Questo sito usa dei cookie per migliorare la vostra
esperienza di navigazione. Continuando la navigazione accettate l'uso dei cookie
(Altre
informazioni)
The Project Gutenberg EBook of Caos del Triperuno, by Teofilo Folengo
This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with
almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or
re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included
with this eBook or online at www.gutenberg.org
Title: Caos del Triperuno
Opere Italiane Vol. 1
Author: Teofilo Folengo
Release Date: April 8, 2011 [EBook #35799]
Language: Italian
Character set encoding: ISO-8859-1
*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK CAOS DEL TRIPERUNO ***
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
Magni and the Online Distributed Proofreading Team at
http://www.pgdp.net (Images generously made available by
Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at
http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)
TEOFILO FOLENGO
OPERE ITALIANE
A CURA
DI
UMBERTO RENDA
VOLUME PRIMO
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1911
Paola. Tu piagni, figliuola, e che ti senti tu?[1]
Corona. Nol sai, madre, senza che me lo chiedi?
Paola. Se 'l sapessi gi?, non tel dimandarei.
Livia. Dicerottilo io, dapoi che le molte e abbondevoli lagrime
t'interrompeno la voce.
Corona. Taci l? tu, pazzarella, ch? pur troppo ? di soperchio a me sola
questo cordoglio, senza che tu v'involvi dentro e lei ancora.
Paola. Non siano parole tra voi! O tu, o tu me lo narri senza pi?
indugio.
Corona. Piango la mala sorte di mio fratello Teofilo, a te figliuolo.
Paola. ? forse morto?
Corona. S?, d'onore e reputazione.
Paola. Maladetto sia l'uomo il quale disprezza la fama sua.[2]
Corona. Dio pur volesse che la vergogna fusse di lui solo!
Paola. So male che responderti, non t'intendendo ancora: dimmi, ha
commesso qualche adulterio?
Corona. Grandissimo.
Paola. ? di carne... Ma in che modo?
Corona. Qual trovasi maggior adulterio essere che de lo ingegno suo
pellegrino, che de le tante lui grazie dal ciel donate usarne male?
Paola. Grande ingratitudine per certo! Ma comincio gi? la causa di
questo tuo rammarico intendere: lo poema da lui composto sotto il nome
di Merlino Cocaglio ancora non ti si parte dal cuore?
Corona. Anzi ognor pi? me lo parte e straccia.
Paola. Deh! stolta, tu t'affanni oltra quello che a te non tocca.
Corona. Pi? d'ogni altro mi tocca, ch? pi? d'ogni altro son certa che
l'amo.
Paola. Pi? di me?
Corona. Pi? di te.
Paola. Di me, ch'io gli son madre?
Corona. Ed io doppia sorella.
Paola. Non l'ami tu gi? dunque, se doppia gli sei.
Paola. In che modo gli sei dunque doppia sorocchia?
Corona. Carnale e spirituale.
Paola. Carnale s? bene, spirituale non pi? gi?.
Corona. La cagione?
Paola. S'ha gittato il basto da dosso l'asinello.
Corona. E rottosi 'l capestro.
Livia. E tratto di calzi.
Paola. Or cangiamo cotesto ragionamento in altro. Hai tu letto
l'Orlandino?
Corona. Letto? trista me! appena veduto.
Paola. Come? ti vien interdetto forse che da te con l'altre tue sorelle
non si poscia leggere?
Corona. S?.
Paola. Chi fu questo pontifice?
Corona. La ragione.
Paola. Perch? cos? la ragione?
Corona. La quale m'avvisava dover essere peggior Limerno che Merlino.
Paola. Leggerlo almanco voi dovevati.
Corona. A che perder il tempo?
Paola. Taci, ch? d'ogni libro qualche cosa s'impara.
Corona. Questo ? falso.
Paola. ? sentenzia di Plinio.
Corona. Vada con le altre sue menzogne!
Paola. Negarai tu che d'ogni libro non s'impari qualche cosa?
Corona. Anzi, pi? de li tristi e disonesti che de li boni.
Paola. Or basta: non sai che 'n doi mesi, e non pi?, sotto il titolo di
Limerno l'ha composto?
Corona. E' viemmi detto che, tutto a un tempo che lo componeva, eragli
rubato da gli impressori.
Paola. Cotesto ? pi? che vero; ch? ove interviene stimulo di sdegno,
spizziano versi senza alcun ritegno.
Corona. Potrebbe forse pentirsene, credilo a me.
Paola. Di che?
Corona. Dir tanto male.
Paola. Anzi solamente si dole che non pur Merlino, ma Limerno compose
cos? precipitosamente che li stampatori non poteano supplire a
l'abbondanzia e copia de' suoi versi; laonde pargli un errore
grandissimo non aver servato lo precetto oraziano.[4]
Corona. Doverebbe via pi? tosto il meschino piangere e crucciarsi aver
consumato il tempo circa tanta liggerezza.
Paola. Non dir liggerezza, figlia, ch? non per cosa liggera simulossi
gi? Ulisse devenuto essere pazzo.
Corona. Troppo son certa io de la lui malizia, il quale fingesi
?pitocco? e furfante per dar bastonate da cieco.
Paola. Tu non sai la cagione.
Corona. Cos? non la sapessi!
Paola. Dimmi, qual ??
Corona. Per farci morir tutti spacciatamente di doglia, acci? pi? oltra
non avesse chi gli gridasse in capo.
Paola. Tu te 'nganni grossamente.
Corona. Anzi pur tu te 'nganni.
Paola. Come?
Corona. In creder alcuno dir male a bon fine.
Paola. Che male dice?
Corona. Non voglio parlarne.
Paola. Perch??
Corona. Temerei di qualche maladizione.
Paola. Or su confortati, figliuola, ch? al poledro fu sempre concesso
puoter fin a doi capestri rumpere.[5]
Corona. Non rumpa gi? lo terzo.
Paola. Anzi totalmente nel ternario numero fermatosi, ha messo a luce il
Caos del triperuno.
Corona. Qual Caos del triperuno?
Livia. El pare che non ti sovvegna!
Corona. Non mi sovviene per certo.
Livia. Le tre ?selve?, le quali heri legessimo, e, per segno di ci?, una
allegoria bellissima tu di quelle saggiamente cavasti, quantunque io sia
di senso molto dal tuo discosto.
Corona. O smemorata me, ch'ora me lo ricordo! Ma dimmi: ? di Teofilo?
Livia. Non sai che solamente vi si fa menzione di Merlino, Limerno e
F?lica?
Corona. Troppo me lo ricordo! Ma che fusse di tuo fratello Camillo mi
pensava.
Livia. Tu non pensasti dritto: ? di Teofilo.
Paola. Cos? ?; ma ditemi ambe dua lo argomento vostro che imaginato vi
avete sopra questo Caos, ch? ancora io lo sentimento mio vi narrer?.
Comincia tu, Livia.
ARGOMENTO PRIMO
LIVIA.
Questo Caos, in ?selve? tripartito, la vita de l'autore, la quale in
tre fogge sin a quest'ora presente col tempo veloce se n'? gita,
contiene. Nacque egli (come di me voi sapete meglio) a gli otto giorni
ed ore duodeci di notte, nel mese di novembre, sotto Scorpione, essendo
allora grandissimo freddo: laonde in questa sua prima ?Selva? narra
l'orribile freddura in cui egli miseramente nacque, fingendo natura
essergli stata, pi? di madre, madregna, e pur ne la puerizia, la quale
appella ?aurea etade?, gust? alquanto di securo e dolce riposo.
Ne la seconda ?selva?, pervenuto egli omai ne gli anni di qualche
cognizione, ritrova molti pastori, la cui vita e costumi e quieta pace
molto gli piacquero, volendovi inferire che di sedeci anni egli co'
l'abito cangi? la vita. E veramente s? come a li pastori apparve
l'angelo e mostr? loro dove giacesse il nasciuto fanciullo Ies? Cristo,
cos? allora, su quel principio che egli prese a far vita comune co' gli
altri pastori, trov? Cristo parvolino entro il presepio collocato; ma
col tempo poi, per cagione di... (ma non voglio parlarne chiaro, ch?
ancora egli va pi? riservato che sia possibile) traviato, si mise a
seguir amorosamente una donna bellissima, la quale sopra un sfrenato
cavallo gli scampa innanzi per tirarsilo drieto al precipizio d'ogni
perdizione. N? chi sia questa dongella n? dove finalmente lo conducesse,
vogliovi manifestar se non in l'orecchia dicendolo: ma, conchiudendo la
seconda ?selva?, dico che 'l laberinto intricatissimo, nel quale
ultimamente si ritrova, pare a me una soperstizione tenacissima
significare, de la cui caligine se non per divin aiuto si p? essere
liberato. Ed in questa tal foggia seconda di vivere, essendo egli gi?
fora del sentiero diritto, compose lo poema di Merlino con tutte l'altre
favole e sogni amorosi, li quali ne la ?selva? seconda si leggono.
Or dunque Cristo si gli scopre in quel centro d'ignoranzia de la ?selva?
terza apparendo, e d'indi smosso, lo driccia sul cammino al terrestre
paradiso duttore. Ch? per divina inspirazione conoscendosi egli perder
il tempo supersticiosamente in quella seconda ?selva?, ritornasi a la
sincera vita da l'evangelio primamente a lui demonstrata; e fatto del
suo core un dono a Cristo Ies?, da lui ne riceve tutto 'l mondo in
ricompenso e guiderdone di esso; e giunto nel paradiso terrestre, gli
vien ivi comandato che non mangi de l'arbore de la scienza del bene e
male, ma solamente si pasca e nudrisca del legno vitale, per darci sopra
ci? un bell'avviso: che, quantunque ogni constituzione o sia tradizione
de alcun santo padre bona e fundata su l'evangelio sia, nulla di manco
assai pi? secura e utile cosa ? non partirsi dal mero evangelio; perch?,
s? come ogni norma e regula de santi ha in s? figura de l'arbore del
saper il bene e il male, cos? de l'arbore di vita contiene in s? lo
leggier peso del Servatore nostro. Laonde esso mio zio Teofilo
commetteria la terza sciocchezza quando mai lasciasse pi? lo vecchio
sentiero per tornar al novo. E questo ? il senso mio circa la
dechiarazione di questo Caos.
ARGOMENTO SECONDO
CORONA.
Arguto ed ingenioso fu questo da te pensato soggetto, Livia cara; ma non
tanto a l'intenzione di tuo zio mi par agiatamente accascare, quanto
quello ch'heri ti dissi ed ora sono ad ambe dua per ragionare. Move
dunque mio fratello pi? generalmente il voler scrivere di qualunque
altro uomo che del suo proprio fatto; onde ne la prima ?selva? narra la
infanzia e puerizia umana, ne la seconda la precipitosa giovenezza, ne
la terza la matura e virile etade.
Or dunque, ne la prima descrive in quanti affanni e travagli qualunque
uomo, per fallo del primo nostro padre Adam, nasce in questo mondo,
chiamandovi Natura ?crudele matregna?: da la quale di scorze, peli,
piume e squame provveduto viene ad ogni altro animale quantunque
vilissimo; ed egli solo, nudo nascendo, non ha schermo alcuno e difesa
contra le ingiurie del tempo. Ma poscia, per beneficio de la industria
ed arte pervenuto a la puerizia, dimanda quella ?l'aurea etade?, perch?
la innocenzia del fanciullo sen passa quel poco di tempo senza sapere
che sia rigidezza di legge, t?ma di tiranno ed inquietudine di avarizia.
Uscito poi egli dal bel giardino di puerizia, entra ne l'impetuosa
giovenezza, la quale, innanzi che da l'ardente desio anco non vien
assalita, comincia, con la mente tutta svegliata, de l'esser non pur
suo, ma d'ogni altra cosa a ripensare. E quivi, ne la seconda ?selva?,
mio germano, in persona (come gi? sopra dissi) d'ogni altra razionale
creatura, fingesi trovar pastori, e Cristo Ies? tra quelli nasciuto, per
darci questo avviso: che l'uomo, quanto prima ne gli anni di ragione
entrar comincia, per favore del suo bon genio, incontanente ricorre a la
cognizione di veritade, la qual ? Cristo nostro Servatore. Ma, levatasi
poi la consueta tempestade di nostra carne, ecco la voluptade, ecco 'l
desio sotto il viso di vaga dongella, sul sboccato cavallo de la
delettazione, lo riconduce al varco de le due strade, per tirarsilo
drieto a la sinistra del vizio, lasciando la destra de la veritade.
Quivi dubitoso, ne la prima giunta, stassi ove gir si debbia: quinci, da
belli e boni avvisi a la destra invitato; quindi, da gli umani piaceri
combattuto che egli muovasi a la mancina. Soperato dunque e vinto
finalmente dal fugace desio, v?gli impetuoso drieto, dovunque la falsa
incantatrice, losingando, a s? in guisa di calamita lo smarrito animo
tira, passando tutta fiata per sogni, chimere ed amorose favole, quali
sono le ?fizzioni macaronesche?, come gli appellano, di Merlino, li
sonetti, ed altre assai vane frascuzze, per signar il tempo da la
giovenezza inutilmente trapassato, in fin che poi nel laberinto di
qualche travaglio si ritrova essere: cosa che 'l pi? de le volte dopo
gli piaceri s?le a gli gioveni accascare.[6]
Laonde, come ne la terza ?selva? noi leggemo, l'uomo angustiato ricorre
al divino suffragio: e Cristo gli appare bello e pietoso, cavandolo
benignamente di quella ignoranzia d'amore, e talmente li tocca il core,
che 'l giovene, gi? venuto virile, si mette in considerazione di quanto
mai fece Iddio per l'uomo. Dil che mio fratello sopra questo finge che,
avendo Cristo ricevuto il core da lui, cri?gli tutto quanto il mondo, e
al paradiso terrestre dricciatolo, gli comanda che, pascendosi egli del
legno de la vita, il quale ha di sua grazia in s? la figura, non gusti
per niente di quello del bene e male; il quale a me par dover
significare che l'uomo, facendo le bone opere, quelle non debbe a soi
meriti tribuire, anzi tutte nel divin favore collocarle. Tal ? dunque il
concetto mio dal Caos divenuto.
ARGOMENTO TERZO
PAOLA.
Sentenzia divina ? che ?la lettera uccide l'anima?. Fermamosi, prego,
dunque sul Caos di questa materia, lasciando in parte s? la vita di mio
figliuolo in spezialitade, la quale per vigor e sottiezza de peregrini
ingegni forse col tempo verr? in luce pi? secura, s? quella ancora di
qualunque altro uomo, in questa umana gabbia precipitato.
Ne la prima ?selva? contienesi, adunque, l'uomo studioso ed avido
d'imparare mettersi prima in considerazione di queste cose pi? basse de
l'umana natura, fra le quali se l'arte liberale con la industria insieme
non fusse, oh quanto inferiore a gli altri animali sarebbe l'uomo, non
cos? provvisto da natura contra le ingiurie del tempo, quanto di piume,
squame e peli sono quelli! Onde pare che meritamente pi? lei chiami
?madre? che ?madregna?, se la nuditade od altra miseria nel nascere ben
si comprende. Ma contemplando per mezzo di queste divine arti liberali
aver da non curarsi di qualunque onta naturale, si move al studio
simplicemente di umanitade, lo quale ?aurea etade? meritatamente
appella, quando che tutta d'oro sia cotesta disciplina e d'ogni scrupulo
del nostro intelletto fora.
Ne la seconda ?selva?, questo medemo studente si delibera pur di trovar
la veritade di quante cose naturali e soprannaturali ne' libri si
contengono. Partesi da gli umani giardini per saltar ne la filosofia; ma
tosto lo genio suo bono gli antepone la umanit? di Ies? Cristo e
affermali non essere altra veritade di questo. Eppur la curiositade di
pescar pi? sul fondo, in guisa di donna sopra un sfrenato destriero, lo
tira per vie scabrose in fin sul passo che divide lo sentiero in due
parti: quinci a la man destra invitalo l'evangelica, quindi a la
sinistra la peripatetica d'oggid? teologia. Ma, vinto da la curiositade
ancora, si avventa senza freno drieto a quella per chimere, sogni e
favole sofisticali, trovandovi drento Merlin Cocaio; per notificarci la
grossa e incorretta retorica ed elocuzione de la maggior parte de'
nostri moderni teologi, ove quelli loro vocaboli ?causalitade?,
?entitade?, ?intuitiva? ed ?abstractiva?, con l'altra barbaria tengono
corte bandita: per che al fine di mille dubitanze, errori ed eresie, nel
laberinto egli avviluppato si ritrova e seppellito.
Or ne la terza ?selva?, commosso Ies? Cristo da dolce pietade verso
quella anima invischiata ed allacciata in quei tanti ?utrum, probo,
nego, arguo, pro, contra?, ecc., tiralo al mero e puro latte del
santissimo Vangelo ed al fidel e tutissimo porto di san Paolo, con tutto
il resto de' libri del Testamento novo e vecchio, nel qual egli
studiosamente ruminando a Dio fa un dono del suo core. Lo quale, in
cambio di s? legger cosa, fallo signore de l'universo, criandogli di
novo il cielo, il mar e la terra; e dapoi tanto, al paradiso terrestre
mandatolo, quivi gli comanda che voglia solamente pascersi di contemplar
quanta sia verso noi la divina misericordia, ma non quale e quanta sia
la maiestade e potenzia sua. E questo ? l'arbore de la bona e mala
scienza, s? come quell'altro ? legno de la vita. A me cotesta allegoria
pare de le vostre meglio quadrare al Caos di mio figliuolo. Ors?,
leggemolo dunque di compagnia, e prima li tre nomi di esso.
MERLINUS.
Tres sumus unius tum animae tum corporis. Iste nascitur, ille cadit, tertius erigitur. Is legi paret naturae, schismatis ille rebus, evangelico posterus imperio. Nomine sub ficto ?triperuni? cogimur idem: infans et iuvenis virque, sed unus inest.
LIMERNO.
Giove, Nettuno, Pluto d'un Saturno ebber a sorte il ciel, il mar, l'inferno; fulmini, denti, teste in lor governo: tre trine insegne per tre cause f?rno. Tre fonti, oltra le tre del mio Liburno, nacquer d'un capo santo al sbalzo terno:[7] cos? Merlino, F?lica, Limerno si calcian d'un Teofil il coturno. Mantoa sen ride e parla con Virgilio: — Tu sei pastor, agricola, soldato, perch? del n?mer terno Dio s'allegra. Ridi tu meco ancora, dolce filio, quando che sotto un nome triplicato sortisca una confusa mole e pegra.[8]
F?LICA.
Fermati alquanto, lettore amantissimo. Son certo che lo exastico e
sonetto di mei compagni di sopra ti parono duri e scabrosi. Non vi
slungar, in guisa di rinoceronte, suso il naso, ti prego, ch? 'l ladro
il quale rubasse di giorno saria tantosto compreso. Quivi ci fa mistiero
di scurezza e caliginosa nebbia: ma se li capoversi per tutto il nostro
Caos provvidamente scegliere saperai, chiaro e limpido finalmente ti
parr? lo intricato soggetto nostro. Ma solamente un bell'avviso quivi
darti intendo: che totalmente sul ternario numero siamosi, per
conveniente ragione, fundati. Prima tu vedi lo titolo del libro essere
tre parole: Caos del triperuno.[9] Segueno poi le tre folenghe,[10]
ovver f?liche son dette, le quali sono antiquissima insegna di casa
nostra in Mantoa. E sotto specie di loro succedono le tre donne[11] di
tre etadi[12] e di tre fogge di parentela[13], da le quali derivano li
tre prolissi argomenti[14], ciascuno di loro in tre parti diviso[15].
Noi siamo poi di tre nomi: Merlino, Limerno, F?lica.[16]
Li quali, cominciando il nostro Caos, in tre ?selve? lo spartimo,[17]
con li soi tre sentimenti[18]; ma lo pi? autenticato al giudicio de
l'ingenioso lettore dimettemo.
SELVA PRIMA
DISTICHON
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe; tres dixere Chaos: numero Deus impare gaudet.
HEXASTICHON
Quae nat aquis coeloque interdum attollitur ales, vel nat amore aquilae vel volat icta metu. Nam quae solis adit, veluti Iovis ales, acumen? est Fulicae ut Minti ludat in amne sui. At, si illa huc humile ad stagnum descenderit ales, quae nat aquis, aquilis digna erit esca suis.
TRIPERUNO.
Voi, ch'ad un'alta e faticosa impresa vedete or me salir audacemente per via mai forse da null'altro intesa, piacciavi d'ascoltare queste lente mie corde in voce lagrimosa e mesta,[19] ch'altro non s'ha d'un'anima dolente. E, bench'i' veda alzandovi la testa mia virt? debil al salir tant'alto,[20] di che sovente per vilt? s'arresta; pur spiego l'ale, e quanto so m'exalto l? 've m'accenna il lume d'ogni lume, per cui non temo alcun spennato salto. Ch?, mentre su con le 'ncerate piume[21] tolgomi de le nubi sopra 'l velo, d'un Dedalo megliore sotto 'l nume, vedr? ch'immobil stassi e volge 'l cielo,[22] sostien la terra, e l'universo a 'n cenno, volendo, p? cangiar o 'n foco o 'n gelo. Or dunque, di pi? sana audacia e senno ch'Icaro mai non ebbe, a l'ardua via ambo gli piedi, ambo le braccia impenno. E cantovi di questa nostra ria[23] prigion che ?vita? nominar non oso, le frode di essa, il volgo, la pazzia; e di quel Re, che 'n un presepio ascoso vidi fra le duo bestie a gran bisogna, ver' se stesso crudel, ver' noi pietoso,[24] che svelse il mundo tutto di menzogna con sua dottrina colma di quel foco, ch'arde s? dolce in alma che non sogna. Io dico te, Ies?, lo qual invoco mio Febo, mio Elicona, mio Parnasso, ov'ogni bel pensier al fin coll?co. So ben che di te dir via pi? t'abbasso, che tacendo non alzo; e pur m'offersi, ecco, a dricciar nel tuo bel nome il passo. Ch?, come vedi, son questi miei versi[25] d'amor almanco e caritade in cima, se non toscani, ben sonori e tersi.
TRIPERUNO.
Di quella spera pi? capace ed ima[26] del ciel, ove l'Artefice soperno fabbrica ognor quanto mai finse prima, io novamente usciva, fatto eterno candido spirto leggiadretto e bianco, che bianca pi? non vien neve d'inverno; quando 'l mio stesso fabbro un calzo al fianco vibrommi tal, che gi? ne venni a piombo in loco basso e d'ogni posa manco. E come vago e timido colombo[27] vola quando si parte da la torma, del ciel tonante al subito ribombo; tal io vi errava tanto che, d'un'orma uscendo in l'altra, mi trovai sul porto, dove l'oblio nostro 'ntelletto addorma. Guardomi intorno paventoso e smorto,[28] ch? teso in ogni parte vedo un rete, onde ch'entrarvi debbia mi sconforto. Quivi spicciando fora d'un parete largo cos?, ch'ampio paese cinge, chiara fontana porsemi gran sete. La qual fra sassi mormorando astringe al dolce ber qualunque vi s'applica; ma tosto se ne pente chi lei tinge, perch'ella il senso e lo 'ntelletto intrica. Per? non men a un vischio tal m'accolsi,[29] tratto dal bere e da l'usanza antica. Quivi cum brame tanto me ne tolsi, che tutto 'l bene che capisce in noi non pur lasciai, ma nel contrario avvolsi. Acque maligne, acque di t?sco, voi pi? del m?le soavi, pi? che manna, scoprite il fele al nostro error dopoi: ch? chi vi gusta pur, non che tracanna,[30] presto ne gli occhi, anzi nel cor s'annebbia: dura cagion, che a questo ci condanna! Cangiasi d'un bel raggio in scura nebbia, n? qual era pur dianzi non ricorda, n? su quel punto sa che far si debbia. Io dunque, alma di bere troppo ingorda, le parti mie d'alti pensieri dotte perdei qual cieca forsennata e sorda. Perch? non so: s?ssel colui, che notte far giorno e giorno notte pote solo, e d? sovente a noi d'amare b?tte. Per fallo d'uno preme tutto 'l stolo,[31] e vedesi alcun padre umil e domo irsene gi? per colpa del figliuolo. Or chi l'intenderebbe, che d'un pomo succeda tanto incomodo, ch'ognora sostegna il ceppo uman l'error d'un uomo? Ben fu di acerbe tempre, poi ch'ancora foggia non ? la qual digesto l'abbia, n? mai (tant'esser deve crudo!) f?ra, se chi nostr'alme spinge in questa gabbia,[32] col raggio di piet? nol dissacerba e tempra di giustizia in s? la rabbia; n? stomaco di struzio n? onto n? erba, mentre da noi per quest'ombre si viva, ? per smaltir un'esca tanto acerba. I' non fu' mai di tal cibo conviva, e pur padirlo, anzi patirlo, deggio, per cui vien ciascun'alma del ciel priva. La qual ir non dovria di mal in peggio,[33] se, al priego d'una femina, colui morse 'l mal frutto e p?rsevi 'l bel seggio. A che unqua nascer noi, se per altrui fallir par ch'anco l'ira non s'estingua divina in noi, per loghi alpestri e bui? Ahi miser! taci e morditi la lingua, ch? maladetto fie chi in ci? s'adira: gi? Dio mai d'uman sangue non s'impingua; anzi ama l'opre sue, contempla e mira, e studia l'uomo a s? fatto simile scampare dal suo stesso foco ed ira. Ma non pensar, non che cercar, suo stile[34] via troppo da l'uman pensier rimoto, ch? alto pensier non cape in senso vile. Dunque dir? che quanto chiaro e noto m'era dinanzi al ber de l'acque sparve, onde fui d'ombra pieno e di sol v?to. Eccomi sogni intorno, fauni e larve, che mi facean per quella notte scorta, n? mai pi? 'l bel ricordo dianzi apparve. Pur mi raffronto a quella orribil porta[35] fiso mirando, e qui fermai lo piede com'uom ch'entrarvi drento si sconforta, e, fin ch'altri vi passi, dubbio sede.
GENIO.
?Alma, che per altrui difetto al varco dubbioso arrivi e Dio ti vi destina, or quivi entrando inchina l'orgoglio, alzando gli occhi al ciel che carco gira di stelle e mostrasi luntano! Di l? scendesti, e pi? non ti rimembra[36] qual eri avanti 'l poculo di Lete! Ma se tornarvi brami, quelle membra, ove tu d?i corcarti a man a mano, fa' che raffreni fin che 'n lor s'acquete l'uman desio che le conduce al rete s? di legger, ove ne resti presa. Ma strenua contesa non sa fatica, finalmente, o carco?.
TRIPERUNO.
Queste parole, in man d'un vecchio bianco, vedendo appese di quell'uscio in fronte, io tremai forte e tremone pur anco. Anzi n'ho, rimembrando, a gli occhi un fonte: ch? allor, mentre per me gi? si delibra non ir pi? innanzi e volgomi dal ponte, donna m'appar accanto, che mi vibra[37] un pugno al fianco e drieto mi flagella, ch'avea ne l'altra man un'aurea libra. Ritornomi a la porta, dove quella mi piega col temone di sue pugna, drieto chiamando sempre: — Alma rubella, alma proterva, fa' che non ti giugna scamparti da colui che qui ti move ad una faticosa e strana pugna, ch'avrai con esso teco e non altrove,[38] e per vincer leoni, tigri ed orsi, vincendo te, minori son le prove! — I' non mil fei ridir, ma via trascorsi, qual timido cavallo che s'arresta ne l'apparir d'un'ombra e sta su' morsi; poi, v?lto in fuga, soffia ad alta testa, ma chi gli sede addosso presto il torna, stringel ai fianchi e fra l'orecchie il pesta; ond'egli per le b?tte si ritorna in quella parte onde lo smosse l'ombra, di passo no, ma corre e non soggiorna. Traggomi drento, al fine, ove me 'ngombra[39] notte ch'ancor pi? m'ebbe ottenebrato, in luogo cui la terra intorno adombra. Ed io ne stetti non d'abisso al lato, ma in centro d'ombre grosse denso e folto, qual talpa preso in gli occhi e smemorato. Cos? pi? mesi in quella tomba involto,[40] io, pronto spirto ne la carne inferma, stetti non pur prigione, ma sepolto, fin che, o Natura, l'opra tua fu ferma.
MELPOMENE.
Mentre piangendo l'alte strida ed urli, sorelle mie, s? duramente innalzo (da me sol viene il tragico costume),[41] lasci?ti i crin al vento, ch? ridurli qui non bisogna in trezza n? 'l pi? scalzo guidar per vaghi fiori e verdi piume de' prati lungo al fiume, anzi, sdegnando quella piaggia e questo poggetto ameno, statine qui meco in solitaro speco, fin che mie rime udite sian di mesto e lagrimoso canto, il qual risulte da quei sassosi monti e valli inculte. Depon, Urania mia, la tua siringa,[42] che settiforme ha in s? del ciel il tipo; e tu, Clio, la lira, ove 'l mant?o al greco vate fai ch'egual attinga; e mentre i lauri e l'edere diss?po, spargi quei fior del corno, che l'er?o gi? svelse ad Acheloo, Erato mia: n? tu, Polinnia, il plettro, n?, Calliope, l'arpa, n? la cetra, Talia (s'unqua s'impetra[43] grazia da voi!), pulsate, ch'ora il settro tengo fra noi, cessando ancor le stanze di Euterpe, e di Tersicore le danze. Ahi! di qual gioia e quanto bella effige traboccar vidi l'uomo in tanto scorno! Mir?ti 'l ciel come, di grado in grado, sol per causarli util piacer, s'afflige[44] volgersi tra duo moti adversi intorno! Mir?ti 'l Gange, l'Istro, Nilo e Pado, ogni altro fiume e vado tornarsi d'onda in onda al vecchio padre! Pioven le nubi e la porosa terra dal centro si disserra, sorbendo il dato umor, onde gi? madre fassi di questo fior e di quel pomo, per aggradir ed aggrandir un uomo: l'uomo che, ingrato a Dio non ch'a Natura,[45] per antiporre un fral desire al dolce suo fermo stato, giustamente abietto fu d'alta gloria in infima iattura, la cui durabil colpa in ciel si folce, che mai non parte dal divin aspetto. Per? sta fermo e stretto destin, a penitenzia d'un tal fallo, che l'uomo in grembo a morte quivi nasca: cos? dal cielo casca[46] l'alma di novo fatta in scuro vallo, dove se stessa oblia cieca ed inferma, gi? devoluta in sterco, fango e sperma. Indi Natura, per supplicio degno, men se gli mostra madre che noverca; la qual ogni animal provvede contra l'onte del tempo, dandogli sostegno. Nasce pur l'uomo ignudo, il quale cerca[47] schermirsi d'un agnello, volpe o lontra, dal gelo in cui se 'ncontra, ch? di scampo megliore non ha copia. Ma di squame coperti, penne e lane per fiumi, selve e tane van pesci, augelli e fiere. In somma inopia sol nasce l'uomo, cui cad? per sorte pianger nascendo e, nato, gir a morte. Non cos? tosto un augelletto spunta de l'uovo fora, quando a tempo nasce: ecco s'addriccia e, con soppresso grido, del becco l'esca piglia in su la punta, e senza documento di chi 'l pasce su l'orlo estremo tirasi del nido, donde gi? funde al lido ci? che smaltisce per servarsi netto. Non cos? l'uomo, no, ch? d'ora in ora[48] convien di fascie fora cavarlo, in cui legato stassi stretto, e trarlo di sozzura e puzzo lordo, al misero suo stato e cieco e sordo. Or dite, prego, quand'egli mai s'erge[49] co' l'aspetto nel ciel onde si parte, che pria carpone de le braccia gambe non faccia, mentre in foggia d'angue perge? Ch? se al contrasto di natura l'arte, l'industria in suo ripar non fusser ambe, mentr'egli sugge e lambe lo sin materno, peggio de le belve ne rimarrebbe, tanto l'odia e sdegna e fassigli matregna colei ch'abbella monti, valli e selve, e d'un s? gentil figlio non tien cura[50] pel torto del primier; dico Natura! Solo la donna artifice e la industre parton de le sue membre l'officina; ma quant'? 'l pianto e quante le percosse anzi ch'ancora il misero s'industre saper su piedi starsi! onde ruina sovente s?, che molte fiate mosse di luogo porta l'osse, restandone d'un mostro pi? deforme. Cosa non gi?, che ne li armenti caschi: cercate e' verdi paschi, le nubi, i fiumi, quante sian le forme che, nate appena, chi 'l n?to, chi 'l volo, chi prende il corso; e l'uomo casca solo! Deh! perch? nasce lo 'nfelice dunque[51] di tanti strali ad esser un versaglio? Ogni tempesta in lui s'aggira e scarca, ogni virgulto se gli attacca, ovunque move di questa selva nel travaglio. S'avvien ch'egli pur goda, ecco la Parca[52] rumpelo al mezzo, e varca la vita, al sol qual nebbia o fumo al vento: stato penoso e miserabil tanto! Ch'altro che affanni e pianto, travagli, sdegni, lagrime, scontento attende uomo che nasce? e se lo move fortuna a qualche onor, morte vi 'l smove. Queste parole in capo voglio sculpite sian d'ogni tiranno, lo qual non esser Dio, ma fumo e nebbia[53] s'intenda, e che non debbia farsi adorar al mondo, perch? vanno e vengon tutti eguali di fral seme, ma tal le piume, tal le paglie preme.
TRIPERUNO.
Dapoi li giorni e mesi, che 'n tal centro s? lordo il mio destin crescer mi fece, donna m'apparse a quel girone dentro,[54] ch'indi sciolto mi trasse d'orbo in vece, poi molto altiera disse: — Or tienti in mente, mortal, che pi? tornar qui non ti lece! — E ci? parlando, l'empia ed inclemente,[55] nudo fanciul ne la stagion pi? acerba lasciommi solo e sparve incontanente. Sparve costei d'aspetto alta e soperba, ed ove allor passava, in ogni canto seccar facea con fior e frondi l'erba, fin che di neve col gelato manto mi ricoperse intorno e monti e selve; di che tremavo con dirotto pianto. Miravami da lato e fiere e belve con ogni augello d'alcun pel guarnito, qual sia che 'n grotte alberghi o qual s'inselve; ma sol io nudo sopra il nudo lito stavami d'Aquilone sotto 'l fiato, n? fui per tanto da pietade udito. Il qual piangendo mover quel spietato[56] avrei potuto, ch'ogni fanciullino uccise per mal zelo del suo stato. Chi vide mai d'inverno un cagnolino tremar su l'uscio chiuso di chi 'l tiene usato starsi di madonna in sino; cos? veder potea me con le rene in terra nude, v?lto in quella parte del ciel ove 'l suo moto si conviene, ed ove 'l Serpe tortuoso parte[57] l'orribil Orse, dove nasce il spirto del fier Boote che non mai si parte (qual fiume e lago, ch'aspro duro ed irto non ferma il corso) di Callisto in braccio. Ma non vidi poi s? d'un lauro e mirto, anzi con altri assai di quell'impaccio lor vidi sciolti, e con bella verdura starsen di neve in mezzo e presso al ghiaccio, merc? le calde gonne, che Natura[58] lor diede per servarli eterna vita: a lor s? mite, a noi maligna e dura! Ma una dongella, non so d'onde uscita, presta ne gli atti e d'abito succinta, m'accolse in grembo, di servir spedita: poi lunga fascia intorno m'ebbe cinta, portatomi gi? dentro una spelonca ben chiusa intorno e di fuligin tinta. Ver ? che, d'uomo come statoa tronca di braccia e gambe, in que' legami resto, e cos? giacqui stretto in picciol conca. Onde col capo sol (ch'un'oncia il resto mover non poscio) v?lto a lei parlava, con quell'istesso di fanciullo gesto qual fece altrui con Dio, quando d'ignava[59] lingua mostrossi e proferir non valse, dovendo predicar a gente prava. — Chi fu la donna — dissi — cui s? calse gittarmi in terra nudo al vento e pioggia, onde 'l mio corpo di gran gelo n'alse? — Ella sorrise, lagrimando, in foggia di chi nel petto amaro e dolce copre; poi disse: — Eternamente non s'alloggia in questa terra, n? si cela e scopre il sol eternamente: sol un franco e fermo stato ? molto al ciel dissopre. Di l? cadesti e sei per montarvi anco, se 'n questa umana vita di due strade[60] dritto sentiero pigli e lasci 'l manco. Per? ch'al fin de la pi? molle etade ti trovarai sul passo di Eleuteria, che per doi rami ? guida a dua contrade. Quinci ratto si viene a la miseria, quindi al pregio acquistato per lung'uso, che s'ha quanto di aver si d? materia. Ovver fia dunque tempo che 'n ciel suso ritornarai vittor di questa giostra o cascarai, di quel che sei, pi? giuso. La donna, che s? cruda ti si mostra, fidel ancilla de l'Eterno Padre, non odiar, perch'? la madre nostra, nostra non pur, ma d'ogni pianta madre, Almafisa chiamata, che riceve sua fama in variar cose leggiadre.[61] E s'or il mondo t'ha cangiato in neve, non d'aspettar t'incresca, perch? i lidi rinnovellar de' fiori ancor ti deve. N? sia perch'animale alcun inv?di uomo per piume o squame o pel che s'abbia, n? perch? sappian tesser antri o nidi; e tu sol, nudo, isposto a l'empia rabbia di Borea, veda ogni vil canna e legno armato contra 'l freddo ed atra scabbia. Questo forse ti pare d'odio segno; pur sta' sicuro e fa' che ti conforte, ch'odio non ?, ma sol un breve sdegno.[62] S'odio tal fusse, ti darebbe morte, n? avrebbeti produtto Dio giammai n? fatto del suo regno al fin consorte. — O me felice — dissi allor — non mai esser nasciuto e, senza altra vittoria di carne, gioir sempre in gli alti rai! — Ne' rai — quella rispose — de la gloria, de cui ragioni, per gioir non eri, se pria non dato avessi qui memoria. Alma non fu n? f?ra mai che speri, innanzi d'esta vita i vari affanni, viver del ciel in que' lunghi piaceri. Guarda, figliuol, che forse tu te 'nganni, s'esser for che 'n idea ti pensi eterno, nanti la forma de' corporei panni. Li quali ebber principio dal soperno Padre, con l'alma scesa in questi guai, ove, de la vert? se col governo[63] di questo vento l'onde sosterrai, che non ti caccia quinci e quindi a voglia, oh lode, oh fama, oh pregio che n'avrai! Per? d'esser nasciuto non ti doglia, n? di Almafisa il sdegno oltra ti prema, ch? 'n ciel d?i riportar felice spoglia, e salirai sopra la cinta estrema, che le soggette del suo moto avvisa e molto di lor proprio moto scema. Anchinia industre sono, sempre fisa[64] supplir ai mancamenti con bell'arte, se mancamento ? in quella d'Almafisa. N? son, quand'ella cessi, per mancarte[65] di pronti avvisi e di sagaci modi, scoprendoti mie prove in ogni parte. Fra tanto cos? stretto in questi nodi voglio tenerti, fin che a tempo ritto ti sosterrai su piedi fermi e sodi. Ma viene ecco mia sore, che 'n Egitto[66] uscita, da' caldei l'uman dottrina port? de le scienze a tuo profitto; ed anco ? audace s?, ch'assai vicina[67] sovente a Dio poggiando si ritrova e vede lui d'una persona e trina. Costei l'altezza di natura prova,[68] distingue, insegna in argomenti fermi,[69] ma sopra lei sol contemplar le giova,[70] ch? sa quanto sian debil ed inermi gli sensi umani e la divina altura, non che i ragionamenti ottusi e 'nfermi. Costei la terra, il mar, il ciel misura,[71] n?mera le cagion di piogge e venti[72] con l'osservar di stelle ogni mistura.[73] Costei qua gi? gli armonici concenti[74] seppe cavar su dal soave moto, per levamento de l'afflitte genti. Costei, de' spirti con vigor, l'ignoto[75] cognito fa, li quali sotto l'etra pendon ne l'aere pi? dal ciel rimoto. Costei sa le virt? d'ogni erba e pietra,[76] orando persuade il giusto e il torto,[77] e canta e' gesti altrui ne l'aurea cetra.[78] Senza costei non ? stabil conforto[79] di questo mare al travagliato corso: da lei tu sempre avrai securo porto. Ed io con lei ti mostrar? quell'Orso[80] con l'Orsatino suo, che sian tuo guida per ogni spiaggia e periglioso dorso. Non sar? vento mai che ti divida, stanne sicuro, dal governo loro, che la sua luce alt?ra nol conquida. Quel di Vinegia sommo concistoro muove sotto costei lo gran stendardo e pose in man de l'Orso il leon d'oro: Orso non men di senso che di guardo,[81] pronto a le imprese, liberal e schietto, veloce al perdonar, a l'onte tardo. —
Parlava la dongiella e gran diletto favoleggiar di quello si prendea, quando l'altra, giungendo a lei rimpetto, con voce e viso altier cos? dicea:
TECNILLA.
