consoli inetti o ignobili o ligi a potentati non amici; che massime nel Levante, dove la lingua d'Italia ? tuttavia la pi? nota, ma quella di Francia tra poco soverchier?, la bandiera Piemontese si facesse proteggitrice di tutti gl'Italiani, anzi de' Cristiani, indarno invocata. Desideravano che gli altri potentati d'Italia non fossero fuor di tempo irritati, n? da minacciose promesse tenuti all'erta, ma, cominciando dai meno[18] avversi, procurassesi di ottenere da essi, ogni agevolezza possibile e a s? e ai loro sudditi; non si permettesse ai giornali insolentirgli contro, non si attendesse per questo il precetto di Francia; non si facesse nelle animosit? distinzione ingenerosa tra i forti e i deboli; i pi? ostinati tra questi mettessersi dalla parte del torto coll'abbondare in riguardi, che mai non potevano parere paura; che con gli esempi del meglio tranquillamente continuati, questa parte d'Italia si facesse rimprovero a chi non la voleva modello. Desideravano (cosa per vero difficile a condurre, ma non impossibile politicamente, in dieci anni di tempo), che deposte le diffidenze proprie e dileguate a poco a poco le altrui, ritentassesi quello che si era fiaccamente voluto nel 48 o fatto le viste di volere, dico la colleganza, non di servigi dall'un lato e d'imperii dall'altro, ma di mutui sicuri vantaggi tra i due grandi Stati Italiani i quali soli potevano rendere vita di nazione all'Italia; che quel vincolo maritale il qual poi stretto a questo fine con una famiglia che i suoi doveri fanno essere necessariamente straniera, per quanto le sue affezioni vogliasi credere che la rendano amica e devota, quel vincolo si stringesse a viemmeglio preparare l'interna unit?.

VI.—Congresso a Parigi.

Io non dico che tutte queste fossero cose operabili: dico anzi che da un solo uomo operabili non erano n? tutte n? la minima parte di quelle; che le pi? importanti operare non poteva il Piemonte[19] tutto intero qual ?. Io non approvo e non biasimo; espongo, e rammento. E la memoria mi dice che i benefizi sperati dalla guerra di Crimea, la qual guerra poteva portare seco pericoli estremi ai deboli se continuata e dilatata, non vennero appunto di l?. Se il Piemonte ebbe quindi opportunit? di sedere a un congresso coi maggiori potentati d'Europa, ognun sa che le cose seguite nel corrente, anno con quella adunanza non hanno vincolo necessario, poich? i nemici d'allora dovevano poi sperarsi proteggitori, e un alleato e proteggitore d'allora sospettarsi avverso. In quel congresso fu parlato, s?, dell'Italia; ma come? non del farla libera da quella forza che sola mantiene le dominazioni minori moleste; non per accennare, n? anco in ombra, ai dolori o alle speranze de' Veneti e de' Lombardi; non per proporre i veri rimedi all'abuso della potest? temporale del Papa, contro il quale pareva esser v?lto tutto il coraggio dello zelo, quasi contro il solo accusabile: ma lui solo prendevasi in mira, non tanto quasi come una specie di mito politico, quanto come il pi? debole, e da potersi assalire con pi? sicura speranza di raccorre i suffragi de' seguaci di Lutero e di Arrigo VIII, di Fozio e di Maometto. Alla proposta che ne porgeva il Piemonte, diresti che sole le Legazioni patissero del governo de' preti, che sole meritassero reggimento migliore, sole fossero mature a questo. E i rimedi suggeriti alle piaghe di quel membro, indiviso dall'intero corpo piagato, erano pure insufficienti, e portavano seco nuovi dolori e pericoli. Il[20] pericolo pi? grave era quel paragone ingiurioso e odioso tra le une e le altre provincie, quel fare alle une sperare ci? che alle altre negavasi con tanto pi? dura noncuranza che pareva meditata e accompagnata di ragioni o di scuse. Eccitando negli uni fiducia importunamente superba, negli altri invidia dispettosa e disperata; e per pi? squisitezza di spregio, consigliando ai preti regnanti l'accorgimento di commisurare al numero dei sudditi da tener sotto, il numero degli armati Italiani e stranieri che bastassero al tristo uffizio; venivansi a suscitare discordie nuove in paese dalle discordie ingangrenito; e cos? preparavasi la civile e la morale unit?.

VII.—Disegni pi? vecchi insieme e pi? nuovi.

Cotesta vecchia ricetta, razzolata tra' fogli del conte Aldini, uomo imperiale, che, come Bolognese, badava a San Petronio e alle aggiacenze, e che scriveva al principe di Metternich, come protomedico della Corte e della Penisola; cotesta ricetta, ognun vede non essere invenzione colpevole del valente uomo che a Parigi nel 56 la mise innanzi modestamente, per condiscendere al desiderio d'alcuni tra suoi amici, i quali dalla guerra di Crimea non speravano migliore frutto; n? a quanto pare da ci? lo sperava egli stesso. Onesta e pia cosa ? discernere l'angustia de' concetti dalla malignit? degli intendimenti. N? intendimento maligno ? da imputare, non dico all'arguto ministro che nel congresso di Parigi[21] portava in mezzo quell'unico tema, ma n? anco a coloro che facevano lui troppo modesto canale di voglie nell'apparente boria modeste. Senonch? bisogna pure soggiungere che meno angusto concetto che quello di cui la facondia del conte di Cavour si faceva levatrice nel 1856, era il concetto di Pellegrino Rossi nel 1832, quale apparisce da una sua lettera al signor Guizot opportunamente ristampata dal signor Eugenio Rendu nel recente suo libro intorno alle Relazioni tra le Corti d'Austria e di Francia e di Roma; libro che chiaramente dimostra quanto dalla protezione austriaca e la Corte e la Sede di Roma abbia patito e sia in pi? pericolo di patire. Vero ? che il Rendu mescolando un po' le memorie con le speranze, ci dona l'occupazione francese, qual ? stata dal 49 infino a' d? nostri, come restitutrice della dignit? del Papato. Ma la sua argomentazione speriamo che, se non storia, sia vaticinio; e, giacch? le cose sono a tal punto da chiedere imperiosamente agli stessi imperanti risoluzione seria, aspettiamo. Fatto ? che il Rossi, pi? d'un quarto di secolo fa, proponeva che non solo le Legazioni, ma insieme le Marche formassero uno Stato da s?, titolarmente soggetto al Pontefice, e debitore a lui d'un annuo tributo, assicuratogli da Austria insieme e da Francia. Il Papa cos? diventava protettore davvero de' sudditi suoi Italiani dalle esterne e interne violenze, e non protetto per forza d'armi esterne contro le esterne insidie e contro gli odii intestini. E non che scemare, gli cresceva sovranit?; dico quella sovranit? vera e degna di persona spirituale,[22] che secondo le originarie condizioni, gli fu conceduta sulle provincie conservanti il diritto di governarsi di propria autorit?.

Pi? largo ancora che quello del Rossi, era un concetto pi? antico, cio? del 1822, ed era pi? pio al Pontefice, ancorch? dettato da Gian Pietro Vieusseux protestante. Lo dettava egli alle istanze reiterate del conte di Bombelles, uomo probo, allora ambasciatore austriaco in Toscana, marito a una figliuola di madama di Brun, conosciuta da esso Vieusseux in Copenaghen, amica al Sismondi, e riverente al nome italiano. Proponeva il Vieusseux fin d'allora una Confederazione di Principi Italiani, una Lega doganale, e quanta conformit? d'istituzioni veramente civili potessero permettere quei miseri tempi. Della quale proposta giova, come di documento storico, tenere di conto, e all'affetto dell'uomo benemerito renderne onore. E importa notare, che tra le cose prudenti allora e opportune a dirsi, non pi? accomodabili a questo tempo, ce n'? parecchie, e le pi? rilevanti, alle quali dovrebbero porre mente i fondatori d'una Confederazione Italiana sul serio; che, determinando questo concetto ancora incerto nella mente e de' governanti e de' popoli, ne persuaderebbero la possibilit?, ne farebbero pi? agevole l'attuazione, e pi? sicura anco ai pi? diffidenti.

VIII.—Jattanze e speranze.

Ma ritorniamo all'animoso ministro dal quale l'ordine delle idee ci port? alquanto lontano. Rivenuto[23] di Parigi al suo parlamento dovevasi certamente aspettare che, col ritegno voluto dalla prudenza, egli toccasse delle cose trattate in Parigi, cio? della proposta sua rispetto al migliore governo da dare a una parte degli Stati Papali. Nel che non poteva, almeno in massima, non convenire, e l'Imperatore, la cui lettera a Edgardo Ney rimaneva da pi? anni quasi fatta ludibrio alla Corte di Roma; e l'Inghilterra, che aveva nella vittoria di Crimea messa in luce piuttosto la sua debolezza che la sua forza, e a cui doveva gradire che opportunit? le si offrisse di far prova altrove in qualche maniera della propria potenza. Veramente dovevano e l'Inghilterra e la Francia rammentarsi altres? le accoglienze non rispettose da Napoli fatte alle loro ingiunzioni, le quali avevano per ragione il disordine che quel governo fomentava in Italia, e quindi in Europa: al che Napoli colla sua inerzia sprezzante pareva rispondere, che altre cagioni di disordine numera l'Italia e l'Europa; e che, tolte via queste, provvederebbe anch'esso a fare il possibile dal suo canto. Ma le parole del ministro in parlamento parvero avere significato pi? ampio che le sue proposte in Parigi; e in quasi tutti subitamente infusero speranze grandi. Dicevano, maravigliati dell'inaspettata fiducia: non ? possibile che parole tali non siano quasi il saggio d'altre parole segrete ancora pi? minacciose ai nemici nostri, non siano precorritrici di fatti prossimi, memorandi. Quindi le congratulazioni e i ringraziamenti affrettarsi; e l'esultazione parere tanto pi? ragionevole, che rammentavasi,[24] l'oratore in altri tempi pi? disposti a guerra, essersi dimostrato ben cauto. Ma coloro che questa memoria e la conoscenza degli uomini rendeva cauti, non per? diffidenti, aspettavano che prima ancora de' fatti, altre parole venissero a rischiarare e temperare le prime. Vennero nel Senato, dove il prudente dicitore avvert?, non essersi bene inteso il significato del suo primo discorso, fervente di pii desiderii, ma non istigatore di pericolose speranze. Certo ? che le cose accadute nel 59 non erano n? pattuite nel cinquansei n? previste. Che a maturarle (come taluni sognano, calunniando i popoli pi? che i principi) servisse un misfatto, che quella paura ispirasse generosit?; il crederlo sarebbe quasi un farsi complice del misfatto: n? su tali stoltezze pu? l'uomo onesto pur fermare il pensiero. Vero ? che di l? venne occasione a una legge, la quale, se le precedenti non bastavano, doveva essere portata assai prima, acci? non paresse riparazione tarda, e quasi confessione di reit? n? commessa n? imaginata. E quelle leggi che provvedono al rispetto delle persone e dell'onore s? de' principi e s? de' privati cittadini, dovevano alcuna volta essere con severit? pi? coraggiosa eseguite. Ma cotesta negligenza piuttosto che agli uomini del governo ? da imputare alla timidit? de' cittadini stessi, o alla loro inopportuna generosit?.

IX.—Patti segreti.

Se i fatti storici, per disgregati che paiano, non possono in tutto tenersi divisi cos? che non abbiano[25] tra s? relazione veruna; non si deve per? n? anco la loro apparente successione, o il materiale concorso di certe circostanze, prendere come vincolo di causa ed effetto. La critica storica in questo rispetto dev'essere governata dal criterio morale; e specialmente ne' fatti recenti deve l'uomo tenersi in guardia contro i pregiudizi delle passioni, e contro le sentenze de' politicanti volgari, e anche contro le testimonianze di taluni fra gli uomini che hanno presa qualche parte alle cose. Chi dicesse che alla alleanza di Francia col Piemonte nel 59 la guerra di Crimea fosse necessario apparecchio, si mostrerebbe nuovo delle cagioni che consigliano le alleanze. Ma chi non volesse immaginare alcun negoziato, alcun patto precedente alle cose seguite nel corrente anno, col fare un vuoto nella serie de' tempi, non provvederebbe alla verit? meglio di coloro che il vuoto riempiono con negoziati e con patti da s? immaginati. Quest'? la parte inscrutabile della storia: n? a dileguare tutte le finzioni mitologiche le quali confondonsi all'esperienza degli uomini quotidiana baster?, cred'io, la luce che suole in tali oscurit? venire portando il corso degli anni. Quel che fu detto e taciuto, inteso e sottinteso e frainteso a Plombi?res; quello che fu poi sopraggiunto o detratto o mutato espressamente o no dalle parti, a Parigi e a Torino, a Milano e a Firenze, e altrove; per quali gradi si passasse dalle prime prudenti promesse di pace scritte per rassicurare l'Europa, al proclama dato in Milano, e dalle nozze di Clotilde di Savoia alla pace di Villafranca; non lo sapranno[26] ben dichiarare n? tutte insieme raccolte le lettere de' giornali pi? minutamente informati, n? tutti i pi? autentici documenti diplomatici che, a cose finite, usciranno alla luce; n? le memorie che della vita propria potranno scrivere coloro stessi che parteciparono ai patti, che fecero e che disfecero; n? le stesse loro narrazioni privatissime confidate agli orecchi de' pi? intimi amici. Perch? ciascheduno de' partecipanti non sa che una porzione de' fatti, quella dov'egli oper? di persona, o di cui fu testimone; ma quanto accadde in sua assenza, quanto fu o espresso o lasciato intendere o disdetto o impedito, insciente lui, tutto cotesto pu? essere che taluno de' principalmente benemeriti lo ignori e lo giudichi malamente fors'anche pi? dell'ultimo dei suoi segretari. Nelle stesse parole inenarrabili, che posson essere corse tra due uomini soli, chi dice a noi che e l'uno e l'altro le abbiano prese nel medesimo senso, e nel medesimo le abbiano ritenute; e che i nuovi casi via via succedentisi non ne abbiano quasi insensibilmente mutata nell'animo loro l'intelligenza con tanto pi? risico di reciproci sbagli, quanto pi? i due uomini erano sinceramente unanimi, ed espertamente avveduti, e cautamente animosi? Chi dice a noi che in faccende tanto gravi, dalle quali pendeva il destino di milioni e milioni d'uomini, e l'onore de' negoziatori (dico l'onore nel senso comune della parola, e anco in quell'altro che concerne l'esito fortunato), parlando ciascun di loro seco medesimo, si sia trovato dal principio alla fine sempre costante a s? stesso; e che nella medesima[27] parlata che nell'intimo suo faceva in un punto medesimo, si sia bene inteso, e francamente svelato a s? il suo volere? Disperati pertanto, come noi siamo, di conoscere la verit? segreta de' patti, attenghiamoci a quel che d'essi apparisce manifesto in digrosso, e materialmente palpabile; facciamo come gli anatomici che sotto il coltello scrutatore ben sanno di non poter rincontrare la vita, ma, come possono, studiano nondimeno la vita.

X.—Apparecchi e auspizii della guerra.

Se in troppe cose doveva il Piemonte pendere dal cenno del suo potente alleato, e prenderne le parole e i silenzi per norma; in una cosa gli era utile e bello imitarlo, nella parsimonia delle minacce e de' vanti, s? perch? questa ? indizio di forza e augurio fortunato, s? perch? non paresse che il pi? debole fosse quasi condannato alle parti di provocatore, e avesse sembianza di semplice strumento alle altrui volont?. Rammentiamo con quanto riserbo e il Governo di Francia, e gli stessi giornali francesi, parlassero dell'Austria innanzi la guerra; e questo, se non ci spiega, c'insegner? molte cose. Ma continui clamori, non ismentiti, e non rattenuti come ognun sa che potevasi in questa libert? della stampa, sfidavano il nemico, e lo annunziavano disfatto gi?. Poniamo che esso non se ne lasciasse aizzare, che si tenesse armato sull'orlo dell'opposta riva, aspettando a tutte le ore; e che d'altra parte l'esercito di Francia si tenesse alle opposte falde[28] dell'Alpi, secondo la parola Imperiale la qual non prometteva soccorso se non quando il Piemonte fosse dalle armi austriache occupato. Cotesto stato d'inerzia violenta, di guerra senza guerra, di minaccia senza sfogo, cotesto sfoggio rovinosissimo di potenza impotente, diventava ai freddi e ai crudeli spettacolo di ludibrio; ma agli Italiani aspettanti tra speranza convulsa e terrore dell'oppressore irritato, si faceva incomportabile, inaudita agonia. Se l'Imperatore austriaco, quasi impietosito, volle colla sua uscita imprevista e incredibile trarre d'impaccio la parte avversa; non so chi ne possa andare superbo. So bene che taluni invocavano le armi austriache di qua dal fiume acciocch? tirassero le armi francesi di qua dal monte; ma io confesso che le esperienze fatte sul corpo delle nazioni con tali calamite non mi paiono un miracolo d'arte e di scienza. La tardit? e inettitudine de' condottieri nemici, le piogge del cielo e le acque della terra, la provvida celerit? del soccorso straniero, potettero attenuare i danni, ma non impedire la troppo presentita possibilit? che Torino per qualche giorno vedesse nelle sue vie la bandiera gialla e nera; non impedire la mal dimenticabile calamit?, che provincie fiorenti fossero da quell'aspetto contristate, insanguinate fuor di battaglia, insultate con ladre angherie. Pag? caro; n? fu solo il braccio della Francia a respingerlo di l? da uno e da altro e da altro fiume, d'una in altra e trincera e citt?; n? l'esercito Piemontese fu alla memorabile impresa un inutile soprappi?. Combattettero allato ai soldati[29] di Crimea e d'Affrica, e noti inugualmente, soldati d'Italia; e tra questi, alla pari coi meglio esercitati, i novelli; e ciascuna regione della Penisola port? il suo tributo. Gran danno che, siccome i due Principi Capitani, siccome le due nazioni sorelle, cos? non potessero sempre e in tutto consentire intimamente i due eserciti ne' loro comandanti inferiori; e ci? non per colpa d'alcuno in ispecie, ma perch? la novit? del fatto, e la diversit? de' modi e de' temperamenti, pi? che quella degli umori e degli animi, nocque un po'. N? maraviglia se questo tra Piemontesi e Francesi accadesse, quando taluni de' militi stessi d'altre parti d'Italia ebbero a sentire alquanto fredde le accoglienze de' loro fratelli, non si ricordando delle tante cause che per secoli li tennero divisi da essi. Non ? per? meno da desiderare che questo non fosse; non ? men da dolersi che delle feste cordialmente clamorose fatte ai Francesi venuti alla guerra nessuno evviva rimanesse per il ritorno di loro vittoriosi, nessuna ghirlanda. Io so bene che la gratitudine era ne' cuori, e che il dolore del disinganno ? scusa pi? che sufficiente negli occhi de' Francesi stessi; ma il meglio era governarsi per modo da rendere o meno inuguale l'espressione della gratitudine, o piuttosto impossibile il disinganno.

XI.—Rotta e interruzione.

Fatto ? che l'Imperatore de' Francesi pot? scrivere d'avere francato e il Piemonte e la Lombardia;[30] pot? questa e quello chiamare debitori alla Francia; pot? quindi prescrivere al suo benefizio il limite della propria volont?. Gli appassionati hanno un bel dire che la pace di Villafranca ? una ristampa del trattato di Campoformio con giunte e con varianti: l'arbitro delle nostre sorti, o chi parla per lui, pu? rispondere, che la guerra nel suo concetto non era che un episodio e quasi una parentesi della pace; che l'altra guerra di Crimea ? similmente finita, lasciando le cose a mezzo, il vinto non pi? debole di prima, l'alleato da soccorrere non punto pi? forte; che se l? una fortezza fu smantellata, e qui risparmiatene quattro, qui s'? in compenso ricevuta con una mano, e donata con l'altra, una delle pi? beate provincie del mondo; che la parola rimettere, comunque s'intenda nel francese e nelle altre lingue d'Europa, non muta la natura de' fatti; e che la storia dir? a chi quella provincia sia data, da chi conquistata, e con quale frutto. Noi che non sappiamo n? gl'intendimenti segreti di questa guerra, n? le promesse che a lei precedettero, e non abbiamo altri documenti che le parole d'un proclama, e le promesse, non sempre uguali e non tutte chiare, divulgate in nome del Piemonte, ma n? dal suo Re n? dal suo Parlamento asserite; noi possiamo, se questo ci giova, gridare barbaro col Metastasio il nostro destino; il meglio ? tacere, e apprendere come si vive. Chi invoca l'altrui soccorso, per gaie che gli si facciano le condizioni, egli primo fa a se medesimo una condizione dura, che la generosit? altrui pu? fino a un certo segno alleviare, mutare del[31] tutto non pu?. Chi ha troppo sperato, ha gi? tolto a s? stesso il diritto di muovere doglianza se le speranze sue tutte non sono adempiute. Chi ha sperato in altrui, per forte che sia, non ? pi? in tempo a far prova di quel coraggio disperato che da ultimo vince. Ricorrono adesso al Piemonte altri popoli speranti in lui, ma in lui solo; e il Piemonte dalla sua stessa vittoria ? messo in tale stretta da non poter n? accettare di pieno arbitrio, n? rifiutare, n? lasciare, n? prendere; apparisce avido insieme e timido, e non ? n? questo n? quello. E non per avidit? n? per timidit?, ma per altre cagioni che sarebbe difficile dire chiaro, il suo potente alleato non pu? permettergli ch'e' muova un passo senza prendere norma da quel che conviene alla Francia. Nec tecum possum vivere, nec sine te.

Senonch? legge provvida della natura si ?, che in ciascun'anima umana, e cos? in ciascuna societ? d'anime, sia una certa quantit?, siccome d'ogni altro bene, anco di buona fede. Felici gli uomini e i governi e i popoli che sanno ben collocarla, e la spendono in cose e in persone oneste, presso cui sole essa pu? rendere frutto. Ma la buona fede anco nelle cose e nelle persone oneste ha i suoi limiti: e limite consiste nel volere non tutto quel ch'? possibile, il che darebbe troppi diritti alle speranze dei deboli, li renderebbe perpetui creditori e importuni tiranni dei forti; ma volere l'utile, dico l'utile di coloro dai quali aspettasi un qualche servigio. E quand'anco il servigio paia espressamente promesso, bisogna por mente[32] alle parole che esprimono la promessa, e non dare a quelle un tropp'ampio significato. Io non dico che le parole annunzianti l'Italia libera fino all'Adriatico dovessersi intendere archeologicamente, cio? de' limiti fin dove il mare arrivava in antico, che sarebbe la citt? d'Adria, e in tempi pi? remoti ancora pi? su; ma dico che il nome di libert? si pu? intendere in molte e diverse maniere, e che ai deboli non ? lecito dargli l'interpretazione pi? comoda a loro. Certo ? che vedendo intatto dalla guerra l'Adriatico, e del grande apparato marittimo non si fare dinnanzi a Venezia quell'uso che gli Austriaci pi? d'ogni sforzo terrestre dovevano paventare; raccogliendo le confessioni e le affermazioni non tanto private che non diventassero pubbliche, le quali porgevano ai Veneti tutt'altro che speranze; leggendo nella Gazzetta di Venezia il d? seguente alla battaglia di Solferino un annunzio stampato gi? in altri giornali nel quale vaticinavasi l'armistizio e le cose che poi sono fedelmente seguite; e rammentando il celebre motto che l'Impero ? la pace; se ne viene a dedurre che la promessa dell'Italia libera ? stata interpretata in modo non conforme alla critica diplomatica, e che lo sbaglio ? da apporsi ai chiosatori imperiti. Il tutto si spiega supponendo che l'Imperatore dei Francesi abbia con troppa buona fede sperato che Austria e libert? italiana si possano conciliare. Non gi? ch'egli potesse essere tanto credulo da sperare un Governo Italiano di libert? civile entro a un Governo estero militare, n? le franchigie politiche de' popoli consociate amicamente al franco[33] esercizio d'una polizia non assai popolare. Ma l'Imperatore si figur? che, siccom'egli in Villafranca mutava disposizioni verso l'Austria vinta, o almeno disperata di vittoria, cos? l'Austria muterebbe a un tratto disposizioni verso i Veneti, se non liberati secondo il senso volgare della parola, almeno raccomandati dal suo vincitore.