Su, presto, Anchinia, su, che tardiam noi?[82] Esca d'impaccio omai, n? pi? si lasce tanto bel spirto avvolto in quelle fasce, ch? aver eterni in ciel d?' i giorni soi!
ANCHINIA.
Far una impresa tostamente e bene, che d'alto pregio ed eccellente sia, nostra vert? non ?, Tecnilla mia, ma solo al Re celeste ci? conviene. Egli sol ?, che tra 'l pensier e l'atto non cape tempo, quanto esser pu?, breve; che producendo un fior non ha men leve fatica, ch'ebbe a far quanto ? mai fatto. Quest'animal ? di maniera tale,[83] che, qual sia per venir, non vien s? presto; cosa non gi? d'altro animal, ch? questo vive dapoi, quell'? caduco e frale. Per? gran tempo, ove l'arte s'impaccia, va tanto pi? quant'? l'opra pi? degna: tu stessa el sai, n? alcun altro te 'nsegna, se non la prova e le tue stanche braccia.
TECNILLA.
Non le dir stanche, ove 'l sudor gradisce,[84] ch? un dolce incarco mai non fa stracchezza; onde, quanto lo indugio, la prestezza perfettamente ogni opra sua compisce; ch?, ove intervien de nostri alti pensieri volunteroso ed avido consenso, s? pria l'affetto e poi l'effetto immenso[85] cresce, ch'al fin non ha che pi? alto speri. Io sola in l'uomo tutti e' miei concetti lieta riposi, e non in altra cosa; e tu, Almafisa, bench? neghittosa gli sei, non temo gi? che 'l sottometti.
ANCHINIA.
Taci, non dir cos?, germana sciocca, ch'error di lingua va n? mai ritorna;[86] troppo sei baldanzosa; e chi le corna in ciel v?l porre, al fin gi? si trabocca. Natura non pur l'uomo, ma, pi? d'uomo se cosa alt?ra nasce, per la chioma la tien al segno; egli la grave soma, volendo o no, sen porta, umile e domo.
TECNILLA.
S?; quando l'arte mia non vi s'arrisca[87] opporsi a quante passioni ed onte fargli pu? mai quella soperba fronte, ch'ei sotto soi flagelli s'invilisca.
ANCHINIA.
Tu fermamente, se non tutta, in parte sei fatta stolta e garrula, Tecnilla, la qual in foggia d'arrogante ancilla a tua madonna crediti agguagliarte. So ben ch'ogni pensier hai d'imitarla[88] e, v?lta in tal desio, sempre la inv?di; onde, perch? non mai la giugni, gridi e latri come chi d'altri mal parla. Ma sta' sicura che senz'onda il mare, senza splendor il sole, senza belve e nanti senza augelli fian le selve, ch'un picciol nevo mai lei poscia equare. E ci? saper non m'? durezza alcuna, quando ch'io d'ambe voi son l'aiutrice, ed anco Pirra, donna ferma, altrice[89] di tutte prove, vien meco in quest'una sentenza: che Natura, in un momento formando un picciol vermo, eccede tanto l'arte operante al sforzo estremo, quanto ogni vil cosa l'ampio fermamento. Di che qui darti intendo un sano avviso: se alcuna ? in te virt?, la riconoschi sol d'Almafisa, che se i monti e boschi ci nega, l'opre nostre son un riso.
TECNILLA.
Non far, Anchinia, pi? di ci? parole; so ben ch'Industria in losingar Natura fu sempre vaga, onde non ha misura[90] lo giudice che tien la parte sola.
ANCHINIA.
Se d'adular son vaga nostra madre, tu adulterarla pi?; ch? 'n l'altrui vista fai natural quel ch'opra ? di sofista,[91] n? men le mani hai de le voglie ladre.
TECNILLA.
M'allegro ben che te stessa condanni! O scema d'intelletto, non t'accorgi quanto di scorno, me biasmando, porgi a te medema e 'l tuo veder appanni? Son io ne l'opre mie pi? da ragione che da l'industria mossa, e 'n l'aspra imago de la viril Et?a ben pi? m'appago,[92] che 'n la tua, ornata sol di fizzione; ch? quanto avanzar puoi de le nostr'opre,[93] t'industri porlo in grembo d'avarizia, e fai cos?, che l'empia tua malizia col manto mio ne gli occhi altrui si copre. Per? qual maraviglia se la fraude di verit? sta involta ne la pelle e se imputate a l'arte sian le felle[94] tue astuzie, onde Almafisa ride e plaude? Sen ride e plaude in foggia di chi, altrui odiando, il vede scorso in qualche scherno. E tu quella pur sei, che ne l'inferno t'ingegni penetrar ai luoghi bui e trarne la cagion di tante risse, furti, omicidii, stupri e sacrilegi: dico 'l metallo, con cui adorni e fregi le menti umane s?, che 'n quel stan fisse n? pi? s'innalzano a specchiar il lume,[95] ch'io di Natura posi oltra la cima, e men d'un'arca d'or' si prezza e stima un atto generoso e bel costume! Ma perch? l'ingordigia di quel mostro, c'ha ventre e morso d'adamante e foco, empir non puoi, ch? ogni esca gli par puoco e va fremendo in questo mortal chiostro; tu che levarmi d'Arte il nome cerchi e quel che Alchimia si dimanda pormi, altri metalli in or' par che trasformi: oro non sono ed esser pur alterchi! Misera che tu sei, non vedi chiaro[96] ci? che fai senza l'arte sa di froda? non vedi ben che non si rumpe o snoda il laccio che a la gola tien lo avaro? Quanto meglio farai non dipartirti dal primo nostro rito e modi antiqui, e 'nvestigar in ciel qua' sian li obliqui, e qua' gli dritti segni, e pi? alto i spirti che causan e' duo moti e tante fiamme scoperte a l'uomo nostro, che 'n la culla qui tieni avvolto come cosa nulla, cui rumper gi? s'affretta Cloto il stamme!
ANCHINIA.
S'io s? rubalda qual or m'hai depinto io teco fusse, o maldicente donna, rubalda anco sarei con mia madonna,[97] c'ha fatto l'uomo e non, come tu, finto. Tu fingi l'uomo, anzi tu 'l stempri e spezzi, tu 'l snervi, tu 'l disossi, guasti e spolpi, e poi, se mal gli vien, Natura incolpi,[98] che pi? d'un uomo una formica apprezzi. Dimmi, insolente donna, perch? resti con quella forza tua, che d'Almafissa passa l'altezza (s? la sai prolissa!), oprar che mal alcun non l'uomo infesti? Se ferreo ? il nervo, se d'azzale ? il braccio, se tant'? 'l tuo valor ch'aver ti vanti, perch? non smovi le cagion de' tanti uman affanni, febre, caldo e ghiaccio? perch? non freni (se la Grecia tua, ove s? splende, parla sempre il vero) quell'Eolo, de' venti c'ha l'impero, e fa sentir altrui la forza sua? perch'anco in cielo, d'Orion a tergo latrando, un picciol Cane tanta rabbia sparge d'ardor, e tant'umor e scabbia diffunde il Drago dal suo eterno albergo? Oltra dir?: per qual cagion non svelli de le sanguigne mani di Tan?ta[99] la falce, che giammai non si racqueta troncar gli umani e farne polve d'elli? Tan?ta i' dico, s?, atra ninfa e cruda, che i tuoi Platoni e Socrati non scelse; anzi, quanto le teste son pi? eccelse, lor spezza, e d'elli tu ne resti nuda!
TECNILLA.
Quanto a le dua stagioni a l'uomo infeste, non ti rispondo, perch? gi? la impresa ti diedi di ci? degna: far la spesa,[100] contra lor, d'ombre, tetti, piume e veste. Ad altri morbi assai per te si occorre, c'hai simil esercizio, n? vergogna ti paia impreso aver da la cicogna un ventre adusto foggia per diporre. E come a la mia ninfa Filomusa[101] la tibia per isporre il canto usata trovasti gi?, cos? ha Farmacia grata la tromba che al purgar un ventre s'usa. Di ta' remedi al miser uomo e schermi contra l'offese di Natura certo studio ti vien, e poi la laude e 'l merto, perch? sollevi, Anchinia mia, gl'infermi. Ma quanto a quel che l'invincibil ferro[102] de l'improba messora frenar debbia, voglio non puoter farlo, ch? di nebbia, per mezzo suo, gli alti intelletti sferro. La morte a miei seguaci ? un'esca dolce e di Natura for del fango i purga, ed ? cagion ch'un'alma d'ombra surga ne l'alta luce, di che 'l mondo folce. ?Qual ? chi viva e non vedr? la morte??, David cantava lieto ne la cetra, bramoso il gentil spirto d'esta tetra prigion uscir a la celeste corte. Per? di' meglio, ch'io puotendo tiri tanti miei figli tosto d'esta tomba, ch? un cor non pi? s'incende al son di tromba, d'un'alma santa a gli ultimi sospiri, n? farle pu? Natura pi? grand'onta che 'n questa vita sua menarla in lungo, la qual p? invidiar un fior, un fungo, che nasce e mor fra un sol ch'ascende e smonta.
ANCHINIA.
Stolto parlar se non stolta risposta potrebbe aver; onde chi sempre tacque a gli insolenti detti, sempre piacque: dico quanto al clistero o sia sopposta. Ben si potrebbe un portico, un palagio, un vestal tempio ed un anfiteatro addurre in loda mia, l'arme, l'aratro, la nave e tante cose; ma 'l malvagio rancor t'accieca e l?gati la lingua, che non p? dir quel che ragion la sferza. Tu non sei prima n? seconda e terza, quando che l'ordin nostro si distingua, se ti credi esser, non di te son quarta. Roditi pur, se sai, che non ti cedo; e s'attendermi v?i mentre ch'io riedo, possio condur chi tal dubbio diparta.
TECNILLA.
O temeraria ed arrogante! mira come si gonfia questa fabbra vile! Qual giudice sar? tanto sottile, che nostra lite concia? dimmi, ? Pira?[103] dico quell'altra de le prove mastra, che, come tu, vantandosi va ch'io cosa che vaglia senza lei non spio, e di Almafisa appellami figliastra.
ANCHINIA.
Vantarsi drittamente pu? qualunque trovasi aver servito qualche ingrato; ch? quanto ben ? in te non l'hai trovato se non per il suo mezzo. E pur, ovunque esser ti trovi, ch'altri non conosca l'astuziette tue donde prevali, ti fai s? grande che, s'avessi l'ali cos? d'ogni altro augel com'hai di mosca,[104] egual salir vorresti al gran Monarca; lo quale sol v?l essere, che senza sian l'opre sue d'alcuna esperienza, ove egli pienamente e ratto varca.
TECNILLA.
Di me medema meco mi vergogno, trovandomi altercar con essa teco! Hai forse il capo tepido di greco, ubriaca che tu sei? ch'ancor bisogno farotti aver del tempo, c'hai qui speso in dirmi oltraggi, meretrice lorda!
ANCHINIA.
Non mi toccar, Tecnilla, questa corda, ch? peggio sentirai quel c'ho sospeso di lingua in cima. Or taci e fia tuo meglio! Dir onte altrui n? udirle voler poscia,[105] ? di pazzo costume; ma, d'angoscia mentre sei pregna, va' mirarti al speglio, se vergognarti v?i pi? del tuo volto fatto di mostro per soverchia furia, che litigar qui meco e dirmi ingiuria, le quali di te meglio forte ascolto.
TRIPERUNO.
Eran le dua sorelle omai s? d'ira,[106] per la puntura di sue lingue, in cima, che fu tra lor per esser pugna dira. Ma grave donna di molt'altre prima, dolce cantando, fuvvi sopraggiunta, la cui belt? non quanta sia s'estima. Un'arpa con sua voce ben congiunta fece che da le dua gi? in arme prone la gara venne tostamente sgiunta. Latte di tigre o sangue di dragone[107] ben mostrarebbe aver beuto infante, chi non saltasse udendo sua canzone! Non ? di pietra cor, non d'adamante, non di Neron, Mezenzio, Erode, Silla, che non si dileguasse a lei davante. Onde non pur Anchinia con Tecnilla lasci?r l'ingiurie fattesi, ma sono e questa e quella pi? che mai tranquilla; anzi leggiadre, al numerabil s?no di diece corde, mosser una danza, dandosi un bascio ad ogni sbalzo nono.[108] Quivi Almafisa venne con l'onranza, fra mille ninfe d'arbori e de fiumi, ch? ognun concorre a quella concoranza:[109] n? men scherzan in cielo e' chiari lumi, nel mar e' pesci, e 'n cielo quei dal volo, le fiere in terra e i serpi ne' lor dumi. Stavami ne le fascie stretto e solo, s? come l'augelletto, il qual distende l'ale, ma non s'innalza e n'ha gran dolo. Chi su, chi gi? quel tutto che s'intende da l'uom, se non a pieno, almen in parte, va, vien, traversa, corre, monta e scende. — Ciascun mai d'Omon?a non si diparte! — [110] cos? la cantatrice udi' chiamare, che i passi altrui col canto suo comparte. Io che l'errante macchina danzare, per quel dolce concento, vidi al moto[111] universal e poi particolare, di quei legami tutto mi riscuoto, come colui che lungo indugio annoi, dovendosi asseguir qualche suo voto. Svelsi di quelle scorze un braccio e poi, con quella svelta man che i nodi sterpe, tanto cercai ch'usciron ambi doi. E con quel modo ch'un immondo serpe, vedendo, ov'era 'l ghiaccio, nato il fiore, si sbuca lieto d'un'angosta sterpe, dove si spoglia il vecchio corio fore tutto d'argento, ed or fassi pi? cinte[112] del ventre al capo ed or segue 'l suo amore; tal io, poi che le spoglie risospinte m'ebbi d'addosso, per danzar su m'ersi; ma f?rno dal desio mie forze vinte. Ch? surto in piede starvi non soffersi, anzi cascai, donde corse a comporre Anchinia un carro, il qual meco si versi. Su tre rotelle il carriuolo corre, ed ?, s? come io son di lui, mio guida che al passo infermo e debile soccorre. Di ci? par ch'Almafisa se ne rida, che 'l legno arguto poggia ovunque poggio, e che l'industre Anchinia ? che m'affida. Ma con le mani a lui mentre m'appoggio ed ir con seco quinci e quindi bramo, ecco me 'ntoppo in qualche adverso poggio; di che sossopra il carro ed io n'andiamo: quel resta int?gro ed io n'ho rotto 'l naso, e che ritto mi torni Anchinia chiamo. Anchinia mi rileva, e d'ogni caso per le percosse ch'atterrato piglio presta ricorre de l'onguento al vaso. Ed io, ch'oltra 'l dolor esser vermiglio comprendo il lito del mio sangue, invoco lei con la mano posta al pesto ciglio. Ma quella mi risana, ed anco al gioco[113] di quel mio tal destriero mi riduce, in fin che da me stesso, a poco a poco, ir poscia senza il carro ed altro duce.
SESTINA LI CUI CAPIVERSI DICONO QUELLA SENTENZIA: ?CONCORDANTIA — DVRANT — CVNCTA — NATURE — FEDERA?.
URANIA.
C ome 'l primo veloce mobil cielo, O pposto a quei che volgono le stelle, N on li distempra e s? tramuta in foco? C om'? sospesa? e chi sostien la terra? O nde con lei forma ritonda il mare R itien, e mai posando non ha pace? D'una concorde e ragionevol pace[114] A vvinse l'alta causa cielo a cielo, N ? men con pace in maggior cerchio il mare T iensi a la terra, e giran sette stelle I n sette sfere, il cui centro ? la terra, A nti da l'aer cinta e poi dal foco.
D ubbio non ? che 'l mondo o in acqua o 'n foco V err? sommerso, quando la lor pace R otta sar?, per sfare il mar, la terra,[115] A llor che d?' fermarsi il nono cielo N ? pi? rotarsi 'l sol con le sei stelle, T rarsi nel centro de la terra il mare.
C rebbe, fu tempo gi?, su l'alpe il mare; V orar il mondo deve ancor il foco; N on fia perpetuo il giro de le stelle, C he al fin col cielo avran quiete e pace; T ratto gi? il ceppo uman o su nel cielo A starvi sempre, o 'n centro de la terra.
N on t'invaghir dunque, omo de la terra. A nzi contendi (ove di gloria il mare T u lieto solcarai) salir in cielo, U' sempra t'arda l'amoroso fuoco, R iposto d'alma in alma in somma pace, E sotto i piedi ti vedrai le stelle.
F ece l'alto fattor, sopra le stelle E gi? nel pi? profundo de la terra, D ue stanze, l'una detta eterna pace, E l'altra, di perpetuo foco mare. R inchiuso entro la terra, a l'ombre, ? il foco; A l'alme, gioia eterna su nel cielo.
Fe' Dio l'uomo di terra, che 'n le stelle avesse pace; ma chi nacque in mare[116] trallo dal cielo in sempiterno foco.
TRIPERUNO.
Poscia che vide, per Industria ed Arte, Natura finalmente l'uomo in piede correr veloce in questa e 'n quella parte, ed esser l'animale, il qual possede alto saper e di ragion dottrina, che f?ra poi d'eterna vita erede, con lieto e dolce aspetto a me s'inchina, qual mansueta madre che al figliolo prima di sdegno fu cruda e ferina. D'innumerabil figli dentro il stolo da lei fui ricondutto al bel giardino dove altrui vive lieto e senza dolo. Quivi sotto 'l pacifico dom?no ed aurea stagione di Akak?a,[117] vissi gran tempo semplice bambino, fin ch'indi mosso poi, per lunga via, fui ricondutto a ritrovar Alt?a[118] e l'altra donna che 'n nostra bal?a commette ambe le strade e bona e rea.
DE LA PUERIZIA ED AUREA STAGIONE
EUTERPE.
Gi? rinnovella intorno la stagione, ch'eternamente verdeggiar solea prima ch'avesse Astrea[119] gli uomini a sdegno e s? tornasse ai d?i, lasciando in lor quell'altra cos? rea che li arde, mentre Febo alto s'impone al tergo di Leone, o quella che dai monti iperbor?i riporta il gielo a gli afri e nabatei. Or che l'occhio del ciel aggiorna in Tauro, or che 'l fior spunta ove 'l ghiaccio dilegua,[120] or che 'l scita co' l'indo vento tregua[121] fatt'hanno e dato ? in preda il tempo al Mauro, Zefiro torna incolorar i lidi,[122] e i pronti a tesser nidi vaghi augelletti, per lor macchie errando, natura van lodando, c'ha ricondutto cos? lieti giorni, d'aura gentile, d'erbe e fronde adorni. F?rmati, Apollo, pregoti, nel grado, ch'oggi ascendendo e poggi e selve abbelli, e gli aurei tuoi capelli tempratamente spandi a l'universo; onde amorosi, leggiadretti e snelli[123] ne vengon gli animali tutti al vado non d'Istro, Gange o Pado, ma del suo natural obbietto verso, c'ha l'un de l'altro, quand'? 'l ciel pi? terso, verde la terra, il mar tranquillo e piano. F?rmati, Apollo, e 'n s? bel trono sedi, fin che a le mani, al collo, a l'ale, ai piedi del Tempo (egli scamparse a man a mano[124] s'asseta, tant'? vano!) Pirene ed Appennino sian appesi, che non si parta e i mesi porti con seco e l'aura e 'l dolce umore, ch'or monta in ogni foglia, in ogni fiore. L'aureo, gioioso e mansueto aprile, ch'or sparger d'ombre i verdi campi veggio, piacciali eterno seggio qui prender nosco, ch'altri non succeda. Partito lui, si va di mal in peggio;[125] mentre vi spira l'ausura a gentile, Parca non sia, che file umana vita, e Morte a Pluto rieda, sol ombre ove posseda; rinverdasi da s? omai la terra; valete aratri, marre, falci e zappe! non pi? vepri saranno, cardi e lappe. Quella natia vert? che 'n lei si serra, senza ch'altri la sferra, uscendo stessa ci dimostra quanto sia di natura il manto pi? bello senza l'arte e pi? verace,[126] ch'opra di voglia pi? de l'altre piace. Ecco di latte scorreno gi? i fiumi, sudano m?le i faggi, olio li abeti, e su per que' laureti celeste manna ricogliendo vanno le virgin ape; e i rosignoli lieti, c'han d'or' le penne, entro purpurei dumi nidi d'argento e fine perle fanno, securi di rapina o d'altro danno.[127] L'impaventosa lepre lato al cane, l'agnella presso al lupo queta dorme, ch? tutti li animal, gi? in lor conforme, natura tiene in sue medeme tane: securi pesci e rane, questi da lontra, quelle da le biscie: non ? chi strida o fiscie l'un contra l'altro per stracciarsi 'l pelo, ch? l'aurea etade gi? scese dal cielo. Date quiete, posti li aspri giovi, a' vostri armenti omai, duri bifolci, ed a que' fonti dolci lasciateli appressare! n? quel rivo di voi sia alcun che pi? 'l sostegna o folci, n? chi di loco a loco lo rimovi, ch? 'n questi giorni novi non ? di libert? chi venga privo. Cantate anco, pastori, ch? l'estivo e freddo ardore non privar pi? deve di latte od appestar e' vostri greggi! Non pi? clamosi f?ri, non pi? leggi, ch? ci? vita gioiosa non riceve. O giovo dolce e leve a l'uomo ancora, il qual sprezza fortuna,[128] siagli pur chiara o bruna, ch? chi vivendo non fa oltraggio altrui securo di l'aurea stagion ? in lui. E simplicetta e pueril canzone, come richiede il suo stesso soggetto, fu questa mia, dottissime sorelle; di che a voi chiama: — Non son io di quelle che, Urania, scrivi con s? bel soggetto e n'empi il sino e petto ai duo novi Franceschi, l'un ch'agnelli canta, lupi e ruscelli, l'altro del Senator l'alta pazzia! Ma chi fa il suo poter con gli altri stia.
FINISCE LA PRIMA SELVA DEL TRIPERUNO.
DIVVS VATES
OPTIMA QVAEQVE DIES MISERIS MORTALIBVS AEVI
PRIMA FVGIT SVBEVNT MORBI TRISTISQVE SENECTVS
ET LABOR ET DIRAE PARIT INCLEMENTIA MORTIS
SELVA SECONDA
DISTICHON
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe; tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.
HEXASTICHON
Mintiadas inter fulicas mihi sueta phaselus currere, nunc tumidis aequore fertur aquis. Quonam tanta animi fiducia? Nobile sidus adstitit en capiti quae praeit Ursa meo. Ursa potens mundi, firmo quem torquet ab axe, ursa potens pelagi, qua duce nauta canit.
PREFAZIONE
Or pervegnuti siamo al centro confusissimo di questo nostro[129]Caos,
lo quale ritrovasi ne la presente seconda ?selva? di varie maniere
d'arbori, virgulti, spine e pruni mescolatamente ripiena, cio? di prose,
versi senza rime e con rime, latini, macaroneschi, dialoghi, e d'altra
diversitade confusa, ma non anco s? confusa e rammeschiata che,
dovendosi questo Caos con lo 'ntelletto nostro disciogliere, tutti gli
elementi non subitamente sapessero al proprio lor seggio ritornarsi.
TRIPERUNO.
D'errori, sogni, favole, chimere,[130] fantasme, larve un pieno laberinto, ch'un popol infinito, a larghe schiere, assorbe ognora, tien prigione e vinto, voglio sculpir non ne l'antiche cere, non ne le nove carte; anzi depinto di lagrime, sudor, di sangue schietto avrollo in fronte sempre o 'n mezzo 'l petto.
In fronte o 'n mezzo 'l petto, ovunque io perga, terr? qual pellegrino mie fortune; datimi, o muse, una cannuccia o verga, ch'io, scalzo e cinto ai fianchi d'aspra fune, veda come 'l sol esca e poi s'immerga ne l'Oce?no, e come ardendo imbrune qua li eti?pi e l? di neve imbianchi tartari e sciti del bel raggio manchi.
Ma poi che di mia sorte il duro esempio mostrato abbia del mondo in ogni clima, fia cos? noto, appeso in qualche tempio[131] od in polito marmore s'imprima, che chi mirando 'l cos? acerbo ed empio, considri ben qual sia buon calle, prima che l'un d'ambi sentieri d'esta vita si metta entrare a l'ardua salita.
Oh, ben saggio colui che 'l suo dal mio voler avr? diverso ne' prim'anni di nostra s? dubbiosa etade, ch'io volendo scorsi ne' miei stessi danni, travolto in vie s? alpestri dal desio, ch'anco ne porto il viso rotto e' panni, fin che mia sorte, poi che assonto in alto m'ebbe, gi? basso far mi fece un salto!
TRIPERUNO.
D e l'innocente ninfa l'aurea etade,[132] I l bel giardino, le colline, i fonti V annosi omai, ch? 'l tempo invidioso[133] I n un istante quelli s'ingiottisse.
B andito dunque sol per l'altrui fallo, E rrava quinci e quindi ove pur l'alma N atura mi torcea con fidel scorta. E ra quella stagion quando Aquilone,[134] D a l'iperboree cime sibilando, I n vetro i fiumi, in latte cangia i monti; C ?cciomi dentro un bosco tutto solo; T anto vi errai, ch'al fine mi compresi I n le capanne de' pastori giunto.
R iposto s'era Febo drieto un colle, E la sorella con sue fredde corna G i? percotea le selve ed ogni ripa. V ago di riposarmi su lor fronde, L a porta chiusa d'una mandra i' batto: A l sesto e nono cenno fummi aperto.[135]
S tarsene quivi ben rinchiusi e caldi V idi quei pegorari, al foco intorno, B ere acque dolci e pascersi de frutta.
Q ual stato mai per che si sia sublime, V'ha pare al pastoral di contentezza? A ltri di strame rifrescar ed altri M onger vidi gli armenti, altri purgarli.
I ntenti ancor son altri gli agnelletti P ortar di luogo a luogo e ritornarli S otto lor madri, ed altri con virgulti E gionchi acuti tessono sportelle.
M a parte ancora, di pi? verde etade,[136] I ntenti sono a giovenili giochi, L otte, salti diversi e slanzar dardi. I n altra parte s'usan dicer versi, T occar sampogne e contrastar di rime. A ltri, de' pi? attempati, di lor gregge T rattano, s'han pi? spesa che guadagno. V adon e riedon altri, pi? robusti, R icercando le mandre, ove ben spesso V olpe, lupi selvaggi e pi? gli umani S oglion discommodar lor santa pace.
I n ogni lor impresa vanno lieti, A mandosi l'un l'altro con gran fede, M erc? che 'l capo lor sa l'arte a pieno.
I vi raccolto fui nel dolce tanto[137] N umero lor e fatto di sua prole. G i? in mezzo al corso di sua lunga via R otavasi la notte, passo passo: E cco, dal sommo d'una capannella, D ove molti pastori guarda fanno I nsieme al grande armento con lor cani, O desi, dentro una mirabil luce, R esonar canti e dolce melodia.
P orgon l'udita e sentono che — Gloria I n excelsis — dicean i bianchi spirti; E d avvisati dove 'l Salvatore N asciuto giace, l?, con allegrezza T osto da noi partiti, s'avventaro I n quella banda che fu lor mostrata. S ol io ritratto in parte for de gli altri S edevami pensar tal novitade, I n fin che, ritornati, cose orrende, M ai non udite pi?, d'un fanciullino A noi contaron di stupor insani.
E cco, senza far motto alcun ad elli,[138] T utto soletto quinci mi diparto,
E sollevando gli occhi al ciel sereno V idi una stella rutilar fra l'altre, A nti scorgendo sempre il mio sentero, N ? mai fermossi fin che al santo loco G iunto non mi vedesse e poi smarritte; E d una voce ancor dal ciel mi venne, L a qual dicea: — Felice criatura, I o son quella verace e schietta donna C he vai cercando in terra e stommi 'n cielo.[139] A ltea mi chiamo: or entra qui sicuro. —
E poi ch'ebbe parlato, un bel concento S'udiva d'arpe, cetre, plettri e lire. T acendo poscia, fu non so chi disse:
TERSICORE
Or tienti fermo e non girar altrove,[140] o spirto avventuroso, di tal guida; ma cauto va', ch? un lupo non t'uccida, lo quale altrui dal dritto calle smove.
N? da l'antiche leggi, per le nove, sia mai, se non Ies?, che ti divida, lo qual non pur ? saggia scorta e fida, ma via che da vert? non si rimove.
Ben vedi a quanta gloria il ciel ti degna, ch? Dio (qual nome dirsi pu? maggiore?) volse adempir sua legge in tuo conforto.[141]
Egli farsi uomo sol per te non sdegna, e guida tal, che 'n questo uman errore conduceratti di salute in porto.
TRIPERUNO
Io ben intesi di tal voce il s?no; ma, lasso, che servarla fui poi tardo! E so che quanto tuttavia ragiono non vien inteso; ma sotto 'l stendardo de l'Orso grande, ove posto mi sono, spero dir chiaro senza alcun risguardo. Or dunque in una grotta entrai soletto, con passo lento e colmo di sospetto.
Qui la pi? bella, onesta, saggia, umile[142] donna che mai Natura, col sopremo suo sforzo e col di rado usato stile, finger potesse in questo ben terreno, avea sul strame, in loco abbietto e vile (trovavasi al bisogno troppo estremo) riposto un suo nasciuto allor infante, nudo, a la rabbia d'aquilon tremante.
E se d'un bianco e liggiadretto velo, levandosi 'l di testa, non fatt'ella qualche riparo avesse al crudo gelo, pensato avrei che 'l parvolino in quella paglia mancar dovesse, e lui, che 'n cielo volge coi giri soi ciascuna stella, stringesse la stagion orribil: tanto prender gli piacque di miseria il manto!
Con quel contratto volto ed alto ciglio ch'alcuno mira cose strane e nove, stavami prono a contemplar quel figlio, s? di me stesso for, che men del bove,[143] de l'asinelio men, ebbi consiglio di riconoscer lui che 'l tutto move essersi carne fatto, non per boi, non altri bruti, no, ma a servar noi.
Un for di stile e d'uso uman sembiante, una celeste angelica figura di quel nasciuto allor allor infante fu, ch'al veder mi tolse ogni misura. Ch? s'al visibil sol non ? costante, or che al divin potea nostra natura? Bench'era in carne ascoso, pur non pote di fora non aver de le sue note.
Non che 'ntendessi allora la cagione ch'io fussi in quel fanciullo s? conquiso; ma, vinto da non so qual passione, pi? tosto che ritrarmi dal bel viso lasciato avrei non pur le belle e bone[144] cose del mondo, ma anco il paradiso. E finalmente io, sciocco (temo a dirlo!), stetti pi? volte in voglia di rapirlo;
rapirlo meco in parte ove sol io, nutrendol prima, l'adorassi dopo, sperando non mai f?ra ch'altro Dio maggior di lui mi soccorresse a l'uopo; quando che 'l mundo tant'era in oblio, che l'indo, il mauro, il scito e l'eti?po cingevan il gran spazio, ove chi 'l sole, chi 'l mar, chi un sasso, chi 'l suo rege cole.
Ma, forse accorta del pensier mio folle in far tal preda, la pudica donna, levatolo di paglie, s? sel tolle in grembo e 'l ricoperse ne la gonna; ch? esser d'uomo veduta gi? non volle mentre li porge il latte. Poi l'assonna,[145] ed assonnato il bascia, e tornal anco sul strame, a lato un vecchio grave e bianco.
Ma non s? tosto gi? posato l'ave, ch'un giovenetto a lato, in veste bruna, qui sotto entrando porta un grosso trave di ponderosa croce, ed altri d'una colonna carco; e dopo loro grave e longa tratta d'angioli s'aduna intorno del presepio, lagrimosa, ciascun in man avendo una sol cosa:
questo di spine una corona, quello sopra la canna una spongia bibace; chi un chiodo, chi una sferza, chi 'l martello, chi l'asta, chi la fune, chi la face. La donna, quando i vide, in atto bello presto si leva e vereconda tace. Quelli non men di lei onor le fanno, poi taciti al fanciullo intorno stanno
(dorm'egli) in atto di basciarlo mille e mille volte, n? esserne satollo:[146] par che nettar, ambrosia e manna stille da gli occhi soi, dal mento, fronte e collo! Eran le cose in modo allor tranquille, ch'al mondo non sentivi un picciol crollo, come se con la notte l'universo stesse nel sonno, co' l'infante, merso.
Ma dopo alquanto indugio, ecco 'l piccino subitamente non so chi disturba. Egli alza il guardo e vedesi vicino cinger intorno la celeste turba, ch'ognun sta penseroso e 'n terra chino, con quelle orribil armi; onde si turba nel volto il bel sembiante e di spavento piange, tremando come fronda al vento.
S? come al vento foglia, trema e piange, n? 'l viso piega mai da quella croce; e mentre qui si dole, cruccia ed ange, quattro angioletti in lagrimosa voce incomenciar un inno detto il Pange;[147] il qual pensando, ancor m'incende e cuoce de l'amoroso foco, il cui soggetto spezza di fiera non che d'uom un petto.
Non fu gi? pietra in quelle mura (pensi un cor gentil ch'esser dovea la madre!) che non s'intenerisse ai forti intensi gemiti del fanciullo, a le leggiadre rime di que' cantori. Ond'io con densi sospiri m'avvicino al bianco padre, col qual piangendo mi proposi allotta non mai distormi pi? di quella grotta.
Grotta gioiosa, che degnossi 'l cielo partir de le sue cose in mia salute! grotta felice in cui di carne il velo intorno vidi aver l'alta virtute! grotta sal?bre, ove servato il stelo di pudicizia nacque, tra le acute[148] mondane spine, il fior tant'anni occulto, di terra uscito senza umano culto!
Poscia che i quattro spirti bianchi fine poser al Pange lingua gloriosi, quel da la croce, c'ha l'aurato crine, d'avolio il viso e gli occhi s? amorosi, l'ale tessute d'oro e perle fine, dritto si leva in piedi con ritrosi guardi ver' me, stendendo la man destra, e la croce sostien con la sinestra.
GENIO
Uomo, animale — disse — fra gli altri solo de la ragione capace, che de
gli eterni piaceri con meco sei ad essere felicissimo consorte (non gi?
perch? n? tu n? di tua natura alcuno giammai facesse impresa veruna per
la cui dignitade ci? guadagnar si potesse, ma l'infinita d'Iddio bontade
cos? a dover avvenire nel principio dispose); or odi quale e quanta
verso voi uomini sia stata di lui la benevolenzia. Lo quale, da l'antico
legame di perdizione per scatenarvi, gi? non sofferse aver a schivo se
istesso condennare ad essere un simile vostro di carne, una vittima, un
sacrificio, un miserabilissimo spettacolo, dovendosi egli sottomettere a
la severa legge, di lei non pur conditore ma distretto[149] osservatore,
mostrandovi, con esempio prima e con dottrina poi, per quanto piacevole
sentiero ciascuno di voi, le sue vestigia seguendo, potrebbe al lume di
verit? pervenire. Da la quale, per l'infiata soperbia de gli ignoranti
dottori e saviezza mondana, tutti[150] omai s?te miserabilmente sotto
l'empia potestade d'un tiranno traboccati, lo quale sepolti, non che
imprigionati, nel puzzo d'ogni scelleraggine sin ad ora v'ha ritardati.
Vedi tu cotesto bellissimo fanciullino, questa leggiadretta sopra ogni
altra criatura? questo uomo di spirto e carne test? nasciuto? Lo quale
so che ti pare soave tanto, che gi? di non voler indi partire tu ti sei
fermamente deliberato. Se io, che sol spirito sono, cos? fussi agevole
di ragionar la lui potenzia, la lui maiestade, la lui smisurata
benignitade, come tu, uomo carnale, manco idonio sei ad ascoltare,
potrei quivi acconciatamente dar principio. Ma debilissima ? pur[151]
troppo de noi angioli la natura, e vieppi? la vostra umana, in
comparazione di quella profundissima, incomprensibile e impenetrevole
divina. Dilch? sciocchi e presontuosi furono pur troppo alquanti
dottori, che cos? leggermente a tal cosa isperimentare si sono
abbandonati.
Ora dunque saperai prima qualmente la intelligenzia del Sempiterno
Padre, la quale noi similemente ?prima sapienza e divino sermone? con
grandissimo tremore nominamo, tanto di vostra salute le calse, tanto
l'incommutabil sua natura si commosse verso di voi a pietade, che non
me, non alcun altro di angelica stirpe si elesse per vostro redentore e
de l'inferno distruggitore, ma da se medema, volendo oggimai la
divinitade sua con la umanitade vostra conciliare, discese occultamente
da l'empireo nostro in questo vostro passibile stato, constituendosi ad
essere con essi voi fratello, compagno e servitore; quando che non volse
il benignissimo figliuolo vestirsi la forma d'alcun potente signore, ma
ben gli piacque con perfettissima umilitade sottoporsi a vile servitude
per confutare l'alterigia de' sapienti mondani. Eccolo quivi d'una
polcella, mediantovi la vert? del Spirito Santo, poverissimamente
nasciuto. Dimmi, uomo, dimmi, animal di ragione, qual umiltade di
cotesta maggiore potriasi unqua imaginare? P?ronti forse quelli duo
animaluzzi vilissimi, fra li quali sul feno lor egli giace, convengano a
la omnipotenzia di sua profundissima maiestade? parti ch'un diversorio
immondo, un presepio de bovi, la diroccata stanza, lo notturno
pellegrinaggio, la freddissima stagione siano al divino trono, a la
celeste beatitudine, a le ierarchie d'infiniti spiriti convenevoli e
corrispondenti? parti che questa diminutezza d'un infante a la grandezza
del criatore e fondatore de l'universo s'adegui? Ma quanto pi? di
maraviglia prenderai tu, se mai fia tempo che l'instrumenti orribili, li
quali con questa croce intorno a lui miri essere portati, tu veda
crudelmente adoperati ne la innocentissima sua persona! O gran fortezza
di pietade, la quale puote l'altissima giustizia[152] cos? piegare, che
'l padre, per riscotere il servo, traditte l'unico figliuolo, che avesse
ad essere tra gli suoi domestichi un bersaglio di mille onte, ingiurie,
bestemmie, derisioni, contumelie, scorni, guanciate, battiture,
flagelli, sputi, lanciate e finalmente un vituperoso spettacolo, tra li
doi scellerati, su la contumeliosa croce inchiavato! O affocato amore, o
benivolenzia verso noi uomini ardentissima! Iddio fassi omo per te
salvar, o uomo: offende s?, difende te; ancide s?, vivifica te! O
mansuetissimo agnello! Vedi, vedilo l?, uomo, vedi lo tuo salvatore,
vedi la via, la veritade, vedi come lagrimoso dal presepio ti mira e
guata, vedi come gestisse d'abbracciarti in foggia di caro germano! Egli
ben sa che per te, uomo, solo in questa miseria fu dal Padre mandato,
discese in terra per guidarti al cielo, s'ha fatto famiglio per
costituirti signore! Or dunque chi render? mai guiderdone a tanto[153]
beneficio eguale? qual grazie, qual lode a tanto premio? fia forse di
oro, di gemme, di porpora, di altri beni temporali cotesto premio? anzi
del preciosissimo suo sangue. Con questo ti laver?, ti monder? de le
peccata, de le tante scelleraggini; con questo ti pascer? e nudrir?,
lasciandotilo, con la carne sua propria, ad essere tuo cibo di vita
eterna. Sfattene dunque, uomo, nel santo proposito in cui test?
amorosamente ti ritrovi; e quando pur sotto 'l gravissimo peso di questa
tua carne avverr? che ne trabocchi, l?vati presto, chiama dal ciel
aiuto, non ti addossar in terra, non vi far le radici. L'abito solo ?
quella peste, quel morbo se non per grandissima misericordia d'Iddio
sanabile, quell'inferno d'ignoranzia, quel laberinto d'errori, ove
dubito non sii finalmente per tua inavvertenzia dal sfrenato desio
tirato.
TRIPERUNO
Finitte appena l'angelo divino questo sermone, che quattro de gli pi?
vaghi angioletti cantando cos? dolcemente incomenciaro:
Un aspro cuor, un'empia e cruda voglia, una durezza, impresa gi? molt'anni, se altrui depor contende, non s'affanni sperar ch'altri ch'Iddio mai vi 'l distoglia.
E s'uomo stesso il fa, dite che spoglia non riport?r tirannide tiranni di questa mai pi? bella e che pi? appanni ogn'altra gloria, ch'uomo al mondo invoglia.
Ma il ciel di stelle e d'acque il mar fia manco,[154] qualor accaschi in uomo tanta forza, ch'ei vecchio stile da s? levi unquanco.
Per? convien ch'al bon Ies? si torza, merc? attendendo, ed anco il prieghi ed anco, fin che qual serpe l?sciavi la scorza.
TRIPERUNO
V enuti al fine de l'orribil metro E ran li cantator empirei, quando R uppesi un s?no fuor de la capanna, U n s?no di percosse e battiture M eschiate con minacce ed altri gridi.
I n quell'instante (ah mio crudel destino!) G iunsevi un altro frettoloso genio N on senza gran spavento, e disse: — Or presto A ffrettati, Iosefo, prendi 'l figlio: T u, con la madre sua, scampa in Egitto; I nsta gi? 'l tempo ch'un fier mercenaro I nsanguinar si vol di questo agnello.[155]
F ra gli pastori ha ricondotto d'empii L upi cotanta rabbia, che gli agnelli O morti verran tutti o lacerati. R isse, discordie, gare, aspri litigi[156] E sser fra lor non odi ancor diffora? N on pi? dramma d'amor, non pi? di pace T ra quelli omai si trova; di che scampa I n altre bande ove gi? nacque M?se. N ? quindi fa' ti parti, fin che a tempo I o venga darti avviso del ritorno. —
T aciuto ch'ebbe il nunzio, vidi gli altri A ngioli su le penne al ciel salire,[157] N ? pur un solo a dietro vi rimane: T anto le liti, le contese e zuffe A la corte d'Iddio son odiose!
— A rme, arme! — cos? chiaman tuttavia; M a stavami sol io ne l'antro ascoso, B attendomi gran t?ma sempre il cuore. I n su quel punto similmente un'atra T empesta, con gran vento e spessi lampi, I ncomenci? tonando farsi udire O ve 'l contrasto cresce ognor pi? acerbo.[158]
V inse una parte finalmente, e l'altra[159] T rassesi ne la grotta per suo scampo.
I o mi discopro e la cagion di tanta L ite fra loro cerco di sapere. — L asso! — rispose un vecchio — non m'accorsi A vvolto in un agnello esser un lupo!
LAMENTO DI CORNAGIANNI
P iangeti meco, voi fiere selvatiche, V oi sassi alpestri, voi monti precipiti, R ipe, virgulti e stipiti: I es? da noi si parte, ch? le pratiche T rovate fra pastori tanto crebbero, A im?! ch'al fin non ebbero S e non forza di far le gregge erratiche.
A hi mercenaro e lupo insaziabile,[160] N ato d'inganno e mantellata insidia! I n cui tanta perfidia M ai puote luogo aver? O incommutabile, O giustissimo Dio, perch? non subito R isguardi a noi? deh! dubito V ani sian nostri prieghi, ch? stoltizia M aggior non ? s'un reo chiede giustizia.
TRIPERUNO
P arlava il vecchio lacrimando forte, E poi le labbra cos? chiuse, ch'egli N on mai pi? volse aprirle; ma co' gli occhi I n un parete fissi, geme e piagne T anto che fece l'ultimo sospiro. — V attine al ciel, alma d'ogni ben carca! — S'ud? una voce dir — vanne felice! —
C os? di que' pastori giacque il padre, O rbato d'esta vita, ma in ciel suso R apito a l'altra; e l'empio mercenaro R imase de gli armenti possessore, V olgendo e' be' costumi de gli antichi[161] P astori audacemente in frode e furti, T anto che le sampogne e dolci rime A ndati sonsi e d'arme sol si parla.
D eposto dunque fu lo gran pastore E ntro d'un cavo sasso; e a quello sopra, C armi leggiadri e rime di gran s?no I nscritte f?rno da pastori e ninfe. D ond'io piangendo ancor questi vi posi:
TUMULO DEL CORNAGIANNI
?E cco, del monte congrega — ci? nella R uppe — gran pianto pel suo cor Narciso. I l fior anti no fu sua morte fella?. T al fu 'l mio verso, ma, per t?ma, scuro.
TRIPERUNO
Io da' pastori alquanto dilungato, con quali esser mai giunto ancor mi dole, d'un monticello in largo e verde prato mi porto, gi?, fra rose, gigli e viole; poi dentro ad un antico bosco entrato, tanto vi errai che sul montar del sole si m'appresenta un'ampio e bel palaccio: cerco l'entrata e presto vi mi caccio.
N?ve cose giammai non anti viste veggio fra quelle mura in un vallone,[162] di urtiche, vepri, spine e lappe miste densato s?, che mai non vi si pone piede senza lacciarlo a l'erbe triste, e farsi, o voglia o no, di lor prigione; ma s? mi preme l'ira d'una donna, ch'io scampo e lascio a squarzi la mia gonna.
Perocch?, ne l'entrar, quella soperba,[163] pallida in volto, magra e macilente, con voce alt?ra minacciante acerba seguivami gridando: — Mai vincente uomo non fia, se l'animo non serba a' miei flagelli forte e paziente! — Io allor m'offersi al suo comando, e presto scorro di qua di l?, n? unqua m'arresto.
Dov'ir mi deggia segno non appare di bestial non che d'uman vestigio: di che sovente fammi traboccare de panni co' miei passi gran litigio, fin tanto che, sul lido accosto il mare giunto, m'assisi stanco a gran servigio di nostra fragil vita, e poi mi levo, e del cammin doppio pensier ricevo.
Se al dritto o manco viaggio me ne vada non so, ch? n?ve m'eran le contrate. Ma, tra ambi doi mentre 'l voler abbada, ecco a le spalle, co' le labbra infiate di sdegno, m'? la donna tutta fiada quanto mai fusse nuda di pietate. — Tu v?i pur anco — dice — chi t'accolga, rubaldo, e ne' capei le man t'involga! —
Io, dal spavento pi? che mai commosso, lungo la manca spiaggia formo e stampo miei passi, lor frettando quant'i' puosso, sin che dal suo furor mi fuggo e scampo. Cos? infelice non pi? aver riposso giammai vi spero; e d'uno in altro campo, qual timidetta lepre, uscendo, un fosco antro di spine trovo e vi me 'mbosco.
Ma ne l'entrar (ah quanta mia sventura!), ecco si mi raffronta un uomo strano, anzi doi, sgiunti fin a la cintura: pi? mostro assai che finto non fu Giano o Proteo falsator di sua figura; tal anco ? scritto Castor e 'l germano, ch? sol due gambe quel corporeo peso di duo persone tengono sospeso.
Ei, quando avanti lui giunto mi vide, scosse le membra e tutte si li ruppe. Stupido, il guardo ch'ei digrigna e ride e par che 'n altri volti s'avviluppe. I non era n? Teseo n? anco Alcide o chi nel ventre il gran Piton disruppe,[164] che fronteggiar bastassi un mostro tale; onde spiegai pur anco al corso l'ale.
Per un sentier (sol un sentiero v'era) sferzo me stesso, e gran t?ma mi punge. Ma poi che da l'incerta e 'nstabil fiera esser mi vidi al trar d'un arco lunge, fermo mi volgo; ed egli, sua primera[165] forma cangiando, in doi corpi si sgiunge: questo di donna, vago, pronto, ameno; quel d'un formoso e bianco palafreno.
Oh qual mi feci a l'apparir di loro s? grata vista e dolce leggiadria! Mill'altre prime facce assai mi f?ro moleste in cui cangiato egli s'avia, ch? n? orso n? leon n? pardo o toro n? cervo n? animal chi chi si sia, gradir mi puote, anzi mi fe' spavento: di questi doi sol ne restai contento.
Ella, succinta in abito gentile,[166] tra fiori a l'aura si rendea pi? degna. Vidi anco intorno lei (s? 'l feminile aspetto valse) con lor verde insegna, stesi per l'erbe e fronde, Marzo e Aprile la terra far d'assai colori pregna, e su per folte macchie lieti e snelli facean cantando errar diversi augelli.
Pi? bello, altero, candido e vivace[167] nullo animal di questo vidi mai; tanto mi piacque allora, che 'l fugace e timido desio presto frenai, volgendol tutto ove sperava pace in duo begli occhi, anzi potenti rai, ch'umilemente alzati sol d'un cenno quanto temea davanti obliar mi fenno.
Tratto dal mio voler gi? torno in dietro e di mai non partirmi da lei bramo. Ella quel bel destrier c'ha 'l fren di vetro ? gi? salita, e d'un frondoso ramo di mirto il tocca e contra un folto e tetro bosco lo caccia. Io che pur troppo l'amo, correndo a tergo, me ne doglio e strazio, e luntanato son da lei gran spazio.
Per un sentier, colmo di t?sco e f?l va battendo sempre il palafren da tergo, tanto che sc?rse ne l'oscura selva e mi si tol di vista; ond'io sol m'ergo de l'orme ai segni (ch? si vaga belva[168] perder non voglio), e tutto mi sommergo, non, pur d'averla, ne le insane voglie, ma ne' intricati rami, sterpi e foglie.
Tanto durai nel corso a quella traccia, ch'al fin del bosco, fra tre alte colonne, la via par che 'n duo branchi vi si faccia, qual oggi e' greci fingon l'ipsilonne; di che dubbio pensier l'andar m'impaccia, fin ch'una turba di polite donne[169] mi f?r in cerco, e losingando parte di loro a manca man mi tranne ad arte.
Quivi d'accorte e ladre parolette foggia non ? che non mi circonvenga; ma l'altra parte di luntano stette pensando in quale guisa mi sovvenga. Io, che fra tanto sono entro le strette d'abbracciamenti e garrula losenga, irmene al manco viaggio mi delibro;[170] ma donna mi viet?, c'ha in man un cribro.
Un cribro in mano la dongella tiene, d'acqua ripieno, e goccia non si versa, che di la turma luntanata viene, gridando forte: — Non far, alma persa, non far; se 'l fai, tu sol n'avrai le pene, ch? non sai quella via quant'? perversa. Ma qui piuttosto volge a la man destra, che da l'errante volgo altrui sequestra. —
A la cui voce gi? lo entrato piede[171] ritrassi al modo di chi un serpe calca. — Deh! saggia ninfa, dimmi per mercede, — risposi a lei — dove 'l mio ben cavalca? Perch? fra voi questo altercar procede? perch? tanto di tempo mi diffalca? Quella sen fugge e tuttavia non cessa, onde non spero mai pi? veder essa.
— Lascila gir — diss'ella, — ch? la truce[172] e pestilente donna, tuo malgrado, de l'improba Fortuna ti conduce al seggio incerto ed a l'instabil guado. Ma se tu segui me, ti sar? duce nel destro calle, ove di grado in grado montando, e non col volo di fortuna, vedrai quel ben che 'n s? vert? raguna.
Or viemmi dopo, ch? su l'alte cime di sapienza trovarai l'ascesa. Fuggi costoro, perch? al fin de l'ime valli d'errore mostran la discesa. — Allor io per costei lascio le prime e seco me ne vo; ma gran contesa ecco nascer fra l'una e l'altra turba, che 'l mar, la terra e sin al ciel disturba.
E prima di parole tanta rabbia si sullev? tra quelle donne e queste, che non bast? menar con scura labbia la lingua e denti, ma l'ornate teste[173] vengon a scapigliarsi, e su la sabbia gi? molte veggio, per l'orrende peste de' calci e pugna, traboccar avvolte. Ma presto vien chi via l'ebbe distolte.
Ch? a l'apparir di donna antica e grave[174] tosto la pugna fu da lor divisa: chi si racconcia il sino e chi le flave chiome si annoda e chi di dar sta in guisa. Ma la matrona con parlar soave voltossi a me dicendo: — Qui s'avvisa per me qual porta entrar deve chi brama o quinci o quindi racquistarsi fama.
Quinci Vert?, quindi Fortuna alloggia, i' ti l'ho detto: va', ch'ambo le porte[175] ti mostro aperte. — E detto ci?, s'appoggia sul petto il viso di Vertute e sorte fra le colonne. Ed io ne stava in foggia di chi non sa de le dua porte apporte quale si prenda, s'una prender deve; e mentre dubbia, gran duolo riceve.
La destra via mi elessi finalmente: cos? movea di Nursia il saggio spirto. Ma le sinistre donne, triste e lente, trasser a l'ombra insieme d'un suo mirto. Quivi tra loro un lupo immantenente comparse (onde non so) minace ed irto, del quale una di lor, se ben rimembro, svelse sdegnando il genitale membro.
Poscia chi per il pi?, chi per l'orecchia lo tranno a terra gi? quelle fanciulle, mentre l'altare e 'l foco una apparecchia. Ciascuna par che 'n quello si trastulle svenarlo, e qui s'accoglie e si sorbecchia tanto del sangue suo, che 'n tante mulle[176] le vidi esser cangiate a me davante, e 'l foco stesso le arse tutte quante.
E 'l mirto similmente in altra forma mutarse vidi, ch'ogni suo rampollo contrasse al tronco dentro, e si trasforma in bella donna, e gambe e braccia e collo; e 'l lupo, il qual sul lido par che dorma, prende a l'orecchia, e dritto sullevollo, cangiato omai di lupo in un destrero: s?ltavi addosso e sgombra via 'l sentiero.
Io la conobbi, aim?! nel sguardo acuto, acuto s?, ch'anco smovermi puote dal bel proposto e farmi sordo e muto a le preghiere d'ogni effetto v?te de l'altre donne; anzi mi faccio un scuto[177] d'infamia contra il ben che mi percuote, e gridami nel capo, mi urta ed ange, ma nulla fa, ch? 'l suo voler si frange.
Onde le donne insieme neghittose, poi ch'e' soi prieghi gittaron a l'aura, in un pratel de gigli, viole e rose, sott'ombra de la petrarchesca Laura, stetter in cerchio contra me sdegnose; ed un quadrato altare qui s'instaura, sul qual, mentr'arde un tenero licorno, ivan quelle piangendo intorno intorno.
Io pur, quantunque l'ascoltassi invito, la fin volsi veder del sacrificio, ch'un nuvol bianco su dal ciel partito s? mi l'ascose, e per divin giudicio tal tono seco fu, che tutto 'l lito trem? d'intorno, e sparve lo edificio, le donne, la matrona e 'l nuvol anco, restando pur la via del lato manco.
Stavami, su quel punto che la terra tutta trem?, non men for di me stesso che 'l viandante, il quale mentre ch'erra cercando un tetto, perch? un nimbo spesso li tona in capo, il fulmine si sferra dal ciel gridando e piantasigli appresso, ch? un'alta pioppa in sua presenzia tocca e tutta in foco e fumo la dirocca.
— Non temer d'alcun ciel che ti minaccia, ch? bella botta non mai colse augello! — [178] A cotal voce rivoltai la faccia, ed ecco un uomo lieto, grasso e bello mi sovraggiunge e stretto a s? m'abbraccia. S'io gli fussi figliol, padre o fratello, io l'addimando vergognosamente. Chi fusse, egli rispose immantenente.
LA CAROSSA
MERLINUS COCAIUS
Ille ego qui quondam formaio plenus et ovis quique, botirivoro stipans ventrone lasagnas, arma valenthominis cantavi horrentia Baldi, quo non Hectorior, quo non Orlandior alter, grandisonam cuius famam nomenque gaiardum terra tremit baratrumque metu se cagat adossum, at nunc Tortelii egressus gymnasia, postquam tanta menestrarum smaltita est copia. Baldi gesta maronisono cantemus digna stivallo. Huc, Zoppine pater, tua si tibi chiachiara curae,[179] si tua calcatim veneti ad pillastra Samarchi trat lyra menchiones bezzosque ad carmen inescat, huc mihi cordicinam iuncta cum voce rubebam flecte soporantem stantes in littore barcas, ut dorsicurvos olim delphinas Arion. Tuque, Comina, tene guidam temonis, et issa issa, Pedrala, mihi ad ghebbam tuque alta sonantem ad cighignolam velamina pande levanto, Berta, grego, postquam salpata est ?ncora fundo. Non ad muscipares voltanda est orza canellos, non ad fangosas ladrorum daccia Bebbas, Bebbas, cui nomen tum splenduit, aequore postquam Cingar anegavit pegoras, saltantibus illis una post aliam, nullo aiutante Tesino, dumque trabuccabant, ?b? b?? sonuere frequenter: hinc Bebbas dixere patres, quod nomen ad astra surgitur, et lunge soravanzat honore Popozzas. Non mihi Fornaces per stagna viazus ad udas, perque Padi gremium ad Stellatam Figaque rolum undantem contra et retro cava ligna ferentem, seu sit Bondeni seu sit mage Francolini piatta, vel Argentae, vel burchius Sermidos audax. Bramai Alixandrae portus mea barca tenere.
NARRATIO
Thebanis fabrefacta viris, antiquior altris urbibus Italiae, dum Mantua rege sub uno, nomine Gaioffo, quasi iam dispersa gemebat, viderat in somnis venientem a Marte baronem mozzantemque caput Gaioffo, seque gridantem libertatem urbi et populo praestasse vetusto. Hinc aliquod confortum animi conceperat illa speranzamque omnem Baldi ficcaverat armis. Non erat huic toto quisquam affrontandus in orbe forcibus aut potius destrezza corporis ipsa. Nil illum (tanta est hominis baldanza gaiardi!) arma spaventabant, nil coelum, nilque diavol. Vir iuste membrosus erat, mediocriter altus, largus in expassis relevato pectore spallis, at brevis angustos stringit centura fiancos; nerviger in gambis, pede parvus, cruribus acer; rectus in andatu, levibus qui passibus ipso vix sabione suas poterat signare pedattas. Aurea iungebat faciei barba decorem, vivacesque oculos huc illuc alta rotabat frons, quae spaventat quando est turbata diablos, sed ridens noctemque fugat giornumque reducit; spadazzam laevo semper gallone cadentem portabat, guantumque presae mortisque daghettam. Saltando legiadrus erat, qui pleniter armis indutus montabat equum sine tangere staffam. Ipse gubernabat terram, quam diximus olim nomine Cipadam, gentemque illius habebat ad cennum prontamque armis habilemque bataiae. Praecipuos hinc tres elegerat ille sodales, quorum Cingar erat strictissimus alter Acates. Is veterem duxit Margutti a sanguine razzam, qui risu, quondam simia cagante, crepavit. At Cingar trincatus erat truffator in arte Cingaris, aut vecchium segato dente cavallum per iuvenem vendens, aut bolsum fraude barattans. Scarnus in aspectu, reliquo sed corpore nervis plenus erat nudusque caput rizzusque capillos. At sassinandi poltronam exercuit artem, in machiis quandoque latens mala guida viarum, namque viandantes ad boscos arte tirabat spoiabatque illos, sibi nec restante camisa. Sacchellam semper noctu post terga ferebat, sgaraboldellis plenam surdisque tenais; is mercadantum reserabat saepe botegas compagnosque ipsos pannis finoque veluto tornabat caricos ad ladrorum antra Cypadam, officioque boni compagni, quisquis aiuttum porrexisset ei, tolta sibi parte botini ibat contentus. Precibus sed denique Baldi destitit, et savius forcam lazzumque soghetti scansavit, iam iam illorum compresus ab orma. Huic tanto coniunctus erat Falchettus amore (Falchettus qui ortum Pulicani ab origine traxit), quod sine Falchetto poterat nec vivere Cingar, nec Falchettus idem faciens sine Cingare vixit. Non fuit in toto cursor velocior orbe, namque erat a cerebro ad cinturam corporis usque semivir, et restum corsi canis instar habebat. Hic cervos agilesque capras leporesque fugaces captabat manibus saltuque (stupibile dictu!), saepe grues tardas se ad volum tollere coepit. Multi illum reges, reginae, papa, papessae ducere tentabant, donantes munera, secum. At ille, incagans papae regumque parolis, cum Baldo semper dormit mangiatque bibitque. Inde gigantonem Fracassum Baldus amabat, progenies cuius Morganto advenit ab illo, qui iam suetus erat campanae ferre bataium. Huius longa fuit cubitos statura quaranta, grossilitate stari aequabat sua testa misuram, andassetque trimus per buccam manzus apertam; in spatio frontis potuisses ludere dadis auriculisque suis fecisses octo stivallos; spallazzas habuit largas, schenamque decentem ferre boves carrumque simul pesosque ducentos; arripiens quandoque bovem per cornua grassum ad centum passus balzabat, more quadrelli. Marmoreos etenim pillastros atque columnas tergore gestabat, nulla straccante fadiga; streppabat digitis quercus stabilesque cipressos, ac si fortificam foderet tellure cipollam. Castronem mediumque bovem denasque menestras, trenta simul panes coena mangiabat in una. Tanto ibat strepitu, libras ter mille pesoccus, tota sub ipsius pedibus quod terra tremebat. At viltatis homo crudeltatisque minister,[180] Gaioffus, Baldum Baldique timebat amicos. Imperii zelosus erat, noctesque diesque masinat in cerebro, lambiccat, fabricat altos a?re castellos, velut est usanza tiranni, suspectumque super Baldum plantaverat omnem. At quia grandilitas animi generosaque virtus tum gratum patribus tum plebi fecerat illum, stat regno metuens, ut vulpes vecchia quietus. Verum mille modos fingit groppatque casones,[181] summittitque homines falsos, nugasque silenter seminat in populo; Baldi bona fama, gradatim malmenata, fluit, iam facta infamia crescit bacchaturque omnem coelo montata per urbem, deque viro illustri canto straparlat in omni, quod ladronus erat, quod fur, quod mille diablos corpore gestabat, quod forcas mille merebat.[182] Hinc nactus causam patres Gaioffus adunat, conseiumque facit, pensans comprendere Baldum, mittaturve suo capiti firmissima taia. Maxima patricii generis convenerat illuc squadra, repossato disponens cuncta vedero. Est locus in quadro, ?salam? dixere moderni, bancarum populique capax sibi iura petentis: illius ad frontem, inter multa sedilia patrum, aurea Gaioffi solio est errecta levato scrannea, spadiferis semper circumdata bravis. Hic sedet ille, minax vultu sitiensque cruoris. Non delatores unquam longantur ab illo, non giottonorum bardassarumque potentum copia, non ladri, furfantes mille, parati condonare suam minimo quadrante balottam. Inter eos garrit centum discordia linguis, minibus et zanzis populi complentur orecchiae, semper ut offendant proni referuntque per urbem ambassarias, quibus arma repente menantur. Ergo ubi nobilium cumulata caterva resedit claudunturque fores plebisque canaia recedit, imperat annutu prius ille silentia dextrae, talia dehinc solio parlans commenzat ab alto:
ORATIO
Vos, Domini patriaeque patres circumque sedentes consiliatores, qui nostrae ad iussa bachettae praesentati estis, causamque modumque sietis quare ad campanae bottos huc traximus omnes.[183] Quippe (diu nostis) vestra non absque saputa omnia semper ego dispono, tracto, ministro, non quia me pactus vel lex magis obliget ulla, verum solus amor vestri et dilectio regis, id quod amicitiae, tamquam sit iuris, adoprat. Hactenus insimulans tacui, grossumque magonem pectore nutrivi, saepe ut prudentia reges expetit; at, vobis veluti experientia monstrat, tegnosum fecit mater pietosa fiolum. Nostis enim pridem quae, quanta et qualia Baldi sint probra, nec modus est in furtis atque rapinis. Incoepit postquam aetatem intrare virilem, incoepit secum mariolos ducere bravos, quos ?mangiaferros? vocitant ?taiaque pilastros?, aut ?taiaborsas? melius quis dicere posset. Non fuit in mundo giottonior alter, et ipsum rex ego sustineam? patiar? fruiturque ribaldus sic bontate mea? quid non pro pace meorum cittadinorum tolero, postquam improbus iste urbis in excidium, novus ut Catilina, pependit? Nostra illum patres patientia longa ribaldum[184] fecit, ut in ladris non sit ladronior alter. Quid me vosque simul bertezat, soiat, agabbat? ad quam perveniet sua tandem audacia finem? non illum facies tanta gravitudine vestrae maiestasque mei removent, non guardia noctis, non sbirri zaffique simul, non mille diavoi spaventat, tanta est hominis petulantia ladri! An sentit coelo, terrae baratroque patere iam caedes gladiosque suos? an contrahit omnem, quae sassinorum semper fuit arca, Cipadam, ut cives populumque meum gens illa trucidet? illa, inquam, gens nata urbem pro struggere nostram? Quis, rogo, scoppatur nostrae sub lege cadreghae, quisve tenaiatur mediaque in fronte bolatur, berlinaeque provat scornum forcaeque soghettum, ni Baldi comes et villae mala schiatta Cipadae? doctoratur ibi robbandi vulgus in arte,[185] estque scholarorum Baldo data cura magistro. Hinc docti iuvenes sub praeceptore galanto blasphemare Deum variis didicere loquelis; mox sibi boscorum ladri domicilia quaerunt, expediuntque manus furtis stradasque traversant, assaltant homines, amazzant inque paludes omnia spoiatos buttant pascuntque ranocchios. Quum simul albergant, squadraque serantur in una mille cruentosas roncas teretesque zanettas, spuntonesque, alebardas, quae sunt arma diabli, dantque focum schioppis, tuf taf resonante balotta. Semper habent foedas barbazzas pulvere, semper cagnescos oculos nigra sub fronte revolvunt. Protinus ad cifolum se intendunt esse propinquum quem faciant robbas pariterque relinquere vitam. Praesidet his ergo Baldus caporalis, ab ipso tot mala dependent: Baldo cessante, quid ultra mercator timeat? quid gens peregrina? quid urbs haec? Ad caput, o patres, est ad caput ensis habendus, membra nihil possunt quum spallis testa levatur: frange caput serpae, non amplius illa menazzat! Dixi: nunc vero quaenam sententia vestra est expecto, ut cunctis sit larga licentia fandi.
Dixerat, et sdegnum premere alto in pectore fingit. Confremuere omnes, aut quae contraria Baldo pars erat, aut vafri quos longa oratio regis spinserat in coleram, tollentesque ora manusque, iustitiam clamant: — Quid adhuc mala bestia vivit, quid nisi iacturas, homicidia, furta, rapinas, o rex, a ladro poterit sperarier unquam? picchentur fures, brusetur villa Cipadae, ipseque squartatus reliquis exempla ribaldis praestet, amorbator coeli terraeque marisque! — Tum vero ingemuit strictis pars altera buccis compescens digito, Gaioffo adstante, labellum. At Gonzaga pater, quo non audentior alter iustitiae in partes et linguae et robore spadae, omnium ut aspexit vultus firmarier in se, stat morulam, dehinc quantus erat de sede levatus apparet, solvitque ingentem ad dicere linguam:
RESPONSIO
Inclyte rex, regisque viri, vosque urbis honori instantes proceres, quamvis locus iste soluta labra petat laxasque velit sine vindice linguas, attamen, aut iure hoc aut quadam lege rasonis, quam natura docet, ne me angat culpa tacendi, incipiam. Baldi animum Baldique valorem, Baldi consilium novi a puerilibus omne. Ingenium est homini, quum prima aetate tenellus luxuriat, facili scelerum se inferre camino, si incustoditus fuerit nulloque magistro: cursitat huc illuc, ceu fert ignara voluntas. At puer ingenuus, quamvis retinacula brenae non tulit, illecebras seguitans, si forte virum quem maturum semel audierit leviterque monentem[186] principio, ne virga nimis tenerina, potenti contrectata manu, media spezzetur in opra, deposita sensim patitur feritate doceri, seque hominem monstrat, quem humana modestia tantum retrahit a vitio iurisque in glutine firmat. Cernimus indomitos plaustro succumbere tauros, quorum duriciem removet destrezza biolchi; semper idem saeviret equus cozzone carente, nec venit ad pugnum sparaverius absque polastro. Ne, rogo, conscripti patres (id forsitan unquam rex sensit), pigeat miras audire prodezzas quum fanciullus erat Baldus baculumque sbriabat. Gallicus, ut fama est, e Franzae partibus olim in Lombardiae, gravida cum uxore, pa?sum straccus arivavit, nostramque hanc ductus ad urbem albergavit agro tantum una nocte Cipadae, donec ibi gravidata uxor sub fine laboris ederet infantem, qua Baldus prodiit iste, qui nascens oculos (veluti dixere comadres huic circumstantes) coelo tendebat apertos, quem nemo, ut mos est infantum, flere notavit. Hinc vox e summo fuit ascoltata solaro: — Nascere macte, puer, cui coelum, terra fretumque ac elementa dabunt tot afannos totque malhoras; non terrae sat erit centum superare travaios, ense viam faciens inter densissima tela, verum quam citius pelago tu intrare parabis, cinctus ab undosis montagnis nocte dieque fortunae ingentis patiere tonitrua, ventos, fulmina, corsaros ac centum mille diablos. Sed tandem, haud dubites, gaiarditer omnia vinces. Vocis ad hunc sonitum, mater meschina, vel ipso supplicio partus vel sic pirlamina fusi finierant Parcae, puerum pariterque fiatum sborravit: puerum vulva, pulmone fiatum. Vos meditate suo qualis tunc doia marito ingruit, ut mortam uxorem natumque puellum ante oculos proprios tractu sibi vidit in uno! Ergo infantillum villano tradidit uni, mox abiit tacitus nec post apparuit unquam. Nescitur, fateor, qui sit, verum alta gaiardi forcia si Baldi, si animi prudentia, si frons[187] gentilesca alacris, si tandem forma notatur, non nisi fortis erat, prudens, gentilis et acer formosusque pater, licet huic sors aspra fuisset, namque bonum semper fructum bona parturit arbor. Interea villanus (adhuc cum coniuge vivit) infantem ad gesiam causa baptismatis affert. Quem dum pretus aqua signat, terque ore gudazzum compadrumque rogat quod debet nomen habere, en quoque ter facta est summo responsio templo: — Baldum, vos Baldum fantino imponite nomen! — Constupuere omnes: devenit murmur ad urbem, hic testes centum tantae novitatis habentur. Lactiferam Baldus tantum bibit ergo madregnam, ut iam carriolum, quo imprendit ducere gambas, linqueret ecussis rotulis cantone refractum, et pede firmatus nunc huc, nunc cursitat illuc, quem pater, ignarum veri patris, instruit omni rusticitate, docens villae poltronus usanzam. Post merdulentas iubet illum pergere vaccas, sed gentilis eam reprobat natura facendam: non it post vaccas; at saepe venibat ad urbem, atque ad villani despectum praticat illam. Solis in occasum villae tamen ipse redibat, atque reportabat testam quandoque cruentam; magnanimus quoniam puer, ut solet esse per urbes, semper pugnorum guerris gaudebat inesse, sive bataiolis bastonum sive petrarum. Nec pensetis eum quod certans ultimus esset; at ferus ante alios squadram exortabat amicam, et centum lapides saltu reparabat in uno. Quum villanus eum villam abhorrere notavit, experimentum aliud, puerum quo exturbet ab armis in quibus immersum cognoverat esse, provavit: nam neque villanus sese cum milite confat. Comprat ei fortem tabulettam roboris (illam rupisset subito), qua sculptum addisceret ?a, b?: ille scholam primo laetanter currere coepit, inque tribus magnum profectum fecerat annis, ut quoscumque libros legeret sine fallere iotam. At mox Orlandi grandissima bella nasavit, non vacat ultra deponentia discere verba, non species, numeros, non casus atque figuras, non Doctrinalis versamina tradere menti. Regula Donati, prunis, salcicia coxit; ivit et in centum scartozzos Norma Perotti. Quid Catholiconis malnetta vocabula dicam, quae quot habent letras tot habent menchionica verba, et quot habent cartas tot culos illa netarent? Orlandi tantum cantataque gesta Rinaldi agradant puero, quamdam in cor dantia bramam, ut cuperet iam vir fieri spadamque galono cingere et auxilio rationis quaerere soldum; ut legit errantes quondam fecisse guereros. Viderat Ancroiam, velut orlandesca necarat dextra, gigantissam, vel quum de funere Carlum dongellettus adhuc rapuit, tractoque guainis ense durindana secat alto e tergore testam ingentem Almontis, Franzamque recuperat omnem. Viderat ut miris Agricanem forcibus atque mille alios fortesque viros fortesque gigantos, arce sub Albracchae, giorno truncavit in uno. Viderat ut nimias scoccante Cupidine stralas, ipse gaiardorum princeps, ipse orbis acumen[188] duxerat ad mortem, rupto gallone, cusinum; at manus Angelichae, dum coelo brazzus ab alto mortalem ferret colpum, succurrit, et ipsum orlandescum animum tenuit spadamque pependit. Saepius his lectis puer instigatur ad arma, sed gemit exigui quod adhuc sit corporis, annos praecipites cupiens, ut vir se denique posset vestire ingentemque elmum ingentemque corazzam. Is tamen hispanam semper gallone daghettam dependentem habuit, qua plures saepe bravettos terruit inque fugam solettus verterat omnes. O pueri audentes animos agilemque prodezzam! At video e vobis hinc plures volvere testam, nasutosque mihi parlanti ostendere nasos. Quam bene nunc vestri pensiria nosco magonis! An subsannatis quia nostra oratio tandem finiet, ut mores videatur in hasce favorem porgere sbriccorum? veluti si Baldulus infans tum bene fecisset quum Lanzalotta vigazzum traiecit gladio? sic divi nonne sbisaos castigare solent? sic nonne superbia nostra cogitur interdum vilem portare cavezzam? Quid, rogo, quid?...
TRIPERUNO
V olea seguir ancora il vecchio grasso, N ? molto mi spiacea di starlo udire: I l dol, nulladimanco, il troppo indugio C h'era di ricercar la vaga ninfa, A ndarmi allor da lui luntan mi astrinse.
Q ueto mi stoglio, senza dirli ?_vale_?, V olgendomi d'un rio lungo a la ripa, E pur egli mi segue passo passo.
F iumi di latte, laghi di falerno,[189] V alli di macaroni e lasagnette, E cco mi veggio intorno, e poggi ed alte R upi di cacio duro e sodo lardo, A cque stillate de capponi grassi, T orte, tortelli, gnocchi e tagliatelle.
— B eata vita — dissi allor mirando — ? questa, che di tante trippe abbonda! N on mai quinci partire mi delibro. — [190] E con questo pensier, mentre ad un fonte D i moscatella malvasia m'abbasso, I o tolsene, bevendo, in quella copia C h'un bove sitibondo d'acqua sorbe. — T rinch trinch! — con altro vaneggiar tedesco I ncomenciai balordo a proferire.
R otavasi gi? 'l mondo a gli occhi miei, E sottosopra il mar, la terra, il cielo G iran intorno e fannomi qual foglia V olar al vento, e gli arbori, le ripe, L e spiagge mi parean cotanti veltri A i fianchi de le capre gir correndo.
S altano ad alto l'erbe e gli virgulti, A lpe con monti e 'nsieme con poggetti C orreno in rota e danzano leggiadri. R apito poi con elli il mio cervello, I n un momento scorse l'universo S enza posarsi mai, senz'ulla tregua.
M entre cos? danzava a la moresca,[191] O do dir: — Triperuno! — Ed ecco in mezzo R atto mi vidi posto d'una turba. I o contemplai non so che volti grassi B ere sovente e poi cantar sonetti, V otando zaine, fiaschi e gran bottazzi; S altavan poi chi su chi gi? d'intorno,
I n quella foggia che vili fasoli[192] G irano, a spessi tomi volteggiando, N el caldaio su fiamme ardenti posto. A llor con quelli insieme canto in gorga[193] T utta tremante: — Bacco evo?! — I ncomenciando poi cos? dir versi:
FUROR
— S urgite trippivorae, Merlini cura, Camoenae: ?T rinch trinch? si canimus, quid erit? cantate, bocali! E cce menestrarum quae copia quantaque stridet R ostizzana super brasas squaquarare bisognat. C urrite, gnoccorum smalzo lardoque colantum O conchae, plenique cadi plenique tinazzi! R umpite brodiflues per stagna lasagnica fontes, E rrantesque novo semper de lacte ruscelli!
F estinate meam per buccam intrare, foiadae E t vos formaio tortae filante sotilum; D um canimus trippas, trippae sint gutture dignae A tque altis cubitum calchetur panza fritadis!
P ande tuae, Merline, fores spinasque catinae, V ernazzam gregumque simul corsumque bevandae T rade todescanae, donec se quisque prophetam R erum cognoscat venientum qualis et ipse est, E t quisquis cyatosque levat vodatque caraffas! — T alia dum loquimur, somno demergimur alto.
V enit at interea mihi trippiger ille Cocaius, I lle, inquam, cui panza pedes cascabat ad imos R umpebatque uteri multa grassedine pellem. — T une — ait — o Triperune tener, Triperune tenelle, V enisti? venisti etiam, Triperune galante? T une ades? o mi lac, mi mel, mi marzaque panis, E ya age, zuccarate puer, ne, puppule, dormi, S urge oculosque leva! hui, sbadacchias? surge, gaiarde!
A n, mellite, fugis sic me? me, ingratule, scampas?[194] B astardelle levis levisque cinedule, sic sic I ndignatus abis? Sta mecum, argutule, semper: E n paradisus adest, en hortus deliciarum; R elligio quaenam melior, quae tam bona lex, quam E sse hac in vita, qua vivimus absque travaio?
O vitam sanctam, o ritus moresque beatos! M ellis molle mare est, illud travogabimus ambo,[195] N os ambo travogabimus, ambo errabimus, ambo E t simul ad poggiam simul et veniemus ad orzam. S urge, po?ta novelle, cane, heus, puer, accipe pivam!