L'esempio de' Principati di lungo il Danubio gli era forse ragione a fidarsi, dove l'Austria smesse da ultimo, tuttoch? di mala voglia, le sue renitenze men cristiane che turche; e dove con una specie di scherzevole arguzia, vennesi a conseguire una specie d'unit?. Vero ? che, pensando alla tanta mole di guerra, a tanta parte d'Europa insorgente per la Turchia e per la civilt? contro Niccol? delle Russie il qual diceva combattere per la croce; pensando al tanto sangue versato, alle ruine fatte e alle eccitate speranze, i benefizi da dedurne a Moldavia e a Valacchia potevansi aspettare maggiori: vero ? che l'unit? della persona del Principe non ? l'unit? del principio n? dello Stato; che all'occorrenza d'una novella elezione ritornano in campo le dubbiet? e le discordie; e che tocca ai Rumeni piuttosto iniziare che compire l'impresa. Ma ad ogni modo la condizione di que' Principati ? meno incerta con accanto il Gran Turco, che non sia quella del Veneto e dell'Italia con l'Austria soprale; e nel Veneto, quanto pi? augusti erano anco diplomaticamente i diritti, tanto pi? minacciosi si fanno, dopo la guerra liberatrice, i pericoli di servit?. Men difficile imporre a Turchia leggi d'equit? verso popoli mezzo francati,[34] e per buone ragioni sorretti dalla Russia vicina, che imporre all'Austria, accovacciata in un nido d'Italia, patti di lega fraterna co' Principi Italiani e co' popoli; trovar modo di conciliare i Principi tra loro e co' popoli; sancire istituzioni tutte nuove, e donar loro in un d? la fermezza d'inviolate consuetudini antiche. Questo credette l'Imperatore de' Francesi fattibile nel suo buon volere, di cui diede saggi guerreggiando, e nella sua grande potenza della quale ? prova arditissima la pace stessa.

XII.—Congresso e guerra.

Di qui non ? da concludere che la pace sia per essere universale e perpetua; giacch? se dall'un lato in Francia una parte degli armati rimandasi, dall'altro apparecchiansi nuovi armamenti; e la nuova parola inventata al nuovo bisogno, dico la demobilizzazione, va anch'essa interpretata con le cautele debite; giacch? la diffidenza stessa talvolta ? una specie di credulit?.

Altra specie di credulit?, di semplicit?, se posso cos? dire, doppia, ? il figurarsi di taluni, che un congresso europeo possa pacificamente ordinare ogni cosa, e il figurarsi di tali altri che dalle pacifiche dispute in congresso debba pullulare la guerra, e poi la libert? dalla guerra. Certo ? che o posino le armi o s'insanguinino, le sorti dell'Italia infelice sono tali da non si poter decidere senza gli arbitrii della forza straniera; e che le parole pacifiche, i consigli amici, sono anch'essi nel caso nostro una maniera[35] d'esercitare la forza. L'Imperatore de' Francesi, provandosi di fondare una Confederazione Italiana, assume non tanto il sospettato diritto quanto il debito tedioso e rischioso di sempre intervenire nelle cose d'Italia per sospingere questi, per rattenere quelli, per rammentare agli uni ch'egli hanno troppa memoria o troppo ingegno, agli altri che poco. E, non potend'egli, n? volendo, essere solo a compire gli uffizi di pedagogo de' Principi e di arcipresidente della Lega; ne segue che tutti i Gabinetti d'Europa troveranno la via d'immischiarsi nelle faccende dell'Italia liberata, come parecchi s'immischiano nella creazione de' Papi. Gi? fin dal 1847 fu detto, e dianzi da molte parti ripetuto, non si poter ritoccare i trattati senza il consentimento di tutta l'Europa; con che, senza forse avvedersene, vengono a riconfermare, come santi, i diritti dell'alleanza del quindici, anzi a spacciarli per diritti imprescrittibili e naturali. Consentimento di tutta Europa, qui suona un foglio sottoscritto da cinque o sei Principi, dopo un pi? o men lungo e amicabile disputare d'alcuni pochi inviati di Principi, dopo un negoziare della cui generosit? non si disputa; senza che in questa Europa scrivente abbiano parte i parecchi milioni dell'Europa pensante e paziente, senza che questi sappiano delle ragioni espresse disputando, n? delle omesse, n? delle sottintese (e son quelle che tagliano il nodo); non sappiano n? anco del destino che loro si viene facendo, se non a cosa fatta. Questo significa il consentimento d'Europa. Entrano nel congresso certamente per intercedere a[36] favore de' deboli, ma non per? con s? rovinosa magnanimit? che i forti abbiansi a ridurre nella condizione di deboli; giacch? allora farebbero di bisogno nuovi congressi per favorire coteste nuovamente create debolezze, sempre rispettabili, perch? debolezze, fosser anco di Principi.

XIII.—Inghilterra.

Io non dubito punto di quelle che, nel linguaggio della diplomazia e degli affetti teneri, chiamansi simpatie del mondo incivilito a pro dell'Italia; e non oserei da questo mondo escludere l'Inghilterra, ancorch? nel 1848 ella non ci abbia altro mandato che Lord Minto per saggio delle sue simpatie. Ma stimerei irriverenza all'amor patrio degli Inglesi il pensare che nel presente zelo che mostrano in pro dell'Italia sia in tutto dimenticata la cura degli utili loro; e che ad essi non paia bello il poter gareggiare d'italianit? coll'Imperator de' Francesi, e fare le viste di voler superarlo. In troppe altre cose, e pi? arrischiate di questa, si viene manifestando la gara. E io confesso che, avendo l'Imperatore infino al giugno del corrente anno assai pi? avventurato per l'Italia che non abbia Inghilterra, non posso vedere senza rammarico e senza umiliazione, ch'altri intenda attribuire a s? quasi postume benemerenze, e paia aver compassione di noi per fare dispetto a chi dimostr? averla prima. Io non posso dimenticare le parole dal Visconte di Palmerston scritte al Principe di Metternich, suo naturale alleato, titolo oramai[37] storico, come quello per cui tutti i Principi sono cugini: ?Accordandomi ai sentimenti legittimi del diritto di possessione, per il quale il Governo austriaco manifesta la sua risoluzione di difendere i possessi imperiali in Italia, il Governo Britannico spera che nessun caso prossimo si presenti di mandare questa risoluzione ad effetto.? Giova sperare che il signor Visconte, mutate le insegne, e trasportato dall'Austria all'Italia il suo affetto, vorr? beneficarci con altro che con la speranza che l'Austria non voglia mandare contro di noi le sue risoluzioni ad effetto.

XIV.—Russia.

L'Italia che dianzi aveva tutti contro di s?, oggid? pare che abbia tutti per s? cospiranti; nemici tra loro, o sospettati di poter domani diventare nemici, in ci? solo unanimi stupendamente: Prussia e Francia, Inghilterra e Russia. Anche Russia chiede un congresso; altri dice per la Turchia, cio? per la cristianit?, che le preme: ma l'una cosa non esclude l'altra, essendo parte di cristianit? anco l'Italia, a un dipresso. Certo ? che la guerra di Crimea, anzich? respingere Russia verso Asia, la attrasse nel bel mezzo d'Europa; ebbe anche Russia la sua Villafranca. Storico, ma sul serio, anzi sunto di storia molta, ? il motto: Russia non s'imbroncia, ma si raccoglie. Si raccoglie per isvolgersi, come chi si fa indietro per prendere con pi? empito la rincorsa. Russia, al modo di tutti coloro che si destinano, e son destinati a vantaggi sicuri e ultimi,[38] sa aspettare. E siccome i governi liberi per loro fini si collegano co' governi assoluti; e umani in casa verso una parte della propria famiglia, verso un'altra e di fuori son altro; cos? per contrario i governi assoluti non solo si associano ai liberi, ma si fanno promotori di libert?, di rivoluzioni, di congiure, intendendo alla loro maniera il proverbio, che da un disordine nasce un ordine. Non dico che debbasi da noi perci? diffidare o della Russia o d'altri che sia, perch? nella diffidenza stessa, ripeto, pu? essere credulit?: dico che conviene saper discernere le ragioni vere e della nostra fiducia e dell'altrui benefizio.

XV.—Germania—Confederazione.

Non bisogna attribuire agli uomini (uomini sono anco i Principi, persone umane anco i governi) intenzioni sovranamente generose, o gratuitamente crudeli; n? troppo grossi pensamenti, n? troppo acuti. In questo rispetto Napoleone III fu da' suoi ammiratori calunniato, troppo pi? che se fossero suoi nemici. Per torcere le parole di lui a servigio delle proprie speranze, affermavano che quanto egli dice, ? il contrario di quello che sente; dal che per vero le promesse all'Italia acquisterebbero senso troppo sinistro. Altri pens? che la pace di Villafranca non fosse che un artifizio per lasciare l'Austria impacciata nel Veneto, quasi un laccio di morte: altri per contrario pens? che l'accostarsi all'Austria era un'alzata d'ingegno per dividerla da Inghilterra,[39] cos? come l'accostarsi a Russia era stato un voler mettere l'Inghilterra in pensiero. Altri ordiva una trama di ragionamento pi? fina; e diceva cos?: Francia non pu? permettere che Germania sia una, che diventi nazione davvero. Finch? Polonia viveva, vigile e minacciosa tra Germania e Russia, con la lancia sempre in resta contro la schiatta Germanica, la pi? invaditrice che sia sulla terra; l'Europa poteva affidarsi: ma, dopo la grande iniquit? del secol passato, si ? fatta trista missione alla Francia impedire che Prussia appropri a s? tutte le forze Alemanne. Or cotesto era da temere pocanzi; non gli eserciti del Reno accennanti alla Francia, ma l'autorit? morale cresciuta alla Prussia dall'annichilarsi dell'Austria. Depressa questa con l'una mano, con l'altra conveniva rilevarla da terra; e il rilevarla era un'altra depressione. Il distruggere ? un modo di creare; ma si pu?, anche creando, distruggere. Questo gioco l'ha fatto la pace. Non so se la Francia possa andar lieta di cotesto uffizio di reagente chimico di revellente medico, se a Napoleone III possa piacere pur l'apparenza di dissolvente e di pittima. Ma direi che chiunque troppo sperasse o troppo temesse dalla dissoluzione delle alleanze vecchie e dal congegno di nuove, risica di sbagliare; perch? e le nuove possono disfarsi, e le vecchie rifarsi, siccome vedemmo e vediamo. E c'? una perpetua naturale alleanza, in certe cose, di certa gente con certa altra gente. E per me credo, che senza voler n? difendere n? offendere l'Imperatore di Francia o quel d'Austria, altri potrebbe credere[40] che nel loro colloquio e' si siano dette ragioni a vicenda persuasive, e che l'uno abbia fatta la parte dell'altro con rara, e forse unica, sincerit?.

Guardiamoci dagli eccessi. Perch? la Confederazione Italiana fu adoprata a palliare una pace non accetta, e a scusarla forse nella coscienza di chi cercava conforti a s? stesso pi? che ad altrui, per questo taluni parvero rigettare tutta sorte confederazioni, e si rifecero con rettorica incauta dal numerare gl'inconvenienti delle confederazioni che vivono, senza badare ai vantaggi. Laddove non si pu? di punto in bianco cogliere la perfetta unit?; laddove questa ? da coloro stessi che si dicono amici o sospettata o impedita; la Confederazione, quando non sia ludibrio o laccio, giova a prepararla e a promuoverla. Laddove poi siffatto vincolo ? stretto dalle consuetudini e dalla ragione delle cose (della quale la stessa utilit? pu? essere prova, tuttoch? non ne possa tenere le veci), gli ? cosa desiderabile senza dubbio. E affermo non solamente che la Confederazione Americana e quella di Svizzera, ma fin la Germanica ha per la Germania i suoi vantaggi; e che le discordie e i pericoli degli Stati Germanici non da questa causa provengono, ma da ben pi? profonde. Per la Confederazione, ancorch? svogliata e imperfetta, e mal tollerata da lei stessa, Germania si sente a qualche modo nazione, e ne prende le sembianze, il che ? pure qualcosa; e ritrova occasioni frequenti d'aspirare a unit?, e di farla all'Europa temere. Questo nome insomma ? di per s? stesso una forza; e chi proponesse ai Tedeschi di sciogliere ogni Dieta,[41] ogni simulacro e cerimonia di deliberazioni comuni, di affidare a uno Stato la cura di rappresentare tutta quanta la schiatta e di renderla daddovero una, non ne avrebbe risposta del s?, se non dallo Stato prescelto: e, messo al punto, anche questo esiterebbe, come abbiam visto fare nel quarantotto la Prussia. Esiterebbe non tanto per dappocaggine o per riguardi di verecondia e di generosit?, quanto perch? sentirebbe sorgere dalla natura stessa delle cose difficolt? all'impresa non dissimili da minaccia. Certamente ? ridicolo, in orribile maniera ridicolo, che la Confederazione Germanica pianti i suoi piuoli co' suoi cartelloni sull'estremo limite del Trentino, e distenda s? stessa fin l?; e chi dice a noi che la nuova Confederazione Italiana per giuochi della sorte non impossibili non faccia s? che quei medesimi piuoli con quei medesimi cartelloni vengano trapiantati sulle rive del Mincio? Ma da coteste lepidezze germaniche non segue che quella loro Confederazione sia per ora cos? cosa da nulla come taluni la vogliono. Taluno de' quali, sbertando quella, confondeva ne' dispregi un degli Stati Tedeschi serbato forse a sorte maggiore che non le sia dato fin qui, la Baviera. Se si volesse per l'appunto misurare il valore intrinseco delle sovranit?, io non so quanti sovrani davvero potrebbero contarsi in Europa; ma so che la vera potenza n? degli Stati n? delle nazioni, la vera loro efficacia sull'avvenire, la storia non le suol misurare n? dalla mole, n? dal rumore che fecero. La Baviera anco fino al d? d'oggi, come contrappeso, fu qualche cosa al disopra del nulla:[42] ma potrebb'essere che diventasse un de' centri. E Napoleone I, coll'istinto de' grandi ingegni e degli uomini fatali, pare che lo presentisse; e accenn? di volerlo operare: senonch? i lampi dell'alta mente erano brevi a illuminare le tenebre del suo cuore e la tempesta de' tempi. Ma pu? essere che, senza deliberata cospirazione di Principi o rivoluzione di popoli, Austria venga via via perdendo, e dall'un lato ceda del terreno alla Slavia rioccupante quel ch'? debito alla sua schiatta, dall'altro alla Baviera meno sfruttata e meno odiata, che rappresenti la Germania cattolica, e, rattenendo, educhi a istituzioni pi? equabilmente liberali la Prussia. Questo, insinattanto che la diversit? delle confessioni, come nebbia importuna, al lume della virt? si dilegui.

XVI.—Roma.

Se a questa grande unit? Roma inalzasse il pensiero, ne avrebbe concetti e pi? italiani e pi? cristiani; e non solo al decoro della sede, ma alla sua stessa dignit? temporale provvederebbe. I protettori della sua cos? detta indipendenza dovrebbero farle paura, quand'ella rammenti che anco la Russia accenn? di voler essere vindice dei diritti del Pontefice Re; che il visconte di Palmerston scrisse nel quaransette: ?L'integrit? degli Stati Romani devesi riguardare come l'essenziale elemento della politica indipendenza della Penisola Italica.? Ecco come l'ingegnoso protestante concilii l'indipendenza della Chiesa Cattolica coll'indipendenza della nazione italiana,[43] per mezzo del Regno Papale, conservato nella sua presente larghezza. Se poi Roma possa vantarsi e godere di tal protettrice quale ? l'Austria, contro cui protest?, come contro usurpatrice, per bocca e di Pio VII e di Pio IX (e Pio VII faceva profetica confutazione de' sofismi odierni, ripetendo in senso contrario la parola stessa, e affermando le guarnigioni di Ferrara e Comacchio contrarie all'indipendenza assoluta della Santa Sede, nel suo principio), l'Austria che le tramava in casa cospirazioni, di quelle che essa oltre Po punisce col laccio e col piombo, altri giudichi. Certo il dover dipendere dalla difesa armata di protettori, per generosi e devoti che siano, ? una indipendenza di nuova maniera. E i pi? generosi e i pi? devoti, dacch? si trovano coll'armi in mano ne' dominii del Pontefice indipendente, non possono non parere e ad altri e a lui stesso, tosto o tardi, sospetti di irriverenza. Guelfi o Ghibellini, protettori o nemici, quando sono negli Stati del Papa, tutti ? forza che siano o paiano Ghibellini e nemici. Il cardinale Bernetti, quasi trent'anni sono, scriveva che al Santo Padre i suoi figliuoli, come sudditi, non ubbidiscono che di nome; n? credo che il cardinale Antonelli li abbia col suo senno civile o con le sue virt? religiose fatti diventare pi? docili. Or io non so come il non volere i popoli dipendere dal Principe possa fare che il Pontefice non dipenda da Principi, n? da popoli. Dovr? per lo meno dipendere dagli Svizzeri, da questi giannizzeri della Cristianit?, i quali fin Napoli sente di non poter sopportare. E bisognerebbe poter interrogare[44] la coscienza del cardinale Antonelli perch? ci dica se la indipendenza che viene a lui dalle milizie di Francia accampate in Roma, gli paia cos? comoda cosa com'egli pare profondo politico al Gabinetto di Francia. Lo schermirsi ch'egli fa dalla Confederazione minacciata sar? forse prova di raro accorgimento, ma non ? certamente di sacerdotale franchezza. E io credo insomma ch'egli sia per l'appunto cos? contento della Francia, come la Francia ? di lui.

Quando Napoleone III calando in Italia prometteva serbare intatti al Pontefice i suoi dominii terreni, nel Piemonte alleato fu fatto sopra cotesta questione a un tratto silenzio, intimato, dicesi, dall'autorit?, o, se piace meglio, consigliato. La subitana prudenza che teneva dietro alla licenza loquace, la qual troppo spesso confondeva e gli scandali della Corte e l'autorit? della Sede, non parve a me, credente, generosit? tanto imitabile, quant'era prova di maravigliosa prudenza e docilit?. E scrissi poche pagine, non per trattare a fondo la questione gi? esaminata abbastanza, ma per rammentare riverentemente il diritto de' popoli, il dovere de' preti. Giovava che la discussione non fosse intermessa, anzi ripresa pi? pacatamente che mai, a fine di preparare, nella coscienza pubblica, all'Imperatore stesso gli spedienti di sciogliere il nodo, quando il suo momento venisse. Ma questo momento non poteva essere, pendente la guerra: conveniva dunque intanto ragionare, e aspettare la stagione de' fatti. Altri volle parere pi? zelante dell'uomo la[45] cui opera era stata, siccome necessaria, instantemente invocata. Chi non seppe incominciare senza di lui, presunse finire senza di lui; e apparentemente almeno, a dispetto di lui, non curando se ne venissero smentite le sue parole, rotti i suoi segreti disegni. O cotesti disegni erano ignoti, e conveniva usare precauzione grande acciocch? l'inscienza e l'imperizia non paresse petulanza e ostilit?; o erano noti, e il pure precipitarne di proprio arbitrio il compimento era per lo meno irriverenza pericolosa, o risicava di parere, che ? il medesimo, e forse peggio. Non giova mai voler apparire pi? forte o pi? avveduto o pi? sollecito dei solleciti, degli avveduti, de' forti.

Ma la questione in parole, e pubbliche e schiette, ripeto, potevasi intanto trattare, e dovevasi, anco per manifestare a Napoleone III i voti legittimi della nazione; al che egli disse di badare, e anche non volendo ci bada. Speravo che il mio scrittarello potesse essere inteso da tutti, come fu da moltissimi, per il suo verso: ma parve a taluno che, laddove io proposi lasciassersi i sudditi del Papa assaggiare altro governo, e poi, se loro meglio piacesse, ritornassero agli Svizzeri e al Papa, io proponessi sul serio un nuovo regno del Cardinale Antonelli. Che rispondere a interpretazioni tali? Che siamo in Italia; e che il fio della servit? lunghissima, e della poca intelligenza de' fatti e del linguaggio civile, bisogna pagarlo, e caro. Ora per? dico sul serio che, se gl'Italiani non fanno senno, anco liberati dai Papi, quel ch'io davo come sfida dell'impossibile,[46] diventer? inevitabile, e il Cardinale Antonelli sar? di bel nuovo Re. Altri si dolse ch'io, desiderando sottratto alla dominazione de' preti tutto il rimanente Stato, lasciassi la citt? di Roma per sede al Pontefice; come se io ve lo volessi Re in compagnia degli Svizzeri; come se il municipio di Roma amministrante s? stesso non potess'essere degnamente all'intera nazione congiunto; come se l'antica potest? temporale de' Papi non lasciasse ai municipii maggiore libert? che ora non ne lascino certi statuti; come se quelle liberali conciliazioni del diritto civile col canonico, le quali il Papa ha permesse in tanti Stati cattolici, non si potessero, anzi dovessero ammettere in Roma per evitare contraddizioni mostruose. A taluno pareva crudelt? di niegare all'alma Roma quello che concedevasi a Forlimpopoli: e appunto in quel mentre che la doglianza pia usciva, entravano in Perugia gli Svizzeri a insegnare l'intervallo che corre dai desiderii alla possibilit?. Ma quand'anco da Roma e da Italia togliessesi insieme con la Corte la Sede; quand'anco la nazione volessesi diredare di quella morale potenza, maggiore di ogni impero, la qual verrebbe dall'autorit? spirituale d'un uomo sopra milioni d'uomini sparsi per tutto il mondo civile, autorit? ringrandita dallo sparir del diadema sopra la mitra; quand'anco giovasse alla libert? Italiana e alla civilt? che il primo prete o diventi suddito d'un Re straniero, o che un Re o una Repubblica lo ricetti e gli dia un paese devoto al suo speciale governo, a condizioni che potrebbersi fare gravi a lui a noi, forse a tutti; quand'anco ci?[47] fosse, nessun uomo che abbia memoria del passato e discernimento del presente e presentimento dell'avvenire, oserebbe voler collocato il centro della nazione novella in quella citt? che n? per vantaggi militari n? per progressi civili e scientifici pu? dirsi centro, in quella citt? che non solo all'Europa tutta ma alla misera Italia stessa col suo nome risveglia tante rimembranze o di dolore o di rancore, di troppo recente umiliazione e di troppo antica grandezza.