D ic improviso macaronica gesta cothurno, I ncipe, parve puer: qui non suxere fiascos, I lli, consumpto lardo, sonuere carettam.
TRIPERUNO
V ano ha il pensier ed il desir inutile, E sser chi crede un cielo a questo simile.[196] R idi, cor mio, ch? cosa verisimile T ornar un'alma a Dio non ?, ma futile. I tene, leggi, e voi scritture ambigue, T empo ch'eterno sia gli d?i s'appropriano, E pel nostro sperar di risa scoppiano.
MERLINUS
S unt tibi tortificae faciles ad carmina musae, O mi belle puer, sic sic bene concinis? an sic R ecte recta canis? iam iam macaronicus esto. T ale tuum carmen nobis, quale ocha plena E st aio mensis, quale est damatina todesco M alvasia recens, sus caulae, melque fritellis.
TRIPERUNO
N ? per speranza d'altri beni, n?[197] V oglio per alcun pregio for di qui R eddurmi ad altri pi? felici d?. S ciocco sperar il ben ch'anco non ?! I o nacqui solo per gioir qua gi?: N oi dunque in terra e Dio nel ciel si sta; I ndarno altrui sperarvi chi non sa!
MERLINUS
V era ais! O corsi, o admiranda potentia greghi! T antula ne in puero doctula lingua meo?
TRIPERUNO
R iposte cime, poggi ombrosi e colli, E voi di lardo e di persutto ripe, D ensi antri d'onto e tripe, E mp?ti noi, che pieni e ben satolli A vostro onore scoppiaremo versi, T a' forse, che non mai son?r s? tersi!
MERLINUS
P annadae hinc abeant, aqua coctaque febribus apta! R adices herbaeque habiles in pascere capras, I te ad menchiones, ite ad saturare legeros, S tant qui per boscos, per montes perque cavernas[198] T essere sportellas, tenuatum battere corpus, I nglutire favas, giandas ac millia quae fert N atura et porcis et asellis atque cavallis! A t nos hic melius starnae turdoque studemus.
TRIPERUNO
N on sia cagion che mai da te mi scioglia, O mio maestro e guida, R iposo, oggetto mio, mia scorta fida! M angiamo dunque e rallentamo i fianchi, A cci? ch'un bon castron da noi si franchi.
MERLINUS
P ersutti accedant primo, bagnentur aceto,[199] A pponatur apri lumbus, cui salsa maridet, T ripparumque buseccarumque adsit mihi conca, R ognones vituli lessi sapor albus odoret, I nsurgant speto quaiae, mostarda sequatur! S ic vivenda vita haec: veteres migrate fasoli!
LA MATOTTA
TRIPERUNO
Stavami un giorno fra li altri col mio maestro Merlino su la ripa d'un
rapidissimo fiume di latte, lo quale, impetuosamente le fragil sponde di
pane fresco diroccando, un suavissimo talento di mangiar suppe di cotal
mistura porgevaci. Ma io talmente trovavami esser allora di frittelle
compiuto e satollo, che (in mia laude vo' dirlo!) col dito per la gola
quelle toccare averei potuto: laonde mi fu mistero la cintura, se
scoppiare non vi voleva, rallentarmi su' fianchi. Vero ? che 'l mio
precettore, assai di me non[200] pur meglior poeta, ma bevitore,
mangiatore e dormitore, tutto che di quelle istesse frittelle dovea
ripieno essere, niente di meno erasi pur anco apposto agiatamente a
l'impresa di espugnare un capacissimo vaso di lasagne, non gi? di pasta
per zappatori usata, ma di pellicole de grassi capponi, li quali de
l'istesso colore, c'hanno la testa li giudei, erano. E mentre io, con
seco favoleggiando, mi trastullo in veder un porco col griffo nel
caldaio di broda l? guazzare, ed egli per non perder il tempo mi ascolta
solo e mai nulla risponde, ecco vi sovraggiunse un damigello, d'aspetto,
per quel che mi ne parea, molto gentile e saputo, lo quale una sua cetra
soavemente ricercando, cos? accomodatosi con la voce al s?no e
appoggiatosi ad un lauro a lui vicino, disse:
LIMERNO
La fama, il grido e l'onorevol suono di vostra gran belt?, madonna, ? tale, che 'n voi tanto 'l desio gi? spiega l'ale, che non mi val s'addrieto il giro o sprono. Di che s'al nome sol l'arme ripono con cui spuntai d'Amore pi? d'un strale, or che fia poi vedendo l'immortale[201] aspetto vostro, a noi s? raro dono? Ma, lasso! Mentre i' bramo e 'nsieme tremo vederlo, pi? s'arretra la speranza quanto l'ardor pi? cresce col desio. Per? di quella omai poco m'avanza; e pur s'un riso vostro aver poss'io, resorto fia da voi sul punto estremo.
TRIPERUNO
Al soavissimo canto e suono di quel giovene tacquero s? le selve,
racquetatosi ogni vento, che le fronde niente si moveano, non gi? perch?
nel contado del mio maestro fusse de fioriti prati, ombrosi boschi,
verdi poggetti amenitade veruna (quando che la vaghezza di quel luogo
era solamente di lardo, botiro, cagiate, brode grasse ed altre simili
leccardie), ma quella fiumara, che dissi essere di latte, eravi confine
di tre molto differenti regioni, come se fussero la Europa, l'Africa e
l'Asia. La prima regione, ove io col mio maestro abitavamo, gi?
pienamente dessignata avemo, la quale Carossa fu nominata. La seconda,
tutta vaga[202] e ripiena di vive fontane, frondosi lauri, mirti, faggi,
abeti, frassini, olive, querze, e d'altri assai bellissimi legni
addombrata, chiamavasi Matotta, ove questo Limerno dimorava. La terza,
per[203] il contrario, tutta sassosa, rigida, secca, sterile ed arenosa,
Perissa[204] fu appellata, ne la quale un eremita detto F?lica, senza
ch'altrui lo invidiasse, abitava. Or dunque m'accorsi quel giovenetto
dover essere del paese di Matotta, lo quale, cos? polito de vestimenta e
perfumato di muschio, sapeva dolcemente a l'instrumento concordare la
voce; onde io tratto in quella parte celatamente, che n? egli n? Merlino
se n'avvedesse, trapassai lo fiume di latte in quella verdura di l? e,
drento uno cespuglio di rose e spine appiattatomi non troppo da lui
remoto, stetti ad ascoltarlo. Lo quale, dopoi un lunghetto ricercare di
quelle sonore corde, in queste rime cos? proruppe, dicendo:
LIMERNO
So ben che 'l mio lodarvi, donna altera, quando che non vi giunga, avete a sdegno; so ben che 'l mio avvezzato in fiumi legno trovar porto nel vostro mar dispera. Ma de' vostr'occhi se quell'alma spera[205] mi si scoprisse alquanto, forse al segno uguale mi vedrei, che 'l nostro ingegno ascende amando e pi? oltra gir non spera. Non ? barchetta cos? lenta e frale, ch'avendo voi, e vosco Amor, in poppa, per ogni ondoso mar non spieghi l'ale. Onde la musa mia va pegra e zoppa, se schiva udite lei; ma se vi cale il suo cantarvi, allor lieta galoppa.
TRIPERUNO
Tosto che finito ebbe di dire, eccovi sprovvedutamente un augelletto, o
per caso o tratto dal suo concento, si ripose appresso d'un arbore sopra
un ramo secco, ove, taciuto ch'ebbe Limerno, con un dirotto gemito
faceva la selva intorno richiamare: di che egli, alzata la fronte a
quella, cos? a l'improvviso incominci? con seco a ragionare:
LIMERNO
— Vaga, solinga e dolce tortorella, ch'ivi sul ramo di quell'olmo secco ferma t'appoggi ed hai pallido il becco, spennata, pegra e men de l'altre bella; dimmi, che piagni? — Piango mia sorella perduta in queste selve, e lei dal stecco di questo antico legno chiamo, ond'Ecco miei lai riporta a la pi? estrema stella. — Lasso! ch'anco la mia pennando i' chero per questi boschi, e 'ndarno quella abbraccio,[206] fingendo lei quell'albero, quel pino. Ma acci? che 'l nostro affanno men sia fiero, partiamo a l'uno e l'altro il suo destino, ch? altrui miseria al miser ? solaccio.
TRIPERUNO
Piacquemi sommamente quella foggia di dire, senza ch'avessevi egli, come
si s?le, faticosamente avanti ripensato. Ma, levandosi quella un'altra
fiata su le penne, giuso in una valle portata, da gli occhi di quello si
tolse. Ed esso, rallentata la corda del canto pi? de l'altre affaticata,
mettesi a passeggiare accanto il fiume, tutto sopra di s?, come
penseroso, levandosi, non avendo ancora scorto lo mio maestro di l? dal
fiume, su la ripa del pane fresco, agiatamente disteso. Ma vedutolo cos?
sprovveduto, ritenne il passo e, tutto il viso in riso cangiatosi,
cominci? ad interrogarlo in questo modo.
DIALOGO PRIMO
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Che fai, Merlino?
Merlino. Empiomi lo magazzeno.
Limerno. Avvantaggiato mercadante sei tu! mangi tu forse?
Merlino. Non hai tu gli occhi da vederlo?
Limerno. Ben veggio con gli occhi, ma non comprendo.
Merlino. Per qual cagione mi domandi tu adonca s'io mangio, non lo
potendo chiaramente vedere?
Limerno. Io so che i fabbri trattano solamente cose da fabbri:[207]
laonde parrebbemi cosa disusata e nova veder Merlino far altro che
mangiare.
Merlino. Io so ben far altro ancora.
Limerno. Credolti troppo; ma che ne facci test? la prova, non molto mi
cale.
Merlino. Perch? cos??
Limerno. Vi faressi sentire d'altro che zibetto e acqua nanfa!
Merlino. ? cosa naturale.
Limerno. Via pi? asinale.
Merlino. Da quanto tempo in qua sei tu cos? delicato e schivoso
devenuto? non ti fai, se mi rammento bene, chiamar Limerno?
Limerno. Limerno son per certo.
Merlino. Limerno Pitocco?
Limerno. Io son pur desso.
Merlino. Dimmi adonca, Limerno Pitocco, per qual cagione tu ti mostri
ora tanto schivo e ritroso d'udir nominare quella cosa con cui
lordamente hai sconcacato quel tuo Orlandino?
Limerno. Da te solo ne tolsi lo esempio, Merlino.
Merlino. E dove?
Limerno. Ne la quinta fantasia del tuo volume.
Merlino. Pi? questo in un Zambello potevasi tollerare che in un
cavallero e paladino di Franza, e pi? col mio stile macaronico che col
vostro tanto onorevole toscano.
Limerno. Adonca, se ben comprendo, appresso di te lo stile toscano ?
avuto in riverenzia, che ?cos? onorevole? lo chiami?
Merlino. Perch? no?
Limerno. Che ne so io? mi pare di stranio ch'un uomo macaronesco voglia
magnificare l'eloquenza toscana.
Merlino. La cagione?
Limerno. Perch? lo bove si rallegra nel suo puzzo.[208]
Merlino. Ed a te quanto la lingua toscana viene in grazia? in che
openione l'hai tu?
Limerno. Sopra tutte le altre quella reputo degna, laudo, magnifico, e
contra li detrattori di essa virilmente lei deffendo; ch?, quando talora
per sotto queste ombre mi trovo le belle rime del mio Francesco Petrarca
aver in mano ovvero quella fontana eloquentissima del Boccaccio,
uscisco, leggendo, fora di me stesso, devengone un sasso, un legno, una
fantasma, per soverchia maraviglia di cotanta dottrina! Qual pi?
elegante verso, limato, pieno e sonoro di quello del Petrarca si pu?
leggere? qual prosa orazione si pu? eguagliare di dottrina, di arte, di
arguzia, di proprietade a quella del facondissimo Boccaccio? Dilch? io
reputo gli uomini litterati, li quali nulla delettazione di questa
lingua si pigliano, essere non pur di lei ma di cortesia, gentilezza ed
umanitade privi.
Merlino. E quali sono questi detrattori di essa?
Limerno. Alquanti persianisti pedagogi o pedantuzzi.
Merlino. Che cosa dicono?
Limerno. Cotesta lingua essere cagione di lasciar la romana.
Merlino. Ed io nel numero di costoro mi rallegro essere, ch? di te e
d'altri toi simili ignoranti maravigliomi, li quali, non intendendo
dramma de la tulliana facondia e gravitade virgiliana, vi s?te
totalmente affisi ed adescati al ?quinci?, ?quindi?, ?test??, ?altres??,
?chiunque?, ?unquanco?, ?altronde?, ed altri dal tosco usitati vocaboli.
Limerno. Ah volto di tavolazzo, ubriaco che tu ti sei! presumi tu forse
di tanta sufficienzia essere che tu poscia la sublimitade de la toscana
lingua diminuire?
Merlino. Ah muso di giottone e forca che tu ti sei! ardisci tu dunque
cotanto lodare lo stile petrarchesco e boccacciano, che la romana
eloquenzia, non essendo da te nominata, da te riporti infamia?
Limerno. Tu ne menti molto bene, ch? non biasmo io la rom?na lingua.
Merlino. Tu ne stramenti molto pi?, ch?, mentre innalzi[209] quella
troppo, questa abbassi e deonesti molto.
Limerno. Deh, vedi cotesto poetuzzo macaronesco in che modo non pur
giudice ma advocato di Tullio e Virgilio da se medemo si constituisse!
Merlino. Deh, mira cotesto zaratano lombarduzzo come si mette al rischio
di saper ragionar toscano, ove egli non men si aff? d'un asino a la
lira!
Limerno. Che zaratano? che lombarduzzo? Come se un conte di Scandiano,
un Ludovico Ariosto, un Tebaldeo, un Lelio, un Molza ed altri molti
valentuomini non fussero in Lombardia nasciuti!
Merlino. Non sei tu gi? del numero loro?
Limerno. Desidro esserne: onde ogni mio studio ? di, se non eguarmi,
almanco appressarmi a loro.
Merlino. Molto luntano tu li vai!
Limerno. Lo bon animo non vi manca. Ma tu come hai bene osservato le
divine vestigia di Virgilio in quel tuo perdimento di tempo!
Merlino. Quale?
Limerno. Quel tuo volume dico, nel cui sobbietto le prodezze de non so
chi Baldo cachi e canti.
Merlino. Quanto al cantare non ho io gi? da imitare Virgilio, quando che
del mio idioma, lo quale sopra tutti li altri appresso di me vien
reputato nobile, io non mi tegna aver superiore alcuno; ma quanto al
cacare, non voglioti rispondere altrimente, perch?, se ne l'opera mia
son stato io sin a li galloni in quella tal materia puzzolente, tu,
Limerno mio, sin a gli occhi ti vi sei lordamente voltato. Per?
lasciamo, pregoti, questo soprabbondevole ragionamento in disparte, ch?
tu ed io abbiamo in ogni modo strabocchevolmente errato.
Limerno. Io tolsi lo nome solamente di Pitocco per dire un tratto lo mio
concetto.
Merlino. Ed al soggetto, qual ? quello, non accascava se non
malagevolmente il nome di Pitocco, ed anco dedicarlo a un signore non si
doveva.
Limerno. Ors? dunque, lasciamo, Merlino caro, le dette tra noi ingiurie,
e siamo amighi come prima.[210]
Merlino. Fa' come ti pare.
Limerno. Ma vorrei da te una grazia sola, caro mio Cocaio, impetrare:
non mi la negare, pregoti, se 'l bottazzo non mai ti si parti dal
gallone.
Merlino. Tu non p?i fallire di domandarmi, ch? a me star? poi,
parendomi, darti.
Limerno. Non ti voler pi? oltra con esso meco turbare se un mio
concetto, a?to gi? molti mesi, ora sono per scoprirti....
Merlino. Con la lingua di' pur ci? che ti pare, ma tacciano sopra tutto
le mani.
Limerno. Non vi ? pericolo, mediante fra noi lo fiume, di conflitto
alcuno, Merlino caro. Ma taci, prego: non odi? Conosco la dotta mano,
conosco lo novo Anfione, conosco lo mio Marco Antonio, o mirabilissimo
musico, ch? ben quella virtude a la gentilezza d'un tal animo degnamente
conviene. Non odi tu lo accomodatissimo ricercare d'un la?to? Costui
discese da Vinegia, di tutta Italia nutrice. Egli per doi giorni s'?
dignato[211] qui fra noi dimorare. Or ascoltamolo, ti prego: egli ancora
non ci ha veduto, e men voglio che ci lasciamo da lui vedere, acci? lo
rispetto suo verso de noi cessare noi faccia da s? dolce impresa.
A l ciel or triunfando spiego l'ale; N on ho di sorte ch'io pi? tema l'onte, D a poi ch'anti s? altera e degna fronte[212] R agiono, ed ella udirmi assai le cale; E perch? del suo nome alto immortale A lzar pi? non potrei le note c?nte, S crissile in capo de' miei versi al monte, D ove salir vorrei con pi? alte scale.
G loria del mondo non che d'un sol stato R egna costui, ch'ai fatti egregi e ad essa I ntegra forma ogni mortal eccede. T urchi, mori, tedeschi, e d'ogni lato V ien gente al grido; e mentre l'ode e vede, S ovra la fama esser il ver confessa.
LIMERNO
A l'eccellenzia e magnanimitade d'un cotal principe meglior tuba, che lo
sollevi e innalzi, non si potria giammai trovare di questa. E se
d'intender brami lo nome del lodato signore, li capoversi del cantato
sonetto chiaramente quello ti appresentano. Ma ecco si move a dirne
appresso: sta' queto.
Voi che soavi accenti, alte parole, rime leggiadre e pronti sensi ognora impetrate dal ciel, deh! perch'un'ora ei non me 'nspira esser di vostra prole? Direi che d'un tal principe non s?le gi? 'l mondo esser adorno, il qual onora non pur Vinegia bella, ma di fora[213] le genti sotto l'uno e l'altro sole. Cantate 'l dunque voi, ch?, a me se diede benigna udienza (onde lieto ringrazio l'inclita sua virt?), l'atto gentile quanto pi? voi di dire avrete spazio! Ma ben v'annunzio che stolt'? chi crede poter tant'alto porger uman stile.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Or ecco, Merlino, che a tempo questo gentil musico porsemi bona
cagione di dirti lo gi? mio promesso a te concetto. Per qual dunque
ragione tu, omai attempato, di questo tuo paese di Carossa, paese dico
da ubriachi, parassiti,[214] lurconi, crapuloni, oggi mai non ti svelli?
perch? pur anco vi dimori tu? Qual foggia di vita potrai tu forse in
questa regione de lupi adoperare, la quale posciati con la utilitade
insieme recarti qualche onorevol fama in questo mondo e removerti
finalmente quel nome di Cocaio; nome, dico, di somma leggerezza, s? come
il nome di Pitocco ancor io spero di lasciare?
Merlino. De l'onorevol fama tanta io me ne acquisto col mio botiro e
lardo, quanto tu con quelli toi zibetti e ambracani. Ma de l'utilitade
io t'ho saggiamente da rispondere: niuna cosa essere pi? utile che 'l
mangiare e bere. Non dicoti le antiche giande da tutti lodate e non
toccate se non da' porci, anzi parlo di questi miei delicatissimi
liquori, ove la vera e dritta via di ben vivere gi? molti anni passati
mi ricondusse.
Limerno. Qual immortalitade di animo vi consegui tu per bere o mangiare?
Merlino. Or come potrai tu, grossolano che tu ti sei, vivere senza
queste due parti?
Limerno. Anzi tu vivi allora sol per mangiare, e questa ? vita bestiale.
Merlino. Va' al diavolo! Vivi tu forse senza mangiare?
Limerno. Ben mangio, ma sol per vivere.
Merlino. Ed io vivo per mangiare.
Limerno. Grandissima differenzia ? cotesta.
Merlino. Anzi ? una istessa cosa, ma non la comprendi.
Limerno. Ben io la conosco, ch? assai ti f?ra meglio mangiare per vivere
che vivere per mangiare.
Merlino. Ed io quell'istesso ti replico: che meglio sarebbeti mangiare
per smaltire che smaltire per mangiare.
Limerno. Qual fama, qual gloria, qual immortalitade ne averai poi? non
ti reuscirebbe meglio mangiar per vivere e, vivendo, acquistarti
perpetuitade di gloria?
Merlino. Di qual gloria intendi tu?
Limerno. Di questo mondo.
Merlino. Aspettava che mi parlassi del cielo.
Limerno. Mi pensi tu forse cos? pazzo ch'io creda sopra la luna?
Merlino. Ed io di te assai manco credo; ch?, volendo una fiata salir un
arbore di fico ad empirmene de le sue frutta, per mia sventura venendovi
abbasso, ruppimi una spalla, onde d'allora in qua non ho mai voluto pi?
credere sin a l'altezza de li arbori. Ma qual ? questa gloria del mondo
c'hai detto?
Limerno. Innam?rati, raccendati, aff?cati, impazzisceti di qualche bella
donna!
Merlino. Con diavolo impazzirmi? d?lti forse d'essere solo pazzo che me
in compagnia cerchi di aver ancora? Ben doppia saria cotesta mattezza,
che io omai vecchio ribambito mi cacciassi in cotal impresa. E quando
pur io lo facessi, qual fama onorevole, come hai tu detto, ne
conseguisco poi?
Limerno. O dolce, o soave mattezza di questo tenero Cupidine, lo quale
di tanta virtude si rende ne gli amanti cagione! Voglio primeramente che
a grande contento siati lo gire non[215] pur de fini e strafoggiati
panni ma de costumi e gesti lascivi ornato, perfumarti le mani, lo viso,
le labbra, li capelli sovente di zibetto, muschio ed altri unguenti con
acque di grato odore, sforzarti di sapere ogni arte, ogni astuzietta con
qualche simulata invenzione di farti o pur conservarti grato a la tua
madonna, non perdonar a la borsa in feste, danze, conviti, notturne,
mattinate, e qualche dono per truzzimani a lei celatamente dricciato. Ma
sopra tutto per il sprono e dolce incarco di questo amoroso affetto tu
sempre averai lo componer arguti versi pronto e dilettevole; laonde
voglio che totalmente a la musica vocale tu[216] ti abbandoni, cantando
le cortesie, gli sdegni, gli atti, le parole, o in lira o in la?to o in
altro soave strumento, de la tua diva.
Merlino. Non mi fa mistiero lo gi? perfettamente imparato imparare di
novo. Pensi tu forse, o Limerno, ch'io non sappia le passioni di quello
arciere, per cui gi? tanto cantai ch'ora ne son roco e imbolsito?
Limerno. Troppo til credo, ch? 'l fiasco per soverchio bere[217] consuma
un corpo.
Merlino. Anzi lo bere fa bona ed espedita voce.
Limerno. Ed anco li quattro fa parerti otto. Ma dimmi: soni tu d'altro
instrumento che di fiasco?
Merlino. Ecco lo sacco.
Limerno. Per la croce di Dio! tu d?i essere un boia.
Merlino. Che voi dir boia?
Limerno. Un mastro di giustizia, al quale si d? per sua mercede tre
libre di piccioli e un sacco.
Merlino. Ma non gli d?nno per? la piva drento.
Limerno. Tu dunque vi tieni drento la piva?
Merlino. Eccola.
Limerno. Gonfia, ti prego!
Merlino.Lirum bi lirum. Vuoi ch'io ti mostri s'io so meglio di te
cantare?
Limerno. Aspetta, prego, ch'io prima dir? ne la cetra, e tu con la piva
mi succederai.
Merlino. Io ne son molto ben contento. Ma dimmi in lombardo stile, ch?
non t'intenderei toscano.
Limerno. Farollo veramente. Odi un endecasillabo del sonno:
Huc, huc, noctivage pater tenebrae; huc som.....
Merlino. Taci l?! questo mi par latino, e non lombardo.
Limerno. Anzi e' lombardi fanno pessimamente, partendosi elli da gli
antiqui soi maestri di lingua latina, quando che lo materno parlare
tanto rozzo e barbaro gli sia. Onde s'io considero chi di Mantoa, chi di
Verona e altri luoghi di Lombardia nacque,[218] dir? che 'l proprio
parlare de' lombardi saria lo latino.
Merlino. Or ben conosco che sei uomo vano e smemorato,[219] ch'ora
contradici a la openione tua innanzi detta. Anzi lo proprio de' lombardi
? lo barbaro, da' longobardi derivato: ma di' meglio (forsennato che tu
ti sei!), che 'l proprio idioma de gli abitatori di Lombardia sarebbe lo
latino, perch? Lombardia non fu Lombardia se non dapoi che i longobardi
la barbarie cos? del parlare come de' costumi portarono in quelle parti.
Li costumi se ne sono in sua malora partiti, e lo parlare vi ? restato;
e per? confermarotti quello che gi? sopra dissi: che tu, essendo
lombardo, pi? presto avvezzarti doveressi a la paterna tua lingua latina
che a la pellegrina a te toscana; ch? molto pi? di fama e gloria
conseguiranno per lo avvenire li scrittori latini che li toscani,
quantunque oggid? a molti lo contrario appaia, servando per? sempre la
dignitade de la mia macaronesca. Or dunque, mentre io m'apparecchio
responderti, di' suso quel tuo promesso endecasillabo: o latino o
lombardo che si sia, non voglio di cotesto pi? teco disputare.
LIMERNO
Huc, huc, noctivage pater tenebrae; huc, Somne; huc, placidae sator quietis Morpheu; huc, insiliens meis ocellis amplexusque thorum, cuba aut pererra totum hoc populeo madens liquore corpus, tum gelidum bibens papaver. Hinc hinc mordicus intimis medullis haerentes abeant cadantve curae, ut grato superum fruar sopore, mox grates superis feram diurnas.
MERLINUS
Post vernazzi flui sugum botazzi, post corsi tenerum greghique trinchum, et roccam cerebri capit fumana et sguerzae obtenebrant caput chimaerae. O dulcis bibulo quies todesco, seu feno recubat canente naso, seu terrae iaceat sonante culo! Mox panzae decus est tirare pellem, mos est sic asino bovique grasso.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Ah! ah! ah! tu mi rumpi de le risa il petto con questa tua
gentil Camena. Veridico filosofo ben fu quello che disse: lo ranocchio
non sapersi comportare del suo fango fora.
Merlino. Non mi dar piglio a la coda, Limerno, ch'io so meglio mordere
che tu pigliare.
Limerno. Non ti adirare, prego, ch? d'adirarti causa non ?. Gi? cotal
proverbio non dissi per biasmo tuo, anzi contra me solo volsi accennare,
che via pi? sono manco agevole a dir latino che toscano.
Merlino. Ed io similemente trovomi essere manco idonio ad ascoltare
toscano che bergamasco, e questo men aggradiscemi del romano o v?i
latino. Dilch? se hai pur a dirne pi?, ecco ai nomeri latini mille
orecchie ti spalanco e sbaratto.
Limerno. Di qual nome fassi degno, Merlino mio, un uomo che ingrato sia?
Merlino. Dilli ragionevolmente ?bestia?.
Limerno. Cos? da bestia te ne voglio trattare uno. Or odi:
Iam geris humanos nec quidquam, perfide, vultus, iam cole cum nemorum stirpe, ferine, nemus, immemor accepti qui muneris infremis instar belluae, et in nostrani saevis, inique, fidem. Prodis amicitiae foedus, nec te pudor ullus arguit! i, pete (vir non eris inde!) feras.
Chiamavasi costui per nome Urbano; e male convenivagli veramente, ch?
mai n? il pi? scortese n? il pi? rozzo n? il pi? aspro si puote vedere
di lui fra quante ville di Padoa o Vicenza si trovano. Del quale fu gi?
composto quella similitudine contraria:
Lucus luce carens nomen de luce recepit; bellum, quod bellum sit minus, inde venit. Hinc quoque te Urbanum merito appellamus, ut isto nomine rusticitas sit tua nota magis.
Deh! pregoti, amantissimo Merlino, lasciami ch'io canti di Amore in
toscano idioma, ch? veramente non so io pi? che dirti latino.
Merlino. Non lo far? io giammai: tu canti a me e non a te.
Limerno. Non voglio per niuna guisa esserti ritroso; e perch? di cotesta
materia latina ho molta penuria, e tu vi hai pur piantato ostinatamente
lo chiodo ch'io non debbia se non latinamente cantare, non mi ritraggo a
dirti alquanti versi da me ancor fanciullino composti, trovandomi su
quello di Ferrara in certa villa, mandatovi da mio padre per imparare
lettere appresso d'un prete, lo quale molti scolari teneva soggetti, e
pi? li belli che li brutti; nel qual luogo, per corruttela di grosso
aere, soprabbondavano tante biscie, rane, zenzale e pipastrelli, che uno
inferno mi pareva di tormentatori. Laonde, ritrovandomi ogni sera in
guisa d'un Lazzaro mendico tutto da le punture di quelli volatili
animaluzzi impiagato, cos? al mio maestro puerilmente recitai:
LIMERNUS
O mihi Pieriis liceat demergier undis, o veniat votis dexter Apollo meis! Quidquid ago, fateor, sunt carmina, carmina sed quae non sapiunt liquidas Bellerophontis aquas. Hic nisi densa palus iuncis et harundine tordet, hic nisi stagnanti me Padus amne lavat.[220] Advoco sic musas: pro musis ecce caterva insurgit culicum, meque per ora notat! Dum cantare paro fletu mihi lumen inundat, factaque per culices vulnera rore madent. Hic quoque noctivagae strident ululantque volucres, ac ventura nigrae damna minantur aves. Quid referam pulices, agili qui corpore saltant? Utraque quos caedens iam caret ungue manus!
MERLINO
Questi toi versi quantunque mi sappiano di puerizia, pur non vi manca
l'arte e, per dir meglio, la veritade. Imperocch? io molto pi?
voluntieri abitarei su lo contado di qualunque altra cittade che su
quello di Ferrara, non gi? perch? ella non abbia tutte le bone
condizioni che si ricercano in una simil terra, cos? di reggimento come
di nodrimento, ma baldamente dir? che causa veruna non le occorre perch?
de l'aere o sia del cielo ella si debbia lodare, ch?, quando la
industria pi? de la natura non vi avesse provveduto, guai a le sue
gambe! Laonde, essendovi non so qual poeta mantoano, per un eccesso non
piccolo, destinato dal signore a partirne in onesto esiglio, e gi?
pervenuto su l'entrata di essa, in queste parole sospirando ruppe:
MERLINUS
Insperata meis salve. Ferraria, curis, tale sis exilium ne, rogo, quale daris! Me non parva reum fecit tibi culpa: reatum ex te num luerit congrua poena meum? Noster, ais, veni; nostros quoque suscipe ritus; vivitur humano sanguine, trade cibum! Mantous culicis funus iam lusit Homerus;[221] mantous culicum tu quoque gesta cane.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Che quelle bestiuole siano causa per cui lo usar in Ferrara non
ti aggrada, malamente te lo credo.
Merlino. Poco errore ? questa tua mescredenza.
Limerno. Perch? dici tu dunque la menzogna?
Merlino. Se per mezzo de la menzogna tu intendi la veritade, perch?
mentitore mi fai?
Limerno. Mentitore sei per certo.
Merlino. S?, ma verace.
Limerno. Qual veritade ho io gi? inteso per la bugia test? fatta?
Merlino. Perch? Ferrara cortesa non per mosche o tavanelle mi ? a noia,
ma perch? ivi raccoglionsi lor vini su le groppe de le rane. Pensa m? tu
qual eccidio, qual ruina sarebbe del mio stomaco!
Limerno. Ferrara e Mantoa di molte qualitadi si corrispondano. Ma voglio
che, s? come ora ti concessi lo mio cantar latino, cos? non manco tu ti
comporti ne l'ascoltarmi un breve capitolo.
Merlino. Chi fu lo autore di esso?
Limerno. Perch? ci? mi domandi tu?
Merlino. Quando che non mi dilettino molto le cose tue, e
consequevolmente non ti presto udienza se non sforzato.
Limerno. Non ? mio veramente: io gi? fora d'un scrigniolo quello rubbai
dentro di Lementana, o Nomentana meglio diremo,[222] luntano da Roma
diece migliara; castello nobile s? per la vecchiezza di esso s? per la
generosissima famiglia de Orsini, di quello ed altre assai terre
posseditrice e madonna. E bench? io molte volte l'abbia per mio
recitato, nulla di manco (mi confesso a te) non esser egli mio son
certo, ma d'un Gian Lorenzo Capodoca secretario del signore del loco.
Merlino. Ora incomincia, ed io frattanto un sonetto voglioti comporre.
LIMERNO
Sia pur contrario a noi l'aspro furore d'ogni stella crudel, d'ogni elemento, ch? l'ira sua non piega un stabil cuore: latri chi vol latrar, io gli 'l consento,[223] ch? tanto si alza pi? la fiamma accesa quando lei spegner vole un picciol vento. Qual pi? lodevol, qual pi? chiara empresa d'una costante, d'una fede pura, ch'odio non teme n? di sorte offesa? Un fermo scoglio d'onde non ha cura n? un stabil cuore di qualunque oltraggio, ch? fede intorno a lui pi? allor s'indura. Sol ne gli affanni si conosce il saggio, lo qual, per ch'un bersaglio sia di sorte, non parte mai dal cominciato viaggio. N? di ferro minacce n? di morte, mentre animosamente spiega l'ale di fede, mai paventa un uomo forte. Per? la forza lor in noi che vale? Gi? chi congiunse il ciel altrui non scioglie perch? non svaria mai corso fatale. Lasciali pur empir lor empie voglie: livido cuor sol di se stesso ? pena, e chi semina t?sco, t?sco accoglie. Pingon in ghiaccio e solcan ne la rena, e quelli de le pugna al vento d?nno, che rodon la fidel nostra catena. Ma tu la lor malizia, il loro inganno impara di conoscer, e lor fraude, ch? bello ? l'imparar a l'altrui danno. Se ride 'l tuo nemico, se 'l t'applaude, tu similmente applaudi e ridi ad esso, ch'esser falso co' falsi ? somma laude. Se ancora ti minaccia e morde spesso, contienti d'ira, ch? ti fia gran palma: summa vittoria ? 'l vincere se stesso. Non d?' turbarsi un'incolpevol alma, s'ognor in lei pi? l'odio si rinforza, ch'un gir leal non sa peso n? salma. Ma se considri ben sua debil forza, tu riderai di lor invidia ed onte: ardor di paglie subito s'ammorza. Sian dunque lor insidie occulte o c?nte,[224] osserva quelle e queste ridi e sprezza, ch? 'l bon nocchier, se tien la fronte a fronte di sorte accortamente, mai non spezza.
MERLINO E LIMERNO
Merlino. Oh quanto m'? giovato questa dolcezza!
Limerno. Or vedi tu dunque che sin a te la soavitade di rime toscane
sono aggradevoli?
Merlino. Per qual segno conosci tu in me cotal effetto essere?
Limerno. Come! tu non hai gi? detto questa dolcezza averti non poco
gradito?
Merlino. S?, del sonno che ho fatto.
Limerno. Tu dormevi dunque mentre io cantava?
Merlino. Che maraviglia! non sei tu gi? di minor vigore d'una sirena!
Limerno. Dormevi tu, caro Merlino?
Merlino.Domine, ita. Ben ti lo dissi da prima.
Limerno. Che cosa?
Merlino. Di componerti un sonnetto.
Limerno. Or baldamente t'intendo: grandissima ? la differenzia tra lo
?sonnetto? e ?sonetto?.
Merlino. Quanto ? tra 'l persutto e lo schenale.
Limerno. Io ti voleva domandare lo giudizio tuo s? de lo verso come del
recitatore; ma, per quello che me ne pare, ho ragionato con le mura.
Merlino. Anzi, e la campana e lo campanaro mi ? piaciuto, ma...
Limerno. Ma che?
Merlino. Aggradito m'averia pi?, se...
Limerno. Se che?
Merlino. Se pi? lungo fusse proceduto.
Limerno. La cagione?
Merlino. Per pi? dormire.
Limerno. E pur gran torto me fai non ascoltarmi cos? come io voluntieri
ascolto te, non gi? per fasto e vanagloria, ma per avere solamente
qualche avviso da gli uditori, se dicendo nell'instrumento mi sconcio
troppo nel volger il capo, nel girar de gli occhi, nel finger caldi
sospiri, se graziosamente o no tengomi sul braccio la cetra, se abbasso
oppur troppo innalzo la voce,[225] e altri simili particulari effetti
d'un amante, acci? che per l'altrui avviso pi? ragionevolmente avvezzare
mi sapessi, dovendomi egli poscia essere a molto accrescimento de lo
amore di mia donna.
Merlino. Se queste parti non hai, ben ti le poscio mostrar io, se mi
ascolti per una pezza; e forse lo sonno ti star? luntano per vigor de la
mia piva. Or odi una oda in loda d'una mia amorosa detta la Mafelina, ed
impara da me gli affettuosi gesti.
Limerno. Comincia, ch'io mi sento voglia di mangiar riso!
MERLINUS.
Aspra, crudelis, manigolda, ladra, fezza bordelli, mulier diabli, vacca vaccarum, lupaque luparum porgat orecchiam, porgat uditam, Mafelina, pivae; Liron o bliron, coleramque nostri dentis ascoltet, crepet atque scoppiet, more vesighae! Illa stendardum facie scoperta fert puttanarum, petit et guadagnum illa, marchettis cupiens duobus saepe pagari. Semper ad postam gabiazza, rosso[226] plena belletto, sedet ante portam, chiamat, invitat, pregat atque tirat mille famatos; mille descalzos petit ad cadregam, perque mantellum faciens carezzas, intus agraffat, quid habent monetae prima domandat. Quis mihi credat quod avara stabit salda ad unius pagamenti bezzi? Quis bagassarum similem scoazzam vidit Arena? Nulla Veronae meretrix Arenae peior Ancroia reperitur ista, heu! tapinelli poverique amantes, ite dabandam, ite luntani, moneo! Provator ipse crustarum putridae carognae ibit in Franzam. Pochi pendit istum[227] quisquis avisum.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Merlino mio, questa tua foggia di cantare non si domanda
?cantare?, ma un abbagliare, un muggire, un tonare su per le ripe del
Pado.
Merlino. Sonano li pifari su per li argini del Pado.
Limerno. E raggiano, come dice il mantoano, li asini.
Merlino. Tu v?i dunque dire che in questa mia chiusura fra tanti asini
io canto?
Limerno. Ed anco peggio ti direi, s'io sapessi.
Merlino. Pi? rozzo cantore di lui non saperei io gi? mai trovare.
Limerno. S?, di canto figurato.
Merlino. Cantano forse altramente che di figurato?
Limerno. Lo suo naturale e nativo.
Merlino. Qual ??
Limerno. Canto quadrato, largo, sonoro e molto di gorga, e pi? de le
volte fannoli drento un strano contrappunto.
Merlino. In qual modo?
Limerno. Con la musica di drieto, la quale mantengono con la eguale
battitura de' calzi, non mai alterandovi la misura.
Merlino. Dunque lo asino ha una parte da natura pi? de gli altri
animali.
Limerno. Come cos??
Merlino. Che l'asino con due voci in una istessa musica pu? cantare.
Limerno. Anzi pu? cantare, sonare e battere insieme.
Merlino. Ann?davi un altro groppo a questa virt?.
Limerno. Quale?
Merlino. Messer lo asino sa chiudere una borsa senza serraglie.
Limerno. Maravigliavimi se da gli asini si potesse guadagnare altro che
calzi e corregge e da un Merlino altro che sporche e stomacose parole.
Or stattine, tuo mal grado, in questa tua lordura, porco da brotaglie
che tu sei, ch? ben di me medemo non possio fare che non mi maraviglia,
standomi quivi ad altercar con un devorone di lasagne, nemico di
gentilezze e cortesie.
Merlino. Vanne tu, vanissimo ed effeminato cinedo! ch? gli odori de
quelli toi unguenti e impiastri fumentati per altra cagione non porti
tu, se non per ammortare e spegnere lo fetore de le sozze bagascie fra
le quali giorno e notte sempre tu dimori.
LIMERNO
Forsennato e pazzo che son io! essermi raffrontato a favoleggiare con
questa destruzione di rafi?li! O meschino me! se la unica mia signora e
divinissima dea giammai presentisse lo suo Limerno aver dimorato una
bona pezza con un lordissimo porco, or che direbbe? or che farebbe ella?
Per lo vero, non mai pi? se non con torto sembiante mi guardarebbe. Voi
adunque, chiari fonti, cristallini ruscelli, porporei fiori, amene
piagge, riposti antri; voi, gai augelletti, lascivetti conigli,
guardativi che alcuno di voi non presumi lo folle mio errore a lei
manifestare; a lei dico, la cui presenzia tutti con un sol riso vi
abbella, che molte volte d?gnavi de l'angelico suo conspetto,
appoggiando le belle membra or su quella fiorita sponda del vivo
ruscello or sotto quel speco inederato di allori, mentre l'ardente sole
a gli animali rende l'ombre aggradevoli. Deh! pregovi, tenetimi dal mio
sole coperto; ch? dubbio non ?, quando ella non pi? si degnasse di
comportar le mie lodi, lo mio ver' lei amore, io ne morirei, io da me
istesso di quell'olmo al vecchio tronco mi sospenderei. Ma, inanti la
miserabil morte mia, annunziovi che crudel vendetta di tutti voi ne
pigliarei: non ? fiore, non ? pianta, non ? fonte, che impetuosamente
non stracciassi, svellessi e disturbassi. Statene dunque, o de' miei
secreti consapevoli, statene taciti e quieti, ma non s? taciti e quieti
che le rime mie, le quali ora sono cantando per isfogare, non subito le
riportati e recantati a le sue divine orecchie. E perch? voi avete ad
essere miei fidelissimi compagni, consequevolmente voglio che d'ogni mio
secreto voi siate participevoli.
Io dunque meritar puotei la entrata di questo santissimo giardino allora
quando la fama sola d'una non pur bellissima ma prudentissima madonna mi
cocque le medolle, lo cui bel nome voi ne' capoversi di questo
succedente sonetto potreti conoscere, lo quale gi? lo fido mio Falcone
nel scorzo di quel frassino intagliando scrisse:
G loriosa madonna, il cui bel nome I n capo de' miei versi porr? sempre, V orrei pur io saper de quali tempre S ian que' vostr'occhi neri ed auree chiome! T rema ciascun in lor, mirando come[228] I vi sia la virtude, che distempre N ostra natura e 'n ferro i cuori tempre, A cci? pi? di leggier lor tiri e dome.
D i calamita dunque se non s?te, I n voi di cotal pietra ? forza almanco V ivace s?, ch'ogni materia liga. I o tragger vidi de' vostr'occhi al rete N atura, Amor e 'l Sol di sua quadriga. A ltra simile a voi chi vide unquanco?
LIMERNO
Mirabilissima ? per certo di costei la beltade e cortesia, la cui fama
sola (or che fa poi la presenzia?) puote di luntane contrade altrui
ricondurre a vedere e contemplare la tanta lei vaghezza, la tanta lei
graziosissima onestade. Laonde chiunque al primier assalto la vede,
subitamente vien constretto a prorumpere in coteste simili parole:
Or non pi? fama, or non pi? 'l sparso grido l'unica sua bellezza mi dichiara; ch?, mentre agli occhi nostri non fu avara,[229] vidila s?, che cos? ardendo i' grido: — Per l'universo non che 'n questo lido pi? bella, accorta, pronta, onesta e rara donna chi vide mai? quivi s'impara nata belt? d'Amore ad esser nido. — Per? se questo e quello od altri l'ama, maraviglia qual ?? ma ben saria, s'uom ? che lei mirando non s'impetra! Quel guardo pregno d'alta leggiadria, quel dolce riso anco nel cuor mi chiama: — Costei sola del ciel le grazie impetra!
LIMERNO
Ma s? come dal ciel ogni grazia in lei discese, cos? ella in me non
dedignossi la sua impartire, contentandosi ch'io di lei faccia resonare
voi, sollevati colli e ombrosi poggetti. Or dunque abbassativi, o verdi
cime de voi, faggi ed abeti; de voi, lauri e mirti; de voi, querze ed
ilici; de voi, viti ed olmi: abbassativi, dico, ad ascoltare questa mia
sonora cetra, ma non bastevolmente sonora a l'altezza di quella madonna;
ad udire queste mie leggiadre rime, ma non leggiadre al merito di quella
dea; a sentire lo mio dirotto pianto, ma non s? dirotto che poscia
l'ardentissime faci spegnere de l'affocato core! E se troppo
baldanzosamente vi paio di fare mentre io dico di lei d'ogni alto stile
degna, incolpate sol Amore, lo quale mi fa sovente dire quello che di
tacere assai mi f?ra meglio, e, sognandomi pi? volte, movemi a
vaneggiare quanto ora s?te per udire in questa mia debil cetra:
LIMERNO
Questa madonna, che s? dolce, altiera, un sol di tante stelle in mezzo asside,[230] dimmi, dond'? che austera in volto ride scoprendo insieme il verno e primavera? Vedi se di vert? donna s? intera fu mai, ch'un cor a un sol riso conquide! Ma lui tropp'alta speme non affide, ch? fugge 'l riso ed egli pi? non spera. Cos? l'alta guerrera e sferza e freno tien di chi l'ama, ed ama chi la vede, anzi chi l'ode, anzi chi dir ne sente. Cos? 'l regno d'amor costei possede, ove tanti be' spirti, saggiamente bella, nudrisce al dolce suo veleno.
LIMERNO
Quando l'alma gentile, per cui sola moro la notte e poi rinasco 'l giorno, venne dal ciel, per farvi anco ritorno, in questa vita ch'? d'errori scola, Amor, che 'nqueto quinci e quindi vola, si le fe' contra di sue spoglie adorno, qual fier tiranno ch'al suo carro intorno ha tanti uomini e d?i, ch'al mondo invola. Ma, lei di s? maggiore e d'altre frezze vista luntan alteramente armata, stette smarrito e dal triunfo scese. Quella da sue virt?, da sue bellezze, di che l'orn? natura e 'l ciel, levata nel carro stesso, in noi l'arco si tese.
LIMERNO
Alluntanato ? 'l sole, e noi qui manchi del suo bel raggio (fan pi? giorni) lassa. Io, pur spiando s'altri quindi passa, spesso alzo gli occhi, di mirar gi? stanchi! I' dico, s'alcun passa, che rifranchi noi d'esta valle del suo lume cassa, narrando il suo ritorno; ma trapassa con speme l'anno, e morte abbiamo ai fianchi.[231] Sleguasi 'l tempo n? pur anco appare chi dica: — Annuncio a voi grande allegrezza: ecco torna colei che 'l mondo abbella! — Lasso! non so che pi? mi speri, ch? ella per su que' monti con Diana, pare, va solacciando e noi qui gi? non prezza.
LIMERNO
In quelle parti, ove di poggio in valle, di valle in poggio va scherzando aprile, madonna or giace e in atto signorile sovente in l'erbe pon su' fior le spalle. Zefiro intorno baldamente v?lle spirando in quella faccia, in quel gentile[232] sino d'avorio schietto, e chiama vile di Borea l'Orizia e biasmo d?lle. Talor ella si parte al loco, dove gi? di sua Laura s? altamente disse colui che 'n rime dir ha 'l pi? bel vanto. Quivi s'inchina um?le al sasso e move a l'ossa ch'entro stanno un dolce pianto, ch'Amor sul marmo di sua man poi scrisse.
LIMERNO
Quando 'l tempo, madonna, a noi s? parco, dramma di s? concedami talora di vosco ragionar, i' grido allora: — Dolci fiamme d'amore, dolce l'arco! — Ma quando invidia le pi? fiate il varco mi serra ai lumi, ove convien ch'io mora, vo richiamando mille volte l'ora: non ? amarezza a l'amoroso incarco! Qui poi la fede, che di par col sole[233] certar solea, s'annebbia di sospetto, fulgura il sdegno e zelosia tempesta. Per? scusar si deve se, d'un petto scacciato 'l cor dal vermo che l'infesta, non gi? d'invidia ma d'amor si dole.
LIMERNO
Invido ciel che tante stelle e tante in grembo hai sempre e di lor vista godi, a che per cento vie, per cento modi,[234] la mia levar contendi a me davante? N'hai mille e mille di splendor prestante, e pien d'invidia pur t'affanni e rodi! Per cui? sol per colei che, acci? mie lodi sianle pi? belle, starmi degna innante. Bastar ti deve il tuo, lascia 'l sol mio, che 'nfiamme i spirti e sopra s? l'innalzi, come 'l tuo nutre i corpi, l'erbe, i fonti. Ma 'l mio perch? pi? bello, in tal desio rancor ti sferza, che ne trai de' calzi, e 'n su le cime tue v?i ch'egli monti.
LAMENTO DI BELLEZZA
I o tratto a l'ombra d'un gentil boschetto V idi, giacendo su la piaggia erbosa, S tarsi donna solinga e penserosa, T urbata in vista, col mento sul petto. I n tal vaghezza stava, ch'ivi intorno N ? fu pianta n? augel che non movesse A lei mirar e seco ne piangesse.
I' mi le appresso e per veder m'abbasso. V idila troppo, aim?! ch?, alzando il viso, S i mi scoperse in lei tal paradiso, T al, dico, che mi fece d'uom un sasso. I n me si volse e disse: — Fa' ritorno, N ? star qui meco ove star sola deggio A pianger quel che, tarda, in me correggio.
I l dolo amar che pi? sempre si acerba V ien d'alterigia molta e troppo orgoglio;[235] S on bella, come vedi, e mi raccoglio T utta sovente in donna, ma soperba I nalzo lei cos?, che 'n questo scorno N e son rimasta, onde l'alta bontade A ma suppor l'orgoglio ad umiltade.
I n queste bande su dal primo cielo V ols'egli in scherno mio, ch'un'alma stella S cendesse umile assai di me pi? bella. T ant'ella ? pi? gentil quant'ha pi? 'l velo I n cerco de ligustri e rose adorno. N acque non per mostrar quant'? bellezza, A nzi, bench? sia bella, lei disprezza.
I o son (perch? ti miro star sospeso) V ana belt?, ch'orno di gigli e rose[236] S ol de le donne i volti, ma ritrose T utte le faccio e di cuore scorteso I n lor amanti, cui di giorno in giorno N udrendo van di speme, e mai non giunge A lor il patto, ma si fa pi? lunge.
I n questo l'alto padre pi? adirato V er' me ch'abbello i visi e i cuor inaspro S culpendo lor di porfido e diaspro, T olse 'l bel spirto e l'ebbe incatenato I n quelle belle membra ove soggiorno. N on fa soperbia mai, non schivo sdegno, A nzi ? d'alte virtudi un vaso pregno.
I l nome suo dal ciel in terra stette. V olendolo saper, fa' che misure, S cendendo d'alto, le maggior figure: T re volte e quattro il trovarai di sette I n sette versi. — Allor indi mi torno, N ? possio pi? di lei dolermi fina A tanto che sei nosco, alma divina!
CENTRO DI QUESTO CAOS, DETTO ?LABERINTO?
CLIO
Qual gode in carne perch? in carne viva e, in terra stando, l'animo da terra non leva al ciel (onde si parte) unquanco, colui d'umana spezie, in cui si serra l'alta ragione, ad or ad or si priva, s? come di candela il lume stanco vedesi, giunto al verde, venir manco. Di che, gi? spento, non che morto, il sole de la giustizia, resta cieco e palpa la circonfusa nebbia e, come talpa sotterra errando, uscir n? sa n? vole; tanto che 'l miser s?le un nuvol d'ignoranzia farsi tale[237] che mai del ciel non sa trovar le scale. Se mi deggia pensar o in terra dentro o sotto 'l ciel, fra terra e l'aer puro, esser in pene stabil altro inferno d'un core ne' peccati antico e duro, non so, s?ssel pur Dio! Mi par un centro, l'abito nel mal far, di foco eterno; quando che n? d'estade n? di verno forza veruna o sia losinga d'uomo (questo sperar dal cielo sol si debbe!) quell'infelice misero potrebbe indi ritrarlo pi? di bestia indomo. Per? tal vizio nomo l'orribil ombre del Ca?s deforme, cui sempre a morte in grembo un'alma dorme.
TRIPERUNO
S tavami basso nel cespuglio e queto, V ago d'udire pi? che mai Limerno, E gi? m'era disposto per adrieto V olgermi di Merlin for del governo. E al fin sbucato da la macchia, lieto[238] R ichiamo lui: — Deh! svellemi d'inferno! — A lui dico, che gi?, calando il sole, T olsesi dal cantar dolci parole.
— O vago — a lui diceva — giovenetto, B en mi terrei de gli altri pi? beato, S'io fusse tale che tu avessi grato T enermi (ecco son presto!) a te soggetto. — R estossi allora quello, e col bel viso I l novo Ciparisso ovver Narciso: — C hi chiama? — disse e, vistomi soletto, T ennesi a lungo il naso fra le dita: — O h tu! mi sai — dicea — di lorda vita!
C ?cciati presto in quel fragrante rivo, L avandoti lo puzzo fin ch'io torni. — A llor si parte ritrosetto e schivo, V edendo una carogna in luoghi adorni. S pogliomi nudo in quel fonte lascivo[239] T emprato d'acque nanfe, che da' forni R igando viene gi? d'un monticello, O ve Ciprigna gode Adonio bello.
C elavasi, ne l'alpe giunto, il sole. E cco, fra molte ninfe vaghe e snelle L imerno torna solacciando, e quelle L ui van ferendo a b?tte de viole. I o, ch'era nudo, ambe le mani aduno Su quelle parti oscene che ciascuno, Q uantunque sia piccino, coprir s?le. — V edrai — parla Limerno — quant'? meglio E sser di miei che di quel sporco veglio!
R ecativi 'l in braccio, o belle ninfe, E d a la dea portandolo direte: — M adonna, dentro le muschiate linfe O fferto s'? costui nel nostro rete: T egnamolo qui nosco, se 'l vi pare, I donio testimon, quando che v'abbia S empre a lodar ne l'amorosa rabbia. —
— O — dissi allor, — o di vaghezza fiore, C hi mi porge la stola ond'io mi copra? — C uor mio — rispose — quivi non s'adopra V estir alcuno dove regna Amore,[240] L o qual ignudo va co' soi seguaci: T aci l? dunque, pazzarello, taci! — A llor fui ricondutto a grand'onore T ra gioveni leggiadri e damigelle, A vanti una pi? bella de le belle.
V enere fu costei, la qual nel seggio R egina di Matotta il settro tiene. — B enedetto sia 'l cuore di chi viene — I ncomenciossi allor cantar intorno — S otto Amatonta al dolce lei soggiorno! —
L a?ti, cetre, lire ed organetti I van toccando parte, parte al s?no T enean le voci giunte, ahi quanto vaghe. I n quel medesmo tempo, a vinti a trenta, B asciandosi l'un l'altro insieme stretti[241] V anno danzando intorno, e questi sono S inceri giovenetti e donne maghe.
E rano mille fiamme intorno accese S otto gli aurati travi de la sala: S tanno da parte alquanti e fan un'ala E qua e di l? mirando le contese.
P endono da' pareti alte cortine R icchissime di seta, argento ed oro, O ro sopr'oro, dico, spesso e rizzo C on mille groppi, ziffere e beschizzo; V asi di pietre di gran pregio e fine L ungo a le mense fanno un bel tesoro.
A cque rosate, nanfe ed altri odori T endon spruzzare i pargoletti Amori.
N ascosi molti a le cortine drieto V anno non so che far, ed escon dopo N el volto fatti in guisa di piropo C he furon d'alabastro per adrieto.
AMORE DI TRIPERUNO E GALANTA
I o dunque nudo fra cotanti nudi N on pi? arrossisco, non pi? mi vergogno, F atto di lor famiglia, ove m'agogno L assivamente in quei salaci studi. A lato la regina sta Limerno, T enendole la bocca ne l'orecchia, O nd'io ne fui chiamato possia al trono.
I n terra umilemente i' m'abbandono, N anti ch'al primo grado vi montassi, C he d'altro che de marmi, petre e sassi E rano, ma sol oro e gemme sono. D ritto poi sullevato gi? m'avento I n fretta nanti a l'alta imperatrice, T remando per vilt? qual foglia al vento.
I ncomenci? l'altiera: — O Triperuno, V assallo mio, de gli altri non men caro, S appi che 'l tuo Limerno saggio e raro T'ha impetrato da me quel che nessuno I n questa corte mai gioir non puote. N ove anni e sei non passa una fanciulla: A te la dono e facciovi la dote.
C ostei, pronta, vivace, accorta e bella, V oglio ch'ami, desidri prima ed ardi C he piagna e canti, assorto ne' soi guardi, V ersi pregni d'Amor e sue quadrella. L imerno fia tuo mastro e fida scorta: L imerno sa quel si ricerca amando. O h dolce sorte a chi entra cotal porta!
A ffrettati, Lagnilla, e qui Galanta[242] T ien modo di condur furtivamente, Q uando ch'ella non esce mai di ciambra. — V enne la ninfa chiesta finalmente, E tutto di rossore il viso ammanta.
— G alanta mia — dicea l'imperatrice — A lza la fronte e mira il novo amante! — L ev? la vista, dunque, ove si elice E cco una fiamma ed ove un cieco infante, R accolto l'arco e la saetta, altrice A hi! di quanti martiri, lo diamante T rito mi ruppe al petto e quindi svelse I l cor gi? fatto de' sospiri al vento S tridente face e d'acque un fiume lento.
O h quante da quell'ora incomenciaro P ene, tormenti, affanni, sdegni ed ire, T ravagli, doglie, angoscie e zelosie! A rsi, alsi di ghiaccio e fiamme dire, T al che 'l dolce al fin divenne amaro.
I mper? ch'una Laura sozza e lorda, N efanda, incantatrice, invidiosa E ra del nostro amor la lima sorda. S orda lima costei fu senza posa, S enza quiete mai, del dolce nodo, E bra sol di spuntar col chiodo il chiodo.[243]
T ant'ella fece, ch'io nel fin m'accorsi O mbrosa esser cotesta ria cavalla. G alanta ne ridea, donde pi? acerba, I niqua pi?, ne venne ai duri morsi, S ? ch'io le scrissi questo in una querza:
TRIPERUNO
Sl?guati in polve, fulminando Giove, o tu, che, sozza tanto, lorda e vieta, lo nome hai di colei che 'l gran pianeta mosse da prima ad altre imprese e n?ve! Fogo dal ciel giammai non casca dove natura strinse l'onorata meta del sempre verde lauro, che non vieta ulla stagion far le sue antiche prove. Ma Dio tal legge in te servar non deve, ch? hai sol il nome e non di Laura i gesti: sei di carbone e credi esser di neve. Pur meglio, acci? 'l bel lauro non s'incesti, quel ?v?, che 'l terzo seggio vi riceve,[244] tolgasi 'l quarto, acci? che ?larva? resti.[245]
DIALOGO SECONDO
LIMERNO, TRIPERUNO E F?LICA
LIMERNO
Io canto sotto l'ombra del bel lauro che pose il gran Petrarca in tanta altura, lo qual, merc? d'Amore, mentre dura il ciel, terr? la chiave del tesauro. Nel mese quando 'l sole si alza in Tauro ed empie il monte e 'l piano de verdura, nacque una bella e saggia creatura, che riconduce a noi l'et? de l'auro. Cantar vorrei sue lodi, o fresche linfe: linfe fresche di Cirra, or dati bere a chi dicer d'un Febo novo brama! Girolamo sol dico, in cui non spere pi? di me affaticar altrui le ninfe, ch? pi? di me, so bene, altrui non l'ama.
LIMERNO
H or che per prova, Amor, t'intesi a pieno I n fiamme ove gi? n'alsi e 'n ghiaccio n'arsi, E cco mi tieni d'altro dol a freno. R egnar di se medemo e suo gi? farsi O h chi potr? giammai sotto 'l tuo giovo? N iun, o se pur gli ?, non sa trovarsi. I o quella via, quest'altra cerco e provo, M a che mi val? tu mi travolvi e giri A l'aspro tuo voler, n? schermo i' trovo.
D iluntanarmi volsi e placar Tiri (I ri tant'empie!) di te, fier tiranno, E nulla feci, ch? pi? in me t'adiri: D i maggior pene, onde maggior ? 'l danno, A mor, mi sproni e fai il tuo costume.
H aggia chi pi? s'allunga pi? d'affanno. I o piansi gi? molt'anni sotto 'l nume E rrando d'una ninfa, onde, per pace R ecarmi, mi privai del suo bel lume. O h qual mi crebbe ardente e cruda face N el petto allor che gli occhi, anzi due stelle, I o non pi? vidi, e 'l raggio lor mi sface! M i sface il raggio lor; e pur senz'elle I' non vivrei giammai, perch? non pinse
M ai Zeusi un s? bel volto o 'ntagli? Apelle. E cco, donna, il mart?r, ch'al cor s'avvinse: R itrassimi da voi, ma non lo volle C olui che 'n me sovente ragion vinse. A dunque per gir lunge non si tolle T anta mia passion, ch'ebbi gi? inante; E questo avvien ch? 'l mal ? in le medolle. L untan il corpo mi port?r le piante, L untan il cor non gi?, perch? vel diede I n su l'aurata punta il vostro amante.
D iedel a voi, ch'avesse ad esser sede I mmobile perpetua d'esso, e voi V i 'l toglieste per cambio, data fede A l'un e l'altro sempre esser fra doi.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Nel vero, caro mio maestro, non sono giammai tanto fastidito
ed annoiato che, udendo voi e l'aurea vostra lira insieme cantare, non
subitamente mi racconsoli.
Limerno. Ed io credevami tanto da la turba e volgo entro questa selva
luntanato essere che niuno, se non le querze ed[246] olmi, avessero ad
ascoltare.
Triperuno. Dogliomi essere uomo di turba e vulgare; ma, la dolcezza di
vostre muse ovunque mi volgo sentendo, non men di ferro a la tenace
calamita son io da quella tirato. Nulla di manco, se da me voi s?te del
vostro singular concento impedito, parendovi, ora mi parto e solo vi
lascio.
Limerno. Solo non ? chi ama, anzi de' pensieri ne la moltitudine
sommerso! Io sopra ogni altro veggioti volentieri, Triperuno mio. Vero ?
che lo essermi da la consueta nostra compagnia distratto potevati
accertare che da me dovevasi far cosa la quale fusse da essere secreta.
Io, come tu sentisti, cantai test? una canzone, li cui capoversi non
vorrei gi? ch'uomo del mondo avesse notato, che 'l gentilissimo spirito,
di cui sono (gi? molto tempo fa) umile servitore, non men ha cura de
l'onorevole suo stato che del comun obietto di questo nostro amore.
Dimmi dunque: hai tu lo nome suo compreso?
Triperuno. Non, per il dolce groppo di mia Galanta!
Limerno. Non senza molta cagione ricondutto mi sono a l'ombra di questo
lauro, lo quale, tanto agiatamente difeso da queste duo collaterali
querze cos? da venti e procelle come da' raggi de l'ardentissimo sole,
al sopranominato giovene con le sue sempre chiome verde fa di s?
gratissimo soggiorno. Ma dimmi, se 'l sai, questi doi versi latini, li
quali nel tenero scorzo di esso lauro tu vedi quivi intagliati essere,
chi fu lo sottil interpretatore di essi?
Triperuno. Isidoro.
Limerno. Isidoro Chiarino?
Triperuno. Esso fu.
Limerno. Oh divino spirito d'un fanciullo! ch? veramente nel sino di
Talia succi? le dotte mamme, n? maggior fama ed onore si arreca lo
autore che 'l commentatore loro.
Triperuno. Sono assai male insculpiti.
Limerno. Scriveli, prego, un'altra volta pi? ad alto, e perch? lo
argomento loro in quello... sai? intagliali col ferro acuto.
Triperuno. Intendo.
DE SOMNO
Hic Iaceo, Et Repens Oculis Natat Intima Mors, At
Divorum Imperio Est Dulcior Ambrosia.
LIMERNO
Tu quelli hai gi? scritto? Oh quanto bene stanno! Fammi appresso un
piacere, perch? lo ingegno del giovenetto pi? ognora posciasi
addestrare: scrivi ancora un altro enigma non men di questo laborioso,
lo quale dopoi la morte di Giulio pontifice, sotto Leone, fu nel
candidissimo tumulo di Catarina, dal suo consorte crudelmente uccisa,
sculpito, dove ella cos? parlando dice:
TUMULUS CATHARIN?
CONfodit SORS ME VSum ROBoris ERige TUScha
Sphera, necis causa est non nisi nulla meae.
TRIPERUNO
Cotesta Catarina, se bene mi sovviene, fu gentilissima ed amorosa donna;
a la quale fu gi? mandato quel sonetto con un paio de guanti insieme, li
capoversi del quale dicono lo nome suo:
D'una tenera, bianca, leggiadretta, I ntegra onesta man elesse 'l cielo V oi, puri guanti, ad esser dolce velo: A ndati a lei, ch'omai lieta v'aspetta!
C ortesamente la terrete stretta, A nzi pur calda contra l'empio gelo, T utto, per?, ch'io per soverchio zelo H abbia di voi non a prender vendetta. A mo l'alta virt? che 'n s? diversa R egna pi? ch'in Aracne od ella istessa I nventrice de l'ago e bel trapunto.[247] N ? man pi? dotta n? pi? dolce e tersa A vvinse guanto mai, n? chi promessa
Onestamente pi? servasse appunto.
LIMERNO E TRIPERUNO
Limerno. Dirotti la veritade, o Triperuno: questi capoversi, non usati
mai da valentuomo veruno, poco a me sono aggradevoli e a gli altri
sodisfacevoli, imperocch? altro non vi si trova se non durezza di senso
ed un impazzire di cervello. Ma ragionamo d'un'altra cosa di assai pi?
importanza di questa. Confessati meco, e non vi aver un minimo
risguardo. Chi fu lo compositore di que' versi, li quali oggi furono da
tutta la corte in una querza letti e biasmati?
Triperuno. Perch?, caro maestro? sapeno forse come gli altri miei?
Limerno. Di che?
Triperuno. Di mastro di scola.
Limerno. Perch? cos? d?': ?mastro di scola??
Triperuno. Li quali, per la variet? de' stili da loro adoperati
pedantescamente, come voglio dire, scrivono e fanno un Caos non men
intricato del mio.
Limerno. Io bene di cotesto tuo ravviluppato Caos mi sono
maravigliato, lo quale potrebbe a gli uomini dotti forse piacere; ma non
lo credo, e spezialmente per cagione di quelle tue postille latine suso
per le margini del libro sparse.
Triperuno. Io per confonderlo pi?, come la materia istessa richiede,
volsivi ancora la prosa latina in aiuto de lo argomento porre.
Limerno. Lasciamo in disparte lo stile tuo, o sia pedantesco o triviale;
ma peggio ?, che sono quelli versi mordaci de la fama di tale che
leggermente potrebbeti offendere. Tu non conosci ancora, buono uomo, la
rabbia d'una adirata ed orgogliosa donna, la quale tengasi da qualcuno
oltraggiata e sprezzata.
Triperuno. Qual bene o male posso io sperare o temere da questa larva o
volsi dire Laura?
Limerno. Voglia pur Iddio che tu non ne faccia veruna isperienza!
Triperuno. In qual modo un sacco di carcami, una cloaca di fango, una
stomacosa meretrice del dio Sterquilinio ? per vendicarse di me?
Limerno. Con mille modi, non che uno.
Triperuno. Come?
Limerno. ? peritissima vindicatrice.
Triperuno. Qual s? terribile ruffiano d'una trita bagascia prenderia
giammai la difesa?
Limerno. Non vi mancano gli affamati al mondo. Ma sei male, Triperuno,
su la via di conoscere, in cui posciati ella danneggiare.
Triperuno. Avvelenarmi?
Limerno. No.
Triperuno. Farmi con ferro uccidere?
Limerno. N? questo ancora.
Triperuno. T?rmi la fama?
Limerno. Non ha credito.
Triperuno. In qual foggia dunque?
Limerno. Trasformarti in uno asino.
Triperuno. Che dite voi?
Limerno. Un asino, s?; tu ti maravigli dunque?
Triperuno. Ho ben io pi? volte inteso queste donne aver possanza, con
non so che unguenti, voltar gli uomini in becchi.
Limerno. Anzi, assai pi? becchi fanno che castroni. Quanti oggid?
conosco io, li quali gi? per violenzia de suffumigi da queste maghe
adoperati furono in bovi, buffali ed elefanti conversi!
Triperuno. Questo saria ben lo diavolo! Se questa Laura mi trasfigurasse
in un becco, vorrebbemi pi? oltra bene Galanta?
Limerno. Pi? che mai.
Triperuno. Come? io sarei pur un becco?
Limerno. Ed ella una capra.
Triperuno. Cambiarebbe ancora lei?
Limerno. Che 'n credi tu?
Triperuno. Io gi? comincio temere.
Limerno. Tien stretto.
Triperuno. Forse che non sa ella ancora chi sia lo autore?
Limerno. Tu sei pazzo persuadendoti una malefica non sapere quello che a
tutta la corte gi? divolgato leggesi.
Triperuno. Lasso! ch'io me ne doglio.
Limerno. Tu vi dovevi pi? per tempo considerare e prenderne[248] da me
consiglio.
Triperuno. Non l'ho fatto, in mia malora!
Limerno. Se tu sapessi la importanza di questo scrivere e lo mandar cos?
facilmente a luce le cose sue, vi averessi meglio pensato; ch? pagarei
un tesoro di Tiberio, non mai ne gli occhi de tanti valentuomini una mia
operetta scoperta si fusse.
Triperuno. Come far? io dunque, misero me? ch'io debbia un asino
devenire?
Limerno. Or va' pi? animosamente! tu gi? sei v?lto in fuga, e niuno ti
caccia: non ti partirai da me se non bene consigliato e consolato. Ma
pregoti, Triperuno mio, non t'incresca sotto l'ombra di quel platano
corcarti, fin che io faccia la prova di alquanti versi con la cetra, da
essere in questa sera da me recitati avanti la regina; e veramente assai
aver? che fare, se li quattro sonetti da lei richiesti aggradirla
potranno.
Triperuno. Questo tal comporre a l'altrui petizione difficilmente pu?
sodisfare a coloro li quali non vi hanno parte alcuna. Ma ditemi, prego,
avanti che da voi mi parta, lo soggetto de' quattro sonetti.
Limerno. Dirottilo ispeditamente. Gi? la signora non ? cagione propria
di questi: ma heri Giuberto e Focilla, Falcone e Mirtella mi condussero
in una camera secretamente, ove, trovati ch'ebbeno le carte lusorie de
trionfi, quelli a sorte fra loro si divisero; e v?lto a me, ciascuno di
loro la sorte propria de li toccati trionfi mi espose, pregandomi che
sopra quelli un sonetto gli componessi.
Triperuno. Assai pi? duro soggetto potrebbevi sotto la sorte che sotto
lo beneplacito del poeta accascare.
Limerno. E questa tua ragione qualche bona iscusazione appresso gli
uomini intelligenti recarammi, se non cos? facili, come la natura del
verso richiede, saranno. Ora vegnamo dunque primeramente a la ventura
ovvero sorte di Giuberto; dopoi la quale, n? pi? n? meno, voglioti lo
sonetto di quella recitare, ove potrai diligentemente considerare tutti
li detti trionfi, a ciascaduno sonetto singularmente sortiti, essere
quattro fiate nominati s? come con lo aiuto de le maggiori figure si
comprende:
GIUSTIZIA, ANGIOLO, DIAVOLO, FOCO, AMORE
Quando 'l Foco d'Amor, che m'arde ognora, penso e ripenso, fra me stesso i' dico: — Angiol di Dio non ?, ma lo nemico che la Giustizia spinse del ciel fora. Ed ? pur chi qual Angiolo l'adora, chiamando le sue fiamme ?dolce intrico?. Ma nego ci?, ch? di Giustizia amico non mai fu chi in Demonio s'innamora. Amor di donna ? ardor d'un spirto nero,[249] lo cui viso se 'n gli occhi un Angiol pare, non t'ingannar, ch'? fraude e non Giustizia. Giustizia esser non puote, ove malizia ripose de sue faci il crudo arciero, per cui Sat?n Angiol di luce appare.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Molto arguto parmi questo primo, n? anco di soverchio
difficile; ma che egli aggradire debbia la regina con l'altre donne, non
credo.
Limerno. Dimmi la causa.
Triperuno. Lo sobbietto non lauda il feminile sesso.
Limerno. E Giuberto non lo volse d'altra sentenzia di quella c'hai
udito. Or vengone al secondo, nel quale la sorte di Focilla contienesi.
Questa fortuna al mondo ? 'n Bagattella, ch'or quinci altrui solleva, or quindi abbassa. Non ? Tempranzia in lei, per? fracassa la forza di chi nacque in prava Stella. Sol una temperata forte e bella[250] donna, che di splendor le Stelle passa, la instabil Rota tien umile e bassa; e 'n gioco lei di galle al mondo appella. Costei tempratamente sua Fortezza usato ha sempre, tal che 'l Mondo e 'nsieme la sorte de le Stelle a scherzo mena. Ben pu? fortuna con sua leggerezza ir ne le Stelle di pi? forze estreme: chi sa temprarsi lei col Mondo affrena.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Questo altro sonetto appresso di me pi? del primo lodevole mi
pare: cosa che gi? per lo contrario giudicai da prima dover essere,
attendendovi quella sorte del ?Bagattella? non potere se non li soli
consorti disconciare. Ma, s? come a me pare, de gli altri assai meglio
vi quadra.
Limerno. Ogni cosa che ad essere patisce durezza, lo pi? de le volte
eccellente diviene: laonde Focilla, donna, come si vede, prudentissima,
contristandosi prima di cotal leggerezza a lei per ventura sortita, or
che reuscita la vede in maggior suo onore, giubila e saltella. Ma vengo
a l'oscurissimo soggetto de li disordinati trionfi di Falcone, al quale,
sopra tutti gli altri gentile, doveva la meglior fortuna accadere.
LUNA, APPICCATO, PAPA, IMPERATORE, PAPESSA
Europa mia, quando fia mai che l'una parte di te, c'ha il turco traditore, rifr?ncati lo Papa o Imperatore, mentre han le chiavi in man, per lor fortuna? Aim?! la traditrice ed importuna ripose in man . . . . . . . . . . onore[251] di . . . . . e tien . . . . . furore sol contra il giglio e non contra la Luna. Ch? se 'l . . . . non fusse una . . . . che per un pi? . . . . . . . . sospeso tiene, la Luna in griffo a l'aquila vedrei; ma questi . . . . . . . . . . miei fan s? che mia Papessa far si viene la Luna, e vo' appiccarmi da me stessa[252].
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Voi giocate, maestro mio, sovente al mutolo in questo
sonetto.
Limerno. Fu sempre lodevole.
Triperuno. Che cosa?
Limerno. La verit?...
Triperuno. Confessare?
Limerno. Anzi tacere.
Triperuno. La cagione?
Limerno. Per scampar l'odio.
Triperuno. Di poco momento ? questo odio, se non vi susseguisse la
persecuzione.
Limerno. Per? lo freno fu trovato per la bocca.
Triperuno. Meglio ? martire che confessore.
Limerno. Cotesto ? pi? che vero. Ma veggiamo finalmente lo sonetto di
Mirtella, la cui sorte fu questa:
SOLE, MORTE, TEMPO, CARRO, IMPERATRICE, MATTO
Simil pazzia non trovo sotto 'l Sole, di chi a gioir del Tempo tempo aspetta: Morte, su 'l Carro Imperatrice, affretta mandar in polve nostra umana prole. Al Sole in breve tempo le viole col strame il villanel sul Carro assetta: Matto chi teme la mortal saetta,[253] ch'anco l'Imperatrici uccider vole. Per? de' sciocchi avrai sul Carro imperio s'indugi, donna, pi? mentre sei bella, ch? 'l Sol d'ogni bellezza invecchia e more. Godi, pazza! che attendi? godi 'l fiore! fugge del Sol il Carro, e il cimiterio la nera Imperatrice empir s'abbella.
TRIPERUNO, LIMERNO E F?LICA
Triperuno. Or questo de gli altri pi? sodisfarmi pare, maestro mio.
Limerno. Avrei con men durezza composto loro, se la divisione di essi
trionfi in mia bal?a stata fusse. Onde pregoti non t'incresca udirne un
altro, molto (per quello che me ne paia) de gli gi? recitati men rozzo e
triviale, quando che la libertade di esso tutta in me solo stata sia,
dove li ventiuno trionfi, aggiungendovi appresso la Fama ed il Matto, si
contengono:
Amor, sotto 'l cui impero molte imprese van senza Tempo sciolte da Fortuna, vide Morte sul Carro orrenda e bruna volger fra quanta gente al Mondo prese. — Per qual Giustizia — disse — a te si rese n? Papa mai n?, s'?, Papessa alcuna? — Rispose: — Chi col Sol fece la Luna tolse contra mie Forze lor difese. — Sciocco qual sei! ? quel Foco — disse Amore — ch'or Angiol or Demonio appare, come temprar sannosi altrui sotto mia Stella.[254] Tu Imperatrice ai corpi sei, ma un cuore bench? sospendi, non uccidi, e un nome sol d'alta Fama tienti un Bagattella.
Ma che miracolo ? questo ch'ora veggio, Triperuno mio?
Triperuno. Dove?
Limerno. Quel matto solenne di F?lica veggio a noi venire.
Triperuno. ? dunque passato di Perissa in Matotta?[255]
Limerno. Costui veramente, se non fallo, ha gittato in disparte le
sportelle col breviario e vole de' nostri farse. O vecchio forsennato,
che cos? inutilmente da gli soi primi verdi anni s'ha ricondutto fin a
la impossibilitade di poter pi? gioire di questi nostri piaceri! Oh come
ha lunga barba il santo eremita! Oh come va savio, noverandosi li passi,
questo santuzzo del tempo vecchio!
Triperuno. Tac?ti, per Dio, ch?, omai troppo vicino, potrebbevi sentire.
F?lica. Dio vi salvi, amici miei.
Limerno.Et vos, domine pater.
F?lica. Di che cosa ragionate voi?
Limerno. Di amore.
F?lica. Amore spirituale?
Limerno. No, animale.
F?lica. Sta molto bene.
Limerno. Ma, dite voi, qual importante causa vi mena in questa regione
amorosa? qual convenienzia ? di questi nostri muschi ed ambracani con
quelli vostri rigidissimi costumi?
F?lica. Causa non pur importante, ma importantissima, mi driccia a te,
Limerno mio, acci? che con gli altri toi simili omai da questo mortal
sonno vi svegli?ti. Queste tre nostre regioni, Carossa, Matotta e
Perissa, veramente sono uno laberinto di cento migliara di errori; n?
mai se non test? la ignoranzia, la sciocchezza, la soperstizia di me e
mei compagni ho conosciuto, li quali avevamo la felicitade nostra
riposto ne l'andar scalci, radersi il capo, portar cilizio ed altre cose
assai, le quali, quantunque siano bone, fanno per? lasciar le megliori.