Ma queste sono anticaglie, che forse di qui a qualche secolo, come segue di tutte le anticaglie, ritorneranno novit?: per ora il fermarvisi con la speranza o col timore sarebbe un far ridere i nostri nemici, un far sospirare o anche arrabbiare gli amici. Adesso abbiamo dall'un lato l'Impero Romano oltre l'Alpi (Rome n'est plus dans Rome), dall'altro, il cugino del Re di Roma, che combatt? nel trentuno non contro il Pontefice ma contro gl'innumerabili regnatori di Roma al minuto, che da dieci anni difende non il regno ma la persona del Pontefice con soldati che non sono de' figli di Romolo; e insieme permette che una parte de' sudditi del Sacerdote Romano esprimano in parole e in fatti i loro voti legittimi non contro la persona del Sacerdote, ma contro que' regnatori al minuto. In queste che paiono contraddizioni, egli sentir? certamente una segreta convenienza che molti non sentono; ma io confesso di credere non impossibile che sia sinceramente sentita in qualche maniera.[48]

XVII.—L'Alleato.

E confesso altres? che, se le speranze in lui poste, se gl'impegni espressi o taciti con lui presi mi paiono cosa rischiosa e ad altri e a lui stesso; la dimenticanza di quegli impegni o la disperazione improvvisa mi pare assai pi? rischiosa. Confesso che alla sua entrata in Torino, dopo i memorabili cimenti suoi e del suo esercito, dopo la Lombardia, o parte almeno della Lombardia, liberata, nonostante la pace di Villafranca, avrei voluto men fredda accoglienza, acciocch? fin l'ombra della ingratitudine fosse dagli avvantaggiati e dai deboli allontanata, acciocch? il giusto dolore de' fratelli rimasti sotto il giogo e in agonia non fosse potuto imputare a sentimenti di presuntuoso dispetto, acciocch? l'angoscia appunto de' fratelli non fosse aggravata dalla tema che il potente irritato li abbandoni per sempre alla loro misera sorte. Io so bene che non si fa forza agli affetti, che non ? degno simulare la gioia, e ridurre a cosa teatrale i trionfi: ma se quello era pretto e profondo dolore del benefizio non compiuto, pare a me che dovesse durare un po' pi?, e con pi? efficaci segni, e non in quell'incontro, essere significato. Il pensiero di quella giornata mi sta sempre dinanzi; e mi umilia non solo per il vincitore salutato cos?, ma e per la nazione che dalla sua improvvida credulit? ? tratta a convertire in amaro la gioia delle stesse vittorie, e si espone a esacerbare l'animo di colui che dianzi[49] com'unica sua salute invocava. Lasciando stare gli affetti, che in politica voglionsi cosa spropositata, pare a me che se credevasi pur possibile che nell'animo dell'uomo una buona disposizione verso le cose d'Italia o rimanesse o si rinnovasse, cotesta possibilit? di per s? sola era ragione a mostrargli riconoscenza; e caso che ci? non si credesse possibile, le accoglienze severe diventavano provocazione mal cauta, o per lo meno significazione inutile ed impotente. Posto che il tremendo alleato pi? non volesse giovare punto, non poteva egli nuocere pi?? Era forse amor patrio il fornire pretesti a que' consiglieri pur troppi che gli stanno d'intorno, che gli dissuadevano questa guerra, e che adesso di tale ricambio degli Italiani si farebbero un'arme contr'essi? Possibile che e nello sperare e nel disperare l'Italia abbia a dimostrarsi cos? nemica di s?? Intenderebb'ella a cos? caro costo e in cos? nuova maniera smentire l'antica calunnia appostale di Machiavelliche duplicit??

XVIII.—Il non fatto, e il da farsi.

Senonch? gli uomini previdenti che ha la nazione, anzi la miglior parte della nazione, pare che meglio intendano, e cerchino di farsi intendere meglio. E' s'accorgono che la pace di Villafranca ha sospeso assai cose, non ne ha conchiusa nessuna; che Napoleone stesso manifestamente dimostra la sua intenzione d'aver voluto lasciare adito non solo ai voti legittimi ma ai legittimi fatti. N? egli pu? intendere[50] la legittimit? nel vieto senso de' regnanti di razza, restringendola ai diritti d'una famiglia, e cotesti diritti facendo salire e scendere per gli organi della generazione principesca; n? i voti de' quali egli scrisse, hanno a essere vuoti d'effetto, e desiderii di debolezza pi? che suffragii d'autorit?. L'autorit? propria egli deve all'autorit? di que' voti, la dice dovuta; e in questo e in altre cose parecchie giova pigliarlo in parola. Pigliarlo in parola, non come a un lacciuolo, ma perch'egli desidera esserci preso; vuol essere inteso: e guai a coloro che non sanno punto intendere chi non vuol dire tutto! L'arte del sottintendere ? la misura della civilt?, della quale l'Italia si tiene maestra. Non ? n? svantaggio dei tempi, n? colpa di Napoleone III, se i popoli sono da esso invitati a manifestare le proprie volont?: ma chi si appagasse di manifestarle in sole parole, lasciando che Napoleone III faccia, frantenderebbe lui; il quale non potendo e non dovendo fare ogni cosa, e non volendo e non sapendo far nulla noi, ne verrebbe necessit? che i suoi nemici e nostri facessero essi.

L'occasione, anzi la necessit? del parlare alto e dell'operare, non ? passata dopo la pace di Villafranca; ? anzi pi? destra che mai. Foss'anco passata, bisognerebbe apparecchiarsi a poterla cogliere se ritorna. L'apparecchio ? di concordi consigli, di armi concordi. Il dir di volere tal principe, di disvolere tal'altro, dirlo in piazza o in assemblea, dirlo a tavola in brindisi o dalle finestre in dicerie applaudite senz'essere udite, non basta: non basta festeggiare[51] trionfalmente la futura decadenza di tale o tale razza di Principi, e pregare gli stranieri che ci facciano poi italiani. I decreti delle Nazioni, acciocch? siano validi, devono essere incisi con la punta delle spade, e scritti col proprio sangue. Ma le spade italiane al bisogno contansi tuttavia poche. Da pi? mesi ? sgombra Lombardia; e dopo tanto, esce un foglio di carta che intima la leva, una leva come ne' tempi ordinarii. E se nel luglio Luigi Napoleone moriva? E se s'avverava il suo presentimento di guerra pi? vasta, che altrove chiamasse le forze di Francia? Io non dico che l'ordine non sia buono, massime quando prova che le ombre arciducali non sempre ne sono la necessaria tutela; ma l'ordine pu? conciliarsi eziandio con gli apparati di guerra. N? il numero dei pronti a combattere s? in Toscana e s? nelle Legazioni e s? ne' Ducati ? tanto che possa, se non con sforzi di valore non tentabili per mera pompa e senza gran sangue, resistere all'austriaco invadente. N? ? cosa onorevole n? sicura fidare nella momentanea forzata inerzia del nemico, e di questa menare vanto. Or in tanto bisogno di braccia armate, in questa sospensione che rende tuttavia inevitabili al Piemonte stesso i soccorsi stranieri, io non intendo perch? i volontarii o sparsi per l'esercito o accolti in schiere da s?, dovessero, con s? precipitosa e non chiesta sollecitudine dei loro agi, essere lasciati liberi dell'andarsene, e non piuttosto, ora pi? che mai, allettati degli altri con fraterne accoglienze a venire: I Veneti specialmente, ai quali porre in mano pochi soldi da ritornare alle case loro, cio? sotto[52] il bastone dell'Austria, sarebbe ludibrio crudele se non fosse sbadataggine di chi crede aver altro a pensare; i Veneti giovava che fossero tutti raccolti in una legione distinta del nome loro, per metterli al punto di pi? insignemente onorarlo, per mostrare ai calunniatori ignoranti o spietati, che anco il Veneto ? Italia, che Austria, di qua dal Mincio insopportabile, non ? benefattrice di l?.

Vero ? che la pedanteria soldatesca non ? tutt'uno con la disciplina militare; e che i poveri volontarii furono, sebbene armati di quella docile pazienza che ? pi? difficile del coraggio, messi da cotesta pedanteria a prove dure. Ne trionfarono sopportando; e questa, al parer mio, ? la pi? bella vittoria e pi? ben augurosa all'Italia, perch? vittoria di noi stessi. Che Stati finora aventi una qual si sia vita da s?, spontaneamente si addicano ad altro Stato, non dir? io certamente che non sia bello: ma pu? nel merito averci parte o l'ebriet? delle cose nuove, il pericolo delle dubbiose. Quando gli animi siano attutiti, e data gi? la procella, allora comincer? daddovero il merito della concordia, il saggio dell'unit?. Se fosse quel che raccontano, che a Perugia chiedente d'unirsi, taluni delle Legazioni rispondessero col rifiuto, cotesto non sarebbe auspizio d'italianit? lieto assai: ma speriamo che sia voce bugiarda. Speriamo che quanti si sono dati al Piemonte, non aspetteranno oziosamente da esso quel ch'e' dice chiaro di non poter dare per ora, sapranno stringersi tra loro, e fare onoratamente da s?. Il cittadino guerriero che rappresenti e metta in atto la[53] loro unanime volont?, non ? sorto finora. Altri forse dir? che qui richiederebbesi un Washington o un Bolivar, non per fare repubblica (i nomi non creano le cose, talvolta le disfanno), ma perch? quei milioni d'uomini dimostrino di poter operare e pensare da s?, e perch? quindi il merito dell'unione apparisca. Altri dir? che il sorgere d'uomo tale potrebbe rapire nel moto altre parti che voglionsi intanto quiete; e che la mancanza di certe persone pu? non denotare tanto la infermit? de' tempi quanto la provvida disposizione di Dio, il qual intende condurre gli uomini come e dove non sanno, e scemando la gloria de' meriti, sminuisce insieme pietosamente la taccia de' falli. Certo ? che con coteste astrazioni matematiche, di linee che non sono superficie, e di superficie che non sono solidi; con cotesto voler separare nella libert? quello che la servit? stessa univa, non si fanno le grandi nazioni, n? di veruna specie cose grandi.

XIX.—Sincerit?.

Provvedasi almeno che, nella mezzanit? de' concetti e delle opere, la sincerit? delle intenzioni sia salva. Intendo bene ch'egli ? difficile tarpare le ali al desiderio e alla fantasia, e farli andare al passo della diplomazia bipede e senza piume; intendo bene che scherzare coi suffragi universali e colle Costituenti non si pu? senza risico. Ma se le cospirazioni e le congiure, o i maneggi che somigliano a quelle, possono parere comode a certi Principi; questa[54] ? ragione di pi? perch? ne sospettino i popoli e le rigettino. Se la storia recente ci mostra, tra gli uomini che dicevano s? moderati, esempi di trame, se cos? piace, onestissime, ma che non si posson chiamare con altro titolo che di cospirazioni, soggiuntovi pure quello di ispirate e di sante; da ci? non segue che tutti i procedimenti in cui le parole e i fatti e le intenzioni non vanno d'accordo, sia da parte de' Principi, sia da quella de' popoli, non tornino da ultimo funeste a coloro stessi che avevano per s? la ragione e il diritto. E anche senza questo fomite di dissoluzione, l'Italia infelice ne ha troppi gi? nel suo seno: onde chi per tal mezzo volesse aiutarla, foss'anco con intendimento pio, sarebbe protettore sospetto.

Io non dir? certamente atti di poca sincerit? i cos? detti indirizzi, le congratulazioni e le condoglianze, le visite reciproche tra municipii e Provincie, i pranzi e le messe da morto, le ambascerie pubbliche e le deputazioni segrete, le feste nelle quali da ultimo sfogasi fino la disperazione: ma temo che qui non sia pari alla sincerit? l'efficacia; che la civilt? troppo antica di certi paesi crei una politica troppo nuova delle cose del mondo. Io so bene che in mezzo agli evviva e alle tazze ospitali gl'Italiani tutti non cessano di pensare con lagrime al calice amaro, ad ogni ora riempiuto, che bevono i veneti fratelli loro: ma desidererei che in forme talvolta men clamorose fosse significato l'affetto dei meno disgraziati. Desidererei che pe' Veneti a un tempo e per s? con la medesima istanza pregassero tutti quelli dell'Italia di mezzo; che si facessero[55] interpreti dell'altrui dolore per forza muto, non per stupidit? o per paura, muto e immobile non per menomare i singoli oppressi a s? i mali proprii, ma per non aggravare inutilmente i comuni. Desidererei che una voce, che mille voci si alzassero per dire che nostri fratelli, Veneti insieme e Lombardi, nobil parte d'Italia, sono i popoli del Trentino, dannati in un limbo tormentoso a non essere n? Italia n? Germania, sospetti ad entrambe; sui quali nel titolo odiato di Tirolesi al peso della tirannide si sopraggrava l'incomportabile peso della immeritata calunnia.

Ad alto uffizio per certo ? in queste prove destinato il Piemonte: ma le difficolt? accumulate dalla storia e dalla natura, da' falli della nazione e dalle insidie dello straniero, al Piemonte si fanno pi? dure per le arti improvvide che certuni in suo servigio adoprarono. Noi lo vediamo costretto a pendere anch'esso dall'altrui volere e da' casi, a tenere s? e noi attaccati a un filo il cui capo non ? per ora in sua mano; a misurare con pi? parsimonia le promesse ch'altri non faccia le minacce, le promesse che non sempre furono parche cos?. E questa differenza, non foss'altro, ? disgrazia grande. Senza doglianze, inutili ormai, del passato, impariamo tutti, o deboli forti che si sia, a raffrenare le nostre e le altrui speranze, a non sospingere con l'una mano per poi coll'altra dover rattenere; a rammentarci che diplomazia e rivoluzione, se sono pericolose ciascuna da s?, molto pi? collegate; e che quand'anco esse paiano tendere al medesimo fine, per via si dividono, se non si combattono. Certamente[56] il Piemonte, con similitudine ormai trivialmente ripetuta paragonato alla Prussia, non intende imitare la Prussia in questo, del dividere la nazione che egli aspira a far una. Le cause religiose e civili che in Germania sono di divisione, l'Italia non le ha; ha altre sue proprie, e abbastanza tremende, senza che le non sue per imitazione si aggiungano: e quella della religione sarebbe la pi? immedicabile, e tanto pi? rea che bisognerebbe qui intruderla per forza. Ma ricordiamoci tutti che i conati a unione, sebbene sinceri, non bastano a fare unit?; come non basta a levarci l'Austria di tra' piedi il patteggiare che lasci a noi la Corona di Ferro: trista memoria, da desiderare che insieme con lei se ne vada.

XX.—Austria.

Non rimanesse in Italia dell'Impero che un'ombra; basterebbe a dar ombra e agli Italiani e ai Potentati d'Europa, e pi? forse a quelli a cui dell'Italia importa meno. L'Austria stessa da cotesto simulacro di potest?, da cotesta soddisfazione momentanea dell'orgoglio, avrebbe pericoli senza compensi n? di vera dignit? n? di lucro. E gi? il lucro a lei e la sicurezza e la vita, per quel che concerne l'Italia, sono cose disperatamente divise, nonch? dalla dignit?, dall'onore. Che l'onore le possa essere reso da Luigi Napoleone per via della Lega, se egli in buona fede lo spera, non lo spera l'Austria certamente. Altra volta ella aveva in proprio[57] nome proposta una lega, e dopo il quarantanove fattone que' saggi che impunemente poteva; ma e nel sedici la lega fu ricusata, e dopo il quarantanove aggrav? su lei gli odii e fece pi? urgenti i pericoli. E il Metternich, con quella semplicit? che e in bene e in male ? la dote dell'esperienza consumata, scriveva: ?che l'Imperatore non ha pretesa d'essere un potentato Italiano, ma si contenta d'essere il capo del suo proprio Impero.? Or ? da credere, per quanto Napoleone III sia politico accorto e tenero dell'Austria, che il Metternich di quello che Austria vuole s'intendesse un po' pi?.

Altri dimostr? argutamente che l'Italia ? all'Austria peso e danno. Ma l'Austria pare disposta a rispondere che questo le ? peso soave, e gratissimo danno, e ch'ella vuole pur seguitare provando agli Italiani la propria generosit? e pazienza fino alla consumazione de' secoli. Del resto nel novero de' vantaggi che trae l'Austria dall'Italia, bisogna comprendere non solamente il danaro sonante che l'erario riscuote, ma tutti gli utili economici e commerciali che ne hanno le altre provincie dell'Impero, talune delle quali con questo titolo imperano veramente sopra l'Italia, e ricevono i suoi tributi; e per? coll'Austria combattono e combatteranno contro di noi, tuttoch? per altro dall'Austria oppresse esse stesse e ingiuriate. Poi l'argomento de' numeri potrebbesi allargare in forma a troppi altri molesta; perch?, se dovessero i governanti donare o vendere tutte quelle provincie dove per il momento presente la spesa ? pi? della rendita, cotesta ragione varrebbe contro[58] Inghilterra e contro Francia per le isole Jonie e di Malta e di Corsica; senza dire d'altre provincie dall'Austria dominate. E costei, con pi? apparente ragione che Francia e Inghilterra, potrebbe rispondere che, fidata nell'esperienza del passato e nel patto recente di Villafranca e ne' premii che sono promessi ai perseveranti (giacch? l'ostinazione e la stessa stupidit? pu? parere a lei perseveranza, e non pare a lei sola), ch'ella spera che questo stato dispendiosamente violento, in cui tutte le ricchezze del suo regno Italiano le sono dalla guerra divorate e non bastano, cessi; che torni l'aureo tempo dell'ordine, del quale sia sufficiente guarentigia, invece del cannone, la forca; e le fortezze non servano che a custodia de' ribelli. Poi la soprallodata perseveranza austriaca ha un'altra idea: che il credito politico, a similitudine del commerciale, bisogna conservarlo a ogni costo, a costo anco di debiti rovinosi, e che tengano della rapina e del furto, e che pure non possano se non differire l'estremo fallimento e la fuga vituperosa. L'Austria vede che sopra la cosiddetta bilancia politica i potentati pesano non colle rendite nette, n? coll'affetto de' sudditi pochi, n? colla gloria delle armi poche e intemerate, ma colla estensione e la mole delle provincie che tengono, bene o male, o per amore o per forza. Coteste provincie, a un bel bisogno, servono non foss'altro per baratto; ma poi posson anco servire per titoli di nuova preda; giacch? nel jus delle genti, quale lo insegnano non i trattati teorici ma i pratici, la preda ? diritto alla preda. Or se cos? ? che le apparenze[59] pur della forza somministrano vantaggi nelle partizioni che i forti fanno delle spoglie de' deboli; quando l'Austria non si tenesse aggrappata all'Italia per altro, ne la renderebbe tenace il pensiero della Turchia, ch'? la Gerusalemme de' novelli crociati. Dico della Turchia per un modo d'esempio; ma non intendo con ci? misurare gli appetiti dell'Austria, n? segnare il confine ai voli delle sue fantasie. Chi governa le fantasie di certi governi? La bilancia europea pesa tutto; ma chi misura gl'impulsi, furtivi o scoperti, delle tante mani che tengono la bilancia?

Questo traslato poetico, e le mitologiche personificazioni dell'ordine, della famiglia, e tante altre figure politiche, provano che il regno della poesia non ? finito, che gli uomini positivi sono anch'essi poeti alla loro maniera. Giacch? dunque la natura, cacciata con la forca, ricorre; sia lecito le ragioni semplicemente aritmetiche confermare con ragioni pi? alte; e volendo persuadere all'Austria che se ne vada, rammentarle che un mezzo secolo di prove sempre pi? infelici e infami sopra l'Italia ? gi? assai; che i suoi pericoli sono venuti sempre crescendo con l'ostentazione della sua forza e dell'accanita sua volont?; che il malcontento, da prima mutolo e inerte e sparso, s'? fatto sempre pi? clamoroso e operoso e concorde; che popoli e principi, dianzi o non curanti o avversi, dimostrano adesso o rispetto dell'Italia o piet? (vera o finta, interessata o generosa); che la simulazione stessa ? un omaggio, quanto meno spontaneo tanto pi? valido a dimostrare la invitta necessit? delle cose;[60] rammentarle che le incessanti brighe austriache di prevalenza, tuttoch? attestino pi? timidit? che vigore, danno agli altri Principi, se non sospetto, noia; e che la noia riscuote talvolta pi? che la stessa paura; rammentarle che le inquietudini dell'Italia danno esempio tanto pi? pericoloso, che oramai riconosconsi provocate dall'Austria stessa; e che ai Principi legittimi non piace vedere il disordine diventato cosa legittima, ed essere sforzati a proteggerlo per tema di peggio. Se Austria teme che il lasciare libera di s? l'Italia, possa farsi tentazione agli altri popoli da lei tenuti a osare il simile, pensi che l'esempio delle rivoluzioni continue e delle guerre, miracolosamente restate, pi? che finite, per la generosit? del nemico o per casi dove il merito di lei non ha parte, sono tentazioni agli altri suoi sudditi ben pi? da temere per essa. Pensi che il suo dominio in Italia, meno antico e pi? contrario a natura e pi? insopportabile per gli odii recenti da lei irritati, e anco per le vergogne da lei patite, non solo non avvantaggia la sicurezza e l'unit? del suo vecchio impero, non solo non le porge speranza di nuovi possessi, ma le minaccia interna totale dissoluzione; che verso le altre provincie ell'? ancora in tempo di mutar tenore, rinsavita, e di rendersi tollerabile, e anco, se vuole, benefica, migliorando le loro istituzioni, e alla loro civilt? provvedendo. Per poter fare questo, per sanare la gangrena del suo debito, se i Potentati le offrissero un certo numero di milioni in premio delle sue rapine e in riscatto di quello che mai non fu suo, essa dovrebbe accettarli come mancia[61] insperata, e andarsene quatta, facendo senno, e attendendo a curarsi e svolgersi dentro; e non d'estorsioni maledette, ma di propria e sempre pi? feconda e meritata grandezza arricchire.