Ma non v'incresca udirmi, ch? forse oggi la comune nostra salute aver?
principio.
Limerno. Vi ascoltaremo voluntieri: or incomenciate.
LA ASINARIA
DIALOGO TERZO
F?LICA, LIMERNO E TRIPERUNO
F?lica. In poco frutto reuscirebbe lo mio ragionamento assai lungo, se
primamente non mi movessi al sommo principio de tutte le cose, e
pregarlo ch'egli si degni aprirvi gli occhi ed il core, gi? tanto tempo
fa cieco e da la veritade di lungo intervallo disgiunto.
Omnipotens pater, aethereo qui lumine circum mortale hoc nostrum saepis ubique genus, ut queat artificis tenebrarum evadere fraudes, utve queat recti tramitis ire viam, excipias animam hanc, usu quae perdita longo, iam petit infernas non reditura sedes!
Limerno. Ah! ah! ah! ridi meco, Triperuno mio! vedi questo insensato
come ha pregato non so che suo dio per me, come se altro iddio fusse pi?
di Cupidine da esser temuto e pregato.
Triperuno. Ascoltiamolo, caro maestro, ch? egli gi? si leva da la
orazione.
F?lica. Ritrovandomi heri, per avventura, non molto luntano da la
spelonca mia col mio fidelissimo Liberato, da me molto amato e a?to
caro, avvenne che, vedendomi egli tutto nel viso maninconioso, di me
tenero e pietoso divenuto, s? come colui che di benigno ingegno era e
non poco mi amava, umilemente mi domand? la cagione per che s? tristo io
fussi e penseroso e quasi tutto in uno freddo ed insensibile sasso
tramutato. Ed appresso tanto mi preg? che insieme con esso lui in sin ad
un boschetto, lo quale assai vicino era a la grotta mia, ne andai.
Camminando dunque noi con lenti e tardi passi verso il delettevole
boschetto: — Deh! — dissi allora, — caro mio Liberato, gi? fussi io morto
in culla! ch?, poi ch'io mi sono dato a gli vani studi de la naturale
filosofia, a cercare di conoscere le proprietadi de le cose a noi
occulte e impenetrabili, non ebbi mai l'animo mio tranquillo n? quieto,
ed ora pi? che mai l'ho travagliato e de vari e diversi pensieri tutto
ripieno e distratto. Io non veggio omai quello che per me si debba
adoperare o credere; perch?, se veraci sono gli evangelici dottori e se
parimente li sottili e tenebricosi maestri in teologia e nostri sofisti
dicono il vero; se li pontificali decreti ovvero umane leggi, che
vogliamo dire, ligano o ligar possiano le nostre coscienze; ed oltra di
questo se alcuni altri dottori moderni non sono n? capitali nemici de la
vera fede n? bugiardi, ma hanno la verit? ritrovata; a cui creder? io? a
cui prestar? fede? Nel vero, io non comprendo come tutti non possino
errare s? come coloro che omini sono, n? mi pu? entrare nel capo come a
tutti egualmente noi debbiamo o possiamo credere. O miseri cristiani!
ov'? fuggita la ferma fede e piena di credenza de li venerabili
patriarchi, de gli santi profeti, de' poveri apostoli e de tutti i
nostri maggiori? Oim?! donde sono tante e s? diverse openioni? donde s?
contrarie s?tte e s? ripugnanti? onde tante vane quistioni? onde tante
liti ed empie contenzioni? Se una ? la fede e uno battesmo, poscia che ?
uno sol Dio e un signore e fattore de tutte le cose, cos? invisibili ed
incorporee ed eterne come ancora de le visibili e corporee e mortali,
perch? dunque siete voi tra voi tutti divisi? — Non cos? tosto quelle
poche parole ebbi detto, una asinina voce, subitamente rumpendo lo aere,
con soi pietosi accenti percosse le nostre orecchie.
Limerno. Ditemi la verit?, F?lica.
F?lica. Io son presto.
Limerno. Donde veniti?
F?lica. Da Perissa. Per qual cagione questo mi domandi?
Limerno. Le parole vostre mi sapiono di Carossa: baldamente che Merlino
vi ha retenuto ne la catena sua! non gli ? mancato una dramma, che
questo asino da la bocca vostra non abbia parlato!
F?lica. Anzi cos? chiaramente con queste mie orecchie io l'ho sentito
ragionare, come ora facemo noi.
Limerno. Con diavolo! ch'un asino ha parlato?
Triperuno. Lasciamolo finire, caro maestro.
Limerno. S?guiti a sua posta.
F?lica. — Confortativi — disse quella voce — o boni uomini, e non abbiate
paura, ma siate di forte animo! — Per la qual cosa noi tutti sbigottiti,
dattorno v?lti, guardavamo se alcuno vi fusse che noi, senza esserne
avveduti, ascosamente ascoltasse. Ma nessuno vedendovi se non questo
asino, che vecchissimo essere pareva e molto attempato, il quale quivi
nel boschetto pasceva, essendo noi gi? al fine pervenuti del nostro
cammino, vie pi? che innanzi, la pietosa e lamentevole voce udendo,
temuto non avevamo, incomenciammo a stordire e forte temere, e varie
cose fra noi stessi a rivolgere.
Laonde questo asino, alzata un poco la testa, quasi sorridendo, un'altra
volta racconfortandoci disse: — Cacci?ti da voi ogni gelata paura. Io
sono a voi da Dio mandato a mostrarvi la cristiana e vera fede e
sciolvervi ogni dubbio ed ogni vostra questione a finire e terminare.
Le quali parole udendo noi, quale e quanto fusse lo stordimento, voi da
voi stessi puotete pensare: dico che tutti li capelli se ne arricciarono
e, quasi perdute tutte le sentimenta, pi? morti che vivi in terra
cademmo. Ma ritornate poscia in noi le perdute forze ed il natural
vigore e rassicuratene alquanto, lo comenciamo a scongiurare ed a
comandare da parte de Dio che, se ci? inganno fusse del diavolo, tosto
indi si dipartisse. Ma egli, che veramente da Dio era, tutto immobil si
stette; e per levarci ogni sospetto ed ogni dubbiosa mescredenza che ne
l'animo nostro nasciuta fusse o nascerci potesse, con voce assai umana
ed umile rispose cos?: — Quanto sia, figliuoli miei, da fuggire e
biasimare l'essere sciocco e imprudente, e troppo agevolmente e di
leggiero dare orecchie ed aver fede a visioni e parole, quantunque e
buone e veracissime quelle ne paiano, io non potrei giammai con parole
spiegare n? con la penna scrivere. Ma colui, il quale vorr? pi?
sottilmente con l'acume de lo intelletto considerare la cagione de tutte
l'umane miserie, non potr? certamente ritrovar alcuna altra che la
sciocchezza e la s?bita ed empia credenza a?ta da li nostri primi
parenti al velenato e mendacissimo serpente. Onde Cristo, che troppo
bene conosceva il malvagio ingegno di questo fallace
nemico: — State — disse a gli apostoli e a' suoi cari discepoli — saggi ed
avveduti a guisa de li serpenti e de gli aspidi sordi, i quali, come ?
scritto nel salmo, si riturano gli orecchi acci? che non sentano la voce
n? li versi de l'incantatore. — Perch? io reputo gran senno a sapersi
guardare e defendere da gli agguati e da gl'inganni de l'infernale
Lucifero primo inventore e padre de la bugia. E voi bene in ci? e
saggiamente avete adoperato; ch?, ancora che per avventura alcuna volta
il credere scioccamente non rechi il creditore n? lo metta in grande
miseria, anzi il tragga da grave noia e da grandissimi pericoli e
ripongalo in sicurissimo e felice stato, non ? perci? da commendare
molto, dove la instabile fortuna e non l'umano ingegno s'interpone. N?
per il contrario ? da biasimare e riprendere colui lo quale, essendogli
la fortuna nemica e niente favorevole, si ritrova al fine in povero e
assai vile stato e in grandissima miseria, dove bene adoperare egli si
sia ingegnato, ponendo ogni sollicitudine ed ogni arte ed ogni forza per
potere a buono e laudevole fine condurre i fatti suoi. Ma lasciamo ora
stare cos? fatti ragionamenti, e s? per non esser troppo lunghi (ed in
quella cosa massimamente ne la quale non ? di bisogno) e s? ancora per
potere pi? pienamente ragionare de la cristiana fede, la quale assai
larga ed ampia materia di s? ne dar? da parlare.
Limerno. Non mi maraviglio punto se, nel parlare, molto s?te lungo e
fastidioso; e pi? di noi, che stiamovi quivi ad ascoltare.
F?lica. Perch? son io cos? lungo e fastidioso?
Limerno. La pienezza di quel vostro biancuzzo volto dicemi voi essere di
flemma tutto ripieno.
Triperuno. Un flemmatico ? dunque molto verboso?
Limerno. S?, secondo li fisici nostri. N? solamente la flemma causa
moltiloquio e nugacitade, ma tutte l'altre operazioni del corpo rende
pi? tarde e pegre; al contrario d'uno che collerico sia, lo quale il pi?
de le volte le cose comencia due fiate, non riescendogli bene la prima
per l'ingordigia solamente del soperchio desiderio.
Triperuno. Tu v?i forse inferire che egli flemmatico ti neca!
Limerno. Che v?l dir ?neca??
Triperuno. ?Ammaccia?, ?uccide?, ?ancide?.
Limerno. Anzi gli sta cotesto vocabolo molto bene, ch? fermamente non
trovo ?morte? a quella d'una lingua, quale ? quella d'un Alberto da
Carpo di testa rasa.
Triperuno. Io molto bene lo riconosco, lo quale, gi? d'anni carco ed
attempato, ha fatto la pi? bella pazzia che fusse mai, che dirotti poi;
ma fra l'altre sue vert? ? mordacissimo, loquacissimo e vanissimo: ed
appresso lui un Sebastiano non men[256] di lui chiacchiarone e
puzzolente di bocca, lo quale mentendo fassi fiorentino.
Limerno. Megliore vendetta non si pu? fare che scrivere (se non ti
lasciano stare) li soi costumi.
Triperuno. Anzi odi questo mio tetrastico de la nugacitade di quello da
non nominare Alberto, fondato sopra questo verbo latino:
NECAT
N
on necat ulla magis nos
N
ex, non unda necat, no
N
E
t necat igne modo, necat
E
t modo Iuppiter imbr
E,
C
um necor a lingua, mos
C
ui nescire loqui, ne
C
A
t tamen obthurat tot hy
A
ntia dentibus or
A,
T
e necat ore, necat ges
T
u, nece totus abunda
T.
LIMERNO, F?LICA E TRIPERUNO
Limerno. Molto ? bello e artificioso, ma, per quello che me ne paia,
oscuro e faticoso.
F?lica. Deh, per lo amore de la passione di Cristo, non siate cos?
ritrosi a la salute vostra! Lasciatimi finire, non mi sconciate dal bono
e santo proposito, ch'io sono certo delettarannovi li miei ragionamenti.
Limerno. Posciovi molto bene ascoltare, ma non voluntieri, se non mi
parlate di qualche bella donna.
Triperuno. Or oltra, ch? vi porgemo le orecchie.
Limerno. Assai men lunghe di quelle del suo asino.
F?LICA
Stupefatto dunque Liberato, ch'un asino cos? qual uomo saputamente
parlasse, gridando disse: — Oh che cosa ? questa ch'io veggio e sento?
dove son io? or dormo io ancora o son pur desto? Io, per quello me ne
paia, non so se vedo quello che vedo, n? so altres? se odo quel che odo.
Sarei io mai un altro divenuto? Dimmi dunque, messer l'asino, come pu?
egli essere che, essendo tu una bestia la quale di grossezza ogn'altra,
quantunque grossissima ella si sia, avanzi, ora parli e ragioni non
altrimenti che se uno saggio uomo fussi e molto avveduto? Questo ?
contra a la tua natura. N? di ci? ? meno da maravigliare che se il fuogo
freddo divenisse e pi? non rescaldasse. E qual mai fia colui s? stolto e
d'intelletto s? scemo e senza senno che, raccontandogli noi quello che
ora con gli occhi de la fronte ne pare di vedere, non ci reputi
ubbriachi ovver dormiglioni? Perch? voluntieri io saperei se vano sogno
? quello che io veggio o no. — Queste ed altre simiglianti parole udendo,
messer l'asino schioppava tutto de la risa; ma aspettando poi il fine di
quelle, poi ch'egli si tacque, cos? incomenci?:
— Estimava io assai sofficiente e bastevole testimonianza avervi potuto
fare i vostri scongiuri allora quando per essi non mi mossi io punto, ma
tutto immobile mi vedeste stare. Ma egli ? altrimenti avvenuto che io
avvisato non mi sono. Per la qual cosa nel rimanente di questo giorno,
che fia poco, intendo io di dimostrarvi con vere ed aperte ragioni
quello che voi vedete e udite non essere n? vana spezie o sogno n?
favole n? alcuno inganno. E ci? di leggero mi potr? venire fatto, dove
voi vorrete con intento animo raccogliere tutte le mie parole. Per?,
quando a grado vi sia, vi potrete su la verde erba porre a sedere, per
ascoltare pi? agiatamente le mie ragioni, a le quali, poscia che il sole
con frettolosi passi incomencia gi? traboccare da la sommit? del cielo,
tempo mi pare convenevole da dar omai principio.
Dovete adunque sapere che ogni artefice, il quale secondo il suo
arbitrio e volunt? opera, pu? fare ed altres? non fare uno medesimo
effetto come e quando il meglio li piace. E cotale principio ?
dirittissimamente da l'empio Averoi chiamato principio di contradizione.
? un altro principio naturale, il quale ? determinato ad un sol fine, e
solamente uno medesimo effetto in ogni luogo e in ciascuno tempo sempre
necessariamente produce: il che manifestamente essere veggiamo nel
fuogo, il quale ?, come dicono, formalmente caldo e sempre genera il
calore e sempre scalda e non pu? altrimenti adoperare dove egli si
ritrove. N? sono da essere ascoltati quelli filosofi, li quali niegavano
affatto cotesto naturale principio, dicendo ogni cosa essere or buona or
rea, or dolce or amara, or calda or fredda, e brievemente ogni cosa
essere tale, quale a noi ne paia e quale le varie e diverse openioni de
gli uomini essere giudicassino. Nel vero stoltissimo f?ra colui, che
dicesse le cose gravi ugualmente e senza alcuna differenza, ma secondo
la falsa openione e umano giudicio, or scendere nel centro ed or salire
a la circonferenza, conciosiacosach? qua gi? sempre quelle da loro
gravezza sospinte discendano, ma l? s? mai elevare non si possino se non
per violenza e per altrui forza e contra loro natura; ancora che
altrimenti estimi la nostra openione, la quale mutare non pu? le nature
e proprietati de le cose, s? come colei che naturalmente seguitare dee,
e la cui veritade pende e nasce da loro verit?, come apertamente si pu?
vedere ne gli sopradetti esempi. Che perch? noi crediamo la grave pietra
discendere, non ? perci? la nostra openione cagione de la verit? de lo
scendere de la pietra; ma s? bene il discendere di quella ? cagione
perch? vera sia la nostra openione e credenza. Ma perch? mi distendo io
in pi? parole? Dico che ogni nostra openione o conoscenza, o vera o
falsa che ella si sia, viene dietro a le cose, come scrive Aristotile
nel libro De la interpretazione, ed ogni cosa procede e va innanzi a
la nostra scienza, s? come oggetto e cagion di quella. Ma il contrario
avviene de l'eterna ed immutabil sapienza del Padre, la quale ?
principio e cagione de tutte le cose, de la quale ancora ne parlaremo
con lo aiuto di Colui che ogni cosa col suo intelletto e governa e regge
e dispone con la sua infinita vert? e provvidenza. Ma da ritornare ?
(perci? che troppo dilungati siamo) l? onde ne departimmo.
Dissi che duo erano gli principi, l'uno libero e voluntario, l'altro
naturale, necessario e determinato. Iddio dunque, il quale (come
cantando dice il profeta) cri? e produsse tutto ci? che egli volle e
fece i cieli e la terra con l'intelletto, non ? da dire che egli sia
alcuno naturale principio o determinato, ma del tutto libero e
voluntario, anzi essa prima ed eterna volunt? e potentissimo arbitrio
senza principio e sopra ogni principio, come pi? pienamente dimostraremo
quando ragionare ne converr? de la creazione di questo mondo sensibile
contra a gli naturali filosofi, e massimamente contra al principe de li
peripatetici e contra[257] al suo ostinato commentatore, gli quali
vogliano questo mondo[258] sempre essere stato senza mai comenciare e
sempre dovere durare senza mai finire. Non ? dunque gran maraviglia,
nonch? impossibile, purch? a Dio piaccia, che uno asino parli e ragioni
cos? come un uomo d'alto ingegno dotato ragionarebbe. Or non pu? egli
fare ci? che egli vole? ? forsi egli cos? infermo ed impotente che
adempire egli non possa ogni sua voglia e sodisfare a ogni suo appetito
e desiderio? Il che se fare non pu?, ov'? la sua onnipotenza? ove ? la
sua infinita vert?? ove ? la sua perfettissima beatitudine e felicit??
Nel vero, io non so come egli possa cos? agevolmente a uno sasso, non
pur a uno animale come l'asino ?, dare la vita e l'intelletto, come
liberalissimamente a gli uomini dare gli piace. N? veggio
simigliantemente alcuna differenza tra 'l nostro e vostro corpo, e
perch? piuttosto il vostro possa ricevere tanta nobile forma quanto ?
l'intelletto, che non possa ancora il nostro. Ma lasciamo ora alquanto
le ragioni ne' loro termini stare, e produciamo in mezzo le sacre e
veracissime istorie, e manifestamente vedremo nessuna cosa essere a Dio
faticosa e impossibile.
Leggiamo nel Genesi che la verga, la quale teneva Mos? in mano, d'uno
legno, per divina potenza, divenne uno serpente e ritorn? poi di
serpente ne la sua primiera forma. Ecco chiaramente veggiamo che puote
Egli le spezie mutare e le forme de le nature de le cose, s? come colui
nel cui arbitrio ? dare e t?rre ogni essere ed ogni vita ed ogni
intelletto. Leggiamo ancora che molte statue o idoli di metallo o di
pietra per diabolica virt? parlavano e rispondevano a coloro che gli
domandavano. Che direte voi qui? niegarete voi non potere Iddio operare
in uno asino quello che gli diavoli hanno potuto operare in uno
insensibile marmo o metallo? Questo certamente non niegarete voi, ch?
niegare non si dee il vero n? a quello mai contrastare, ma dargli
perfetta e piena fede. Taccio io Lazzaro e molti altri da Cristo e da'
suoi santi risuscitati, taccio altres? molti ciechi alluminati, taccio
gli attratti dirizzati, taccio e' leprosi mondati, taccio finalmente
tutti gl'infermi da lunghe e mortifere infermitati con la sola parola
curati e a perfetta ed intera sanit? renduti, i quali tutti senza alcun
dubbio ne mostrano la divina potenza e vert?. Ora vengo a pi? aperto
argomento di quella; e dico che niuno ? il quale non sappia che l'asino,
o asina che ella si fusse, di Balaam profeta non solamente parl? ma,
profeta ancora divenuto, profet? e predisse quelle cose le quali da Dio
gli erano state rivelate. Che pi? dunque m'affatico di volere ci? pi?
apertamente dimostrare? Chiarissimo argomento ? quella cosa essere
possibile, la quale alcuna volta ? ovvero fu gi? buono tempo passato. N?
mi fa qui ora mistieri di produrre l'Asino d'Apuleio, anzi di Luciano,
stimolo de tutti i filosofi e morditore d'ogni laudevole openione, per
ci? ch'io non intendo n? voglio ora dimostrare come possino gli uomini
in uno asino o in qualunque altro animale mutarsi; di che io non ho
dubbio alcuno. E volesse Iddio che pochi fussero quelli, li quali
sovente di uomini divengono crudelissime fiere e, rivolgendosi ne la
bruttura de tutti e' vizi e peccati, sono vie pi? peggiori de le bestie,
le quali buone sono per ci? che vivono secondo la loro natura, la quale
buona fu dal sapientissimo ed ottimo Maestro criata. N? altro forsi
Pitagora, divinissimo matematico, volse intendere per lo trasmigrare
d'uno in uno altro animale: il che ancor mi pare che abbia confermato il
principe de tutti e' filosofi, Platone dico, il quale di gran lunga
avanza e trapassa d'ingegno ogni altro filosofo che mai fusse o sar? nel
mondo, togliendo dal nuovero quelli solamente li quali alluminati furono
da la vera fede, o saranno, per opera del Spirito Santo, il quale per
tutte le cose aver? scienza. Io credo fermamente avere sodisfatto
secondo il mio giudizio a le vostre quistioni: ora intendo pi?
dimesticamente con voi ragionare e ricontarvi le pi? maravigliose cose
del mondo.
LIMERNO, F?LICA E TRIPERUNO
Limerno. Fatimi, prego, o padre St?nica, un piacere.
Triperuno. Con cui parlate, maestro? ove trovasi questo St?nica?
F?lica. Volse egli dirmi F?lica.
Limerno. O sia F?lica o St?nica, vorrei da Vostra Santitade una grazia.
F?lica. E dua, potendo.
Limerno. Non mi vogliate pi? oltra imbalordire lo debol cervello con
queste vostre filosofie. A che tanti Platoni, Aristotili e asini? voi
potreste cos? con le mura ragionare!
Triperuno. Anzi vorrei, caro mio maestro, che vi piacesse di ascoltarlo.
Ma facciamone qualche poco di pausa.
Limerno. Ditemi, prego, santo F?lica: foste giammai di alcuna bella
donna innamorato?
Limerno. Oh Sia lodato il Dio d'amore, che pi? oltra non verr? necato di
parole al vento gittate! Voglio che 'n questa mia cetra cantiamo tutti
noi tre successivamente qualche amoroso canto, come pi? al suo
particolar soggetto ciascuno de noi aggradir?. Io dunque sar?,
piacendovi, lo primiero e cantarovvi di mia diva la summa cortesia, la
quale dignossi mandarmi un bianchissimo panno di lino, lo quale, dapoi
lungo sudore nel danzare preso, mi avesse a sciugare le membra.
?Bruggia la terra il lino col suo seme?,[260] disse cantando il mantoan Omero. Perch? un verso non gionse a dir pi? intiero? Del lin cosa non ? ch'un cor pi? creme! Quel lino, che le man vostre medeme dopo il grato sudor, donna, mi diero, tessuto l'ha (chi 'l nega?) il crudo arciero: tanto m'incende l'ossa e 'l cor mi preme! Vi lo rimando. Ahi! rimandar non posso l'ardor per?, ch'ogni or sta 'n le medolle, n? umor di pianto v'ha che gi? mil lave! Ma prego Amor, s? come incender volle tutte le mie, che almanco roda un osso in voi, o di mia vita ferma chiave!
Piacquevi cotesto bel soggetto, o padre eremita?
F?lica. Molto aggradisce l'umana generazione questa vocale musica.
Limerno. Or segui, Triperuno.
Triperuno. Dir? io alquante parole d'un oroglio di vetro, con lo quale
mediantovi una tritissima rena si misura d'ora in ora lo tempo.
Pensarsi non sapea pi? agevolmente cosa che d'uman stato avesse imago d'un fragil vetro in vista cos? vago, che libra il tempo a polve giustamente. Vedi le trite rene come lente filan e' giorni pel foro d'un ago, e fan col fiume or quello or questo lago in doi grembi, s'altrui volge sovente! Ma cotal opra tosto va in conquasso,[261] se avvien che fra doi vetri a la giuntura quel debil filo e cera si dissolve. O forsennato, chi d'aver procura in terra stato, sendo un vetro al sasso, al foco molle cera, al vento polve!
F?lica. Assai pi? lo discipolo mi piace che lo maestro, e
particolarmente la fine di questo tuo morale sonetto, Triperuno mio
dilettissimo; ed annunzioti che in breve cangiarai vita e costumi in
assai megliore stato.
Triperuno. Io non son tale che mai puotessi adeguare l'alto ingegno del
mio maestro. Ma t?ccavi, padre, la volta vostra.
F?LICA
Nacque di fiera in luogo alpestro ed ermo, ed ebbe co' le man il cor d'incude (ove d? e notte gi? molt'anni sude far a l'inopia il pover labro schermo), qualunque al pio Ies? gi? stanco, infermo a l'onte, ai scherni, a le percosse crude, sofferse in croce le sue membra nude al segno trar per darvi un chiodo fermo. Quinci una mano, quindi affisse l'altra ed ambo e' piedi al smisurato trave; n? vinse lui quel mansueto aspetto. Ma questo avvien, ch? in prava mente e scaltra e che di sangue uman sempre si lave, non cape amor n? alcun pietoso affetto.
Limerno. Non altramente sperava io dover avvenire di questo ipocrita e
torto collo, e degno da esser nominato (se lo capo raso vien bene
considerato) ?cavallero de la gatta?. Mal abbia chi giammai ti mise
quello bardocucullo al dosso, frate del diavolo!
Triperuno. Deh, caro maestro, non vi partite!
F?lica. Lascialo andare, figliolo. Colui che su nel cielo regna, solo
pu? fare di Saulo, Paolo; di lupo, agnello; di notte, giorno. Ma tu ne
verrai meco e, acci? che la lunghezza del cammino siati meno a noia,
seguir? de lo asino la miracolosa dottrina.
Triperuno. Anzi ve ne volea pregare, quando che molto lo vostro
favoleggiare m'addolcisca il core, avendo voi parlamenti di vita.
F?LICA
— Voglio che sappi?ti — diceva quello — che gli asini e gli bovi ancora
hanno lo 'ntelletto; non che lo possono avere. Di che ve ne pu? far
chiari Esaia quando dice: ?Conobbe il bove il suo possessore, e l'asino
lo presepio del suo signore?, e David: ?Non vogliate — dice — divenire
cavalli e muli?, e soggiungevi la ragione: ?perch? sono — dice — senza
senno e senza alcuno avvedimento?. Per che Cristo, umile e mansuetissimo
signore e obbedientissimo figliuolo al suo Padre, non volse montare
suopra gli cavalli n? suopra gli muli, superbissimi animali e oltre a
modo ostinati, ma s? voluntieri si degn? ascendere suopra il mansueto
asinello. O beati gli asini e vie pi? ch'ogni altro animale felici! O
beati quelli che asini divengono e sono degni di portare il Re de la
gloria in Gierusalem, citt? de li angioli e de tutti i santi! li quali
sempre veggono il sole de la giustizia che rasserena le nostre menti
piene d'errori oscuri e folti, e sempre mirano la divina e vera
bellezza, la quale gli fa in eterno beati e giulivi. Non posso io qui
tacere la soperbia e 'l fasto di coloro che ?servi di Cristo? e ?suoi
discepoli? si fanno chiamare, e temo forte che siano a guisa di quelli
servitori dalli quali ? luntano il loro signore. Ma se pur di cos? sacro
nome si[262] vogliono gloriare, perch? essi con pi? pompa e con maggiore
fasto cavalcano pi? ricchi cavalli e pi? belli muli che Cristo mai non
fece? e perch? non cavalcano essi gli asini, come 'l loro maestro e
signore (come dicono) gli ha dato esempio? Ma in ci? prudentemente hanno
fatto e fanno, ancora cavalcando quelli animali gli quali loro pi?
assomigliano.
— Deh! guarda bene — disse allora Liberato a l'asino — e considera quello
che tu parli; ch? se per mala sciagura mai si sapr?, tu ne sarai molto
male trattato, ed io ti so bene accertare che tutte l'ossa con un grosso
bastone rotte ti saranno in dosso in cos? fatta guisa che mai pi? non
portarai soma, ma miseramente di questa vita passarai. N? ti giovar?
merc? per Dio chiedere: per te morta sar? piet?, n? potrai alcuno aiuto
o conforto ritrovare. Deh! non sai tu quello che ind?ce Iddio per bocca
del profeta: che dobbiamo lasciare stare i Cristi suoi? Perch? dunque tu
gli tocchi, perch? gli mordi, perch? non gli lasci stare?
Rispose l'asino con un mal viso e disse: — Se temessi io il bastone e le
busse pi? che Iddio, io mi tacerei, n? sarei mai oso di dire la verit?.
Ma perci? che io sono disposto, dove a Dio non dispiaccia, morire, se mi
fia di bisogno, non ho paura di confessare e dire il vero. N? perch? io
dica la verit?, si debbono essi reputare essere offesi da me, se
veramente discepoli sono e servi o amici di Cristo, il quale, come egli
di se medesimo fa vera testimonianza, ? essa prima verit? e cagione
d'ogni nostra verit?. Io non mordo loro, io non gli tocco n? pungo; io
lascio stare, anzi riverisco e temo i veri Cristi e sacerdoti e regi. Io
favello di quelli che vogliono essere creduti buoni[263] pastori e
vogliono essere commendati e riveriti, li quali nel vero sono mercenari
e prezzolati, che a prezzo temporale e vilissimo pascono le pecore di
Cristo e sono per avventura affamati lupi; ch? a li buoni e veraci
pastori e santi prelati de la Chiesa convenevole cosa ?, anzi
necessaria, a fargli ogni onore il pi? che noi gli possiamo. S? che
giusto sdegno mi sospinge a biasimare la lorda e malvagia vita de li
mali cherici e rettori de la Chiesa. N? pu? l'animo mio sofferire di
vedere quelli cavalcare con tanta pompa e compagnia, quanta mai non si
vide in Campidoglio ne gli vittoriosi trionfi de li romani, nel tempo
che avevano in mano il freno e 'l governo de tutte le provincie e de le
genti barbare, le quali di d? in d? soggiogano i nostri dolci paesi,
togliendoci oggi una citt? e domani l'altra, ed or questo castello ed or
quell'altro, e temo che in brieve non ci togliano le persone. Cristo
cavalc? una sol volta sopra l'asino, ma gli soi discepoli trionfalmente
a le pi? volte si fanno portare dove a pi? andare devrebbono.
— Non hai tu — disse Liberato — di ci? troppo da rammaricarti e da
dolerti, che dove una fiata portasti sopra gli omeri tuoi il nostro
Signore, leggerissimo e soave peso, ne la santa citt? di Ierusalem, ora
ti converrebbe portare i suoi vicari e suoi discepoli per oscuri boschi
e per le frondute selve, discorrendo or in qua or in l?, a le maggiori
fatiche del mondo, senza che[264] oltre al convenevole saresti carico
d'una gravissima soma, in maniera che staresti male. Per che ti d?i
assai bene contentare del tuo quieto stato, n? vogli procurare scabbia
al tuo corpo che sanissimo esser veggio. E maravigliomi io forte di cos?
fatte parole quali sono state le tue; ch? io fermissimamente creduto
avrei, ed ancor credo, che voi asini sempre fuggito avereste cotali
pompe, l? dove ora mi pare che procacciate voi d'averle. Io sempre ho
udito dire che a gli asini non dilettino molto l'ornate e nobili selle
n? gli aurati freni n? le fregiate vestimenta e quelle che d'oro sono o
d'ariento dipinte. N? vidi io mai alcuno di voi essere troppo vago del
s?no de le corna o d'altri dilettevoli istromenti, onde sogliono e'
greci dire d'alcuno, che sia d'alcuna cosa rozzo e grosso, uno cotale
proverbio: ?Egli ? a guisa d'un asino a la lira?. De l'uccellare e de
andare a cazza non mi ? ora di bisogno che io ne parli, perci? che
dilettare non vi possono quelle cose le quali contrastano a la vostra
natura, la quale non vi diede l'ali a volare n? veloci piedi e leggieri
a potere forte correre. Per le quali tutte cose io brievemente conchiudo
che ingiustamente voi e senza ragione facciate alcuna querela o romore
de lo vostro sbandeggiamento, recandovi a vergogna l'essere scacciati da
coloro, il cui maestro, se pur suoi veraci discepoli sono, vi elesse per
suo portatore, quasi come pi? vi caglia il giudicio de gli uomini che
quello di Dio. Per che vi dovete voi dare pace di tutto ci? che a Colui
piace, a la cui direttissima volont? ed eterna disposizione e legge
immutabile ogni cosa si creda per certo essere soggetta. Or dubitate
forse voi de la divina ordinazione ed infallibile provvidenza? Credete
voi che alcuna cosa senza ordine e senza alcuno reggimento qua gi?
sempre errando vada? Il che se voi credete, perch? incolpate voi gli
uomini e non la instabile fortuna? Non avete dunque voi giusta cagione
da dolervi n? da riprendere i chierici e prelati de la madre Chiesa; a
li quali, bench? di scellerata e cattiva vita siano alquanti e avvenga
che facciano le sconcie cose, nondimeno dovete voi fargli ogni onore ed
ogni riverenza come a vostri maggiori e come a quelli li quali sono da
Dio ordinati e mandati a nostra utilit?, abbiando riguardo al
divinissimo precetto di Cristo che ne comanda e dice: ?Facete voi quelle
cose le quali essi vi dicono e predicano che fare dobbiate; ma le
malvagie opere loro, le quali essi sovente fanno, non vogliate voi
fare?.
— Non pi? — rispose l'asino — non pi? parole. Io non niego che non
debbiano essere ascoltate ed ubbidite loro leggi oneste e pie, n?
vitupero io in tutto loro decreti e canoni o regole del ben vivere. Non
sono io di coloro che forse v'immaginate, ma di Cristo e vivo e morto,
al quale io servo e servire voglio nel suo dolce e grazioso evangelio,
n? di servirgli sar? mai sazio. Al quale cos? piangendo son astretto di
dire: — O benignissimo Padre, riguarda! riguarda, o bono pastore, con
l'occhio de la piet? le tue povere e deboli pecorelle, le quali tra
crudelissimi lupi sono poste drento a cardi, vepri, spine ed altre
viziose erbe a pascere! Ecco, oim?! di quelli uno pi? de gli altri
affamato e fiero, Licaone, a passo a passo, senza alcuno rispiarmo,
tutte le caccia, le svena, le straccia, le divora. Defendile,
potentissimo Signore, defendile da gli soi crudi artigli. Che...
TRIPERUNO
E ra per seguir anco il vecchio bono G i? su l'entrar d'un poggio il qual si monta N on senza gran sudore, quando un grido A l tergo viemmi, rotto di dolore. T orsi la fronte, ed ecco for d'un bosco I o vidi una dongiella scapigliata V enir fuggendo, ed ha chi l'urta ed ange S empre battendo lei con aspra fune.
S tetti prima qual sasso; ma dapoi, Q uando comprendo il viso di Galanta, V olgo le spalle pi? d'un strale in fretta A F?lica per trarla for d'affanni. R ompeva la meschina l'aere intorno C on alte strida e suon di petto e mani. I ntendo l'occhio a chi la fea gridare: A hi! ch'io la riconobbi, ahi! cruda ed empia L aura maligna, incantatrice e maga, V enefica non men di Circe fiera, P utta sfacciata, vecchia, il cui fetore V olgea gli uomini in bestie, augelli e serpi, S tringendo ai carmi soi l'altrui costumi.
F ?lica su pel monte ansando scampa, L o qual non pi? vedere i' puoti mai. O vunque una sen fugge, e l'altra segue. R atto m'avvento al fondo d'un vallone: E cco vidi Galanta in un instante N on esser pi? Galanta, ma curvarsi T utta ritratta, e capo e braccia e gambe, I n una picciol forma di mustella. N on puoti far allora, che non, ratto V ?lto in gran fuga e lagrimando forte, S campassi per nascondermi da Laura.
D i passo in passo mi volgeva a drieto, E rrando e qua e l? come stordito. S tettesi la malvagia su duo piedi T utta minace in vista e neghittosa. R esto ancor io nel folto d'una macchia, V edendo lei ma non da lei veduto. C ess? dunque la vecchia scellerata T ener pi? via d'avermi allor nel griffo; O nde, quindi partita, io mi discopro R itornando a veder ov'? Galanta.
R amparsi lungo al fusto d'un sambuco E cco la veggio, oh quanto vaga e snella, L eggiadra, pronta, sedula, sagace! I o la richiamo come far solea: — G alanta mia, perch? mi fuggi, ingrata? I o son il tuo fidele Triperuno: O ve serpendo vai? vieni a me, vieni, N on ti levar da me, ch? bona cura I o sempre avr? di te, fin che col tempo S i trovi chi ti renda a l'esser vero. —
D issi queste parole e passo passo I' m'avvicino, losingando, a lei. V enne dunqu'ella, dolce mormorando, I ntratami nel sino a starvi ad agio.
B asci soavi quella mi porgeva, E d io basciava lei, non men insano, N on men caldo di quel che fui davanti. E ra sul picciol dorso tutta d'oro, D i latte il corpo e leggiadretti piedi, I ntorno al collo un circolo di perle C into l'adorna e fammi esser men grave T utta la doglia che m'assalse, quando I o vidi lei cangiarsi a me davante.
L o giorno mai, la notte mai non cesso A ppagarmi di questo sol piacere. V enni a Perissa finalmente, dove[265] R estar non volse F?lica, ch? 'l loco E ra d'errori e soperstizia pieno.
S tetti qui molti giorni, mesi ed anni I n una grotta sol per fiere usata, B evendo acque de stagni torbe immonde, I onci e palme tessendo e molli vinci.
N on mi levai dal dosso mai la gonna, O nde l'immondi vermi di pi? sorte M'erano sempre intorno vigilanti, E d un setoso manto folto ed aspro N on mai gi? da le nude carne i' tolsi.
V arcar un uomo in ciel non io credea, I l qual fuggisse vivere famato, N udrirsi d'erbe, more, fraghe e giande, D estarsi a mezzanotte e macerarsi I l corpo gi? omicida di se stesso, C orcarsi o su le frondi o in terra nuda, A rrecarsi a gran merto il girne scalzo, V ender se stesso ad altri, non avere I l proprio arbitrio in s?, che Dio concesse T enacemente al spirto di ragione.
A l fin, essendo sotto l'altrui voglia, T olta mi fu la mia dolce Galanta:
L o mio solaccio, il mio contento e spasso, A im?! da me fu radicato e svelto. R imasi d'alma privo, ma nel dolo V ivendo sempre tanto piansi ed arsi, A rsi d'amore, piansi di dolore, M orte chiamando ognor, che al fin privato
I o fui de gli occhi e d'ogni sentimento. L aura qui ottenne il seggio, e sol de volpi, L upi, tigri, pantere, draghi e serpi, V entrosi vermi empitte boschi e selve, M onti, valli, spelonche, fiumi e stagni.
A ttonita scampavasi la turba P er le fantasme, sogni e negre larve, P er l'ombre infauste che da l'empia Erinni E rano sparse drento al laberinto, L aberinto d'errori colmo e pieno, L aberinto che gi? di Dio fu stanza. A ugellazzi notturni d'ogn'intorno N on cessano volar con alte strida; D el sole omai non pi? v'entran le fiamme, V olti de spirti neri sempre in gli occhi M'erano fisi digrignando e' denti.
E la Galanta mia fu in preda d'altri S uso al bel mondo, in grembo altrui, rimasa: S uso al bel mondo, ed io nel pi? profondo E ra del Caos, centro e laberinto!
C olui che l'ebbe in mano fu l'egregio, E gregio mio Grifalco, il qual non ebbe, N on ha, non avr? mai di s? pi? fido. S trinse Galanta mia fra l'uscio e muro. E lla mor? chiamando: — Triperuno! — M a 'l giovene magnanimo e cortese V olse che d'alabastro un fino vaso S epolcro fusse a la gentil mustella.