Dove terrebb'ella i soldati Italiani sotto la sua bandiera coscritti? Non nell'Italia malfida; non nelle altre provincie, dove lo stesso loro aspetto sarebbe una rivoluzione vivente. Quali milizie manderebb'ella a tenere l'Italia compressa? I Polacchi ch'ella ha aizzati alle stragi fraterne, ma non per? fatti amici suoi; e che, disperati d'altro, si volgerebbero alla Russia con meno ribrezzo? tanto l'Austria si ? avvilita e moralmente spodestata da s?. Forse gli Ungheresi, che le han fatto provare il bisogno dell'elemosina russa? Forse gli Slavi, de' quali essa si ? contro Ungheresi e Italiani servita per poi non solo fallire alle recenti promesse della paura, ma rompere gli antichi Statuti e giuramenti, s? comodi del resto a osservarsi, per schernire la loro malcauta credulit?, e conculcarli? Ecco i Croati, il cui nome per le arti di lei ? fatto intollerabilmente odioso alla civilt?, si risentono, negano il loro braccio alla guerra, rammentano la fede tradita, le loro franchigie violate, con atto tra di furto e rapina. Esce un libro in Parigi, munito di documenti diplomatici e storici, armato di ragionamenti e di fatti, che mette in luce cose all'Europa ignorate, i torti dell'Austria verso la Croazia infelice. Libro degno che vi pongano mente e Principi e popoli, e l'Austria pi? di tutti, per iscuotere da s? i fantasmi della sua inferma tirannide, e gettare l'occhio sul precipizio che[62] le sta aperto, e lasciare l'Italia a cui troppo essa costa, ma che le coster? troppo pi?, se ci resta.

XXI.—Possibilit? del pericolo.

Ma gl'Italiani non devono attendere che Austria, consigliata o dal pentimento o da un rotolo di monete messole nelle mani, se ne vada di suo proprio moto, sospinta dai Potentati, tutti con improvvisa concordia pietosi a pro del debole, risoluti a pro di chi non ardisce operare da s?. Bisogna porre (ed ? troppo possibile) il caso che Austria non voglia cedere a nessun costo, che dentro in Italia ci sia chi la voglia, e, anche uscita, la chiami; che fuor d'Italia nessuno voglia o possa sul serio farle forza o paura; che, quand'anco cotesto volere e potere si trovino uniti, un momento, un solo momento si dia, nel quale gl'Italiani abbiano da s? stessi a far prova del proprio volere e potere contro un astuto e agguerrito e disperato nemico. Nel pensiero di questa, fosse pur lontanissima, possibilit?, gl'Italiani devono affrettarsi agli apparecchi di guerra, come se fossero soli al duello di morte, raccogliersi in silenzio dignitoso e severo, n? con pompe di scenici trionfi sgomentare e accuorare gli amici, gli avversi irritare insieme e inanimire. Pretendere che altri faccia per essi, come servitore per padrone; sdegnarsi che non abbia fatto abbastanza, quando non si sa veramente quanto egli abbia promesso di fare, e a che condizioni promesso, e se altri prima di lui possa essere sospettato di venir meno alle poste condizioni; ?, se[63] non altro, puerilit?. Quando sapete, e dovete sapere, che patti segreti ci furono sopra il vostro destino; l'immaginarli tutti in servigio di voi, ? fantasia consolante, perdonabile, se cos? piace, agli inesperti e agli infelici che sentono il proprio dolore e diritto; ma non ? fantasia alla qual devano ubbidire i pi? forti come se fossero i deboli essi, e devano le leggi del mondo civile piegarsi come a cenno di Dio onnipotente. Patti ignorati, perci? stesso che sono ignorati, devono mettere, pi? che baldanza, sgomento, massimamente a nazione che da secoli patisce inganni non sempre dal suo lato innocenti, e disinganni crudeli. Il lavoro di secoli, foss'anco lavoro di distruzione, non si disf? e non si ripara in un d?: che anzi le ruine ammontate si fanno alla riedificazione impedimento. L'Italia deve non aspettare che un Re, sia di qua o sia di l? d'Alpe, la faccia. Nessun Re, nessun uomo ? da tanto. Essa deve con lunghissima fatica riedificare s? stessa. Deve primieramente conoscersi, e acquistare la coscienza della propria forza vera, la quale coscienza non si ha dissimulando a grande studio le proprie debolezze. E gl'Italiani non solamente se le dissimulano, ma se le aggravano e creano. Tra cittadini e villici non s'intendono ancora: tra provincia e provincia ? cominciata cos? in digrosso una qualche specie o mostra d'intesa; ma decreti, n? visite cerimoniose non bastano a tanto. Due milioni e mezzo e pi? d'Italiani gemono e fremono sotto quel bastone e quel ferro che minaccia tuttavia la nazione tutta quanta; e altri milioni intanto tripudiano della speranza, alla[64] quale il dolore fraterno e le significazioni del lutto pubblico sarebbero augurio ben pi? fausto nel cospetto del mondo e di Dio. E poi si dolgono che l'Imperatore de' Francesi non abbia fatto abbastanza per loro. Hann'eglino fatto, fann'eglino il loro dovere per s?? Vuolsi ch'egli si dolesse del non essere stato inteso. E sebbene io non presuma d'intenderlo, perch? non so tutto quanto egli ha detto; sebbene io creda ch'e' non ami essere sempre inteso in tutto e da tutti; confesso per? che chi molto pretende dai forti, ha dovere d'intenderli o d'indovinarli in qualche maniera; e che l'unica scusa o compenso della debolezza assai volte ? l'intendimento, a almeno la prudenza modesta. Io so bene che, oltre all'affezione, l'Imperatore ha altre ragioni di giovare all'Italia; ma l'Italia ne ha ben pi? per giovare a s? stessa. Egli pu? tuttavia mettere nella bilancia che libra i nostri destini, mettere di quelle parole che pesano quanto la spada, perch? pronunziate con in mano la spada; pu? senza suo risico acquistarsi una gloria di conquistatore pi? pura che quella dello zio, la cui ombra occupa tuttavia Europa tutta, e delle cui tradizioni si fanno forti e amici e nemici: ma la spada di Francia, grazie a Dio, non costringe l'Italia a starsene inerme, non assicura l'Italia da tutti i pericoli. La Francia ha i suoi pericoli anch'essa: e se il sospetto d'uno di questi ha dettata la pace di Villafranca, un altro sospetto pu? ben commuovere nuove guerre nelle quali agli Italiani sia forza dar saggio di s?. Napoleone III si compiace in far prova della propria oltrepotenza distraendo[65] amici e avversi con accenni di guerra or a ponente or a mezzod?, or a levante; ma potrebbe anch'egli essere in simile maniera distratto, s? che non possa provvedere a noi altri. E taluni tra noi richiedevano il tutto da esso, come se l'Italia fosse il centro del mondo, come se la Francia non fosse grande se non per farsi all'Italia piedistallo. Siamo riconoscenti a quella nazione prode, che sparse tanto sangue, per noi; ma pensiamo che non le sue intenzioni e il cuore de' suoi magnanimi, ma le sue necessit? vere o immaginate, e le arti ostili di chi non vuole un'Italia forte, e le calamit? secolari di questa terra, potrebbero mutare in contrario le cose. Cotesto, nell'animo degli onesti e de' previdenti, non dovrebbe punto scemare della gratitudine debita ai fatti finora seguiti: n? Magenta e Solferino, indelebili nella storia, devonsi mai, checch? decada, dalla coscienza dell'Italia cancellare. Senonch? la pi? degna gratitudine al benefizio ? il dimostrarsene meritevoli; e il miglior modo del dimostrarsene meritevoli ? fare il possibile per non ne aver di bisogno. Se il tempo datoci a riconoscere e rifare noi stessi, lo perdiamo in baldorie; sar? troppo tardi il lamentarci ch'altri ci abbia lasciata una libert? di balocco come a fanciulli, per rendere palpabile la nostra immaturit?, per farcela confessare a noi stessi, per condurci a invocare nuovo giogo com'unico scampo, e strascinarci, disonorati, l? dove noi non si voleva venire. Intanto chi si tiene gi? libero e forte e felice, rattenga gl'impeti della propria esultazione; si ricordi che c'? tuttavia degl'Italiani che soffrono. La creatura[66] conculcata e avvinta, che appena ha sciolte le braccia e si vede ancora alle spalle il calcio del fucile tiranno che minaccia percuoterla, non dovrebbe sentirsi gran voglia d'agitare le mani per applaudire a s? stessa.

XXII.—Conclusione.

Narra la storia una di quelle parole che sono il compendio di vicende di secoli, sono il simbolo del fato de' popoli, sono la filosofia della storia; narra d'uomini Ghibellini in Firenze tratti dal vincitore alla morte. Domanda l'uno: Dove andiamo noi? E il compagno risponde: A pagare un debito che ci lasciarono i nostri padri. Un debito tremendo a noi lasciarono i nostri, e noi l'abbiamo aggravato; e pagarlo bisogna: pagarlo bisogna o con lagrime e con sudore e con sangue, o almeno con atti di senno forte, d'astinenza modesta, di virt? generosa. I nostri padri invocarono lo straniero a opprimere i loro fratelli; invocato, lo provocarono: sappiamo noi e meno insuperbire, e umiliarci meno; esercitare a tempo la fiducia e la diffidenza. Essi affidarono l'armi a braccia mercenarie: e a corrompere s? stessi abusarono il sentimento del bello, e le maraviglie della natura e dell'arte: noi riformiamoci in civilt? forte e austera; rammentiamoci che la grazia verace germina dalla forza. Essi disconobbero il vicino, il fratello: noi apprendiamo a studiarci, e leggere l'un nell'altro come in libro di lingua non ancor bene nota. Essi disprezzarono e odiarono: sappiamo amare.[67]


NECESSIT? URGENTE.


Quel che doveva in Italia seguire dal primo del corrente anno all'ultimo d?, nessuno, per grandi che avesse le speranze delle cose prospere o l'apprensione delle avverse, l'avrebbe saputo antivedere, almeno per quel che concerne la singolarit? de' modi ne' quali si vennero gli avvenimenti svolgendo. Cos? ? che gli ammaestramenti della storia, per la novit? dei casi seguenti, tornano inutili a chi viene dopo; cos? accade spesso che quelle cose pi? ci colgano sprovveduti, alle quali le minacce altrui e i nostri vanti pi? parevano dover prepararci.

Il d? primo dell'anno non era ancora sonata quella parola regia con cui Vittorio Emanuele si disse sensibile al grido dei popoli; e questa fu che eccit? veramente un grido d'esultante ed impaziente speranza. Parve di subito imminente la guerra, insoffribile ogni indugio; e quando Francia prometteva ad Austria[68] e ad Europa di non varcare le Alpi, se non quando Austria avesse varcato il Ticino, quella promessa a molti sonava minaccia; e taluni desideravano l'Austria invaditrice pur per veder soccorritrice la Francia. Esaud? l'Austria quella invocazione; e fu un punto che Torino sent? approssimarsi lo scalpitare dei cavalli nemici. Francia venne; in meno d'un mese, di battaglia in battaglia, e di sbaglio in isbaglio, Austria fu a Solferino. Dove per le sorti italiane e per l'onore delle armi francesi e per il destino dell'impero stesso, lungamente librati in fatale bilancia, combattettero il pertinace valore degli uomini e la tempesta del cielo. Alla quale i patti di Villafranca fecero succedere inaspettata bonaccia; simile a quelle che invidiano il porto sperato ai naviganti stanchi, i quali, sentendo le correnti marine ritrarli nell'alto, imprecano al nocchiero, che, per freddamente audace che sia, impensierisce.

Il turbine della guerra, che aveva travolti oltre il Ticino gli Austriaci, gli spazz? in men di un mese fin oltre il Mincio, divelse piante ducali e arciducali, port? via cardinali. A cardinali e arciduchi successero dittatori gi? sudditi loro; ed ecco da ultimo un avvocato del foro torinese redare per procura la potest? dello zio di Francesco Giuseppe e del nepote alla duchessa d'Angoulemme, d'una donna e di un prete. Milano e un brano non piccolo di Lombardia ritornano d'Austria in Italia; il Piemonte si allarga non tanto di terra quanto di concetti e di affetti; i suoi nuovi fratelli lo obbligano a sempre pi? fraternamente trattare i sudditi antichi; meditansi nuove[69] leggi da ampliare (con parsimonia per?) le innocue franchigie municipali, e l'onesta libert? del pensiero nell'educazione, libert? troppo pi? importante al viver civile che quella della stampa, fatta per imperizia e per abuso, se non dannosa, impotente. Altre leggi preparerannosi; le quali del resto non diventeranno leggi davvero se non si mutano in consuetudini, se non le fecondano i sentimenti. Apresi intanto un nuovo campo di prove: l'Italia settentrionale si sente pi? vicina all'Italia di mezzo; e se il riparo delle Alpi non si ? pi? rialzato n? meglio munito, quello degli Appennini in qualche parte ? abbassato o forato. Atti di concordia tra gli Italiani si celebrano, che mesi fa non si sarebbero immaginati neanco: citt? che parevano sepolte in letargo, si scuotono senza convulsione; altre che temevansi disperatamente frementi, attendono con fiducia quieta. In sola una citt? (e non di quelle da cui pi? sarebbesi temuto; e anche qui la previdenza degli uomini venne meno, e fu questa forse la cagione del male che li colse alla sprovvista), in sola una citt? un solo esempio d'atrocit? fu veduto, fra tante ire da tanta et? accumulate: e all'onor dell'Italia giova notare che dalla bocca di un Italiano, l'Azeglio, non da stranieri, uscirono a riprendere quel fatto le parole pi? severe e accorate.

Se non che ai lungamente infelici e minacciati di nuova infelicit?, il fermarsi nei conforti al dolore, il non ne torre via le cagioni, sarebbe pericolo e colpa e vergogna. Piuttosto che trascendere in esultazioni, giova pensare che gli ottenuti qualsiansi vantaggi,[70] l'Italia non li deve tutti a s? stessa; e che nel 1848, fra i molti errori e non tutti innocenti, potevasi almeno affermare che armi tutte italiane, comecch? da ultimo sventurate, resistettero a lungo non inugualmente contro quelle forze alle quali a gran pena si tenne pari l'agguerrita e animosa e meritamente celebrata potenza di Francia; pensare che, se il giogo della tirannide ? grave, il peso del benefizio non ? leggiero se non a chi sappia farsene degno; pensare che la vittoria dovuta in parte ad altrui, bisogna tosto o tardi scontarla; che se gli uomini privati possono gratuitamente largire oro e sangue, i governanti de' popoli di rado lo possono, lo vogliono ancor pi? di rado; e che il reiterare di tali largizioni, nessuno pu? richiederlo come debito, e potend'anco, non lo deve, se cura la propria dignit?. Bologna che gode dei dittatori Cipriani, Farini, Bon-Compagni, non pu? non rammentare il sangue, gli insulti della sorella Perugia; e pi? alto che i cantici di Lombardia liberata, s'innalza il gemito dei Veneti angariati, incarcerati, percossi, delusi delle promesse solenni. Ai Veneti non ? promessa consolatrice il figurarsi dominati da Austria immedesimata all'Italia; il figurarsi l'Italia trasformata in un corpo di nuova fattura, corpo di cui il papa capo, e Francesco di Vienna e Francesco di Napoli membra, e duchi e arciduchi incerti, o altri incogniti e nascituri come principi, membra. Il fatto si ? che, con tutti questi trionfi, Austriaci a diecine ed a cinquantine di migliaia stanno accampati in Italia, e Svizzeri assoldati versano o s'apparecchiano[71] di versare sangue italiano, e Italiani stanno per essere sguinzagliati contro i loro fratelli; e per schermo da Austriaci e da Svizzeri e da Italiani ci restano Francesi in Lombardia, in Roma Francesi.

Se a Roma fossero spediti col medesimo intento che in Lombardia; se quelli di Lombardia devano da ultimo riuscire al medesimo intento che quelli di Roma, o se viceversa; il giudicarlo o il domandarlo non spetta a chi ignora assai cose, e quest'una ben sa, che tutto sapere non si pu? n? si deve. Ma d'altra parte non si pu? non sapere che oltre agli intenti palesi de' grandi fatti politici, sempre ce n'? di segreti; e che, per esempio, la pace di Villafranca non poteva essere ad uomo cos? cauto insieme e cos? risoluto com'? chi governa nazione tanto coraggiosa quant'? la francese, non poteva essere consigliata dal solo timore delle armi di Prussia. Inutili oramai sopra ci? le querele, ma peggio che inutili le parole provocatrici a cui tanti si lasciarono e lasciano andare pubblicamente. Se i popoli ignorando il segreto e di quella pace e di quella guerra, non si potettero dar per intesi di certe cose, e senza avvedersene offesero; se continuando per la medesima via, senza malizia nessuna seguitano tutti i giorni a fare il contrario di quello che altri vorrebbe; ? da sperare non ne portino la pena, come semplici e innocenti che sono: ma non sarebbe punto innocenza il voler tutte interpretare a proprio comodo e piacere le parole che i potenti pronunziano, e in quelle stesse che per le necessit? politiche quali le fa la miseria dei tempi suonano ambigue, voler leggere ogni cosa[72] chiaro e determinato in proprio servigio; e per contrario, alle parole che chiarissimamente suonano sfavorevoli, non dare retta. Fu gi? schiettamente significato all'Italia che la Francia aveva compita la parte sua: e questo si chiama parlare netto; e non intendo perch? non s'abbia ad intendere. E quand'anco non fosse profferita cotesta parola che non ? punto minaccia ma consiglio pi? provvido d'ogni promessa; chi guarentisce a noi che la vita e la sanit? e l'agio di difendere gl'Italiani basti al potente alleato per tanto tempo quanto a essi fa di bisogno? E se la morte, se una infermit?, se una guerra diversa ci lasciasse esposti agli assalti e alle insidie degli esterni e degli interni amici e nemici?

La pi? feconda promessa uscita dalla bocca imperiale ? nella parola: Armatevi, Italiani. N? per la pace fu quella parola disdetta; ma anzi confermata e illustrata. E chi disse: La mia parte ? compita, intese: Ora a voi. Bisognava dunque, dopo il d? 12 di luglio, ben pi? sollecitamente che prima, non dico provocare la guerra, ma dico agguerrirsi; porre la propria salute nel non sperare da altri salute; far ragione d'essere al mondo soli, circondati da pericoli minacciosi. Non era ormai l'Italia che, rigettando i soccorsi, dicesse: Far? da me; era l'Europa che parte per aspettazione di benevolenza, parte per stanchezza o dispetto, comandava all'Italia: Farai da te. Bisognava non svogliare o rimandare scontenti i poveri Volontari, ma sempre pi? stringerli, disciplinarli, incuorarli, ordinare una leva che facesse montare l'esercito a numero tale da far fronte alla[73] forza nemica. E potevasi; e della inesperienza avrebbe tenuto luogo l'ardente volont?, la coscienza del diritto, il pensiero del combattere sul proprio terreno; e il numero, non foss'altro, degli armati, avrebbe raffidati gli amici, inanimiti i dubitanti, sgomentati gli avversi, spronati insieme e rattenuti i consigli dei potentati europei, spronatili a rompere gl'indugi insidiosi, rattenutili da sentenze sprezzanti e spietate. Bisognava mettere a profitto il primo impeto dei popoli liberati per ottenere e dai benestanti e dai poveri stessi (la cui cordialit? colla moltitudine delle piccole offerte accumulate supera i donativi della pi? sfoggiata opulenza) ottenere que' sussidi, che avrebbe del resto estorti per s? lo straniero se dimorasse pi? a lungo. Bisognava, coll'autorit? dei signori amati e dei preti degni, eccitare nei campagnuoli l'affetto di patria, il quale nessuno mai cur? svolgere in essi neanco in quel grado che pur si poteva, neanco stringendo tra loro e i cittadini que' vincoli non dico di fratellanza ma di clientela, pe' quali erano forti le antiche societ?, e grandi imprese potettersi dalle nazioni compire. La nazione bisognava rigenerare negli esercizi militari, non contentarsi che qualche migliaio di guardie civiche in qualche citt? si mostrasse con sufficiente destrezza e con lodevole puntualit? alle rassegne o a cerimonie di quasi scenica pompa: incominciare con la vita del campo, con gite via via sempre pi? faticose, con esercizi sempre pi? violenti, a indurarli al disagio, che a sostenere perseverantemente ? pi? duro del pericolo, e fin del[74] tormento, al disagio la cui dissuetudine rende i popoli imbelli.

L'apparecchiarsi daddovero alla guerra avrebbe vinta, prima che sopraggiungesse, la guerra. L'usarvisi tuttavia (giacch? il tempo opportuno non ? tutto ancora passato) renderebbe gl'Italiani degni di rispetto e agli stranieri e a quei, qualunque si siano, principi che verranno. Perch? quand'anco l'esito delle cose oltrepassasse la pi? lusinghiera speranza, quand'anco senza travaglio ottenessimo a un tratto quiete libera e dignitosa; e all'Italia toccasse una sorte non mai toccata a gente o ad uomo nessuno, dico di fruir con onore beni largiti dall'altrui generosit?, non conquistati con opera corrispondente al loro valore; quand'anco ci? fosse, la conservazione di questi richiederebbe a ogni modo il lavoro che per il loro conseguimento si fosse risparmiato. Non basta mutare governo, bisogna mutare vita. E se le leggi sorreggono la libert?, non la fondano che i costumi.

Libert? non si crea per decreti. Possono i parlamenti col coraggio iniziarla, con la concordia sostenerla, con la proposta di buone istituzioni avviarla: ma sue nutrici e tutrici sono la fede, le virt? domestiche, e l'armi. Non parlo de' vanti matti n? delle feste puerili; de' Te Deum tra due pranzi, de' mortori alternati co' balli; agonia della patria, morte de' vili. Ma dico che, salvo i non mai abbastanza lodati, i quali affrontarono i pericoli del campo, le angustie della carcere o dell'esilio, il maggior numero di questi undici milioni d'anime hanno ricevuto[75] la novella condizione di cose senza sagrifizi, senza ansiet?, senza quasi pensiero del buio e minacciante avvenire. E la storia e l'esperienza ci provano come alle inerti speranze consegua disperazione inerte, non consolata da memorie, non compianta. Questo spiraglio concesso all'Italia di libera vita doveva essere cos? fitto di nobili esempi, che qualunque si fossero i governanti venturi, dovessero averne o modello o rimprovero, e l'Europa apprendesse da' fatti quello che noi possiamo e sappiamo. La maraviglia che da pi? parti dimostrasi per l'ordine conservato in mezzo a quello che da taluno chiamasi disordine quand'? in nome dei molti, ma stimasi giustizia quand'? a vendetta di pochi; cotesta maraviglia piuttosto che ammirazione rispettosa o amorevole, ? in altri sorpresa di fatto che non si aspettava da gente a cui non si aveva n? fede n? stima, in altri sorpresa stizzosa, perch? del disordine che disonorasse l'Italia tramavano far loro pro; e si confidano che prolungando la prova, le speranze irritate e deluse, il dispetto che prorompe dall'animo de' deboli ad arte stancati, conduca le cose l? dove costoro fin dal principio intendevano d'avviarle. Non per? ogni parola che si fa sentire, ? di maraviglia e di lode. Quegli nel quale i pi? speravano maggiormente, e che pi? si dimostrava benevolo, non risparmia riprensioni severe e di detti e di fatti; ma a chi sappia intenderle, salutari. E basta rammentare la recente lettera di lord Ellenbouroug per sentire come possa la lode sincera esser mista a rimproveri amari, e il dono a raffacci che[76] farebbero seccare gli allori della vittoria pi? rigogliosi. Sarebbero ben semplici gl'Italiani se si fidassero ai cospiranti affetti di tutti i potentati di Europa per loro; quando cotesta cospirazione stessa ? prova dell'essere que' potentati divisi da interessi contrari e da reciproche gelosie.

Non lo possono oramai gl'Italiani dissimulare a se stessi. Il cammino che han preso ? onorato ma arduo: non che giunti alla meta, e' sono appena alle mosse. Amici e nemici stanno a guardarli se sappiano prendere la signoria del proprio destino. Da questo punto dipende il destino di secoli forse. Nessuno far? l'Italia s'ella non si rif? da se stessa; e primo segno del suo rifarsi sar? il ridivenire valida a difendersi con le armi proprie da tutti, sola e sempre. Il tempo di questi lunghi mesi perduto, riguadagnarlo bisogna: costituire un esercito; raccogliere, non da prestiti che rovinano l'avvenire e fanno la nazione dipendente dai suoi stessi nemici, ma da offerte comuni, regolarmente raccolte a tempi fissi, il danaro occorrente. La nazione che ha gi? saputo sagrificare le proprie affezioni municipali al principio d'unit?, s'? mostrata degna di sagrificare alle necessit? dell'onore e della vita una parte della propria ricchezza, che le sarebbe poi restituita ad usura. Sta in lei il farsi l'ammirazione davvero, o lo zimbello, dei popoli.

Queste parole ho dettate non senza pena, e dopo lungo esitare; ma, sollecitato da chi ama d'ardente amore l'Italia, rimproverato del mio silenzio come di colpevole noncuranza, scorgendo imminenti i pericoli,[77] e i disinganni sempre pi? acerbi, parlo, per invitare, per supplicare che vengano efficacemente al soccorso coloro ne' quali ? il valore della parola, del senno, della volont?; coloro che hanno il vantaggio del favore pubblico, l'autorit? del consiglio, la potest? del comando.[78]


IL VENETO.


Per quanta non curanza o si abbia o si finga delle cose d'Italia, in particolare del Veneto, la sua condizione ogni d? si presenta come una difficolt? politica ad Europa tutta; non per l'importanza storica o civile, n? anco per l'economica, del paese, ma per la geografica e la strategica, e per i potentati che han preso parte nella lite, e per quelli che potrebbero prendervela, e per quelli che sono, anche malgrado loro, obbligati a dovere comechessia definirla. N? la soluzione delle difficolt? si pu? differire a bell'agio, come s'? fatto, e si far? forse ancora per assai tempo, di quanto concerne l'impero ottomanno; s? perch? qui l'impaccio del partirsi le spoglie non c'?; s? perch? trattasi di cosa pi? prossima e collocata nella luce delle nazioni civili; s? perch? a questo ? a bella posta convocato un congresso, il quale deve pur qualche cosa risolvere,[79] volendo essere tribunale supremo. N? sarebbe sentenza finale la sua se lasciasse appiglio a liti nuove, se non provvedesse insieme alla sorte d'un popolo, e alla quiete di molti altri popoli, e alla sicurezza e all'onore dei giudici stessi, i quali tergiversando e lasciando spazio alle tergiversazioni altrui, non darebbero gran saggio n? di potenza n? di previdenza. Or la questione, non solamente giova ma ? forza che sciolgasi in modo pacifico; perch?, quand'anco il congresso non concludesse niente e si venisse di nuovo alla guerra, dovrebbe alla guerra seguire un altro congresso; e, dato gi? il fumo dei cannoni rigati, bisognerebbe da ultimo consegnare alle righe d'un foglio la giustizia o l'ingiustizia consumata. Seguirebbero sempre dispute di diritto, o di quel che il pi? forte e il pi? destro spacciasse per diritto; seguirebbero transazioni. L'ha detto un uomo che pare assai perito della materia, l'autore dell'opuscolo Napoleone III e l'Italia. Tant'era cominciare dalla cosa con cui si doveva finire: ma quello che non si ? fatto, conviene il farlo ora, innanzi che un altro centinaio di migliaia d'uomini cada mietuto sulla terra d'Italia, se bastano.

La soluzione da taluni proposta concilia molte contrariet?, che la guerra non potrebbe se non pi? terribilmente aggravare. Il popolo da liberarsi non rinnega la naturale santit? del proprio diritto, la storica legittimit? di quello, venerabile come cosa antica, cospicuo come cosa illustrata da prova recente; non confessa e non permette che altri possa affermare, ch'egli si riscatta con oro per non si[80] francare col ferro. Dopo le resistenze di Vicenza e di Venezia, e del Cadore, dove un pugno di montanari inermi respinse le soldatesche austriache per sette settimane; dopo le schiere d'esuli volontari che corsero al pericolo come a festa, e che Vittorio Emanuele attest? non impari a' suoi prodi; n? Austria n? altri pu? dire che manchi il coraggio del sacrifizio ad uomini che, disarmati, abbandonati d'ogni speranza, 100,000 e pi? fucili nemici appena possono oramai contenere. Se dunque per risparmiare, non gi? ciascun veneto il sangue proprio, ma il sangue de' suoi cari, e gl'insulti barbarici pi? amari che morte, per risparmiare nuova guerra al resto d'Italia e all'Europa, gli oppressi si rassegnano a un estremo tributo, impostogli non dall'oppressore, disperato gi? del tenere pi? a lungo la preda, ma dal desiderio di respirare al pi? presto insieme con gl'italiani fratelli un po' di quiete, e dal consentimento dei potentati d'Europa; la dignit? loro non n'ha detrimento. E questi potentati, da altra parte, chiamando l'Austria non a sindacato, ma seco a consiglio; non la discacciando dal Veneto con le armi o con le minacce, ma proponendole un patto pi? vantaggioso a lei della possessione aborrita e perpetuamente contesa; liberandola dal doppio giogo dell'odio e de' debiti che schiaccia lei, pi? che essa l'Italia; provvedono alla sua ch'e' potranno chiamare dignit?, le rendono un benefizio inestimabile, fanno opera di colleghi e fratelli.

Napoleone III, l'uomo di Magenta e di Solferino, non era di per s? solo il pi? idoneo interprete[81] dei desiderii de' Veneti presso l'Austria; Napoleone III, l'uomo di Villafranca, non conveniva che di sua volont? propria paresse egli solo voler dissentire da quello che aveva coll'Austria consentito; Napoleone III, che in nome d'un suo antecessore doveva dimostrarsi scontento dei patti del quindici, meglio era che la proposta e l'uffizio del mutarli lasciasse agli eredi di coloro stessi che avevano stipulati essi patti. E d'altra parte, possono questi eredi dire all'erede dell'Austria, che, i titoli comuni delle loro possessioni essendo fondati sopra la successione legittima, ed essendo la possessione del Veneto venuta all'Austria dal patto di Campoformio, cio? dalla concessione d'un figlio della rivoluzione, d'uno che aveva colla spada stracciate tante pergamene di legittime monarchie e repubbliche; liberarsi da questa memoria di disordine scandaloso, da questo documento del quale e i Veneti e tutti gli altri popoli soggetti a lei si potrebbero servire per coglierla in contraddizione, sarebbe assai provvido accorgimento. Potrebbero insieme gli eredi dei re che scrissero i patti del quindici considerare che, essendo il fine di quelli la pace d'Europa e la loro propria quiete, e mancando oramai quelli al fine; il mutarli ? un consentire pi? intimamente allo spirito che li dettava. Nel fatto de' Veneti poi conseguesi, per provvida disposizione della celeste giustizia, il doppio vantaggio, dell'osservare insieme il principio della legittimit?, violato da coloro che se ne armavano, e del riconoscere il suffragio dei popoli; al quale suffragio non solamente l'imperator[82] de' Francesi ricorse e ricorre, ma e quel d'Austria in Gallizia, e con migliori auspizii quel di Russia, conciliando a s? il maggior numero de' sudditi suoi coll'affrancamento de' servi, conciliandosi l'opinione dell'Europa per mezzo di giornali avvedutamente compilati, conciliandosi con molte industrie la fiducia di tutte le nazioni slave e di tutti i seguaci del suo medesimo rito. Se l'intaccare la scritta del quindici fosse novit?, sarebbe pure atto di prudenza coraggiosa l'osarla spontaneamente prima che tremende necessit? distruggano il merito di tale atto, e di vantaggioso e onorevole che potrebbe essere ancora, lo facciano pieno di pericoli e di vergogna: ma il Belgio e Cracovia e la Grecia e la Francia sono esempi sufficienti a tor via gli scrupoli e dare ardimento. Senonch? le pi? delle eccezioni sin qui fatte ai decreti della santa alleanza, quand'anco non si vogliano chiamare o fortuite o forzate, certamente a tutti coloro che le operarono o le permisero non acquistano lode di pura spontaneit? o di coraggio. Tempo ? che di proposito e di concordia, lealmente, solennemente, con pieno giudizio, un intero rinnovamento di que' decreti si faccia; e che, come per buon augurio delle riformazioni rimanenti, incomincisi da Venezia e dal Veneto; e Austria, fin che c'? tempo, abbia il merito o almeno le apparenze del libero consentimento. Lasciando stare la coscienza del giusto, e riguardando i computi della mera utilit?; deve Austria piegarvisi quando pensi che avrebbe potuto a quest'ora perdere troppo pi?, e che troppo pi? risica di perdere poi senza compenso e senza decoro.[83]

Questo timore ben pi? legittimo che non siano i titoli di lei sopra il Veneto, deve essere pi? forte dei sospetti che la turbano e tentano: sospetti, dico, che l'esempio si faccia contagioso, e che altre parti dell'impero pretendano cosa simile. Le condizioni del Veneto sono in ci? singolari. Nessun'altra nazione soggetta all'Austria si trova divisa in s? da governi opposti, parte esteri e parte suoi proprii: nessuna provincia ha per pi? di dieci anni dimostrato e con la parola e col silenzio, e con la rivoluzione e con la guerra, e con le carceri e con gli esilii, la coscienza del proprio diritto, l'aborrimento del giogo straniero, la perseverante e concorde volont? non di alleviarlo a s? ma di scuoterlo: nessuna parte dell'impero ? stata ed ? pi? angariata, pi? insultata insieme e temuta da' suoi insultatori, i quali coll'esaurirne le forze, col provocarne l'odio insieme e il disprezzo, si confessano disperati di poterla lungamente tenere non solo al modo che soglionsi tenere popoli civili da civili governi, ma neanco al modo che il padrone de' Negri o il mulattiere tiene la schiava sua o la sua bestia, avendo cio? qualche riguardo alla vita e alle forze di quella per accrescere lucro a s? e mantenerlo. Aggiungasi che gli altri stati o provincie sono all'Austria attaccati da tempo pi? antico, con patti pi? o meno consentiti o tollerati; i quali se essa col governo suo infrange, pu?, ravveduta, osservandoli meglio, legittimarsi: ma il Veneto ? possessione recente, ingiusta nell'origine, ingiusta nel modo del tenerla e del ripigliarla, intollerata ai posseduti, intollerabile ai posseditori; n? pu? farla[84] parere antica a chi patisce, se non la moltitudine de' patimenti in cos? breve numero d'anni raffittita senza misericordia e senza discernimento. Sola la Gallizia potrebbesi recare ad esempio; ma nel Veneto e i diritti e i dolori e il malcontento e le resistenze ognun vede essere incomparabilmente maggiori. E l'ora della Polonia non ? per anche suonata; ed ? da sperare che col disciogliersi della tirannide turca, gli stessi potentati che la Polonia divisero, ricevendo altrove compensi, vogliano per onore ed utile proprio ricomporla.

Se Austria temesse che il torsi di dosso ai Veneti fosse ad altri popoli da lei governati incitamento a imitarli, e per? resistesse ai consigli della propria utilit?; non s'accorgerebbe del suo vero pericolo. Pi? grave pericolo a lei, oltrech? pi? ignominioso, ? l'esempio di sudditi ch'essa non sa n? appagare n? domare, il cui silenzio sdegnoso e la prostrazione irrequieta e violenta sono essi stessi una continua ribellione: pi? grave pericolo ? l'esempio quotidiano di questa guerra instancabile dello spirito contro la materia tiranna, che lo opprime e non pu? comprimerlo: pi? grave pericolo ? la necessit? di mandare i sudditi delle altre provincie satelliti degl'Italiani, nel quale ufficio non possono tutti compiacersi per crudeli che siano, n?, per vili che siano, gloriarsi. Quando comincia (ed ? gi? cominciata) a penetrare negli animi dei soldati occupanti l'Italia la piet? e la vergogna; quando cominciano a intendere e farsi intendere; quando si accorgono che il ribelle ? una vittima, e ch'essi stessi sotto sembianze d'aguzzini[85] son vittime; l'Austria ? perduta, il suo impero ? tutto una obbrobriosa rovina. Poi, ripeto che il fatto delle altre provincie ? diverso; che parte di quelle n? si sentono ancora mature, n? possono costituirsi in nazione; e che sola la rea ostinazione dell'Austria potrebbe mutare le sorti loro in modo insperato. La pi? minacciosa di tutte, l'Ungheria, dopo la gigantesca scossa d'anni fa, si grav? sopra s? stessa e giacque; e coloro che maggiormente sperano in lei, se non amano illudersi o illudere, devono pensare che ivi non ? unanimit? tanto piena quanto in Italia; che un partito, e potente, vuole la grandezza magiara, ma la vuole sotto la tutela dell'Austria; che la prossimit? del paese, le consuetudini inveterate, e il vanto stesso de' benefizi dal valore ungarico all'Austria resi, sono vincoli non ancora rotti; e che, ad ogni modo, il piantarsi una dinastia nuova in quel regno, oltre ad altre difficolt?, avrebbe impedimento dalle gelosie de' potentati reciproche, e dal timore che la novella dominazione colle armi di un popolo bellicoso si distendesse sui popoli circostanti. Della Croazia piuttosto, la quale i pi? degli Italiani, ignari d'altri e di s?, immaginano come la verga ferrea dell'Austria; della Croazia delusa delle promesse profuse nell'ora della paura, spogliata delle pattuite guarentigie, aggravata ad arte della detestazione del mondo civile; dico che della Croazia avrebbe Vienna a temere piuttosto: ma non ? l'affrancamento del Veneto che la inciterebbe a rivendicare la propria libert?.

Un altro pericolo all'Austria verrebbe dal volere[86] i Veneti soggiogati a s?; che insorgendo taluna delle tante schiatte a lei sottomesse, la necessit? continua del tenere in Italia centomila soldati, se non pi?, e del pagarli, le sottrarrebbe le forze a difendersi da altre sommosse; e le leve forzate, e le forzate imposte la renderebbero sempre pi? debole e povera, sempre pi? avvilita e fallita. Sottrarsi all'Italia a qualunque sia patto, diventa per lei di d? in d? sempre pi? urgente bisogno, per conservare alla meglio un impero, o piuttosto per ricrearselo, giacch? essa lo ha con le sue proprie mani disfatto. E soldati e armi e danari le mancano per tenere insieme Italia e Croazia e Ungheria; ma quello che pi? le manca, ? la mente: perch?, distratta da tanti diversi sospetti e spaventi, sbalordita dalla propria tirannide, non pu? discernere, non che calcare, la via che le resta unica di salute; dico il dotare i suoi sudditi d'istituzioni migliori, o almeno dare le gi? promesse, rendere le rapite. Questo degli altri sudditi; giacch?, quanto all'Italia, ogni ammenda ? tarda, ogni ritrattazione discreduta, ogni accomodamento impossibile. S'ella, dopo gli smacchi sofferti, a costo di perdere altrove quanto potrebbe pur ritenere, si afferra a questo brano d'Italia; segno ? che le sue mire vanno oltre; ch'ella agogna a tutta l'antica preda, e a maggiore: perch? non potendo col Veneto pagare i debiti che le costa e le costerebbe l'occupazione del Veneto, di qui segue ch'ella deve sperare mutate, col nostro peggio, le sue sorti. E lo spera; e i suoi fidi lo dicono apertamente. Or vedano i potentati d'Europa se ci? torni comodo a loro;[87] veda la Francia se a lei giovi un'Italia austriaca; la Prussia, se un'Austria tedesca insieme e italiana. E veda l'Austria se i suoi sognati ingrandimenti possano non le fare nemica l'Europa tutta, e non tentare altri stati, ingelositi, a sommovere contro lei, non che Italia, altri paesi pi? prossimi ad essa e di possessione meno disperata. Ma l'Europa civile sapr?, speriamo, provvedere meglio e a s? e a noi; antivenire il caso non impossibile, che gli Italiani, finalmente, stancati e da nemici e da amici, comincino a contarsi, ad intendersi, a fidare in s? stessi e nella giustizia di Dio degnamente invocata.

L'orgoglio siccome degli uomini singoli e delle famiglie private, cos? dei principi e degli stati, si fa spesse volte vanit?, illude s? stesso, e colle armi proprie si ferisce. La speranza del riacquistare il perduto per colpa e inettitudine, nell'atto di sospingere a sconsigliati ardimenti, moltiplica le bugiarde paure, siccome bugiarda essa stessa. L'Austria, a cedere in Italia, teme umiliazione che la abbassi nel cospetto del mondo; non s'accorge, e dovrebbe pure accorgersi, come la sua pertinace ingiustizia ? quella che la disonora davvero e avvilisce. Questo sarebbe anzi il momento di risolversene con meno umiliazione, dacch? la pace di Villafranca le ha offerte condizioni insperate; dacch? l'onore delle armi ? salvo in battaglie, precedute e seguite da ritirate soverchiamente frequenti, ma che al vincitore costarono caro; le quali battaglie, pensando alla precipitazione delle prime mosse e alla tardit? dei capitani che le eseguivano,[88] alla loro imperizia decrepita, alla discordia manifesta, alla svogliatezza o renitenza delle soldatesche combattenti per signore disamato, al paese sopra cui combattevano avverso, ai contrattempi delle piogge e de' turbini, io confesser? volentieri essere state battaglie maravigliose. Disfatta a Solferino quando teneva la vittoria gi? in pugno, e ne aveva tutt'intorno spediti i messaggi, Austria tra poco seder? di pari col suo vincitore a consiglio, giudice e parte, giudice delle sorti proprie e di quelle della nazione sua accusatrice e sua preda. Non si lasci sfuggire questo punto di tempo, che forse ? l'ultimo favorevole a lei; non aspetti il fallimento che gi? la preme; non crei a s? turpe necessit? di nuove falsificazioni, di nuove lesioni alla maest? della fede pubblica, pi? del fallimento vituperose. Son queste le umiliazioni il cui pensiero dovrebbe metterle un raccapriccio di vergogna, e farla fuggire oltre l'Alpi pi? ratta che se inseguita da un milione d'armati. Per rifarsi di soldo e differire di poco la ruina del credito suo, Austria fece forza alla propria natura cauta e lenta, pass? disperatamente il Ticino: ringrazi adesso Dio e gli uomini di potere, rifatta alquanto di soldo, varcare i monti, come viaggiatore che ritorna stanco ma spontaneo alla sua casa men ricca, dopo spassatosi lungamente a ufo nelle delizie di palagi non suoi.

Ma se non s'intende che ad Austria la ricognizione di un diritto accompagnata da compenso sia umiliazione, non ? neanco da intendere che umiliazione sia ai Veneti la profferta. La quale fu, non so[89] da chi primo, sparsa per i giornali; e parecchi Francesi generosamente amici all'Italia la accolsero quasi festanti, e la divulgarono pi? e pi?, confortandola con profferte proprie cordiali. Non essendo ormai dunque lecito dissimularla, importa dichiararne il legittimo significato. La condizione proposta possono i Veneti accettare, come un nuovo documento della buona volont? loro, da porgere ai potentati d'Europa; i quali possono alla loro volta proporla all'Austria non come un'elemosina alla sua inopia, purch? dal canto suo l'Austria n? altri non si creda di fare agli Italiani un'elemosina della loro imprescrittibile libert?. Non si tratta di riscattare le anime, e neanco il terreno. Che se il popolo italiano non mette innanzi la propria sovranit? (parola schernita crudelmente e smentita dai cortigiani della povera plebe), prega che gli sia lecito desiderare la propriet? di s? stesso. Se altri lo ha barattato o donato o venduto, non soffre gi? egli, accettando la presente proposta, d'essere riguardato come schiavo, come greggia, come cosa. Piuttostoch? ricomprare s? stesso, egli si crederebbe di riscattare Austria da taluno almeno de' suoi debiti divoratori; di riscattare le nazioni all'Austria sottoposte dalla crudele necessit? d'invadere, depredare, bastonare, uccidere lui in nome di quella, e per prezzo del reo ministero di sgherri ricevere bastonature e morte, odiosit? e vitupero. Intenderebbero i Veneti insieme risparmiare a s? stessi la trista necessit? de' disordini che accompagnano i moti di libert?, anco pi? santi; risparmiare ai loro fratelli le calamit? della guerra, risparmiare[90] all'Europa i dispendii incessanti d'un apparato militare che smunge gli stati, che porta con s? gli svantaggi delle battaglie perdute, e delle paci ingloriose; risparmiarle gl'impacci delle pericolose mediazioni, e le ree loro sequele e rimorsi.

I Veneti, disarmati da secoli, posti in un paese che dalla sua giacitura e dagli abiti dell'antica civilt? ? fatto malagevole a difendere al modo che difendonsi ne' deserti o tra le rupi montane i popoli indurati dalla loro miseria stessa; i Veneti compressi entro le loro citt? da una forza nemica contro la quale gli eserciti della bellicosa Francia appena prevalsero in campo; non disconoscono la propria presente debolezza, il dolore e l'ira non sfogano in vani vanti: ma sanno che l'Austria con tutte le sue soldatesche ? debole pi? di loro; e la coscienza del proprio diritto, la volont? perseverante, il consentimento di quante ha il mondo civile anime generose, i falli e le colpe del loro oppressore, serbano a loro la finale vittoria. Senonch? gli sforzi necessari a conseguirla trarrebbero forse in armi gran parte d'Europa; e l'Italia sarebbe il campo dell'universale battaglia; sopra le sue terre, i suoi monumenti, i suoi parvoli, le sue donne cadrebbero le rovine, le rapine e gli strazi, ai quali dovrebbero lor malgrado concorrere gli stessi di lei difensori, i figli suoi stessi. Se uno spediente si porge di sperdere dall'Italia e dall'Europa questa tremenda minaccia; gli ? dovere s? degli Italiani e s? de' potentati europei l'appigliarvisi. Questo terreno, i cui frutti per tanti secoli furono da tante fami straniere divorati,[91] inghiott? via via a centinaia di migliaia i divoratori: ma qual pro della tarda, comech? atroce, vendetta? Meglio prevenire il flagello. Siccome i Veneti, pronti all'insorgere sul cominciare della recente guerra, rattennero gli sdegni e le speranze al cenno di chi per fini suoi li voleva spettatori quieti e quasi noncuranti de' fratelli e di s?; e per mostrare la propria fiducia alle promesse, l'obbedienza ai liberatori sperati, la religiosa osservanza dell'ordine, perdettero l'opportunit? di sgomentare con moti interni alle spalle il nemico, e di assicurare ai combattenti il trionfo; cos? deporrebbero adesso ogni proposito di quelle resistenze violente alle quali pu? essere offerto il destro e dalle turbazioni e dai dolori d'altri popoli, e dalle guerre e dalle gelosie d'altri principi. Pu? dunque il congresso annunziato evitare e a' principi e a' popoli sventure grandi: chi sospetta dell'Austria, pu? cos? porle un freno; chi l'ama, o per meglio dire, ha interessi pi? o meno comuni con essa, pu? provvedere al decoro di lei con questa proposta che la sciolga dalle difficolt? raggruppate da lei intorno a s? stessa.