TUMULI GALANTHIDIS MUSTELLAE
GRIFALCO
Cogimur exiguam deflere Galanthida, virtus quippe sub exiguo corpore multa fuit. Hanc neque tum poterat limen collidere, vixit quae pede cervus, aper fulmine, corde leo. At magis offensas ulta est Saturnia priscas, solvit ubi, invita hac, ventre Galanthis heram.
F?LICA
Si brevis hic tumulus, breve carmen, me breve fatum, quae mustella fui tam brevis, huc rapuit.
MERLINUS
Ter mutata, fuit Mulier, Mus, Stella, Galanthis: me Mulier, tumulum Mus pete, Stella polum.
LIMERNUS
Quae mulier quondam, quae nunc mustella fuisti, hic medium linquis nomen et astra tenes.
PAULUS F.
Lusus eram, nunc luctus heri, qui fraude peremptam Lucinae officio me decorat tumuli.
MARCUS C.
An misera, an felix? dominum damnemve probemve, Cum dederit mortem qui modo fert tumulum? Si pius, unde mihi mors est? si non pius, unde et decus et laudes et lacrymae et tumulus?
IDEM
Dum placeo interi. Occidit dum diligit, ingens struxit Amor tumulum, sed prius ille necem.
IDEM
Mole brevi brevis ipsa tegor mustella, gementis delitiae nuper, nunc lacrymae domini.
ISIDORUS C.
IUNONIS QUERELA
O ego quantum egi! extinxisse Galanthida dudum credideram lethaeisque immersisse sub undis, dum terris prohibere paro, coelum occupat audax et vatum celebri late iam carmine vivet.
IDEM
Indulges lacrymis inane quiddam deflens et teneram gemens alumnam, Grifalco; at nihil huic magis salubre, magis nobile praestitisse posses. Vivens cognita vix tibi latebat. Vitae munere functa, nunc perenni vivet iam celebrata laude! per te haec dum mortem obiit, absoluta morte est.
TRIPERUNUS AD DEUM CONFITETUR
Summe opifex rerum, pater instaurator et unus, qui Deus existens coelo terraque potenter cuncta regis, certo dum lapsu saecula torques, en ego, si ante tuum debentur vota tribunal assistique hominum curae trutinisque movendae, quid faciam, tanto qui absumpto tempore noctes produxi vigiles ea per figmenta, volumen nugarum aedificans? En culpae cognitor omnis, en quibus ingenium, quo nos decora alta subimus, turpiter implicui fabellis, quo per ineptos consenuit lusus viridis squalore iuventa! Pars melior consumpta mei, redituraque nunquam rapta est, unde animi ratio me conscia torquet. Heu! heu! quid volvi misero mihi? sordibus aurum, perditus, et gemmas immisi fecibus indas.
FINISCE LA SECONDA SELVA.
SELVA TERZA
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe: tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.
F
ortuna, con soi larghi e pronti
G
iri
R
otandosi, nel volto ad altri
R
ide,
A
d altri pur par sempre che s'ad
I
ri.
N
on so, Grifalco mio, che me ne
F
ide:
C
ostei veggio ch'a molti spenna le
A
le
E
dal ciel tratti in terra li col
L
ide,
S
i come Borea fa de le ci
C
ale.
C
he temer lei, s'un Dio nel ciel ad
O
ro
O
ver s'in terra un Mecenate o
N
oro?
Or sbuco gi? qual nottula di tomba, ed oltra quella spera, onde la pioggia descende e per augel rado si poggia, date mi son le penne di colomba. Tant'alto salir?, che mi soccomba chi ha 'l giro di trent'anni, e 'n l'aurea Loggia, ove 'n se stesso un Trino Sol s'appoggia, fia tempo ch'al convito suo discomba. Quivi non sotto enimma, non per velo ch'abbia su gli occhi M?se, non per mano posta al forame di l'eburneo ventre, non pi? a le spalle no, ma in vista piano l'Altissimo vedr? quanto sia, mentre si turba entro lo 'nferno e ride il cielo.
MAGNANIMVS TEMPLVM HOC MVSIS GRIFALCO LOCAVIT
PREFAZIONE
Lo animale ragionevole, lo quale per vivere o soperstizioso o
lascivamente, ovvero che per falsa dottrina avvezzato e abituato non pi?
sente lo errore suo, ma cieco ed oblivioso nel grembo de la regina de'
peccati e difetti, che ? la ignoranzia, sede e dorme, costui non pur di
bestia peggiore, ma un'ombra, anzi uno niente si p? chiamare, come
quello che non ode, non sente, non vede, non tocca pi? di se stesso lo
essere. Or dunque trovasi egli nel Caos, e a lui non ? fatto ancora il
mondo: dilch? per divina pietade apparegli una fiammella d'intelletto, e
cos? a poco a poco entra egli in cognizione di queste cose per lui da
Dio criate e talmente vi affigge il core, che distinguendo e scegliendo
va lo smisurato beneficio da Dio a lui dato. Ma non troppo egli vien poi
rassicurato da questa nostra umana e corrotta natura, che non caschi o
poscia egli cadere in alterigia, vedendosi essere di tante belle cose
tiranno. Per? l'anima, d'ogni macchia purgata, ? nello stato che gi? fu
Adam (intendendosi questo allegoricamente) avanti lo gustato pomo: la
natura gli ? ancora incorrotta; non vi ? lo tempo, non vi ? la morte.
Vero ? che nel paradiso terrestre de la purgata conscienzia potrebbe
ella facilmente con lo arbore del libero arbitrio fallire: o sia nel
tornare a la soperstiziosa vita lasciando lo vangelo, secondo Livia; o
sia per lo tribuire a soi istessi meriti la acquistata grazia, secondo
Corona; o sia nel voler comprendere e diffinire la incomprensibil ed
infinita potenzia di Dio, dando opera al studio de li nostri moderni
teologi infruttuosamente per noi affaticati, secondo Paola.
TRIPERUNO
Quel spaventevol mar, che a' naviganti[266] promette l'Epicuro s? soave, solcai gran tempo in feste, gioie e canti, fin che la gola, il sonno e l'ozio m'ave travolto in bande ove d'acerbi pianti nel scoglio si fiacc? mia debol nave, che aperse a l'acque il fondo ed ogni sponda e 'n preda mi lasci? de' pesci a l'onda.
E l'ignoranzia d'ogni ben nemica, tosto che 'n grembo a morte andar mi vide,[267] corsevi come donna ch'impudica con vista t'ama e col pensier t'ancide. Quindi svelto mi trasse ove s'intrica nostr'intelletto in quel sogno, ch'asside fra le sirene, e dormevi egli in guisa, che sua spezie da s? resta divisa.
Vago mi parve s? l'aspetto loro,[268] che froda in tal sembianza non pensai; ma ci? che splende poi non esser oro tardo conobbi e subito provai. Un d'angeliche voci eletto coro entrato esser mi parve, e poi mirai cangiarsi e' bianchi volti in sozze larve, e il lor concento in stridi ed urli sparve.
Ed una nebbia orribile, che adombra la ragion, lo 'ntelletto e l'altro lume, m'avea offoscato s? ch'inutil ombra io mi trovai for d'ogni uman costume e in stato di color cui sempre ingombra la dolce sete a l'oblioso fiume; ch?, come egli son vani e fatti nulla, tal vien chi in ignoranzia si trastulla.
D'onde s'ardisco dire che 'n niente m'avea travolto la regina cieca, taccia chi 'n l'altrui fama sempre ha 'l dente n? dica il mio cantar favola greca. Ma Dio, com'era fece a me, sua mente svella dal stesso nuvol che l'accieca e scotalo dal sonno (ah troppo interno!) che puoco fummi ad esser pianto eterno.
Per? ti rendo mille grazie, e lodo, lodar quanto pu? mai pot?sta umana, te, dolce mio Ies?; te, fermo chiodo de l'alta fede ch'ogni dubbio spiana; te, dico, che disciolto m'hai quel nodo il qual ci lega e fanne cosa vana; te, sommo autor di tal' e tante cose, che 'l suo tesor per noi l? suso ascose.[269]
N? lingua voci n? 'ntelletto sensi muova giammai senza 'l tuo nome sacro, nome, che sempre, o canti o scriva e pensi, spero pietoso e temo giusto ed acro, Ies?, te dunque invoco per l'immensi chiodi amorosi, ch'alto simulacro t'han fatto in terra al popolo cristiano! Or mentr'io scrivo scorgimi la mano;
scorgi la man non pi? cruda, rapace, non pi? del mondo posta in servitute; la man che particella, se 'l ti piace, scriver desia de l'alta tua vertute, la quale d'ogni senso uman capace mi ricondusse al poggio di salute, e nel tuo nome pareggiar vorria mio basso stile un'alta fantasia.
TRIPERUNO
Il grave sonno, in cui m'era sepolto[270] quanto di bono vien dal primo cielo, ruppemi orrendo grido, qual in molto scoppio far s?le il fulgurante telo. Apro le ciglia e, quando ebbi distolto da' sensi un puoco l'importuno velo, dritto m'innalzo, guato e nulla veggio, perch'era il mondo ancora d'ombre un seggio.
Anzi n? ciel n? terra n? 'l mar era, n? averli mai veduto mi sovvenne; non verno, estate, autunno, primavera, non animai de' peli, squamme o penne; non selve, monti, fiumi, non minera d'alcun metallo; non veli n? antenne, merc? ch'era del Caos in la massa d'ogni ombra piena e d'ogni lume cassa.
N? pi? sapea di me stesso, n? manco di chi vaneggia in forza di gran febre,[271] star o insensibil pietra o trar del fianco, aver maschile o sesso muliebre, esser o verde o secco o negro o bianco: s? m'eran folte intorno le ten?bre! Pur sempre non vi stetti, ma ecco d'alto un sol m'apparve, onde ne godo e salto.
Perch?, s? come il pullo dentro l'uovo, bramando indi migrar, si fa fenestra col becco donde v'entra il raggio nuovo, e poscia da le spoglie si sequestra; tal io, mentre me stesso in l'ombre covo, luce spontar mi vidi a la man destra, ch'emp? la notte, onde ratto m'avvento l? col desio che 'l corso far s?l lento.
Inusitato e subito conforto ardir m'offerse al cuor ed ale al piede. Lungo un sentier de gli altri men distorto affretto i passi ovunque l'occhio il vede. Oh avventurosa fuga, che a buon porto giunger mi fece d'un tal pregio erede! Ben duolmi che, narrarvi ci? volendo mentre son carne, in van mie rime spendo!
Di luce un gioven cinto, anzi un'aurora,[272] ch'appare spesso a l'alma cieca e frale, ecco si mi presenta e mi 'ncolora col viso pi? che 'l sol di luce eguale. Onesto e lieto sguardo, che 'namora ogni aspro e rozzo core, onde immortale so ben che a tal belt? l'avrei pensato, se allor io fussi, quel ch'oggi son, stato!
Que' soi begli occhi ch'abbell?r il bello, quanto su ne risplende e giuso nasce, raccolsi a la mia vista, e fui da quello non men depinto che quando rinasce[273] Proserpina in obietto del fratello e de' soi rai, bench? luntan, si pasce. N? il lume pur, ma un amoroso ardore sentiva entrarmi dolcemente al core.
Pur come avvenne a Piero, in sua presenzia la vista persi, il senno e le ginocchia. Chi sopra uman valor si fa violenzia portar tal peso, vinto s'inginocchia. Veggendomi egli a terra, di clemenzia pingesi 'l volto e con pianto m'adocchia: poi, sollevando i lumi al ciel, tal voce muosse, ch'anco m'abbruggia e mai non cuoce.
FIGLIO AL PADRE
O tu, che 'ntendi te, te, qual son io,[274] quant'alto sei, quant'eccellente e saggio, lo qual in nulla cosa mai non manchi, sublime s?, che sotto e sopra quello che sei pensar non puossi, e quest'? 'l mio non mai dal lume tuo smembrato raggio, io non di te n? tu di me ti stanchi mirar quanto ti sia e mi sii bello; n? quel spirito snello e fuogo che fra noi sempre s'avvampa ed or in dolce lampa or in colomba formasi, minore di noi giammai procede n? maggiore. Padre, Figliol e l'almo Spirto un Dio eterno siamo, fuor d'ogni vantaggio. Tre siam un, ed un tre, securi e franchi che l'un vegna de l'altro mai rubello; non cape in noi speranza n? desio, non spazio tra 'l comun voler n? oltraggio. Io del tuo lume e tu del mio t'imbianchi; n? dal nodo che tien l'alto suggello unqua, Padre, mi svello. Per? d'ogni bont? nostra ? la stampa, che l'amorosa vampa del Paracleto imprime; onde 'l ?Motore del Tutto? siamo detti e ?Creatore?. Or di quel nostro incomprensibil rio, cos? soave a l'umile coraggio (s'umile mai verr? ne' spirti bianchi conoscitor di noi), l'uomo novello nasce d'animo e sangue santo e pio, ch'avr? del mondo in man tutto 'l rivaggio.[275] N? voi verrete in suo servigio stanchi, stellati cieli e tu, nostro scabello, ritonda terra; ma ello s'indura contra noi l'ungiuta ciampa, e gi? si finge e stampa di ferro e pietra statue, quell'onore lor dando che a Dio vien, del tutto autore. Nascon insieme l'uomo e l'alto oblio del dritto ed anteposto a lui viaggio: dico 'l sentier, che al fin porge doi branchi, l'un stretto, dolce; l'altro piano, fello. Quinci al gioioso, quindi al stato rio s'arriva, onde giustizia in lor dannaggio a' tristi vegna, e tengali ne' fianchi t?ma per sprono e morte per flagello: morte che, in un fardello cogliendo tutti, ovunque v?l si rampa. Nullo da lei mai scampa; sia pur bel volto, sia pur verde il fiore, far non pu? mai che morte nol scolore. Ma guai, chi 'n mal far sempre ha del restio, ch? ogni sempre di l? trova 'l paraggio; que' d? che mai di colpa non f?r manchi men fian di pena ove gli rei flagello, in fin a l'ore estreme, quando 'l fio pagar verrammi inante ogni linguaggio, dal ciel i destri e da l'inferno i manchi. Pur stando in carne, lor spesso rappello: — Non son tigre n? agnello: chi 'l perso ben per racquistar s'accampa,[276] chi 'l viver suo ristampa, intenda realmente che 'l Signore del ciel in ciel non sdegna il peccatore! Dunque, Padre, mi 'nvio dare suffragio a loro, che non san chi sia pur quello ch'altri da morte scampa, ed esso muore!
TRIPERUNO
A li alti accenti d'un tal s?no eroico, del quale ne tremai com'uom frenetico, vennemi voce altronde: — A che esser stoico, miser, ti giova n? peripatetico? che ti val fra l'un mar e l'altro euboico pigliar oracli e ber fiume poetico? a che spiar la verit? da gli uomini,[277] che di menzogna furon mastri e domini? —
Io, che sculpito in cuor le note aveami d'un s? bel viso, d'un parlar s? altiloquo, a poco a poco gli occhi aprir vedeami al s?no di colui tanto veriloquo. Pur tal era l'error ch'anco teneami, che a pena svelto fui; perch? 'l dottiloquo gioven mi sciolse, onde ci? che anti nubilo mi parve intendo, ed intendendo giubilo.
Giubilo perch? intendo (intenda e Plinio, ch'or vive morto!) viver sempre l'anima; non s? per?, ch'i' stia sotto 'l dominio di chi 'l tegume d'uman spirto inanima. Stetti gran tempo in tale sterquilinio, nel qual concedo ben che l'alma exanima la troppo vaga ed addolcita letera,[278] e molti uccide il canto d'esta cetera.
Qual ? chi 'l creda, ch'oggi tanta insania la nostra verit? s? prema e vapoli? S'io mi diparto a l'umile Betania per alto mar da Roma o sia da Napoli, ecco a man manca dal Parnasso Urania scopremi l'Elicona, ove mi attrapoli.[279] Ben sa che a lei m'avvento, bench? 'l Tevere lasciassi per Giordan, quell'acque a bevere.
Acque s? dolci! quanto pi? bev?mone, pi? a la tantalea sete si rinfrescano! Quivi l'argute ninfe lacedemone[280] a gli ami occulti nostre voglie adescano; cos? non mai dal bianco il negro demone sceglier mi so, non mai l'onde si pescano, cui trasser a la destra del navigio Piero e Gioan de' pesci il gran prodigio.
Per? dal mio Ies? se detto fiami giammai: — Di poca fede, or perch? dubiti? — scusarmi non sapr?, quando che siami concesso por le dita fin ai cubiti nel suo costato e trarvi 'l ben, che diami fidi pensieri e al vero creder subiti. Non lece dunque pi? d'Egitto in gremio starsi, ma gir con M?se al certo premio.
Assai d'oro forniti e gemme carichi,[281] di Faraon scampiam omai la furia; n? s? men gravi paran i rammarichi e pene che ci dava l'empia curia, che nel deserto alcun de noi prevarichi, dicendo in faccia a M?se questa ingiuria: — Mancaron entro Egitto forse i tumuli, ch? morir noi per queste valli accumuli? —
Ma non cos? l'alma gentil improvere a chi oltra 'l mar asciutto mena un popolo; ch? nel primo sentier, quantunque povere sian le contrate, ove sol giande accopolo per cibo, al fin vedrassi manna piovere, sorger un largo rio di nudo scopolo, che cominciando a ber nostri cristigeni[282] san quanto noccia usar co' li alienigeni.
Deh! non ci chiuda il passo ai rivi, ch'ondano di latte e m?le, nostra ingratitudine: rivi che noi di lepra e scabbia mondano, contratta dianzi ne la solitudine. O di qual m?l e' nostri petti abbondano, ch'assaggi?r pria di f?l l'amaritudine! Ma ci? non prima seppi, che 'n cuor fissemi Ies? questi s? dolci accenti e dissemi:
DIALOGO
CRISTO E TRIPERUNO
CRISTO
Pace tra noi, ch'amor ci? v?l, o privo d'amor e pace miser animale, s? bello dianzi ed or s? lordo e schivo! Amor sia, prego, e pace teco, ch? ale n? augel mai vola senza, n? alma, cui amor e pace manchi, ad alto sale. Ma non m'intendi (s? contende i tui[283] sensi la folta nebbia!): u' l'aurea face del cuor spent'hai, n? vedi te n? altrui. Ahi! misero, che speri? ove fugace te sottraendo a l'ira vai? ch? altrove ben giugne al varco l'empio contumace! Le tue (non solle?) mal pensate prove t'han scolorato 'l viso e spento a' piedi la scorta luce. Dove vai? di', dove? Or vegno liberarti: spera e credi, porge la man, n? aver, uomo, di t?ma[284] el spirto sol, d'amor anco 'l possedi. Ma un dono qui ti cheggio, cui l'estrema vert? del ciel, ch'or tu non sai, si pasce, n? in lui divina fame unqua vien scema.
TRIPERUNO
Il vago vostro aspetto, onde mi nasce un trepido sperar (qual che voi siate, Signor), deh, in questo errore non mi lasce! O dolce man ed occhi di pietate, (ch'or man i' stringo, ch'or begli occhi veggio), morr? se 'l venir vosco mi negate! Mentre vi guardo e 'nsieme favoleggio, si rasserena e sfassi quella scabbia nel cor gi? fatta un smalto e duro seggio. Qual s? fort'ira, qual schiumosa rabbia non ratto cade al viso vostro onesto? E pace mi chiedete in questa gabbia? in questa d'error gabbia chiuso e mesto, privo d'ogni, se non sia il vostro, aiuto, dunque, ch'i' v'ami e doni son richiesto? Amarvi, anzi adorarvi, non refuto; ch?, quanto parmi al bel sembiante alt?ro, amarvi, anzi adorarvi son tenuto.[285]
CRISTO
Oh se co' l'occhio avessi 'l cor sincero, pi? che di for me 'ntenderessi dentro! Per? di me non hai giudicio intero.
TRIPERUNO
Non pur voi, ma me stesso, e 'n questo centro come 'ntrassi non so. Ben or vi dico: s'uscirne poscio, mai, non mai pi? v'entro! Non trovo in lui n? porta n? postico per cercar chi' mi faccia, e brancolando in guisa d'orbo, pi? miei passi intrico. Oggimai tempo ? trarsi d'ombra, quando la luce de vostr'occhi essermi scorta non sdegni a l'uscio per voi fatto entrando.
CRISTO
Questa prigion da tutte parti porta non ha, for ch'a l'entrare; ma ritorno far indi e sovra girsen, via pi? importa.[286] Questo ? quel lungo nel mal far soggiorno: non speri uman valor, chi uscirci v?le; ed io lo guida son ch'altrui distorno. Di che se ben sentissi, o ingrata prole, quanto ti diedi e darti anco apparecchio di questa cieca ed inornata mole, non f?ra mai che per alcuno specchio di verit? lasciassi 'l vero lume, avendo al falso pronto s? l'orecchio. Son io la verit?, son io l'acume del raggio che, volendo, sempre avrai: persona i' son de l'inscrutabil nume. Io son l'amor divin, che ti criai uomo simile mio, del ciel consorte, se 'l cor porgi che pria t'addimandai.[287] A te il mio regno, a me il tuo cor per sorte convien. Stolto sarai se darmi 'l nieghi, ch? nol facendo ti verr? la morte! Morte, fera crudele, ai lunghi prieghi che le sian fatti acci? non ti divore, immobil sta, non che punto si pieghi. Ma se remetti ne le man mie il core e per altrove porlo indi nol svelli, non fia perch? abbi tu di lei timore. Soi tumuli, sepolcri, roghi, avelli e quant'urne s'affretta empire d'ossa non temer, n? di forza ch'aggian elli. Lei, di catene vinta in scura fossa rinchiusa, freno; ch?, sci?rse volendo, talora si dimena con tal possa, ch'ella, te il cor ritolto avermi udendo, subito rotte lasciaralle a dietro. E, quant'or ti son bello e ti risplendo, questa pi? lorda e d'aspro viso e tetro ti assalir? co' l'insaziabil ferro di nervo tal, ch'ogni altro li ? qual vetro; e 'n peggior stato, di cui ora ti sferro, respinto ancideratti, e parangone[288] farai del gran destin che altrove serro a te, sol d'intelletto e di ragione bell'alma. Poi ch'ucciso morte t'aggia, in Dio de l'opre tue sta 'l guidardone! Pur speme n? timor da te ti caggia, ma l'una e l'altro insieme fa' che libri; ch? chi spera temendo alfin assaggia di me quale dolcezza l? si vibri, ove sfrenato amor ragion non stempre, ma sian le due vert? del senso i cribri.
TRIPERUNO
Se per cosa, Signor, di basse tempre da voi s? largo pregio me n'acquisto, ecco, vi dono il cuor! abbiatel sempre! Ma (dirlo vaglia!) non pi? bello acquisto far si potria di quel ch'or faccio: averve, o d'ogni ben bellezza, in fronte visto, in quella fronte, onde tal foco ferve[289] in l'alma mia, che ardendo s'addolcisce, mentre che 'l suo del vostr'occhio si serve. Non ho che io temi morte se perisce ogni sua forza, pur che sempre v'ami; e il sempre amarvi troppo m'aggradisce.
CRISTO
Non mancheranno tesi lacci ed ami d'un adversario tuo, che 'nvidioso al don, ch'or ti dar?, sotto velami di verit? cerchi farti ritroso a l'amistade nostra; ma pi? bassi che puoi gli occhi terrai col piede ombroso. Muovi tu dunque accortamente i passi per questo calle che a man destra miri, onde al terrestro paradiso vassi.[290] Cosa non avvi per cui unqua sospiri, anzi gioisci di quel dolce ch'io t'apporto, acci? che m'ami e toi desiri commetta a me che t'ho svelto d'oblio.
TRIPERUNO
Com'esser pu? ch'un arbore, ch'un fiume l'un stia verde giammai senza radice, l'altro pi? scorra se acqua non s'elice di fonte, o neve a l'austro si consume? Com'esser pu? che 'ncendasi le piume, mancando il sole, l'unica fenice, o ch'ardi al spento foco cera o pice di natural e non divin costume? Com'esser pu?, dal cor un'alma sgiunta, che 'n corpo viva, come allor viss'io che 'l cor al car mio dolce Ies? diedi?[291] Ma 'n ci? tu sol, amor, natura eccedi, ch'un corpo viver fai, bench? 'l desio sen porti altrove il cor su l'aurea punta.
TALIA
Pi? di voi fortunati sotto 'l sole fra quantunque animal non muove spirto, ch'al fin d'esta mortal incerta nebbia migrar ci ? dato sovra l'alte stelle! Bont? di lui, che, a man destra del Padre regnando, fassi degna nostra guida. Nostra per cieco labirinto guida, ove smarri de lo 'ntelletto il sole; nostro fermo dottor, che s? col Padre esser c'insegna un Dio co' l'almo Spirto, un Dio, che stabil muove il mar, le stelle, augelli, belve, frondi, vento e nebbia. Ma da l'Egeo mar un'atra nebbia,[292] che a tanti perder fa la dolce guida, levata in alto fin sotto le stelle, ai saggi erranti cela il vero sole: ch? pi? credon salir di Plato il spirto, che Paolo e M?se, che d'Isacco 'l padre; n? Archesilao n? de stoici il padre sin qui gli han tolto via del cuor la nebbia, che penetrar non lascia ove sia 'l spirto motor di ci? che muove, mastro e guida. Per? van ciechi e bassi, e solo al sole molti dricci?r altari ed a le stelle. O voi dunque, mortali, de le stelle, de l'anime e di noi cercate il sole, e non del dubbio Socrate la nebbia. Meglio ? morendo aver Ies? per guida che ad Esculapio offrir d'un gallo il spirto![293] I' veggio trasformato il negro spirto in angelo di luce, per le stelle volando, a noi mostrarsi esser lor guida, se leggo Averois, d'errori padre. Ma l'aquila Gioanni in bianca nebbia sublime affise gli occhi al Sol del sole; al Sol del sole, onde 'l figliuol, dal padre mandato in questa nebbia su a le stelle, si ? fatto nostra guida, amor e spirto.
DISSOLUZIONE DEL CAOS
TRIPERUNO
Finito che fu dunque l'alto verbo, bench? infinito sempre lo servai, disparve 'l mio Signor in un soperbo triunfo tolto a mille e mille rai; ma nel fuggir un s?no cos? acerbo ton? dal negro ciel, ch'io ne cascai come frassino o pino, il qual per rabbia di vento stride e stendesi a la sabbia.
Vidi la cieca massa, in quell'istante che 'l capo m'intron? l'orribil scopio, smembrarsi in quattro parti a me davante, ed elle sgiunte aver gi? loco propio, due parti in capo e due sotto le piante: sommmistrarmi sento effetto dopio, qual puro e caldo, qual sottil e leve, qual molle e freddo, qual densato e greve.[294]
Vidi anco le 'ncurvate spere intorno de la terrestre balla farsi cerchio, che rotan sempre e mai non fan ritorno: sol'una ? fatta a noi stabil coperchio. Ma 'l ciel d'innumerabil lumi adorno (un solo non mi parve di soverchio) m'offerse al fin girando un s? bell'occhio, che lui per adorar fissi 'l ginocchio.
Egli, s? alzando, tal mi apparse, ch'io lasciai pur anco 'l fren in abbandono, drieto a l'error del credulo desio, che 'n tal sentier non sferzo mai n? sprono.[295] Ma strana voce, onde quell'occhio usc?o, mentre ch'assorto in lui sto fiso e prono, scridommi come Paolo ai listri fece, che di Mercurio l'ador?r in vece.
SOLE
Alma felice, c'hai sola quel vanto[296] aver di l'alta mente simiglianza, onde guardar mi puoi frontoso, altero, qual or ti fai, ch? 'n me, codarda tanto, pi? estimi questo raggio che l'orranza del dato a te sovra ogni stella impero? Non Dio, ma un messaggero di lui ti vegno da quell'una luce, ove ben sette volte intorno avrai di me pi? bianchi rai; da Quel senza cui nulla fiamma luce, ma come in vetro egli per noi traluce. Or dunque pi? alto e non s? basso adora, ch? l'esser mio fu solo in tuo servigio. Mira come ascendendo passo passo, senza mai far in lunga via dimora, di miei cavalli tempro s? 'l vestigio, che l'ampia rota, ove tornando passo, non unqua vario e lasso, finir a la prescritta meta deggio. Vedi come l'estreme parti abbraccio, e quanto puosso faccio sol per accomodarti l'uman seggio, ove di quanto sai voler provveggio. Mira quell'ampia zona come obliqua[297] mi volge a drieto, onde ne vado e riedo[298] insieme, ostando al mio tornar s? ratto. N? di' che tal ripulsa mi sia iniqua; ch? risospinto, mentre vi procedo, l'un emisfero aggiorno, l'altro annotto, scorrendo quattro ed otto segni per tanti mesi, e passeggiando causo molta bellezza di natura, c'ha, variando, cura farti pi? vago e lieto il mondo, quando d'ambi solstici a l'equinozio scando. Quinci l'arista, e 'l ghiaccio quindi apporto, l? il fior e 'l frutto a pi? tua dolce gioia. Ma non usar del ben concesso in male,[299] ch? sentiressi quanto ? ratto e corto il mio gir lento, e ti darei gran noia solcando il cerchio estivo e glaciale. Poi 'l tempo c'ha cent'ale a gli omeri, a le mani, al capo, ai piedi, ch'ora sotterra giace in le catene, verria st?rti dal bene ch'oggi s? lieto godi e te 'l possedi; e ne faria soi giorni e mesi eredi. Ben tempo fu, che chi sia 'l tempo e morte quello provasti, e questa dir sentisti; e l'uomo Dio, che d'uomo a tempo nacque (ma sempre di Dio nasce, ed or le porte del ciel entrar hai visto), gi? servisti, quando per l'uomo farsi uomo li piacque; ch? nel presepio giacque nudo, fra l'asinello e bue nasciuto. Ma, d'ignoranzia in grembo, l'hai scordato: per? da Dio novato col mondo sei, che dianzi eri perduto, e novo Adamo fatto sei di luto. Luto non sei pi?, no, ma novo Adamo per cui ruppe oggi Dio la massa, e d'ella novellamente noi per tuo ben scelse; noi, dico, stelle, ch'anzi ti eravamo co' l'altre cose nulla o quel si appella ?Caos?, donde 'l bel seclo Dio ti svelse. Ma sovra le pi? excelse[300] corna de' monti, onde ti porto il giorno, piantato t'? un terrestre paradiso, che di solaccio e riso onestamente sendo sempre adorno, Ies? spesso vi fa teco soggiorno. Adora lui, se forse quanto sia, (dandogli 'l cor s? come hai fatto), gusti. Quel non son io, perch? da te adorato ne vegna, come al mondo errore fia di Manicheo e soi sequaci ingiusti. Cristo non son, perch'egli sempre a lato del Padre sia chiamato ?sol di giustizia?; dond'ei dir si puote Cristo esser sole, e 'l sol non esser Cristo. Sol son io 'l sole, visto d'occhio mortal; ma l'altro sol percuote di cieco error chi v?l mirar sue rote.[301] Ora pi? non m'attempo, ch? senza me vedi ogni errante stella (per trarne frutto, chi test?, chi a tempo), volersi unir indarno a mia sorella, che adultera s'appella[302] d'ogni pianeta, e pur senza noi dua con puoco effetto va la vert? sua.
TRIPERUNO
A l'increpar um?le del mio Apollo, come uom che cade e s? vergogna l'erge, mi rilevai, mirando quanto armollo di sua potenzia Dio, che, ovunque asperge li aurati raggi, il mondo fa satollo[303] di caldo lume, e ratto che s'immerge a l'altro uscito gi? d'un emispero, imbianca quello, e questo lascia nero.
Ma non s? tosto il giorno fu dal lume solar causato e nanti mi rifulse, che l? una fonte, qua bagnar un fiume vidi le ripe sue da l'onde impulse: parte stagnarsi e mitigar lor schiume, parte volgersi al mar e l'acque insulse far salse, ove l'orribil Oce?no distende l'ampie braccia di luntano.
In mille parti ruppesi la terra, donde montagne alpestri al ciel ne usciro. Quinci una valle, quindi un lago serra de' colli e piagge qualche aprico giro. L'alto profundo mar gi? non pur erra la sua consorte che rotonda miro, anzi, fatta la via per calle stretto, in grembo a lei si fece agiato letto.
Gi? d'erbe, fiori, piante e de' virgulti la terra d'ogn'intorno si verdeggia; quai poggi erbosi, e quai lor gioghi occulti han di frondose cime, e qual pareggia monte le nebbie. Ma de' boschi adulti ecco gi? sbuca l'infinita greggia de gli animali: chi presto, chi pegro, chi fier, chi mansueto, o bianco o negro.
Anco d'augelli un'alta copia vidi sciolti vagar per l'aere, ed altri tanti su per le frondi e macchie tesser nidi o rassettar col becco li aurei manti (non ? poggetto e riva, che non gridi lor vari e ben proporzionati canti), altri lasciare il volo e al nuoto darsi e, in acque scesi, d'augei pesci farsi.
Stavami affiso, e nel mirar un dolce pensier alto diletto m'apportava: gran cosa il mondo, e pi? chi 'l guida e molce troppo mi parve allor, e ch'ei non grava n? l'un n? l'altro polo che lo folce, e ch'un s? magno artefice l'inchiava! N? fu mirabil men, che de niente pender lo vidi ad alto incontanente.[304]
Tra nulla e tutto 'l mondo alcun indugio, quantunque pargoletto, in Dio non cape. Or stracco di stupir non pi? m'indugio: ma, v?lto il passo ad un pratel che d'ape tutto risona, dando a lor rifugio s? l'aura dolce come i fior le dape, mi si presenta ratto in bella gonna, ch'esce d'un bosco, sola e grave donna.
Presta ne' gesti, e di sguardo matura, ma pi? d'augello ne l'andar spedita, ha vesta bianca, gialla e di verdura, e ci? che 'ncontra tocca e d?lle vita. Che nulla a drieto lasciasi procura; e sopraggiunta ov'era l'infinita mandra de l'ape, tutte le raguna, e fece lor non so che, ad un' ad una
Vago di lei saper, non che la causa perch? s? or questa or quella cosa tocchi, vadole contra; e poi, di farle nausa temendo, mi ritraggo e basso gli occhi. Ella che accorto m'ebbe fece pausa con le man giunte al ciel e li ginocchi piegati in terra, e tal parole sciolse, che poi finite, a me lieta si volse:
NATURA
Quell'inclito animale d'alto pregio, ch'ogni altro avanza e tiensil basso e domo, ecco, celeste Padre Santo, il nomo, se da voi porre i nomi ho privilegio! Ma gi? trovai nel nostro sortilegio, che nominar il debba ?fragil uomo?, per quel s? dolce e pestilente pomo cui si nascose il primo sacrilegio. Ben vedo che per me, ?Natura? detta,[305] l'eterno oprar che destemi si perde, e nasce ognor che mi persegua il tempo. Onde, per ch'ora sia sempre sul verde, altre stagion verranno assai per tempo, che al fine mi trasportan qual saetta.
DIALOGO
NATURA E TRIPERUNO
NATURA
Spirto immortale, a cui sol alza Dio[306] la fronte in cielo e fattene capace, fa' che a me torni udendo l'esser mio!
TRIPERUNO
Io sospicai di troppo esser audace, volendo e te sapere e l'opre tue: per? mi volsi adrieto per mia pace.
NATURA
Anzi dal Padre destinato fue che sol da l'uomo l'esser mio s'intenda fin a la meta de le fiamme sue; ma che l'ottavo cerchio non trascenda, se non quando abbia seco parte in cielo e l'alto pegno, d'onde 'l tolse, renda. Ch'i' sia la tua Natura non ti celo, da Lui fatta del mondo servatrice sempre, se sempre dura l'uman velo.
TRIPERUNO
Dunque sei quella mastra, quell'altrice, quell'onoranda madre, quella grande[307] di Dio ministra e del mio ben radice? Ecco se lunge tua belt? si spande, o causa se non prima, almen seconda, ecco se chiara sei da tutte bande! Verd'? la terra, gialla, rossa e bionda, che 'l tuo pennello intorno mi la pinse e mi la rese agli occhi s? gioconda. E 'l ciel ne lodo, e lui che il mondo avvinse di quel forse non mai solubil groppo, n? men chi a l'opra nobile t'accinse.
NATURA
Saggio animal, pur son colei che 'ngroppo le fila ch'altri l? dissopra ordisce:[308] lieta ne vo, ma non sicura troppo. Anzi 'l vivo pensier, che m'addolcisce pensando al tuo, non pur al mio decore, sento che passo passo in me languisce.[309] Deh! non fallir, alma gentil, amore, che ad esser ti degn? suo dolce obietto, dandoli tu, de cui si pasce, il cuore!
TRIPERUNO
Il cuor a lui gi? diedi, ed ogni affetto ho di seguir e non lasciarlo unquanco per non privarmi del suo bello aspetto. Non sazio mai, non mai vedrommi stanco[310] mentre mi volgo a contemplar ognora l'amor per cui di gioia mai non manco. E pur se dubbia sei, madre, n? ancora ben stabile considri esser il chiodo, battil cos? che mai non esca fora!
NATURA
Figliuol, gi? strinsi a l'altre cose un nodo, donde sferrarsi quelle non potranno, se Dio non le ritorna al primo sodo. A te con li altri, che saputi vanno, diede l'alto motor un liber giovo, che o lor in pregio vegna o lor in danno. Per? mistier non ? ch'io batta 'l chiovo; altro braccio del mio sovente il preme; tu stesso il sai che 'l fatto non t'? novo. Ragion, memoria, e lo 'ntelletto insieme[311] sceser in te da le soperne idee, c'han di tua libert? le parti estreme. Se mai verr? che contra 'l ben si cree pensier in te, non temer, che non senta le voglie entrate se sian bone o ree. Perch? la scorta tua sta sempre intenta del cor al varco e sa chi va chi viene, n? in darti avviso mai fia pegra e lenta.[312] Per? ch'io sol la rabbia in te raffrene! forse tempo verr? che da me impetri de le stagion di foco e ghiaccio piene. Ch? quando sia che i d? brumali e tetri volgerti il chiaro ciel sossopra miri, e i monti neve, e i stagni farse vetri, nostra in bal?a sar? che 'l mondo giri, lo qual il tempo adorno riconduca, e l'erbe e' fior novellamente aspiri. Ma non sia ch'alcun serpe mai t'induca de l'arbore vietato a c?r il frutto, che ancide altrui se 'l morde o se 'l manuca.
TRIPERUNO
Pi? tosto il sol fermarsi e 'l mar asciutto forse vedr?, che mai contra la voglia cosa mi faccia di chi move 'l tutto. Ma scoprimi tu gi? (quando che foglia mai senza tuo vigor non penda in ramo) quanto sii vaga e bella sotto spoglia!
NATURA
Qual pianta, qual augel, qual fiera pi? amo di te, saggio animal? Per? mie cose io pi? mostrarti, che tu veder, bramo. Voi dunque, freschi rivi, piagge erbose, opachi colli, cavernosi monti, campi de gigli, de ligustri e rose; voi, rilevate ripe, laghi e fonti, riposte valli, ruscelletti e fiumi, ch'anco miei segni non gli avete c?nti; anzi del ciel voi fiammeggianti lumi, quella vert? spandete a l'uomo nostro, ch'omai l'assenni e del mio ben l'allumi! Nel cui servigio mosse l'esser vostro[313] un Dio: per? ch'ei sol v'intenda lece, al qual faceste un altro pi? bel chiostro; chiostro di tante stelle ornato in vece d'un bel trapunto, ove specchi e gioisca le quattro e sette l?, qua l'otto e diece. E quanto su contempla e gi?, sortisca in grazia tal, che lo 'ntelletto pigli non men de l'occhio, e par a lui salisca. Orsi, tigri, leon, lepre, conigli, pantere, volpi, orche, ceti, delfini, aquile, strucci, nottole, smerigli, non sia de voi chi umile non s'inchini a l'assennata forma, ovunque scorre tra voi platani, abeti, faggi e pini. Di tutte vostre cause in lui concorre una dal sommo artefice criata, che a l'uomo suo voi tutti ebbe a comporre. Ma sento gi? l'error! Ahi, scellerata soperbia, che pur l'uscio trovi aperto, ben cara costaratti quell'entrata,[314] ch'io vengo il premio compensarti al merto!