N? le difficolt? e i pericoli son di lei sola. Russia non dico che deva temere della Polonia divisa, n? delle insidie d'Inghilterra potente d'arti segrete assai pi? che d'armi, n? d'una nuova guerra pi? efficace di quella che si ruppe contro Sebastopoli, come flutto spumante agli scogli; ma deve temere che faccende estranee a' suoi fini la distraggano dai vasti concetti ne' quali l'attenzione di lei si raccoglie. Inghilterra deve temere le sue possessioni[92] troppo ampie, le sue colonie non tutte contente; temere Francia e Russia, e pi? di tutto i suoi propri sospetti, e la smania di parer pi? potente che non sia, e pi? benefica che non voglia. Prussia deve temere e dell'Austria rivale, e degli stati minori a lei collegati, e della confederazione germanica, che intende rinnovellarsi non forse per far lei padrona assoluta. Francia ? terreno che traballa e che fuma. Le insidie tese ai popoli non sono sicurezza ai regnanti. Colgan essi questa occasione, unica forse, di conciliare insieme le proprie utilit? e la giustizia; se non vogliono renderne conto severo a quel Dio che giudica i forti della terra, e quanto pi? sollevati in alto, con tanto pi? rumorosa rovina gli schiaccia.[93]


ITALIA DI MEZZO.


Chi dubita se l'Italia sia fatta per essere nazione, osservi come, anco lacerata qual ?, le sue membra provino consentimento di vita. Non si pu? toccare una delle sue questioni, o piaghe che piaccia chiamarle, che l'altre non rispondano con un moto di dolore e di speranza, tutte. Francate la Lombardia; e fate, se vi d? l'animo, che il Veneto rimanga in pace, scisso: lasciate che si rimuovano da Parma e da Modena gli antichi principi; e imponete a Parma e a Modena che formino ancora uno Stato da s?: alleviate a Romagna il suo giogo; e poi consigliate che gli altri sudditi del Cardinale Antonelli vivano lieti del dare con le proprie miserie rimorsi alla Beatitudine di Pio IX: sollevate Toscana, mostratele la speranza del farsi forte d'unione fraterna ed in essa ritemperarsi; e poi mandatela al Congresso, che Svezia e Austria e Napoli le indovinino[94] le sue sorti: fate sventolare agli occhi della Sicilia un vessillo italiano; eppoi consigliatela di stare buona, e intanto di fare razza da s? con Francesco di Napoli.

Quando s'ebbe la guerra, l'unica riuscita ragionevole e onesta parve a me che potesse venire dall'intendimento deliberato di farne partecipe la nazione tutta quanta: epper? dacch? Toscana si mosse, io pregai fossero paventati i consigli di coloro a cui pareva possibile restringere il moto, e farlo utile e onorevole a s? tenendolo diviso da Napoli, e consentendo a coloro i quali sconsigliavano ogni mossa nel regno per servire a fini propri o ad altrui. E so che il Filangeri, temendo non per il re suo ma per s?, aveva agli esuli mandato voce, e promesso che adoprerebbe il suo ingegno e l'autorit? d'accordo con essi: senonch?, accorgendosi ch'egli poteva risparmiare un cimento rischioso, compose in quiete accorta la troppo inerte e troppo operosa vecchiaia. Certo ? che senza quegli otto e pi? milioni d'uomini occupanti quella tanto ricca e opportuna e pericolosa regione, senza quell'esercito e quella flotta, non ci sar? mai Italia forte e vera, n? veruna altra parte d'Italia potr? per s? sperare durevole sicurezza di libera pace.

Il tempo del fare ogni cosa a proprio senno ? passato: potr? ritornare; noi possiamo prepararlo, affrettarlo; ma per ora ? passato. Chi invoca l'aiuto di straniero potente, rimane legato dall'altrui benefizio, ancorch? a lui non paia d'averlo pienamente conseguito e a suo modo; deve obbedire alla necessit?[95] che s'? creata egli stesso. L'ingratitudine ? vietata ai deboli; i quali devono attendere di poter diventare terribili per essere ingrati impunemente. Ma finch? dipendono dall'altrui volont?, la prima condizione imposta non dico dalla sana politica ma dal senso comune, si ? di conoscere con certezza la volont? che ? l'arbitra dei loro destini; e quella parte d'essa volont? che apparisce chiara, non la dissimulare a s?. Dicesi che nel 1848 in una citt? d'Italia la moltitudine in piazza gridasse a un inviato straniero affacciantesi alla finestra: Vogliamo anche Malta. Io non so se qualche Italiano ci sia che si pensi di gridare all'Imperatore de' Francesi e de' Corsi: Vogliamo la Corsica. Ma credo che nessun di coloro che l'hanno invocato, possa, senza farlo sorridere amaramente, dirgli a proposito di nulla: Vogliamo. La forza del volere ? tanto pi? nobile quanto pi? rara cosa; ma il volere costante non consiste gi? nel ripetere le stesse parole senza accompagnarle co' fatti. C'? delle parole che sono fatti, perch? li preparano, l'indirizzano, additano il fine e i mezzi: ma il dire di per s?, e il pur ridire, non ? un operare.

A formare un esercito italiano da poter solo da s? sostenere l'impeto nemico e respingerlo, tutti confessano che in otto mesi non s'? fatto quanto potevasi; e ne recano scuse accettabili, se cos? piace, ma che non fanno l'esercito desiderato, n? tolgono la dipendenza accennata. Or in questa pericolosa incertezza risicasi di offendere senza volere e senza sapere; si risica di parere cospiratori contro il proprio[96] alleato, quando non cospiriamo che contro noi stessi. Le parti oggid? paiono scambiate; e sono i principi che cospirano o per guadagnare terreno o per ripigliarlo: ma appunto per questo i popoli devono fare altrimenti; procedere retti, parlare schietti, e pregare ch'altri sia schietto con loro; e se in alcuna cosa la provocazione a' deboli fosse lecita, questo solo, dico la sincerit? provocare. Sapute le intenzioni del forte, sapranno o dissuaderle, o attenuarne almeno in parte gli effetti, o piegarvisi senza vilt?, e preparare le moltitudini al disinganno, acciocch? gl'illusi non paiano traditori.

Soprattutto bisogna guardarsi dal raffermare e moltiplicare le illusioni altrui nel momento che dai nostri occhi stessi le si vengono dileguando. Bisogna guardarsi da promesse che paiano istigazioni, e possono suscitare improvvide precipitose speranze, fomite di moti impotenti e funesti. Bisogna guardarsi dall'esercitare contro i dissenzienti quegli arbitrii di rigore che dispiacevano ne' principi tanto, e che non forza denotano ma debolezza. Bisogna non aizzare gli avversi, non fare avversi gl'indifferenti, non dare importanza ai dappoco, non stuzzicare la prurigine degli agiati martirii. Bisogna, giacch? disperasi (e a torto, secondo me) d'eccitare nell'umile popolo le animose ispirazioni della patria carit?, non provocare coloro che hanno nelle mani la coscienza de' popoli.

Le moltitudini sono buone, docili, non solo credenti ma credule: e lo sanno per prova anco gli avversi a' credenti. Nell'arguta Toscana, nell'ardita e[97] irritata Romagna ammiriamo la quiete rassegnata, la gioia con cui s'obbedisce al volere d'uomini nuovi, senza saperne o cercarne il perch?. A chi ne muove dubbio, son pronti a dozzine a rispondere: e' ci avranno le loro ragioni a fare cos?. Han paglia in becco. I Parlamenti non parlano, non perch? non sappiano che si dire o che si pensare, ma perch? lo scemare pur d'una dramma l'autorit? di que' pochi che credonsi necessari dagli uni, inevitabili dagli altri, pare a tutti misfatto. Se questa alcuno giudica prudenza soverchia, nessuno oserebbe chiamarla inonesta.

Ma senza detrarre all'autorit? di veruno, anzi per raffermarla in onore e salute di tutti, sar? lecito desiderare che i governanti sappiano dove vanno, dove conducono la nazione da essi con sincero animo amata. Si aggregarono con civile intenzione al Piemonte; il Piemonte rispose parole che non rifiutano, ma che non accettano in forma da creare la bramata unit?. Alle parole incerte succedettero fatti incerti, o certi troppo. Or non ? lecito agli uomini pratici non si curare de' fatti, o fare tra essi una scelta a piacere, o interpretarli in un solo senso, se il senso n'? doppio. Pare che in Europa ci sia chi non vuole in Italia un regno forte, perch? forte a costoro significa minaccioso. E il Piemonte accresciuto de' Ducati e del Granducato e di parte de' dominii del Cardinale Antonelli, farebbe egli un regno forte veramente ora adesso? Adesso, con l'Austria ai confini dov'?? Se il soccorso di Francia gli venisse meno, potrebb'egli l'esercito Italiano qual ?[98] difendere questo regno cosiffattamente ampliato? E cotesto stesso Congresso, sperato liberatore, non ha egli allentati i voleri e distratte le menti dal provvedere allo spediente unico di liberazione, al rendersi sul serio forti?

Il Congresso darebb'egli leggi o consigli? Cederebb'egli alla ragione o agli affetti, il Congresso? E di che genere affetti? Da che punti di comune intesa moverebbe la disputa d'uomini tanto d'umore diversi? Cio? a dire, in che lingua parlerebbero per intendersi? Il Conte di Cavour, gi? sgradito a non pochi di que' del Congresso, e forse a chi pi? pareva gradito, potrebb'egli, sedendo l?, col suo ingegno fare che l'esercito italiano cresca in numero pur d'un sol uomo oltre a quelli che ne' passati mesi di tregua si vennero preparando? ? egli chiamato perch? si sperino in alcuna parte mutate le sue disposizioni la forma del manifestarle, o perch? siano mutate le altrui? ? egli chiamato perch? aiuti a Parigi, perch? in Italia non dia impaccio? ? egli chiamato per discarico di chi vuol fare chiaro che in pro dell'Italia s'? tentato ogni cosa, e non bisogna prendersela che col destino d'Italia se indarno?

Innanzi il Congresso de' Potentati Europei, conveniva che si fosse potuto adunare un Congresso degli Stati Italiani, per dirsi netto quel che potrebbero e vorrebbero dell'Italia far essi. L'impossibilit? dell'accordarsi tra loro, dimostra che la loro presenza al Congresso Europeo non far? che moltiplicare le confusioni e gl'imbrogli. Ma un altro Congresso[99] era ed ? fattibile e inevitabile e debito: degl'inviati da' paesi d'Italia incerti ancora del proprio destino, che dopo deliberatone invano co' loro decreti, dopo interrogatone indarno il Piemonte incerto anch'esso di quel ch'? da fare e da dire e da omettere e da tacere, non diano pi? retta a consigli passionati, a informazioni che non osano farsi palesi per poter essere ritrattate o negate. Vadano a dirittura dall'Imperatore dei Francesi, e non gli ripetano le volont? loro, ch'egli sa bene a mente, ma sentano un poco la sua volont?. Sappiano finalmente qual era il suo primo disegno, e quali intoppi lo frastornarono: quale la sua intenzione d'adesso; perch? mai questa latitudine data a una parte d'Italia a reggersi da s? mesi e mesi, a rendere o lasciar parere impossibile il ritorno degli antichi padroni. Ardiscano sentire il vero; ed egli non temer? certamente di dirgliene. Non ? lecito ignorare oramai certe cose; e fingendo ignorarle, o parendo di fingere, offendere quotidianamente chi pu? sospettare nella stessa semplicit? e nella inscienza un oltraggio.[100]


IL PAPA NON ? RE,
MA IL CARDINALE ANTONELLI.


Se l'opuscolo Il Papa e il Congresso sia di mano che sa trattare il bastone del comando e la spada, non so; ma ? certamente di chi sa trattare la penna. Se questa sia opera precorritrice di fatti, non ? forse ben certo ancora a colui che l'ha scritta: ma debito nostro ? non discredere, e non impedire; e neanco porgere pretesti perch'altri ci dica non buoni che a dare impaccio. Questo importa avvertire, e tenerselo dinanzi alla mente.

Nell'opuscolo ? una parte di principii, e una di pratica. Quanto ai principii, essendo fatto per i diplomatici, e volendo per la via delle solite transazioni all'una e all'altra parte concedere qualche cosa, i ragionatori troppo severi o troppo sinceri ci avrebbero che ridire.

Quando si pensa che Cristo non fece s? n? san Pietro re, che il Papa fu e apparve indipendente[101] nella sua potest? anche prima d'essere re, e che spodestato non disse eresie n? fu sospettato di dirle; e che essendo o parendo re, non fu sempre e non parve e non pare a tutti libero; se ne deduce che la necessit? della corte all'indipendenza della Sede non ? n? domma n? fatto. Ma se s'intende che il Papa non deve, come nessun altr'uomo, essere schiavo n? di re n? di popoli; e che per pi? alta ragione ch'agli altri uomini dev'essere a lui assicurata eziandio l'apparenza del libero arbitrio, come condizione non solo d'autorevole dignit? ma d'onore (inteso nel comune senso di buona fama); concedesi volentieri come necessit? morale e come dignit? sociale e come condizione della dignit? di tutti i credenti, e dei non credenti stessi, concedesi che il capo di una religione di dugento milioni d'uomini non deva essere suddito. Non per salvarlo cos? dal debito dell'obbedire alle terrene potest? giuste, alle quali devono obbedire anco i re; non per sottrarlo ai meriti del coraggio, dell'annegazione, del martirio; non per invidiare a lui quella forza interiore e quelle gioie sublimi che vengono dall'esteriore debolezza e dalle contradizioni e dai dolori inevitabili generosamente patiti; ma s? per togliere ai prepotenti d'ogni generazione le agevolezze e le tentazioni di dargli noia, d'offendere in esso milioni di coscienze; e per risparmiare alla societ? umana turbazioni, alle anime, scandali. Senonch? a fare il papa non suddito, basta assicurargli il soggiorno in citt? che non soggiaccia a principe alcuno; dove le cure minute dell'amministrazione siano affidate a' cittadini[102] stessi, s? perch'eglino non siano macchine, e sappiano servirsi da s?; s? perch? al padre di tanta famiglia dov'esso ? il servo de' servi, rimanga libera la mente e l'anima e la giornata per attendere di cuore e sul serio al suo ministero tremendo.

Un'altra sentenza, contraria alla prima, par che conceda forse troppo da un'altra parte, ed ? l? dove affermasi che il capo della confessione cattolica, come tenace che dev'essere delle tradizioni, non pu? non si fare avverso ai progressi civili. Ma la storia di molti secoli ci dimostra come i pi? grandi progressi e della scienza e dell'arte, non pochi de' pi? memorabili moti e delle pi? stabili istituzioni di libert?, furono iniziati nel seno di nazioni cattoliche, non contrastando i preti e gli uomini credenti, anzi spesso aiutando valentemente. Chiaro ? che non solo in fatto di religione, ma e di scienza umana e di tutto quanto concerne la vita, certe tradizioni bisogna serbarle, per non ritornare a ogni tratto all'abbicc? delle cose, per intendersi, per francamente operare. Se la pianta, se l'uomo son fatti per crescere; non ? gi? che l'atterrare il tronco e svellere le radici, lo slogare le ossa e sformare la faccia sia da stimare bellezza e incremento. Le declamazioni che certi poveretti ridicono fedelissimamente e noiosissimamente a proposito del progresso e de' preti, non s'accorgendo essere una tradizione anche la loro, ma meschina e dissolutrice, sono puerilit? triviali, provano tutt'altro che libert? di pensiero. Non c'? societ? religiosa n? civile la qual possa permettere che tutta sorte verit? pubblicamente si neghino:[103] ch'anzi i meno riverenti al sacerdozio, quando le questioni toccano i loro propri diritti e utili e affetti, diventano pi? intolleranti; e nel senso che dann'essi alla parola, pi? chierici. La differenza che dovrebbe correre tra le potest? meramente civili, e l'autorit? civilmente esercitata dal prete, sta in questo, che il prete quand'anco avesse il diritto della spada e del bastone e della catena, dovrebbe, per confutare il falso e correggere il male, servirsi di mezzi intellettuali e morali e religiosi, non solamente perch? pi? conformi alla sua missione, ma perch? maggiormente efficaci, anzi essi soli davvero efficaci.

A porre in quiete pertanto la coscienza del sommo pontefice basta che nel recinto dov'egli risiede non s'insegnino pubblicamente dottrine contrarie al domma e alla morale insegnati da esso. E gi? quanto alle verit? morali, i governi di tutti i popoli cristiani consentono nel non permettere promulgazione di principii contrari a quelle; senonch? ad impedirla, i governi umani non hanno altre armi che materiali, n? di pi? nobili possono giovarsi per assoluta autorit?, ma per raccomandazione o consiglio e preghiera. E di qui ? che quando i governi sentono bisogno del prete, ricorrono a lui; e se non possono con bel modo usano la forza a strappare le sue predicazioni e i suoi cantici congratulanti; e se n'hanno paura, la costringono in nome della libert? a stare zitto.

Posta cos? la questione, ognun vede che nel paese abitato dal Papa tutti i progressi si farebbero leciti, tranne la negazione del domma, se questa ? progresso:[104] ma ognun vede insieme che restringendo i limiti della residenza pontificale, rendesi pi? fattibile la custodia del domma. Date al Papa una larga frontiera ch'egli abbia a difendere dai contrabbandi delle eresie e degli spropositi; e voi ridurrete tutta la sua potest? alla impotente e insopportabile vigilanza sopra un esercito di gabellieri spirituali; i quali tutti, per santi che siano ed eroi, non possono avere lo zelo e il coraggio di Sua Santit?. Vigilanza, pi? che ad altri, insopportabile a lui, non foss'altro perch? sperimentata impotente. Che se difficile cosa pare che pur dentro alla cerchia d'una citt? non penetrino libri proibiti, come impedirlo in uno stato di tre milioni? E al Papa-re, non ? lecito avere milizia di soldati e milizia di satelliti che non sappiano o non vogliano tenere da' suoi dominii lontana la falsit?; non ? lecito in cosa tale farsi inutilmente canzonare e odiare.

Ma la sua materiale potest? porta ancora pi? gravi contradizioni atte massime della sua coscienza. Il Principe della Chiesa cattolica o deve non avere forza per corporalmente punire e respingere gli altrimente credenti, o deve tutta adoprarla a tutti punirli e respingerli, tutti e sempre. Deve dunque la sua polizia vigilare sopra chiunque non senta messa la festa, e non osservi gli altri comandamenti della Chiesa; sopra chiunque tiene discorsi, anco privati, irriverenti alla religione o ai ministri di lei; deve inibire che i suoi sudditi abbiano faccende o colloqui con uomini di nessuna credenza o di diversa credenza; deve penetrare il segreto delle pareti domestiche[105] e delle lettere; deve vietare che acattolici o israeliti saltino il fosso de' suoi dominii, e circondare agli stati della Chiesa la muraglia della Cina. Solo questo spediente lo pu? liberare dall'obbligo di statuire in regola generale quella che parve enormit? tanto strana, del consentire che sia sottratto ai genitori un bambino per acquistarlo alla Chiesa. Se tutti i bambini degli Israeliti e de' Protestanti non hanno a essere similmente sottratti ai genitori, e se il Papa vuol essere Papa, non c'? che un modo: non essere Re. Il concedere agl'Inglesi luogo di sepoltura decente per tolleranza dell'oro e dell'armi britanniche, il negarlo ai Greci perch? poveri e deboli, ? contradizione che offende la coscienza e il pudore, il senso comune ed il senso della umanit?.

Dunque il non potere lui sempre neanco come Re quelle cose che come Papa dovrebbe, dimostra che il suo regno non gli serve a nulla di bene, ma gli moltiplica con le cure i rimorsi. Da una sola citt? gli sarebbe possibile escludere le ballerine, e altri simili diletti e piaceri, amenit? e leggiadrie, le quali del resto nessun uomo di Stato, per profano e profondo che sia, ha sentenziato finqu? necessarie al progresso della ragione, alla libert? dei popoli, alla felicit? della vita. Ma il fatto delle ballerine (alle cui vivacit? mi si dice che possa sedersi spettatore il porporato che ha in cura la polizia, cio? il buon costume della Citt? Santa) ? pure una leggerezza, un fuscello di paglia, rispetto ai soldati svizzeri (e a quanto dicesi, anche d'altra progenie) che sono la trave confitta nell'occhio del Cardinale Antonelli.[106] Dico del Cardinale Antonelli, perch? Pio IX nel mio pensiero ? collocato pi? alto, non solo per la dignit? del suo grado, ma per la bont? delle sue intenzioni, le quali non sorrette dalla forza dell'animo, amici e nemici a gara fecero infruttuose. Se, come Paolo sublimemente c'insegna, Carit? ? pi? che Fede; or mi si dica qual sostegno alla Fede possa prestare una forza odiata e sprezzata, insulto quotidiano alla divina carit?.

Ma tempo ? di venire alla parte pratica dell'opuscolo; la qual sola ? nuova, giacch? degl'inconvienti del regno sacerdotale, e del modo di rendere il pontefice non solamente non suddito ma pi? che re, ampliando la potest? vera sua col restringere l'apparente, e col dileguare le illusioni bugiarde, altri avevano gi? fatto parola. E questo all'autore ? lode, perch? dimostra non essere una singolarit? strana la sua, ma proposta fondata cos? nell'opinione di molti autorevoli come nell'esperienza pubblica e nella pubblica coscienza. L'importanza del nuovo libro gli viene dal luogo e dal tempo, e desta in molti la voglia di conoscere se nell'autore, qualunque egli sia, cotesta sia idea nuova o antica. Io dico che antica. Altri ne frastornarono lo svolgimento con fatti de' quali non ? lecito dire chiaro perch? troppo segreti, e superfluo dire a lungo perch? troppo palesi, dolersene inutile perch? irreparabili. Ma volendo in qualche parte ripararli, e rannodare le fila rotte, l'autore qualunque si sia (O quem te memorem?) scrisse questo libretto; che a taluni parr? transizione brusca, contradizione, e non ? punto.[107]

Parr? veramente che in questione concernente il pastore del gregge cattolico, soli dovessero i potentati cattolici averci lingua: ma badiamo che qui non si tratta delle sorti, com'altri disse con impropriet?, del papato, il quale per certo non dipende n? da re n? da popoli, n? Congressi lo terranno ritto, n? rivoluzioni lo rovesceranno. All'essenza del papato in tanto solo collegasi la trattazione presente, in quanto il regno al papato ? impaccio e tentazione: ma i Principi se per questo facessero congresso o guerra, non riguarderebbero il Papa se non come un principe italiano, insopportabile ai popoli italiani, e quindi incomodo a Europa tutta. Di questo son giudici anco i Potentati acattolici; i quali anzi, siccome meno interessati, sarebbero meno sospetti di fini obliqui; e anche l'essere pi? lontani farebbe ad essi discernere meglio certe cose che la prossimit? o sminuisce all'occhio o confonde. Pi? ragionevole sarebbe l'opporre: come e con che titolo, di punto in bianco l'Europa de' gabinetti possa entrare a decidere le sorti de' popoli italiani. Qui la risposta ? terribilmente facile e pronta: pu? perch? pu?. Agl'Italiani toccava provarsi d'incominciare a volere essere pi? padroni in casa propria, voler esser almeno in grado di poter dimostrare co' fatti il loro diritto al pi? o men prossimo esercizio d'una qualche particella della lor padronanza: ma inutile adesso riparlare di ci?. Resta solo a desiderare che chi pu?, voglia il bene degli Italiani: e gran bene al certo sarebbe che si togliesse dai loro occhi lo spettacolo d'un regno odiosamente inetto, e si desse a Pio IX la forse da lui segretamente[108] bramata opportunit? d'un comodo sagrifizio, d'un glorioso rifiuto. Coloro che approfittano della sua regale servit?, urleranno intorno alla sua coscienza, la assorderanno; e chi sa non riescano a farlo a s? medesimo parere martire di quello appunto che pi? scalza l'edifizio murato col sangue de' martiri? Ma checch? sia delle battaglie che quel pio infelice avr? a sostenere, gli ? cosa sicura che a togliergli dal viso la maschera che lo affoga di principe, basta un solo atto di forza clemente; a tenergliela, voglionsi atti quotidiani di violenza imprecata e impotente.

L'autore dell'opuscolo che rimarr? documento di storia, con ingegnoso diletto discorre dei vantaggi onorati che alla nuova Roma verrebbero se la potenza pontificale in lei si trovasse purificata, e a dir cos? condensata. Senonch?, tra le lusinghe, gli scappa detta una parola che suona minaccia, e gi? diede appiglio alle obiezioni di coloro a' quali il distruggere ? creare; dico l? dove condanna i cittadini dell'eterna citt? al culto eterno delle rovine. Se ai Romani si lascia la cura grave di amministrare davvero le proprie faccende, di migliorare gl'intelletti e gli animi de' loro fratelli e le condizioni della comune vita, di custodire non solo ma d'intendere e d'illustrare i loro monumenti, e degnamente ampliarne con opere nuove l'eredit?; se ai Romani concedesi il diritto di trattare tutte quante le grandi questioni che affaticano e consolano lo spirito umano, e la cui piena discussione non ? punto inceppata dalla credenza cattolica; se ai Romani si lascia l'esercizio[109] delle armi cittadine, le quali non sarebbero rivolte mai contro un prete inerme, e difeso dalla venerazione e dalla indignazione di tutta l'Europa civile; se ai Romani si largisce la cittadinanza italiana, la facolt? di poter villeggiare a piacere nell'Italia laicale e di porre ivi dimora alla pari con i natii, e di prendere parte con Italiani e stranieri alle grandi imprese economiche e commerciali, d'educazione e d'arte, alle quali la presente Europa in gran parte ? immatura tuttavia; non temete che venga ad essi in ribrezzo il domicilio nella citt? fatta capitale davvero del mondo cattolico, la Parigi e la Londra della religione; nella citt? ispiratrice e nutrice di nuovi ordini religiosi, e de' vecchi (secondo il vecchio cattolico titolo) riformati nella citt?; ispiratrice e nutrice di Congregazioni destinate non tanto a numerare gl'innumerabili e illeggibili libri dov'? qualche proposizione non vera, senza discernere i gradi dell'errore e la pi? o meno reit? dell'intenzione, e cos? additandoli alla curiosit? de' malevoli e facendone scandalo, quanto consacrate a consigliare e creare libri nuovi e nuove istituzioni benefiche al mondo; nella Citt? ispiratrice e nutrice d'Apostoli che, forti in dottrina di lingue e di letterature, e d'erudizione varia e delle scienze stesse de' corpi, vadano per tutta la terra predicando la verit? con la parola e con l'esempio e col sangue, e non comportino che Roma in ci? sia da meno di Lione; nella Citt? illustrata da Cardinali che tra i pi? dotti e benemeriti ciascuna nazione cattolica sceglierebbe in proporzione del numero de' suoi fedeli, arricchita di rendita[110] netta e onesta dagli spontanei tributi di tutte le cattoliche nazioni. Se nella Roma governata qual ?, se nella Napoli di Ferdinando e di Francesco ? s? grande il numero de' forestieri non solo viaggianti a diporto ma lieti di fermo soggiorno; or pensate se la fame de' giornali e la sete de' parlamenti; se il bisogno da certa libert? cos? urbana e di certa cos? gioviale eloquenza potrebbe lasciare deserta la citt? unica, divenuta puramente religiosa, e libera quietamente.

Io non so se da quell'opuscolo deva riuscire deliberazione pacifica di Congresso o risoluzione di guerra; non so se le due cose insieme; non so se unite, o l'una da s?, conseguiranno l'intento: ma giova che la proposta sia fatta, sia fatta fuori d'Italia, sia fatta da uomo riverente alla sede. Quello che pi? disturberebbe il buon esito, sarebbe un intenzione empia in impresa s? pia. Le apparenze stesse e i sospetti dell'odio o del disprezzo nocerebbero gravemente. Se gl'Italiani, irritanti dalla lunga stolta spietata tirannide di coloro che abusano il nome del Papa e di Cristo, movessero da s? soli a spodestare il principe; anco non commettendo atti indegni, parrebbero avventarsi a lui come a preda; farebbero sembrare non solo lui vittima, ma il Cardinale Antonelli e i fratelli suoi, martiri; tirerebbero sopra s? la detestazione de' fedeli lontani che ignorano le costui colpe, e par loro atto di fede il discrederle; ai nemici interni ed esterni offrirebbero atroce pretesto di scagliarsi contro noi, come contro crocifissori dell'Unto di Dio. N? sarebbe maraviglia vedere[111] potentati acattolici per loro mire e per nuove brighe, che a un tratto trasmutano gli alleati in avversari e i rivali in amici, i potentati acattolici farsi vendicatori del Papa a fine di pi? avvilire il Papato e di comprimere le speranze di questa Italia importune. E gi? ne avete preludii: ecco giornali stranieri bisbigliare parole sinistre: ecco gi? l'Austria che santamente per dono della santa alleanza si pigliava e si tiene le provincie papaline oltre Po; l'Austria che fabbricava non solo in Ferrara e in Comacchio alla sua Aquila i nidi; l'Austria che, tutrice della indipendenza del prete, dentro ai dominii del principe contro il principe cospirava, servendole non solo i Castagnoli e i Baratelli, ma i suoi uffiziali che pubblicamente screditavano il governo del prete; l'Austria che ai canoni del prete indipendente per molti e molti anni nelle sue Universit? fece guerra, tacendo esso prete indipendente e benedicendo; ecco l'Austria (dicesi; e io nol vo' credere ancora, ma il rumore stesso ? un preludio) che all'apparire di un opuscolo anonimo, ne domanda ragione all'imperatore de' Francesi siccome a suddito da chiamarsi con un precotto di polizia al tribunale della censura sua aulica. Insomma, se altri che gl'Italiani potessero dedicarsi a quest'opera, sarebbe una benedizione: e pare a me che dovremmo, anco a patti che dianzi ci fossero sgraditi, accettarla.

Quanto difficile sia liberarsi dall'Austria l'abbiamo provato e proviamo; ma meno difficile questo agl'italiani anche soli, che a loro soli sottrarsi[112] al Cardinale Antonelli senza una guerra europea. L'Italia liberata dallo straniero, crescerebbe, giova sperarlo, in nazione grande; ma chi liberasse il Papato dal regno, farebbe migliori le condizioni di dugento milioni d'anime umane, anzi di tutta intera l'umanit?, della quale i popoli cattolici, nessun pu? negare che siano una delle pi? nobili parti e destinate a pi? fecondo avvenire. Se per questo benefizio da rendere a tutta la specie e a tutti i secoli, fosse irremissibilmente ingiunto all'Italia il non essere per ora Nazione una, o il sostenere altro sagrifizio; l'Italia lo dovrebbe, lo vorrebbe di certo.

Resta a vedere se cotesta sia condizione irremissibile; e importa saperlo. Chiunque teme conoscere questa verit?, chiunque si sforza con furberie semplicette di sviare da questo punto l'attenzione degli Italiani, con qualunque intendimento lo faccia, li tradisce, tradisce s? stesso. Pensiamo che in altro opuscolo grandi promesse sonarono, e l'adempimento ne incominci?, e fu interrotto: di questo non accada il simile, almeno per colpa nostra. Altri, uso gi? ai disinganni, sospettava che nell'opuscolo non s'intendesse se non preparare anticipata alla Francia una scusa, per poter dire poi: Volevamo; non s'? potuto. Io non vo' credere questo: ma ad ogni modo ? dovere degl'Italiani il non fornire scuse, cercate che siano o no; il fare in modo che non si possa mai dire loro: Noi volevamo; siete voi che non avete voluto.

L'autore dell'opuscolo pare, a come parla, abbastanza informato di quel che la Francia pu? e[113] vuole; pare che creda e brami far credere un pensiero maturato, non mutabile per ostacoli gi? previsti e da doversi coraggiosamente incontrare. Se altri chiede ragioni da non si rendere, se minaccia; la Francia, dopo provatasi di dileguare i sospetti ingiusti, di associare all'alta impresa quanti se ne sentono degni, pu? apparecchiarsi a diversa risposta, ove questa si voglia: mostrare (e adesso sul serio) i suoi legni nelle acque di San Marco, sollevare il Friuli, far con un soffio ch'Etna e Vesuvio ribollano. Sessanta milioni tra d'Italiani e Francesi possono dar da pensare all'Europa, foss'anco tutta nemica; che non sar?. E se non bastano, c'? la Polonia che geme; l'Ungheria c'? che freme; c'? la Croazia, memore del benefico governo francese, e, purch? non la soggioghino ai Magiari, pronta a levarsi per le proprie franchigie violate, e per la civilt? a cui fu fatta con arti tristissime parere avversa. Napoleone I, per sua sventura e nostra, nel suo grande spirito non comprese lo spirito delle nazioni; dalla Russia al Tirolo, dalla Germania alla Calabria, dall'Inghilterra alla Spagna, le provoc? tutte, e cadde. A Napoleone III s'aprono pi? sicuri e pi? alti destini, purch'egli voglia; e ha provato che sa volere. Ma perseveratamente non si vogliono se non le opere generose.[114]


ITALIANI, MAGIARI, SLAVI.


Un giornale che a me non cadde di dover nominare molte volte che potevasi a lode, e per? non lo vo' nominare, adesso che devo contradire in parte a una sentenza forse non propria de' suoi direttori; un giornale italiano, trattando di quella che molti chiamano vendita della Venezia, soggiunge che l'Austria, liberata da quest'impaccio e pericolo sempre pi? minacciante, potr? con migliore agio e coscienza dedicarsi a fare men dure le sorti degli altri popoli a lei soggetti, e cos? pi? sicure onoratamente le proprie. Questo ? consiglio utile e a' popoli e all'Austria stessa: e noi dobbiamo desiderare l'utilit? anco di quelli che ci recarono e recano danni; con tanto pi? sincero animo desiderarla, che il bene vero dei governati non si pu? mai dividere da quello dei governanti; e finattanto che creature umane all'impero d'Austria vivranno soggette, sar?[115] sempre debito d'umanit? l'augurare che Austria le tenga in maniera comportabile e a quelle e a s? stessa. Il detto giornale prosegue dicendo che all'Austria gioverebbe rammentarsi degli obblighi ch'ell'ha verso la nazione Ungherese e al possibile farla contenta: ed ? sano consiglio anche questo, dacch? la nazione Ungherese e per la innata prodezza, e per le ingiustizie patite, e per le dovizie materiali e morali che raccoglie in s?, meritevoli d'essere svolte e tratte nella luce del mondo civile, e per il vigore di volont? che ha mostrato, ? degnissima di commiserazione e di riverenza. Ma da questo non segue che, per affidarsi ai Magiari, abbia l'Austria, diffidando de' popoli slavi, come di quelli che le preparano l'ultimo crollo, a concedere ai primi quella condizione di cose che noccia ai secondi. Ognun sa che, tra le altre richieste, i Magiari vogliono l'integrit? dell'antico regno; e con questa parola ? da temere che taluni non intendano la trista e a loro medesimi funesta libert? di trattare gli Slavi alla maniera che innanzi il 1848 li trattavano; onde poi vennero le resistenze terribili delle quali Austria ben seppe approfittare, e da ultimo l'infelice esito della guerra. La quale, se condotta dall'Ungheria e dalla Croazia cospiranti, avrebbe prevenuti i soccorsi della Russia, o li avrebbe fatti impotenti; avrebbe insieme con quelle due nazioni liberata l'Italia. Non ? certamente da credere che lo scritto del giornale al quale accenniamo, intendesse insegnare all'Austria come si faccia a schiacciare l'un popolo con le forze e con gli odii dell'altro, e quel[116] de' due che rimase depresso rialzare poi, per deprimere quello che con la sua vittoria minaccia diventare molesto. Siffatti consigli, buoni forse a bisbigliarsi all'orecchio tra principi e principi d'una certa natura, non si conviene che i popoli li diano a' principi, e molto meno popoli oppressi ne siano liberali al loro oppressore in danno d'altri popoli nella miseria compagni. Gli ammaestramenti che soglionsi a titolo di biasimo dire machiavellici, a me sempre parvero, anzich? furberia, ineffabile semplicit?: e questo del quale parliamo, se all'Austria fosse dato da uomini italiani, sarebbe il pi? machiavellico, cio? il pi? malaccorto di tutti. Non ? dunque neanco da immaginare che accennando al pericolo che Austria pu? dagli Slavi temere, lo scrittore intendesse armare i sospetti di lei contro quelli; ma conveniva, se non sbaglio, avvertire espressamente che dai diritti del regno Ungherese vuol essere esclusa la cos? detta integrit? nel senso odioso a buona parte de' gi? componenti quel regno.

Non solamente certi giornali esagerando per sfogo di benevolenza, e a buon fine, e di buona fede i vantaggi de' popoli che prendono a difendere, ma i Potentati e i popoli stessi col dimostrare o troppo presto o troppo spesso, e dapprima con soverchia instanza e poi con poca costanza, il loro affetto verso tale o tal nazione, nocciono da ultimo pi? che giovare. Se le pi? delle protezioni in effetto tornano da ultimo moleste e tremende, non riescono un gran benefizio neanco le protezioni in promessa. Che non si disse, e che non pareva volersi fare a pro della[117] sventurata Polonia? Tutti gli anni abbondanza di pie perorazioni dalla ringhiera di Francia; tutti gli anni nella risposta della Camera al Trono, una parola di raccomandazione degnevole per la Polonia. Ma poi? Non vorrei il simile per la prode Ungheria. Ma so di buon luogo che taluni degli stessi Ungheresi, i quali sono entro nel paese e non amano illudersi, sperano meno baldanzosamente che i loro amici di fuori; n? pare ad essi caparra di validi aiuti la dissoluzione della gi? solennemente forgiata legione ungherese. E quest'? un fatto palese, e che lascia arguire altri fatti segreti, tanto pi? malaugurosi al domani, quanto parevano l'altr'jeri pi? lieti. Gli Ungheresi che si trovano sopra luogo, ben sanno che in Ungheria quegli stessi che amano caldamente la patria, non hanno n? verso l'Austria n? verso le varie schiatte de' propri concittadini i medesimi sentimenti, n? le opinioni medesime quanto al da farsi; e che quand'anco nell'ora del cimento la concordia fosse piena, non sarebbe cos? un'ora dopo. Sanno che fin nelle recentissime resistenze gli stessi Protestanti, i quali la comune causa doveva pi? strettamente congiungere, si sono divisi; altri accettando le concessioni austriache, altri no. Sanno che oltre alla Croazia, distinta dalla natura e in parte dalle istituzioni, l'antico regno magiaro ha dentro in s? molte razze e diverse, e che la nazione la qual darebbe il nome allo Stato, dei dodici milioni di quello ne fa soli cinque, e che gli altri milioni non comporterebbero oramai le condizioni di Governo che gi? a malincuore pativano. Sanno che non solamente la parte democratica,[118] ma quegli stessi magnati che sono sospetti ad essa, non cessano per? d'essere all'Austria sospetti; la quale della presente unanimit? in tanto solo non teme in quanto la crede apparente, in quanto spera potere dentro nel paese stesso fomentare le dissensioni, e aiutarsene. Il credere, dunque, che Austria per timore degli Slavi si possa confidentemente abbandonare a Ungheria, e Ungheria ad Austria per odio degli Slavi, sarebbe illusione mal cauta, e in uomini liberali inonesta.

Onesto e prudente e utile a tutti, ma principalmente agli Ungheresi, sarebbe il dichiarare netto fin d'ora quel ch'essi intendano per diritti del regno e per integrit?; giacch? ne' termini ambigui si nasconde spesso insidia non solo a chi li ode, ma a chi li pronunzia. Giova che Austria intenda bene quel che da essa richiedesi, perch? poi non faccia le viste di frantendere, come suole sempre a vantaggio proprio, con quella furba affettazione di dabbenaggine che canzona gli accorti; e acciocch? del frantendere innocente altrui non faccia arme a s?. Giova che gli altri popoli o attigui o misti agli Ungheresi sappiano qual destino a loro si vien preparando; e non solamente gli antichi e recenti sospetti e dispetti s'acchetino, ma gli animi e le braccia si dispongano a potentemente propugnare i comuni diritti, comuni davvero. Giova che gli Ungheresi stessi tra loro s'intendano; giacch? non s'intendono bene ancora, e se non si vuol dire dissenzioni, tra essi serpeggiano dubbiet?. Giova che ciascuno di loro intenda bene se stesso; giacch? dall'osservazione di[119] quanto essi fecero nel 48 e nel 49, e di quanto ordirono poi, dall'udita di quanto dicono in palese e in segreto, mi par di raccogliere che molti di loro non sono ben fermi di quel che vogliono, e stanno attendendo dagli eventi consiglio. Pericolosa incertezza, la quale ormai da amarissima esperienza proviamo quanto ai popoli faccia danno, e quanto se ne approfittino i loro nemici. Un de' malanni di tale incertezza ? il fare inganno a noi stessi; e intanto che noi con le indeterminate speranze illudiamo altrui, siamo noi medesimi pi? traditi che traditori; l'improvvida temenza di guardar fiso nell'avvenire e di dire quel che vediamo, ci frutta non solo disinganni e sventure, ma odii e dispregi e calunnie.

Se, a cagione d'esempio, per integrit? del suo regno l'Ungheria intende che a lei venga restituita la ricca regione del Banato, la quale dalla violenza astuta dell'Austria fu dopo il 48 divelta per indebolire esso regno, sotto pretesto di favoreggiare lo svolgimento della nazione Serbica, da' Magiari compressa (favore che da un governo tale qual ? l'austriaco non si sarebbero neanco i Serbi aspettato); se questo s'intende, ? di tutto diritto la chiesta. Ma quel che l'Austria faceva le viste di volere cos? per istrazio de' Magiari e per ischerno de' Serbi stessi, l'Ungheria deve operarlo sul serio e di cuore, acciocch? l'integrit? del regno apparisca, com'io credo che sia, cosa onesta. Dico che d'ora innanzi non solo non devono gli Ungheresi schiacciare le altre schiatte consorti, ma trattare le devono come concittadine, e all'incremento di ciascuna adoprarsi per infino a[120] quel segno che non turbi l'armonia dell'intero, non ne dissipi l'unit?. Or questo, forza ? confessare che non fu nettamente proposto finqu?; e che taluni, e autorevoli tra i Magiari, guatano quelle schiatte con occhio di dispregio o di diffidenza, non come sorelle, ma a mala pena suddite. Un recente indizio lo dimostra, indizio che non deve parere leggiero a chi sa come il fatto della lingua sia, non solo nell'ordine intellettuale ma nel civile, cosa di somma importanza. Perch? la lingua ? il pensiero, il respiro dell'anima; la lingua ? il vincolo delle intelligenze e de' cuori; la lingua ? la propriet? della famiglia e della nazione; la lingua ? il frutto e il germe de' secoli.

Fu nel 1836 statuito che la lingua degli atti pubblici fosse la lingua ungherese, cio? a dire che quanti d'altre razze la ignoravano, non potessero pi? parlare in Parlamento, e per ogni altro uso degli uffizi invocassero un turcimanno, e dalle cariche si astenessero infine a tanto che l'avessero appresa. Cos? tutti i non giovani, e gli occupati da altre cure e bisogni si trovavano a un tratto interdetti: e coloro stessi che allo studio di quel difficile idioma si fossero sottoposti, avevano pur sempre rimpetto ai Magiari uno svantaggio grave; e creavasi, oltre all'aristocrazia de' natali, e quella de' soldi, e quella degl'intrighi, una nuova e pi? pesante aristocrazia, della lingua. Perch? tutti sanno quanto il potere speditamente e convenientemente parlare e scrivere doni, in ispecie presso certi popoli e in certi casi, autorit? e sicurt? di vittoria; e come i prevalenti per altri titoli sappiano nelle pubbliche lotte anche[121] di questo valersi; e come nelle elezioni si faccia scusabile, anzi giusto e necessario, che sia prescelto colui che ha dominio della lingua dominante. Segue di qui, che tra le tirannie le quali aggravano pi? intimamente e pi? incomportabilmente, ? da numerare la tirannia della lingua.

Ora leggiamo annunziato ne' giornali con vanto, come in Transilvania nella citt? di Clausenburgo fosse di recente deliberato da una societ? intitolata Museo che la lingua comune da usarsi abbia a essere l'ungherese. Notisi che quel Museo non ? punto un'autorit? dello Stato, che i soci sono tutti Magiari; e non ? da stupire ch'essi amino usare la lingua propria. Ma la Transilvania non ? magiara tutta; e la campagna, cio? la maggior parte della nazione, degna di riverenza perch? la pi? semplice e pi? abbisognante di protezione, ? Rumena. Innanzi che Austria con le gravezze illegittimamente imposte in dispregio degli antichi Statuti opprimesse e villici e cittadini, quelli erano molto animosamente divisi da questi; adesso i comuni guai li congiungono e li fanno parere pi? concordi che invero non siano, che almeno non sarebbero, mutate in meglio le cose. Non ? da credere che i Rumeni soffrirebbero essere trattati dai pretti Magiari com'erano gi?; e ? da sperare che questi abbiano coscienza del dovere e dell'utile proprio. Certamente non si conviene al Governo di uno Stato qualsivoglia essere bilingue o trilingue e pi?; ma non ? neanco da volere che questa unificazione ch'? una delle pi? difficili a consumarsi, facciasi come per infusione dello[122] Spirito Santo: e prima di venire alla decisione assoluta, bisogna preparare e gli animi e le menti e gli organi della voce; bisogna sostenere i necessari indugi della preparazione; e capacitarsi che il far presto ? un disfare, e che la scala si scende e si sale per gradi, o si ruzzola. E in nessun paese del mondo forse le preparazioni a ci? intellettuali e morali e civili appaiono pi? necessarie che nel regno ungherese.