TRIPERUNO solo
Se dir volessi a mille e mille lingue, se por in carte a mille e mille penne, col senno ch'ogni groppo ci distingue, dramma del sommo ben ch'allor mi venne, dapoi che l'alta donna con le pingue di sdegno gote al ciel spieg? le penne, direi che tra' mortali l'esser mio saria non d'uomo anzi terrestre Dio.
Gi? mai s? bel secreto fu di lei n? in erbe, fonti, pietre, stelle occulto, ch'al subito girar de gli occhi miei non mi restasse in l'alta mente sculto. So ben che mille Atlanti e Tolomei de l'intelletto, ch'oggi m'? sepulto, non sen trarrebber una particella, perch? saliscon d'una in altra stella.
Ma, lasso! il chiaro vetro in ch'io solea specchiar da fronte i secli, e poi le spalle, per ch'io 'l trovai s? fosco? perch? Astrea pi? star non volse meco in questa valle? perch? ridir non so quant'io scorgea per un angosto ma soave calle? Lassiamlo dunque; anzi a le cose parve scendiamo, poscia che l'altezza sparve!
Sparve Natura molto neghittosa, merc? che volse a Dio l'orgoglio equarse. I' mi fermai sott'una macchia ombrosa,[315] mirando l'ape, quinci e quindi sparse, a sacco porre una campagna erbosa ed a vicenda in loco poi ritrarse, ove locar di cera e m?le vidi per cave querze i tetti lor e' nidi.
Se fu ne' grandi corpi molto industre Natura, ove mirabil officina corc?, quanto pi? parmi saggia e illustre fingendo l'apa in forma s? piccina! N? l'apa sol, ma ci? ch'umor palustre nudrisce, dico, o riscaldata brina, donde sbucarse veggio tarli e culci, vespe, cicade, mosche, ragni e pulci.
Dimmi tu, senso altier che a tutta puossa intender cerchi Dio n? mai lo aggiugni, perch?, s'han elli sangue, nervi ed ossa sol per sapere, non te stesso impugni? perch? sottrarsi da qualche percossa lor presti miro, che morte no 'i giugni? Segno evidente ch'in tal corpicello non men la madre opr? ch'in un gambello.
Ch'instrusse mai quella solerte vespa svenar il ragno e trasferirlo al speco, dove co' piedi e rostro pria l'increspa e tienlo poi, qual uovo, in grembo seco, in fin ch'un figlio in quella tana crespa gli nasca d'ale privo, ignudo e cieco, ma di troncate mosche tanto 'l pasce, ch'egli gi? vespa salta fuor di fasce?
Qual mastro dito a l'errabondo fuso volve di quel del ragno pi? bel stame, ch'or suso va cos? veloce, or giuso, nodando, per far preda, l'alte trame? Poi, ne la stanza pendula rinchiuso, attende al varco, per scemar la fame, qual animal vi caschi ne le stuppe, che con prolisse gambe ravviluppe.
N? la formica men sagace parmi, ch'ognor s'affanna per schivar il stento. Di quanta forza veggio che co' l'armi[316] e schiene va burlando il gran frumento (cos? nel far teatri grevi marmi s?lsi condur per gli uomini al cimento), poi l'incaverna e fiedelo col rostro, che non s'imboschi dentro l'ampio chiostro!
Ecco sen passa d'una in altra forma quel vermo onde la seta for s'elice. O bell'instinto natural e norma, che sanza le sua fila n? testrice n? aurefice ben soi trapunti forma! Taccio l'ovra del candido bombice che dal svelto per pioggia fior di querza nasce cangiato in fin la volta terza.
Mille altre spezie de la picciol greggia pospongo agevolmente or in disparte. Segue ch'io solamente l'ampia reggia de l'ape contemplando chiuda in carte; ch? 'l magistrato lor forse pareggia, se non in tutto, il nostro almen in parte, s? come quelle c'han statuti e legge, n? manca il duca lor che le corregge.
Anzi de la pi? parte da' suffraggi lo eletto imperator sostien la verga; satelliti, littori, servi e paggi vannogli sempre appresso ovunque perga. Esso le pene simili a li oltraggi librando va: per? non ? chi s'erga soperbamente contra lui, ch? amando temesi un rege pi? che minacciando.[317]
Non come l'altre l'umido mucrone (armollo assai sua maiestade) cura. Mentre la plebe strenua compone senza Vetruvio tanta architettura, egli sta sopra e lor case dispone, servando (ove convien) modo e misura. Non esce mai di corte se non quando del popol manda una gran parte in bando.
E se a tardarla fusse allor men tosta qualche armonia di ferro o d'altro s?no, l'impulsa torma irebbe assai discosta. Cos? dal rege suo guidate sono: per? Natura v?l che senza sosta lor di concento arresti qualche tono, e 'nsieme le raguni a nova tomba, in guisa de' soldati al s?n di tromba.
Ma s'io non voglio che 'l mio popol n'esca di sue contrade per migrar altrove, un'ala tronco al capo de la tresca, la qual non senza lui mai fuga move. S'ei langue infermo, dangli bere ed esca;[318] chi 'l porta, chi 'l sostien, chi 'n grembo il fove; s'anche smarrito errando va per caso, vien c?nto, qual patron da' cani, a naso.
E se di qua di l? trovar nol sanno, allora per consiglio si delibra condurse ad altro duca, e for sen vanno a la cittade altrui, n? alcun si vibra de' cittadini contra e fa lor danno, anzi nel tetto si compensa e libra di quanta plebe sia capace; dopo n? pi? n? men li accettan che li ? uopo.
Tal volta ch'egli morto caschi occorre: pensi chi ama il suo rege qual supplizio! Di tutte bande al corpo si concorre, gittate a terra l'util esercizio; con lagrime non san elle gi? sporre lor gran cordoglio al funeral uffizio; dir? ben veramente aver udito strepito d'ale con vocal ruggito.
Se d'ordinato e regolar costume giammai l'uso mortal restasse privo, puoterlo aver da l'api si presume, n? l'uomo forse l'averebbe a schivo; ch?, stando elle di notte ne' lor piume si il stato per servar s? il rege vivo,[319] la vigil guarda sempre a l'uscio ascolta, cascando a queste e quelle la sua volta.
Ma de l'augel cristato non s? presto s'annunzia gi? spuntarse nova luce, ecco di tromba un s?no manifesto fa dar per le contrate il pronto duce. S'ode di par il s?no: ? il volgo desto, al solito lavor che si riduce, o lieto ch'in cospetto al rege primo va fuora e riede carco sol di timo.
La verde giovenezza ? che sen fugge a la ricolta in bande assai longinque. Chi qua la rosa, chi l? il giglio sugge; chi assale questo fior e chi 'l relinque. Fassi gran preda, ed Ibla si distrugge co' l'altre terre che vi son propinque; la turba d'ogn'intorno succia e lambe, n? cessan riportar l'enfiate gambe.
Ma de le pi? attempate un storno arguto col suo signor in r?cca stassi a l'ombra, cui per ufficio vien locar in tuto la roba che, portata, il tetto ingombra: depor i fasci a parte dan aiuto, parte, gi? leve, a la campagna sgombra. Tanto al divin servigio, a l'uman gusto[320] di piacer brama un vermo si robusto!
Talora un vento subito (quantunque del tempo sian presaghe) di tranquillo cos? molesto vien, che scossa ovunque si pascon elle in fin l'umil serpillo. Ecco la madre le ha provviste dunque; ch?, toltosi ne' piedi alcun lapillo, van elle poco del gran vento in forza, librando qual nocchier il volo ad orza.
Ed anco se la notte per la loro molta ingordigia d'acquistar le assale, raccolte insieme quasi in concistoro le gambe al ciel e 'n terra posan l'ale; ch? de le stelle il rugiadoso coro le avvinge s? che poco il volo vale, se non s'industran starsene sopine tutta la notte ad aspettar il fine.
Taccio le ultrici guerre, ch'a le volte tra l'un vicino rege e l'altro fansi. Tu vedi tante squadre intorno accolte,[321] che poscia a t?r la vita irate vansi, e se ritornan parte in fuga v?lte, ritrandosi lor duci fiacchi ed ansi, parte seguendo vittoriosa gode, n? altro che plausi e voci liete s'ode.
Indi iattura tal (se non dissolve l'agricola prudente lor litigi co' l'importuno fumo e secco polve) vi nasce, che la morte ai campi stigi la parte vinta e la vittrice involve. O grandi spesso al stato uman prodigi! ch? de lor code mandon l'alte spine, cui per grand'ira seguon l'intestine!
La vile mandra de' pannosi fuchi trovan sovente starsen al presepe, ove cosa non ? che non manuchi; ma poi nel faticarse, pegra, tepe. Tu vedi lor scacciati esser da' buchi, e morti far in cerco folta sepe; e il simil fan de l'apa tarda e pigra, che uccisa vien s'occulta non sen migra.
Tra gli diversi lor nemici e morbi come vespe, crabroni e rondinelle, ragni, lacerte, acqua de stagni torbi, puzzo de cancri, culici, mustelle, par che la rana pi? le affanni e storbi; perch'ella contra i brandi lor ha pelle non men sicura e di maggior fiduccia, del ferro al colpo, d'una fral cannuccia.
Ecco mirabil vermo, che disopre li altri animali (non pur dico insetti, ma quanti piuma, squame e lana copre) esser fatto mirai per santi effetti, tra' quai conobbi le lodevol opre di cera, dentro ai cristiani tetti, ove non ben di notte Dio si cole, se m?ncavi di cere acceso il sole.
D'altri animali, dicovi seguendo, tenni le cause d'infallibil prova; ma quante rimembrar in me contendo e porle inanzi a voi, nulla mi giova. Cos? volse il mio fallo che, s'io spendo, per risaper ci? ch'in natura cova, il tempo invan, ne pianga giustamente e faccia come quel che tardo pente!
Di poggio in piano, di campagna in selva, giravami qual spirto che di gioia pascendosi l? su per l'ampio ciel va, n? mai cosa v'incontra che lo annoia. Qual orso, qual leon, qual altra belva rest? venirmi (non che desse noia) scherzar intorno, e dentro le lor sanne prendermi leggermente ambo le spanne?
Palpava il dorso al tigro, come solsi far d'un cagnolo o d'altro picciol pollo. Comai le sete a li apri e mi ravvolsi le vipere a le braccia, al capo, al collo, li augelli al pugno e' pesci al lido accolsi, n? de mirarli venni unqua satollo. Poscia mi volsi a la man dritta, come sopra mi disse quel dal dolce nome.[322]
PARADISO TERRESTRE
TRIPERUNO
Dopoi che sopra e sotto 'l ciel usciro l'opre del summo artefice s? belle, n? molto spazio and? che l'empio e diro popol de li dem?n fu da le stelle bandito al centro basso, ove periro con l'ombre eternamente al ciel rubelle, su l'uomo Dio fond? stabil disegno, ch'empir di novo avesse il vodo regno.
N? pi? son pesci in acque n? pi? foglie in selve, come in ciel private stanze. Per? Michel, poi ch'ebbe l'atre spoglie di Pluto trionfando su le lanze sospese ai tetti ove l'onor s'accoglie, discinto il brando e tolte le bilanze, venne qui gi? per farvi non pi? guerra, ma sol un paradiso a l'uom in terra.
Qui, di soperba fatta invidiosa[323] la greggia de' cornuti negri, quando questo antivede, cruda e neghittosa, ripiglia contra noi l'occulto brando (i' dico ?brando occulto? a pi? dannosa nostra ruina), e sempre va celando quinci quel vischio, quindi quella pania,[324] tanto che la pi? parte avvinge e lania.
Piantato dunque in terra un paradiso da l'angiol fu di Dio detto ?Fortezza?; luoco non privo mai d'onesto riso, de s?ni, canti, giochi a gran dolcezza. Quivi trovai pur anco l'aureo viso di quel Ies? che l'amorosa frezza nel cor m'immerse prima, e seco poscia portollo, me lasciando in dolce angoscia.
Su ne le pi? levate cime, donde Febo riporta il mattutino giorno, un monte, c'ha l'inaccessibil sponde e cento millia passi volge intorno, vidi che al ciel lunar il capo asconde e par che tocchi i piedi a Capricorno. L? fui chiamato d'una nebbia scura: — Vieni oggimai, o santa creatura! —
Suso mi porto, ed ecco alte muraglie vidi luntano con quadrata cinta serrar de poggi e campi e di boscaglie una provincia in pi? parti distinta. Ma quello muro quasi mi abbarbaglia la vista, dal suo lume resospinta, merc? ch'era cristallo ed oro, intorno di perle e tutte l'altre gemme adorno.
Or su per quel parete schietto e fino vidi ch'avean Michel e Raffaele (non l'urbinate, dico, o 'l fiorentino, ch'or lascian dopo s? gran lode in tele) depinto per mio specchio il fier destino di Lucibello, a se stesso crudele, che, bello troppo a se medemo, d'alto prese co' gli altri un smisurato salto.
LA PORTA
?Uomo, che vedi a quanto onor ti degna[325] l'altissimo Fattore, or entra ad obbedirlo, acci? che 'l cuore da te gi? dato in grazia ti 'l mantegna! Ma ne la gioia tua, ch'avrai s? lieta, fa' che raffreni accortamente; cui non repugnando, provarai col male quant'era il ben, anzi che l'un di dui pomi gustassi. Ch? se Dio ti 'l vieta, toccar non d?i, per non venir mortale. Dal serpe il piede e dal legno fatale se non vieti la mano, ecco d'un legno more il ceppo umano,[326] e un legno per sua croce Dio non sdegna!?.
TRIPERUNO
Queste parole, trapuntate in oro, sopra la porta, in un bel smalto, lessi; ma i fregi e gli archi ed ornamenti loro sono di fine gemme carchi e spessi. Entrovi lieto per s? bel tesoro, e in cerchio con le mani esser rannessi, d'angioli pargoletti e nudi un stolo vidi scherzando volteggiarsi a volo.
E su per merli e for de gli balconi, quei di diamante e questi di cristallo, mill'altri con diversi canti e suoni muoveno d'altri tanti un lieto ballo: arpe, la?ti, citere, lironi, senza mai farvi punto d'intervallo, addolciscon le orecchie d'uditori al nome c'hanno impresso dentro i cuori:
al dolce nome sovra ogni altro grato, nome amoroso, nome aureo e soave, nome del mio Ies? forte, sacrato, nome di grazie ponderoso e grave! Non ? macchia s? lorda di peccato, che 'l dolce nome di Ies? non lave; nome che chi noma in spirto, sente mordersi 'l cuore d'un pietoso dente!
Quivi se non in danze e giochi stassi, danze pudiche, giochi allegri, onesti: chi su le penne, chi su lievi passi, que' leggiadretti spiriti modesti scorron il bel giardino, or alti or bassi, quelli de' boschi per le cime, questi per le fiorite piagge e verdi prati, succinti o in bianche stole o nudi alati.
Altri con reti d'oro i pesci snelli tranne di questo rio, di quello fonte; altri tendon guazzarsi ne' ruscelli chi pi?, chi man, chi l'ale, chi la fronte; altri celan archetti ai vaghi augelli per macchie e ripe, o sotto o sopra un monte; altri scaccian de' boschi e folti vepri damme, conigli, cervi, capre e lepri.
Vidine molti ancora, con bei freni di seta e d'oro, stringer lioncorni: chi li rallenta il morso, chi 'l sostiene con lievi sbalzi e volgimenti adorni. Franguelli, piche, merli e filomene con pappagalli, rondinelle e storni volan di ramo in ramo, a schiera a schiera, cantando la sua eterna primavera.
Eterna primavera qui verdeggia, ch? 'n le catene il Tempo giace altrove; aprile quivi e marzo signoreggia, n? mai da l'ombre zefiro si move, per cui soavemente sempre ondeggia l'altezza de colline e poggi, dove pini, cipressi, querze, faggi, abeti adombrano vallette e campi lieti.
Quivi onoratamente fui raccolto da duo barbati e candidi vecchioni. L'uno fu Enocco, e l'altro che, distolto di terra, ascese in ciel fra spirti boni,[327] quando Eliseo videlo nel molto foco volar a l'alte regioni. Questi con lieto volto m'abbracciaro, mostrando il mio advenir quant'ebber caro.
Vado fra loro poscia, lento lento, favoleggiando verso il gran palaccio. Ecco quegli angioletti, a trenta, a cento lascian chi l'arpa, chi 'l danzar, chi 'l laccio, e vengono assalirmi in un momento con un soave intrico e dolce impaccio, perch? mi carcan gli omeri, la testa di sua leggiera salma e fanno festa.
Entrato ne l'adorna ed ampia stanza non men di quelle del signor mio bella, bella e gioiosa for d'umana usanza (qual oggi a Marmir?l si rinnovella, e qual li ombrosi campi sovravanza in Pietole sul chiaro Minzio, e quella ch'entro l'antiqua terra di Gonzaga mostrasi al viatore tanto vaga),
trovamo un spacio quadro d'una liscia piazza de marmi lustri ed altre pietre. Ove nel mezzo la fatale biscia, come sotto acqua fanno le lampetre, sdrucciola quinci e quindi, ma non fiscia; ch? 'l capo ha di dongiella e par ch'impetre, col vago suo sembiante, che chi passa subitamente al suo voler s'abbassa.
S'abbassi tostamente a la sua voglia di por le mani a quel vietato ramo e dispiccarne il frutto, onde la doglia succede poscia al nostro interno, Adamo; lo qual non mai si vede senza spoglia, se non dapoi che l'esca di quell'amo l'attosca s?, che morto ne rimane, fin che 'l rilevi poi lo empireo pane:
quel pane dolce bianco ed immortale che pasce in ciel l'angelica famiglia. Non ? morbo n? peste s? mortale, che questo pan, sal?bre a chi se 'l piglia con salda fede, nol risani, quale fu de' leprosi gi? la maraviglia. Ma guardesi chiunque indegnamente a un s? soperbo cibo admove il dente!
Soperbo cibo, che d'umilitade profundissima sorse in mia salute; soperbo cibo, ove l'alta bontade cerc? d'erger a' morti la virtute; soperbo cibo, il qual con veritade convien che 'n corpo e sangue si trasmute, in corpo e sangue de l'umano Dio, che disse: — Or manucate il corpo mio! —
Ma come egli togliesse il grave assonto in s? d'ogni mia colpa su la croce, avrovvi a dir col tempo, s'io m'affronto a un stil pi? grave, e non pi? che veloce. Ch? se d'altri concetti al giogo monto col senso, non sussegue poi la voce se non debile e inferma; come chiaro si vede ch'io non so, ma tardo imparo.
Vedr?, se 'l debil filo non si taglia nel mezzo del cammin di nostra vita, quel raggio, ch'ora il senso m'abbarbaglia, con vista pi? vivace e pi? spedita. De' bianchi e negri spirti la scrimaglia ben tengo de le muse al monte ordita; ma ch'abbia, se non tutto, almen in parte di Lodovico attendo il stile e l'arte.
Non pi? Merlino, F?lica e Limerno oltra sarovvi, ma sol Triperuno. Tratto son oggi mai di quell'inferno ove chi faccia ben non vi ? sol uno.[328] Per te, Ies?, per te vedo e discerno esser del cibo tuo sempre degiuno; ed ?ingannato al fine si ritrova chi lascia la via vecchia per la nova?.
FINISCE LO CAOS DEL TRIPERUNO.
DE AVREA VRNA QUA INCLUDITUR EUCHARISTIA
Urnula, quam gemmis auroque nitere videmus, quaeritur angusto quid ferat illa sinu.
Haud ea, pestifero Pandorae infecta veterno, intulit omnivagas orbe adaperta febres!
At pretium, quo non aliud pretiosius, ipsa haec quod rerum amplexus non capit, urna capit.
Signore mio, l'altissima cui fama sin oltra 'l ciel ottavo s'alza e gira, amor mi sprona e la ragion mi tira dir quanto in terra ognun v'onora ed ama. E mentre son per adempir mia brama, giungendo rime al s?n di bassa lira, mi resto e dico: — Ahi! mente mia delira, che gir ti credi ove 'l desio ti chiama! Chi salir? tant'alto? n? la lingua di Tullio e di Virgilio l'aurea tromba potria montar di sua vertude al giogo! — E pur, come che 'l stile mio soccomba a quell'altezza tanta, non si estingua di lui cantar un desioso fuogo.
Ad un altro Alberto da Carpo di tal nome indegno
LIMERNO
Caro germano, potriati facilmente pervegnire a le orecchie che,
favoleggiando noi, F?lica e Triperuno insieme, ed io con loro, de la
miracolosa dottrina de uno asino, mi occorse adducerti in testimonio o
sia esempio di coloro li quali, non sapendo parlare, si intromettono
temerariamente fra gli saputi e savi uomini a ragionare de li altrui
fatti e costumi, volendosi elli con lo biasmar altri mostrarsi di
qualche onore e reputazione degni. E perch? tu da me ti chiamarai forse
oltraggiato essere e vituperato, ti rispondo, nanti tratto, che con
l'altre tue bone condizioni matto ancora ti mostrarai, quando in te non
voglia patire quello che in altro giammai non cessi adoperare, io dico
ne l'altrui fama e onore. Dimmi, uomo dappocaggine che tu ti sei, con
che ragione, con che giustizia, con qual caritade tu con quell'altro che
fiorentino si fa, Sebastiano ?puzzabocca?, e con altri toi simili
furfanti, a li quali ben sta quella sentenzia del mio barbato Girolamo:
?Possident opes sub paupere Christo, quas sub locuplete diabolo non
habuerint?; per qual, dico, necessaria cagione non mai vi straccate di
cercare far danno ne la fama ed onore del giovene innocente Triperuno?
in che cosa egli vi offende, diavoli che voi siete? Ah maladetta rabbia
di questa invidia! come se indraca pi?, come se invipera nel sangue
innocente, perch? sa, perch? vede lui aver posseduto di libertade lo
paradiso terrestre, de lo evangelio la luce anti smarrita, d'un Orso
mansuetissimo la grazia! Roditi dunque da te istessa, o conscienzia
diabolica, la quale, per tua soperbia, lo perduto seggio a l'uomo esser
donato vedi! Lasciatelo stare in vostra malora, arrabbiati cani, ch?
egli non pur non vi offende, ma si sdegna pensar cos? bassamente de voi,
malvagi e invidiosi spiriti, non tutti dico, non tutti appello, anzi
lodo e reverisco li uomini quantunque rari conscienzienti. Ma tu,
Alberto, al quale un tal nome di quello non pur accostumato e saputo
signore ma profondissimo filosofo cos? conviene come ad uno asino la
sella d'un bel destriero, per mio consiglio studiati avanti di meglio
raffrenar la lingua, che non facevi lo tuo cavallo grosso, al tempo de
le barde, essendo soldato vecchio; che nol facendo, mostrarotti una
penna di oca pi? eloquente essere che la lingua d'uno baboino. Guardati!
FINE DEL VOLUME PRIMO.
NOTE:
[1] Mater prima, secunda soror, mihi tertia neptis.
[27] ?Nil sine magno | vita labore dedit mortalibus?. Horat.
[28] Rationalis anima, quae ad corpus accedit, oblivionem sui
quam primum incurrit.
[29] Dulce quidem est poculum per quod praeteritorum fit
bonorum oblivio.
[30] Difficillimum omnium rerum est mortalibus Dei consilium.
[31] De caeco nato scriptum est: ?Quid peccavit? Hic aut
parentes eius??. Responsum est: ?Ut manifestentur opera Dei?.
[32] ?Sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes
vivificabuntur?. Paul.
[33] ?Adam obtemperans mulieri habet tipum rationis voluptati
succumbentis?. Aug.
[34] ?Plato in libris Legum quid sit omnino Deus inquiri
oportere non censet?. Cic.
[35] Utitur periphrasi circa id quod in instanti agitur.
[36] ?Cum igitur statuisset Deus ex omnibus animalibus solum
hominem facere coelestem, cetera universa terrena, hunc ad coeli
contemplationem rigidum erexit; ibi pedem constituit, scilicet ut eadem
spectaret, unde illi origo est?. Sen.
[37] Iustitia Dei est, ut nullum malum transeat impunitum.
[38] Summa et omnium difficillima est victoria sui.
[45] Peccatum originale, quod in Adam fuit personale, in aliis
naturale.
[46] Anima rationalis hanc in miseriam devolvitur, ut mox
altius se ipsam recognoscat.
[47] ?Principium iure tribuetur homini, cuius causa videtur
cuncta alia genuisse natura, magna saeva mercede contra tanta sua
munera; non sit ut satis aestimare, parens melior homini an tristior
noverca fuerit?. Plin.
[48] ?Oh quam contempta res homo nisi supra humum se
erexerit!?. Arist.
[49] ?Prima roboris spes primumque temporis munus quadrupedi
similem facit?. Plin.
[50] ?Non quidem certe est aliquid miserius homine?. Homer.
[51] ?Itaque multi extitere qui non nasci optimum censerent aut
qui ocissime aboleri?. Plin.
[52] ?Oh fallacem hominum spem fragilemque fortunam et inanes
nostras conceptiones, quae mediocri in spatio saepe franguntur et
corruunt!?. Cic.
[55] ?Natura ceteris animantibus testas, cortices, coria,
spinas, villos, setas, pilos, plumam, pennas, squamas, vellera tribuit;
hominem tantum nudum in nuda humo natali die abicit ad vagitus statum et
ploratum?. Ex Plin.
[93] Hominum industria metallorum conversionem (quod est
naturae) ob avaritiam quaerit.
[94] Liberalis ars culpa manualis industriae saepe calumniam
patitur, ut patet de alchimistis.
[95] ?Magnitudo pecuniae a bono et honesto in pravum
abstrahit?. Sallust.
[96] ?Semper discentes et numquam ad scientiam veritatis
pervenientes?. Paul.
[97] Multa sunt quae natura industriae nostrae reliquit
facienda ut domina ancillae.
[98] Natura enim quae hominis vitio corrupta est multa
incommoda generi humano parit.
[99] Mors omnium naturalium incommoditatum terribilissima
homini est.
[100] Industria quippe humana dicimus temporis iniurias ferre.
[101] Duabus sed diversis tibiis utuntur musica et medicina.
[102] ?Mors est munus necessarium naturae iam corruptae, quae
non est fugienda, sed potius amplectenda et iterum fiat voluntarium quod
futurum est necessarium?. Io. Chrys.
[136] ?Apparet nullam aliam spem vitae homini esse propositam
nisi ut, abiectis vanitatibus et errore miserabili, Deum cognoscat et
Deo serviat?. Lact.
[137] Iam per reminiscentiam, ingruente rationis aetate, homo
suam in se recolit naturam et dignitatem.
[138] ?Tu autem quum oraveris intra in cubiculum tuum, ubi,
clauso ostio, patrem tuum in abscondito ora?. Evang.
[139] Veritas in coelo moratur, quia omnis homo mendax.
[140] ?Turpe est cedere oneri quod semel recepisti?. Sen.
[141] ?Omnia quaecumque voluit Dominus fecit in coelo et in
terra?. Dav.
[142] Omnium miraculorum praestantissimum est quum virgo sine
floris virginei detrimento Deum hominem parit, qui complectens universum
angusto praesepio patitur includi.
[143] ?Cognovit bos possessorem suum et asinus praesepe domini
sui, Isra?l ante me non cognovit?. Esaias.
[144] ?Unguentum suave et optimum est amor summi boni, quo
pestes mentis sanantur et cordis oculi illuminantur?. Basil.
[145] ?Lacta, mater, cibum nostrum; lacta panem de coeli arce
venientem et pone in praesepium velut piorum cibaria iumentorum?. Aug.
[146] ?O iugum sancti amoris, quod dulciter capis, gloriose
laqueas, suaviter premis, delectanter oneras, fortiter stringis,
prudenter erudis!?. Bernard.
[148] ?Veritas de terra orta est et iustitia de coelo
prospexit?. David
[149] ?Finis legis Christus ad iustitiam omni credenti?. Paul.
[150] ?Tota vita Christi in terris per hominem quem gessit,
disciplina mortis fuit?. Aug.
[151] ?Quo autem Deus pater genuerit filium, nolo discutias nec
te curiosius ingeras in profundo arcani?. Hier.
[152] Pater noster, ut liberaret servum, tradidit filium.
[153] ?Deus noster purgari homines a peccatis maxime cupit,
ideoque agi poenitentiam iubet. Agere autem poenitentiam nihil aliud est
quod profiteri et affirmare se ulterius non peccaturum?. Lact.
[154] ?Difficile est resistere consuetudini, quae assimilatur
naturae?. Arist.
[252] Ecco il testo completo, quale si legge nella 2? edizione:
LUNA, APPICCATO, PAPA, IMPERATORE, PAPESSA
Europa mia, quando fia mai che l'una parte di te, c'ha il turco traditore, rifr?ncati lo Papa o Imperatore, mentre han le chiavi in man, per lor fortuna? Aim?! la traditrice ed importuna ripose in man di donna il summo onore di Piero e tiene l'imperial furore sol contra il giglio e non contra la Luna. Che se 'l papa non fusse una Papessa che per un pi? Marcin sospeso tiene, la Luna in griffo a l'aquila vedrei. Ma questi papi o imperatori miei fan s?, che mia Papessa far si viene la Luna, e vo' appiccarmi da me stessa.
[253] ?Ut navem et aedificium idem destruit facillime qui
struxit, sic hominem eadem optime quae conglutinavit natura dissolvit?.
Cic.
[317] ?Qui vult amari, languida regnet manu?. Sen.
[318] ?Inexpugnabile munimentum est amor civium: quid pulchrius
quam vivere optantibus cunctis??. Sen.
[319] ?Nunquam oportet domum esse sine custode?. Arist.
[320] ?Iustus ac honestus labor honoribus, praemiis, splendore
decoratur?. Cic.
[321] ?Iamque faces et saxa volant, furor arma ministrat. | Tum
pietate gravem ac meritis si forte virum quem | Conspexere silent
arrectisque auribus adstant?. Virg.
[322] ?Nomen Iesu lucet praedicatum, pascit re cogitatum, lenit
invocatum, roborat virtutes, vegetat bonos mores, castas fovet
affectiones?. Bern.
[323] ?Non enim invidia parit superbiam, sed superbia parit
invidiam, quia non invidet nisi amor excellentiae?. Aug.
Le Note, ad esclusione della 252 e 329, riportano
annotazioni manoscritte dall'autore in alcune copie della prima
edizione.
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute,
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
End of the Project Gutenberg EBook of Caos del Triperuno, by Teofilo Folengo
*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK CAOS DEL TRIPERUNO ***
***** This file should be named 35799-h.htm or 35799-h.zip *****
This and all associated files of various formats will be found in:
http://www.gutenberg.org/3/5/7/9/35799/
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
Magni and the Online Distributed Proofreading Team at
http://www.pgdp.net (Images generously made available by
Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at
http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)
Updated editions will replace the previous one--the old editions
will be renamed.
Creating the works from public domain print editions means that no
one owns a United States copyright in these works, so the Foundation
(and you!) can copy and distribute it in the United States without
permission and without paying copyright royalties. Special rules,
set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to
copying and distributing Project Gutenberg-tm electronic works to
protect the PROJECT GUTENBERG-tm concept and trademark. Project
Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you
charge for the eBooks, unless you receive specific permission. If you
do not charge anything for copies of this eBook, complying with the
rules is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose
such as creation of derivative works, reports, performances and
research. They may be modified and printed and given away--you may do
practically ANYTHING with public domain eBooks. Redistribution is
subject to the trademark license, especially commercial
redistribution.
*** START: FULL LICENSE ***
THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE
PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK
To protect the Project Gutenberg-tm mission of promoting the free
distribution of electronic works, by using or distributing this work
(or any other work associated in any way with the phrase "Project
Gutenberg"), you agree to comply with all the terms of the Full Project
Gutenberg-tm License (available with this file or online at
http://gutenberg.org/license).
Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg-tm
electronic works
1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg-tm
electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to
and accept all the terms of this license and intellectual property
(trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all
the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy
all copies of Project Gutenberg-tm electronic works in your possession.
If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a Project
Gutenberg-tm electronic work and you do not agree to be bound by the
terms of this agreement, you may obtain a refund from the person or
entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8.
1.B. "Project Gutenberg" is a registered trademark. It may only be
used on or associated in any way with an electronic work by people who
agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few
things that you can do with most Project Gutenberg-tm electronic works
even without complying with the full terms of this agreement. See
paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project
Gutenberg-tm electronic works if you follow the terms of this agreement
and help preserve free future access to Project Gutenberg-tm electronic
works. See paragraph 1.E below.
1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation ("the Foundation"
or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection of Project
Gutenberg-tm electronic works. Nearly all the individual works in the
collection are in the public domain in the United States. If an
individual work is in the public domain in the United States and you are
located in the United States, we do not claim a right to prevent you from
copying, distributing, performing, displaying or creating derivative
works based on the work as long as all references to Project Gutenberg
are removed. Of course, we hope that you will support the Project
Gutenberg-tm mission of promoting free access to electronic works by
freely sharing Project Gutenberg-tm works in compliance with the terms of
this agreement for keeping the Project Gutenberg-tm name associated with
the work. You can easily comply with the terms of this agreement by
keeping this work in the same format with its attached full Project
Gutenberg-tm License when you share it without charge with others.
1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern
what you can do with this work. Copyright laws in most countries are in
a constant state of change. If you are outside the United States, check
the laws of your country in addition to the terms of this agreement
before downloading, copying, displaying, performing, distributing or
creating derivative works based on this work or any other Project
Gutenberg-tm work. The Foundation makes no representations concerning
the copyright status of any work in any country outside the United
States.
1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:
1.E.1. The following sentence, with active links to, or other immediate
access to, the full Project Gutenberg-tm License must appear prominently
whenever any copy of a Project Gutenberg-tm work (any work on which the
phrase "Project Gutenberg" appears, or with which the phrase "Project
Gutenberg" is associated) is accessed, displayed, performed, viewed,
copied or distributed:
This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with
almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or
re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included
with this eBook or online at www.gutenberg.org
1.E.2. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is derived
from the public domain (does not contain a notice indicating that it is
posted with permission of the copyright holder), the work can be copied
and distributed to anyone in the United States without paying any fees
or charges. If you are redistributing or providing access to a work
with the phrase "Project Gutenberg" associated with or appearing on the
work, you must comply either with the requirements of paragraphs 1.E.1
through 1.E.7 or obtain permission for the use of the work and the
Project Gutenberg-tm trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or
1.E.9.
1.E.3. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is posted
with the permission of the copyright holder, your use and distribution
must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any additional
terms imposed by the copyright holder. Additional terms will be linked
to the Project Gutenberg-tm License for all works posted with the
permission of the copyright holder found at the beginning of this work.
1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg-tm
License terms from this work, or any files containing a part of this
work or any other work associated with Project Gutenberg-tm.
1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this
electronic work, or any part of this electronic work, without
prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with
active links or immediate access to the full terms of the Project
Gutenberg-tm License.
1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary,
compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including any
word processing or hypertext form. However, if you provide access to or
distribute copies of a Project Gutenberg-tm work in a format other than
"Plain Vanilla ASCII" or other format used in the official version
posted on the official Project Gutenberg-tm web site (www.gutenberg.org),
you must, at no additional cost, fee or expense to the user, provide a
copy, a means of exporting a copy, or a means of obtaining a copy upon
request, of the work in its original "Plain Vanilla ASCII" or other
form. Any alternate format must include the full Project Gutenberg-tm
License as specified in paragraph 1.E.1.
1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying,
performing, copying or distributing any Project Gutenberg-tm works
unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.
1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing
access to or distributing Project Gutenberg-tm electronic works provided
that
- You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from
the use of Project Gutenberg-tm works calculated using the method
you already use to calculate your applicable taxes. The fee is
owed to the owner of the Project Gutenberg-tm trademark, but he
has agreed to donate royalties under this paragraph to the
Project Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments
must be paid within 60 days following each date on which you
prepare (or are legally required to prepare) your periodic tax
returns. Royalty payments should be clearly marked as such and
sent to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation at the
address specified in Section 4, "Information about donations to
the Project Gutenberg Literary Archive Foundation."
- You provide a full refund of any money paid by a user who notifies
you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he
does not agree to the terms of the full Project Gutenberg-tm
License. You must require such a user to return or
destroy all copies of the works possessed in a physical medium
and discontinue all use of and all access to other copies of
Project Gutenberg-tm works.
- You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of any
money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the
electronic work is discovered and reported to you within 90 days
of receipt of the work.
- You comply with all other terms of this agreement for free
distribution of Project Gutenberg-tm works.
1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project Gutenberg-tm
electronic work or group of works on different terms than are set
forth in this agreement, you must obtain permission in writing from
both the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and Michael
Hart, the owner of the Project Gutenberg-tm trademark. Contact the
Foundation as set forth in Section 3 below.
1.F.
1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
public domain works in creating the Project Gutenberg-tm
collection. Despite these efforts, Project Gutenberg-tm electronic
works, and the medium on which they may be stored, may contain
"Defects," such as, but not limited to, incomplete, inaccurate or
corrupt data, transcription errors, a copyright or other intellectual
property infringement, a defective or damaged disk or other medium, a
computer virus, or computer codes that damage or cannot be read by
your equipment.
1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the "Right
of Replacement or Refund" described in paragraph 1.F.3, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project
Gutenberg-tm trademark, and any other party distributing a Project
Gutenberg-tm electronic work under this agreement, disclaim all
liability to you for damages, costs and expenses, including legal
fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT
LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE
PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE
TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE
LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
DAMAGE.
1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a
defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can
receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a
written explanation to the person you received the work from. If you
received the work on a physical medium, you must return the medium with
your written explanation. The person or entity that provided you with
the defective work may elect to provide a replacement copy in lieu of a
refund. If you received the work electronically, the person or entity
providing it to you may choose to give you a second opportunity to
receive the work electronically in lieu of a refund. If the second copy
is also defective, you may demand a refund in writing without further
opportunities to fix the problem.
1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you 'AS-IS' WITH NO OTHER
WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO
WARRANTIES OF MERCHANTIBILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.
1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages.
If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the
law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be
interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by
the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any
provision of this agreement shall not void the remaining provisions.
1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg-tm electronic works in accordance
with this agreement, and any volunteers associated with the production,
promotion and distribution of Project Gutenberg-tm electronic works,
harmless from all liability, costs and expenses, including legal fees,
that arise directly or indirectly from any of the following which you do
or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg-tm
work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.
Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg-tm
Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers. It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.
Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.
Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation
The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising. Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.
The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations. Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
business@pglaf.org. Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org
For additional contact information:
Dr. Gregory B. Newby
Chief Executive and Director
gbnewby@pglaf.org
Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation
Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.
The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org
While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.
International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.
Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit: http://pglaf.org/donate
Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.
Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone. For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.
Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.
Most people start at our Web site which has the main PG search facility:
http://www.gutenberg.org
This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.