Per toccarlo con mano, non c'? che da contare il numero degli abitanti di nazione ungherese e il numero delle altre schiatte. I Magiari non montano a cinque milioni d'anime secondo l'Almanacco di Gotha; ma pongansi pure milioni cinque. Que' di stirpe germanica secentomila; i Rumeni, dentro nell'Ungheria proprio, dugentomila; gli Slovacchi poco meno di due milioni e mezzo; Croati e Serbi cencinquantamila; quattrocentomila Ruteni. Nel Banato, gi? parte dell'Ungheria stessa, i Magiari non sono che trecencinquantamila; i Rumeni stessi son pi? di loro, cio? quattrocentomila; que' di stirpe germanica trecencinquantamila anch'essi, i Serbi dugentottantamila, cencinquantamila i Croati. I cos? detti confini militari dell'Ungheria (altri da quelli della Croazia, s'intende) fanno dugentomil'anime tra Tedeschi, Rumeni e Slavi; n? qui entra Magiari. In Transilvania Magiari meno di mezzo milione; ma diasi mezzo: cencinquantamila Tedeschi; un milione e settecentomila Rumeni. Insomma dei poco meno che tredici milioni del regno ungherese, Ungheresi c'? meno di sei, il resto parlanti altre lingue. Altri veda[123] come sia giusto e facile cambiare a pi? di sette milioni d'uomini la lingua in bocca e l'anima in petto; cambiarla in questo momento di secolo che ciascuna nazione rivendica a s? l'eredit? delle sue tradizioni, e la pura propriet? della lingua che alle tradizioni conserva, e da esse riceve, la vita.

Lo sforzo a rivendicare questa propriet? sacrosanta, tentata invadere dal pi? tristo comunismo che sia, del quale certi governi che chiamano s? legittimi porgono audacemente e incautamente l'esempio, lo sforzo che dico, ? notabile segnatamente nella Croazia, la quale, intedescata gi? nella parte sua pi? civile, e abbandonata del resto, massime allorch? vide minacciarsi l'invasione della lingua magiara, si risent?, e diede cura alle lettere slave, adoprando la favella natia, sempre pi? appurata e arricchita. Non tutti forse gl'Italiani sanno che, secondo l'antico patto con cui la nazione s'era aggregata all'impero austriaco, oltre alle diete sue proprie, la Croazia, non so s'io dica doveva o poteva mandare suoi rappresentanti alla dieta generale del regno ungherese: ma perch? essa intendeva conservare distinta la sua propria vita, che Austria e Ungheria volevano, insieme cospirando, sottrarle di furto; alla dieta non mandava gi? deputati di ciascuna provincia, ma due nunzi soli; e questo per tema che le sue Provincie, a poco a poco assomigliate a quelle del regno ungarico, non fossero da ultimo confuse con esse, e fatte suddite; e cos? assorbito, sparisse quel regno che aveva gi? esercitato il diritto d'eleggersi re suoi propri, altri da que' d'Ungheria; aveva[124] franchigie proprie, e imposte minori. Andando dunque alla dieta i due nunzi, quando la lingua magiara fu diventata lingua del parlamento, sebbene la sapessero anch'essi e nelle adunanze preparatorie la usassero, nella pubblica dieta se ne astenevano apposta, e parlavano il gi? consueto latino, con ira de' deputati magiari strepitanti e picchianti delle sciabole in terra, intanto che uditori dalle ringhiere spianavano le pistole sui nunzi imperterriti. Cos? l'antica lingua d'Italia, alla nazione che contro l'Italia pur troppo esercit? le sue armi, si faceva scudo e arme. Or se mai taluni degli Ungheresi con l'integrit? e co' diritti del regno intendessero ricuperare l'istituto della comune dieta, e obbligare la nazione sorella a parlare la lingua straniera a lei, ignota ai pi? de' suoi figli, tacersi; io non so se nell'Europa civile gli uomini amici di libert? potrebbero a cotesta maniera di guerra cos? cordialmente applaudire come ammirarono quella che nel 1849 sostenne in campo l'animosa Ungheria.

A dileguare fin l'ombra delle superbie e degli astii vecchi dovrebbe invero bastare la coscienza de' comuni dolori: e se Austria diffida e paventa di Magiari insieme e di Slavi, e s'ingegna gli uni contro gli altri aizzare, questa almeno dovrebbe essere ragione potente a amicarli. Una vertigine provvida ai popoli travolge i pensieri della corte di Vienna; che dopo il 1849 poteva conciliarsi l'una almeno delle due nazioni, o qualche ordine almeno di persone in ciascuna delle due, alleviandone i pesi, dimostrandone a qualche modo fiducia e riverenza:[125] ma tutte Vienna le esasper?. E come se gli antichi fomiti fossero pochi, sopravvenne il Concordato con Roma (alzata d'ingegno tutta profana, per fare della sagrestia un'anticamera al gabinetto di corte) sopravvenne a incitare in Ungheria il risentimento de' protestanti (che tra' Magiari sono il maggior numero, e forse i pi? ricchi), i quali dello zelo religioso rinfiammarono l'amore di patria, e per questo parte degli stessi Cattolici ebbero consenzienti. Cos? il Concordato, che in Italia apparve uno scherno delle curie vescovili e della curia papale, facendo pi? impertinente la licenza della polizia civile e della polizia soldatesca, il concordato in Ungheria parve volersi dall'Austria pigliare in sul serio, e suscit? contro lei serii impacci. Ma se gli Ungheresi ebbero lo speciale privilegio di cotesta molestia, in altro furono troppo appareggiati agli Slavi. E nell'uno e nell'altro paese i beni della nazione, quasi fossero beni della famiglia imperiale, furono (ricchezza inestimabile in mani intelligenti) venduti per una miseria, come si suole dai prodighi e dai disperati. E le imposte, gi? tenui, sopraccrebbero in modo tantopi? incomportabile quantopi? inusitato. Le diete de' due regni ne stabilivano un tempo la quantit?, anzi la concedevano, secondo i patti dall'Austria giurati: oggid? l'arbitrio imperiale le impone, come fa il Gran Signore de' Turchi; e Ungheria paga d'imposte dirette ottanta milioni di fiorini; e i dugentottanta mila che pagava Croazia, sono montati a sette milioni, somma esorbitante per paese povero, e pi? tirannesca gravezza di quel che siano[126] gli ottanta all'ubertosa Ungheria. Aggiungansi le indirette che ascendono ad altrettanto, e che massimamente sul popolo di Croazia pesano odiosamente; al quale era ignota la maledizione del bollo; e ad essi la cultura libera del tabacco, trafficato utilmente anche fuori, era grande rinfranco. E tutto questo non per rifondersi in servigio delle nazioni aggravate, ma forse pi? che la met? per opprimere e quelle e altre nazioni, e principalmente l'Italia; per gettarlo nelle voragini della polizia e della guerra, e servire alle ladrerie degl'ingegneri militari e di generali voraci; un de' quali ? ora appunto sotto processo infame, e col deporlo, ? gi? condannato dal padrone suo stesso.

Se dunque (per rivenire a quello da cui si ? cominciato il discorso) Austria, temendo de' popoli Slavi, intendesse aizzare i Magiari contr'essi; dico primieramente che non le riuscirebbe l'arte sua trista, come le riusc? l'altra volta: ma poi, se mai, lusingando le passioni d'un partito, ella cominciasse a parere di poter conseguire in alcuna parte l'intento, allora s? che l'amor patrio de' popoli Slavi, fatto pi? veemente dalle passioni irritate, accrescerebbe ad essi potenza. Croazia, gi? vergognata e sdegnosa de' patti antichi infranti, delle promesse fallite, della odiosa parte che le fu fatta prendere in servigio dell'Austria, impoverita e dal mal governo e da' tributi, conscia pi? che mai della forza propria e del proprio diritto, si solleverebbe tutta con l'impeto degli uomini semplici che si conoscono, peggio che traditi, delusi; e troverebbe, tra i[127] popoli e tra i potentati d'Europa, aiutatori e segreti ed aperti. E quand'anco (cosa non credibile) Austria potesse contro lei avventare l'intera Ungheria, quand'anco in Ungheria non fossero e protestanti mal contenti e Slavi compressi, e Rumeni aspiranti al consorzio di Moldavia e di Valacchia, gli ottantaquattro mila dell'esercito magiaro (de' quali la cavalleria famosa e terribile ? il nerbo) non so quanto varrebbero contro i cenventimila Croati, infanteria forte, che Napoleone da Smolensko onorava col titolo di suoi prodi; contro tutto il paese dalle alture e dalle foreste combattente per la propria terra e per le case e per le donne, anch'esse non digiune di guerra. E quand'Austria col braccio di sudditi, jeri ribelli e a un tratto fedeli, vincesse; l'impero gi? pi? non sarebbe Austriaco ma Magiaro; Ungheria al suo padrone detterebbe la legge. E se questo non fosse; se Austria, trovato non pi? che un docile arnese di guerra, sapesse rimanere tuttavia imperatrice; che penserebbe la Francia della sua cos? rassodata potenza? che ne penserebbe la Prussia? e i potentati d'Europa tutta, che tanto fanno per il loro cos? detto equilibrio, e per quello soffrono tante cose? Ma quando pur tutti si compiacessero nella depressione de' popoli Slavi operata per il valore de' Magiari in servigio dell'Austria; certo che gl'Italiani non ci si dovrebbero compiacere. Anche posto che la cos? detta vendita del Veneto sia patteggiata, e Austria riscuota la mercede de' sagrifizi all'Italia fatti patire, e se ne stendano le carte in regola per man di notaio, e del contratto entri mallevadrice[128] l'Europa benevolente; chi dice a noi che Austria ringagliardita non trovi altri titoli, oltre a quelli per cui ? creduta ora legittimamente tenere un piede in Italia, per metterceli tutti e due, e per tentar d'assaggiare altre provincie oltre a quella che avrebbe venduta? La dialettica della forza ? feconda di spedienti ingegnosi; e la legittimit? del cannone sa farsi tenere pi? imprescrittibile che il jus delle genti.

Non ho finqu? rammentato la Russia perch? le serbavo luogo speciale, per quindi prendere il destro ad un umile avvertimento che gioverebbe, se non isbaglio, e a Russia e ad Austria, e a Slavi e a Magiari. Se Austria seguita la perversa via d'irritare gli Slavi, o lo faccia per opera de' Magiari o altrimenti; badi bene ch'ella si tira addosso gli sdegni e le forze di circa ottanta milioni d'uomini, i quali gi? troppo Russia tende ad attrarre a s?, senza che s'aggiunga la molla dell'odio alla potenza delle credenze religiose, e alla innata smania del nuovo, e all'amore del lontano che spesso apparisce pi? desiderabile o pi? venerando, e al lenocinio delle promesse e delle lusinghe e de' doni. Austria sa che anco prima della guerra ungherese, nella quale il soccorso russo non fu mosso tanto dalla tema di ribellioni contagiose, quanto dalla voglia d'accostarsi all'Europa civile, e dall'ambizione del patrocinare ch'? sempre via comoda al padroneggiare, anco prima della guerra ungherese, e dei dispetti eccitati da quella che suol chiamarsi ingratitudine di lei verso il suo salvatore, Austria sa che anco prima, dicevo, viaggiatori russi[129] passeggiavano le sue provincie seminando regali e parole tentatrici, e pur con la presenza tacita e col nome di Russi tentando. Austria sa che da non pochi tra gli Slavi del mezzogiorno col nome d'imperatore intendesi Pietroburgo, non Vienna; sa che in Boemia e altrove sono scrittori da Russia salariati; sa che il Montenegro, meglio che per telegrafi elettrici, corrisponde con Pietroburgo per fila d'argento; sa che ora mentre parliamo, per via di libri e di messi, l'antica cospirazione ferve pi? che mai operosa. Stava in lei farsi capo vivente agli Slavi del mezzogiorno; concedere ad essi quelle temperate libert? che Russia non poteva e non voleva concedere; e senza deprimere quelli del rito greco, ma anzi conciliandoseli e distaccandoli da colui ch'essi onorano come papa, rispettare gli Slavi cattolici, s? che non s'abbandonino anch'essi alla Russia disperati e frementi. Questo giovava da ultimo alla Russia stessa, la quale non pu? certamente fino alle Bocche di Cattaro distendere il suo gi? troppo ampio impero; alla Russia le cui ambizioni danno gi? tal noia all'Europa, che i pi? prudenti tra' Russi, o lo facciano ad arte o davvero, non pi? ragionano di panslavismo come di signoria esercitabile materialmente, ma di popoli Slavi confederati. Sarebbe ormai tempo d'accorgersi che l'equilibrio europeo non pu? pi? essere una scherma di reciproche gelosie tra' potenti, n? uno sforzo loro concorde per dividere i deboli, i quali, lacerati dal ferro e dai trattati, sui campi di battaglie e nei congressi, pur tuttavia sentono la vita, e tendono a raccostarsi, a[130] raccogliersi in corpo retto da un'anima e da una mente.

Ma non dappertutto la natura e la storia consentono che ciascuna schiatta di popoli faccia, cos? nettamente come potrebbe in Italia, nazione da s?. E per parlare segnatamente dell'Ungheria, l'una stirpe sul terreno medesimo ? quasi insinuata nell'altra; e forza ? che vivano alla meglio sotto un comune governo. Acciocch? la mistione non sia n? confusione n? stretta angustiosa, un solo spediente c'?, ma sicuro: ridurre al mero essenziale l'unit? del governo; e nell'amministrazione della provincia e del municipio lasciare allo svolgersi di ciascuna parte distinta, quanta si pu? mai libert?. Questo solo pu? conservare all'Austria quel tanto di vita, ch'ella non ha co' suoi falli gi? tolto a se stessa, questo solo pu? risparmiare alla Russia la prematura decrepitezza che le ? minacciata.

Quanto all'Italia, ci pare aver gi? detto abbastanza quel ch'ella deva augurare ai Magiari e agli Slavi; e come alla possibilit? e all'utilit? de' suoi desiderii la probit? sia congiunta. Non per richiamare memorie amarissime, ma per rammentare agli altri popoli il debito e l'utile loro, avvertiamo che troppo tardi l'Ungheria s'avvis? nella grande sua guerra di tendere la mano amica all'Italia; che quella dimenticanza nocente a lei e all'Italia del pari, non ? ancora ammendata; che certamente ammendare non la potettero quegli Ungheresi che furono dall'Austria forzati a porgere nel 1859 cos? dure prove contro gl'Italiani del loro vigore animoso.[131] Avvertiamo che i soldati italiani sotto il vessillo austriaco non furono forzati a spargere in pace e nel bel mezzo delle citt? sangue ungherese, come sparsero nel 1845 sangue croato, allorquando in Zagabria una commozione popolare insorta per causa d'elezioni municipali, fu sedata con le armi di militi italiani. Avvertiamo che nel 1859 gli spiriti erano tanto mutati da non si poter pi? Austria fidare d'alcun generale croato nella guerra d'Italia, da essere quelle milizie tenute al retroguardo per proteggere la ritirata; dappoich? ebbero per ben due volte fatta resistenza, essi soli di tutto l'esercito, a marciare innanzi, affermando essere contro i patti della nazione il guerreggiare fuor de' propri confini: della quale scusa noti s'erano armati mai finallora. Dalle disposizioni mutate importa trarre profitto; importa sapere che fin dal 1848 taluni tra gli Slavi erano disposti ad accordi con gl'Italiani, se ne fosse loro aperto l'adito, e l'adito cercarono essi, ma troppo tardi, da s?; di che io ho prove, e lo posso attestare. Importa sapere che un libro ? dianzi uscito in Parigi, di scrittore croato, interprete del volere dei suoi concittadini di tutti i ceti, un libro in lingua francese, a provare con documenti diplomatici e storici i diritti della sua nazione, l'originaria costituzione del regno e le consuetudini e i patti recenti dall'Austria violati, il legittimo scadere di lei da' suoi titoli, per sola sua colpa seguito. Importa sapere che negli apparecchi dell'ultima guerra il padre veterano al figliuolo, sospinto a partirsi, diceva nelle pubbliche vie, udenti tutti: ric?rdati,[132] figliuolo, di quanto tuo padre e i tuoi abbiamo, e inutilmente, patito. Importa sapere che in ricompensa dell'impero scampato alla stretta estrema, gli Uffiziali croati dopo il 1849 erano rimandati alle case loro senza soldo; onde taluni disperatamente si gettarono in terra turca a predare, altri agli edifizi pubblici nelle citt? appiccavano per vendetta le fiamme. Importa sapere che centomila circa tra donne e pupilli abbrunati dall'Austria nel 1848 e nel 49 piangono la loro indigente vedovanza e orfanezza; che a migliaia si strascinano per le citt? e per le campagne i soldati che la guerra mutil? e deform? (giacch? le materne cure dell'Austria da essi propugnata negano un ricovero e un pane a que' cadaveri vivi), si strascinano spettacolo di piet? e d'ira a' fratelli, accattando famelici da famelici, e la voce, che sola ormai resta ad essi, grida al cielo giustizia e piet?, piet? per la patria loro, piet? per quegli stessi Magiari e Italiani dall'arme loro e dalla credula fedelt? al B?lial austriaco sacrificati. Importa sapere che non solo l? dove prima non si vedevano impiegati tedeschi, ora impiegati e maestri insultano con la presenza, e tolgono ai nativi il campamento dovuto, e alla giovent? la sua lingua, ma per le terre e per le borgate sono disseminati soldati di polizia forestieri, documento di paura, e fomite di diffidenza, e contagio di scostumatezza in popolo semplice al quale ? religione il pudore; e che questa ? ferita di tutte pi? cocente, perch? offende l'onore e penetra l'anima. Importa sapere che quella nazione la[133] quale, della civilt? non avendo tutti i vantaggi, non ne ha neppure tutti i contagi, disingannata e stanca com'?, pu? domani sorgere in armi; e se Francia o Italia sostiene con le sovvenzioni necessarie di danaro per tre o quattro mesi i suoi moti, Austria ? ita. Or l'Austria nell'atto appunto di aprire alle chieste de' Magiari non gli orecchi suoi, ma le carceri; ai Croati che stanno minacciosamente muti, si volge spontanea con docilit? e umilt? insolite, e con scossa subitana di pia sollecitudine, interroga di quel che sarebbe da fare per pi? svolgere lo spirito della loro Nazione, e per meglio coltivare il patrio idioma; e ci? col doppio intendimento, di placare i loro corrucci, e pi? urtare i Magiari palpando i Croati, e questi aver pronti contro quelli al bisogno. Ma questi, cogliendo intanto dalla profferta il loro vantaggio, sapranno scansare la rete marcia e squarciata; e non troveranno, speriamo, un bano Jellacich, che ponga il suo vanto nel farli flagello in mano altrui, flagello buttato poi a terra e calcato co' piedi; e ne abbia in premio lo scherno d'un titolo impotente, il dispregio de' suoi, una moglie, e vecchiaia prematura, quasi lunga agonia confusa d'imbecillit? e di rimorsi. Noi altri aiutiamoli a emendare il passato; non li irritiamo col disprezzo, non li disperiamo coll'odio; non siamo (nel senso che molti danno alla parola pi? cattivo) croati a noi stessi. Se i fantasmi della paura sono debolezza fanciullesca, le superstizioni dell'odio sono ubbie fratricide. Ma nell'odio ? paura.

Quel motto che dei Borboni di Francia fu sazievolmente[134] detto e ridetto, gioverebbe che, se si vuole a altri principi, non si potesse almeno ai popoli appropriare: Niente hanno appreso, e niente dimenticato. Senonch? io a' popoli augurerei che, molto apprendendo, niente dimentichino; n? i falli propri, per espiarli; n? le offese altrui, per scansarne le cagioni e i pretesti, per provvedere come respingansi con onest? e con onore, per vincerle co' benefizi, e il rispetto degli avversi e degli sprezzanti conquistare con opere grandi. Apprenda sempre meglio l'illustre nazione ungherese a non diffidare di quelli che stanno a lei inseparabilmente attaccati, a convertire in vincoli d'affetto i nodi della necessit?, che altrimenti la impediranno, e la strozzeranno. Apprendano gli Slavi o misti a' Magiari, fino ad ora congiunti ad essi sotto la medesima dinastia, a non odiare neanco chi li sconosce, a darsi a conoscere con fatti nuovi di mite civilt? generosa; e se il tempo ingrandisce il loro paese col consorzio d'altri loro fratelli differenti di riti di costumi o di lingua, vogliano concedere ad essi ogni agevolezza di libert?; non imitino l'antica durezza improvvida de' Magiari, la quale sentirono tanto intolleranda, che pur dall'ombra e dal pensiero rifuggono. Apprendano gl'Italiani a volere, non in decreti e in brindisi, ma in fatti e in affetti e in sagrifizi, sincera unit?, non per tema del pericolo o per speranza di peculiari vantaggi, ma per obbedienza alle leggi della natura troppo qui violate dagli odii e dai sospetti, per terrore delle discordie, per vergogna delle aggregazioni fittizie, sotto le quali[135] possono col tempo covare vanit? peggio che municipali, d'uomini singoli e di partiti: apprendano a cogliere l'una dall'altra famiglia non tanto le facili utilit? materiali, quanto gli esempi civili e morali di bene; a farsi gli uni agli altri ministri e discepoli, anzich? padroni e maestri. La docilit? ? dote propria degli uomini e de' popoli grandi. Per essa la Grecia e l'Italia, attingendo l'una dall'altra e dall'Oriente ambedue, si fecero educatrici del mondo, vinsero il vincitore.


FINE.[137]


INDICE


     
 PrefazionePag. III
 I patti e i fatti. 
 I. —  Assunto.5
 II. —  Prime mosse nazionali.6
 III. —  Svolgersi del concetto.8
 IV. —  Guerra di Crimea.10
 V. —  Cose desiderate da farsi tra il 49 e il 58.12
 VI. —  Congresso_a_Parigi.18
 VII. —  Disegni pi? vecchi insieme e pi? nuovi.20
 VIII. —  Jattanze e speranze.22
 IX. —  Patti segreti.24
 X. —  Apparecchi e auspizii della guerra.27
 XI. —  Rotta e interruzione.29
 XII. —  Congresso e guerra.34
 XIII. —  Inghilterra.36
 XIV. —  Russia.37[138]
 XV. —  Germania—Confederazione38
 XVI. —  Roma.42
 XVII. —  L'Alleato48
 XVIII. —  Il non fatto, e il da farsi.49
 XIX. —  Sincerit?.53
 XX. —  Austria.56
 XXI. —  Possibilit? del pericolo.62
 XXII. —  Conclusione.66
 Necessita' urgente67
 Il veneto73
 Italia di mezzo93
 Il Papa non ? Re, ma il Cardinale Antonelli100
 Italiani, Magiari, Slavi114

Note di trascrizione:

Le correzioni apportate sono segnalate da una serie di punti al di sotto della parola. Posizionando il mouse sulla parola stessa, appare il testo originale.






























End of the Project Gutenberg EBook of Il segreto dei fatti palesi seguiti




nel 1859, by Niccol? Tommaseo









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