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Caos del Triperuno, di Teofilo Folengo /head>

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The Project Gutenberg EBook of Caos del Triperuno, by Teofilo Folengo









This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with




almost no restrictions whatsoever.  You may copy it, give it away or




re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included




with this eBook or online at www.gutenberg.org














Title: Caos del Triperuno




       Opere Italiane Vol. 1









Author: Teofilo Folengo









Release Date: April 8, 2011 [EBook #35799]









Language: Italian









Character set encoding: ISO-8859-1









*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK CAOS DEL TRIPERUNO ***
























Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara




Magni and the Online Distributed Proofreading Team at




http://www.pgdp.net (Images generously made available by




Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at




http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)


































TEOFILO FOLENGO


OPERE ITALIANE


A CURA
DI

UMBERTO RENDA


VOLUME PRIMO



BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1911


II

CAOS
DEL
TRIPERUNO


 
 

INDICE

Dialogo de le tre etadi
Selva prima
Sestina li cui capiversi dicono quella sentenzia: ?Concordantia — durant — cuncta — nature — federa?
De la puerizia ed aurea stagione
Selva seconda
Prefazione
La Carossa
La Matotta
Dialogo primo (Limerno e Merlino)
Lamento di bellezza
Centro di questo Caos, detto ?laberinto?
Amore di Triperuno e Galanta
Dialogo secondo (Limerno, Triperuno e F?lica)
La Asinaria — Dialogo terzo (F?lica, Limerno e Triperuno)
Tumuli Galanthidis mustellae
Selva terza
Prefazione
Triperuno
Dialogo (Cristo e Triperuno)
Dissoluzione del Caos
Dialogo (Natura e Triperuno)
Paradiso terrestre


De aurea urna qua includitur Eucharistia
Mira duorum amicitia
De Georgio Anselmo
Tumulus Marci
A l'integerrimo signor Alberto da Carpo
Ad un altro Alberto da Carpo di tal nome indegno


DIALOGO
DE LE TRE ETADI

Paola attempata — Corona giovene — Livia fanciulla.

Paola. Tu piagni, figliuola, e che ti senti tu?[1]

Corona. Nol sai, madre, senza che me lo chiedi?

Paola. Se 'l sapessi gi?, non tel dimandarei.

Livia. Dicerottilo io, dapoi che le molte e abbondevoli lagrime t'interrompeno la voce.

Corona. Taci l? tu, pazzarella, ch? pur troppo ? di soperchio a me sola questo cordoglio, senza che tu v'involvi dentro e lei ancora.

Paola. Non siano parole tra voi! O tu, o tu me lo narri senza pi? indugio.

Corona. Piango la mala sorte di mio fratello Teofilo, a te figliuolo.

Paola. ? forse morto?

Corona. S?, d'onore e reputazione.

Paola. Maladetto sia l'uomo il quale disprezza la fama sua.[2]

Corona. Dio pur volesse che la vergogna fusse di lui solo!

Paola. So male che responderti, non t'intendendo ancora: dimmi, ha commesso qualche adulterio?

Corona. Grandissimo.

Paola. ? di carne... Ma in che modo?

Corona. Qual trovasi maggior adulterio essere che de lo ingegno suo pellegrino, che de le tante lui grazie dal ciel donate usarne male?

Paola. Grande ingratitudine per certo! Ma comincio gi? la causa di questo tuo rammarico intendere: lo poema da lui composto sotto il nome di Merlino Cocaglio ancora non ti si parte dal cuore?

Corona. Anzi ognor pi? me lo parte e straccia.

Paola. Deh! stolta, tu t'affanni oltra quello che a te non tocca.

Corona. Pi? d'ogni altro mi tocca, ch? pi? d'ogni altro son certa che l'amo.

Paola. Pi? di me?

Corona. Pi? di te.

Paola. Di me, ch'io gli son madre?

Corona. Ed io doppia sorella.

Paola. Non l'ami tu gi? dunque, se doppia gli sei.

Corona. La causa?

Paola. Tant'? dir ?doppio? quanto ?falso?.

Corona. Or su, non motteggiamo, prego![3]

Paola. In che modo gli sei dunque doppia sorocchia?

Corona. Carnale e spirituale.

Paola. Carnale s? bene, spirituale non pi? gi?.

Corona. La cagione?

Paola. S'ha gittato il basto da dosso l'asinello.

Corona. E rottosi 'l capestro.

Livia. E tratto di calzi.

Paola. Or cangiamo cotesto ragionamento in altro. Hai tu letto l'Orlandino?

Corona. Letto? trista me! appena veduto.

Paola. Come? ti vien interdetto forse che da te con l'altre tue sorelle non si poscia leggere?

Corona. S?.

Paola. Chi fu questo pontifice?

Corona. La ragione.

Paola. Perch? cos? la ragione?

Corona. La quale m'avvisava dover essere peggior Limerno che Merlino.

Paola. Leggerlo almanco voi dovevati.

Corona. A che perder il tempo?

Paola. Taci, ch? d'ogni libro qualche cosa s'impara.

Corona. Questo ? falso.

Paola. ? sentenzia di Plinio.

Corona. Vada con le altre sue menzogne!

Paola. Negarai tu che d'ogni libro non s'impari qualche cosa?

Corona. Anzi, pi? de li tristi e disonesti che de li boni.

Paola. Or basta: non sai che 'n doi mesi, e non pi?, sotto il titolo di Limerno l'ha composto?

Corona. E' viemmi detto che, tutto a un tempo che lo componeva, eragli rubato da gli impressori.

Paola. Cotesto ? pi? che vero; ch? ove interviene stimulo di sdegno, spizziano versi senza alcun ritegno.

Corona. Potrebbe forse pentirsene, credilo a me.

Paola. Di che?

Corona. Dir tanto male.

Paola. Anzi solamente si dole che non pur Merlino, ma Limerno compose cos? precipitosamente che li stampatori non poteano supplire a l'abbondanzia e copia de' suoi versi; laonde pargli un errore grandissimo non aver servato lo precetto oraziano.[4]

Corona. Doverebbe via pi? tosto il meschino piangere e crucciarsi aver consumato il tempo circa tanta liggerezza.

Paola. Non dir liggerezza, figlia, ch? non per cosa liggera simulossi gi? Ulisse devenuto essere pazzo.

Corona. Troppo son certa io de la lui malizia, il quale fingesi ?pitocco? e furfante per dar bastonate da cieco.

Paola. Tu non sai la cagione.

Corona. Cos? non la sapessi!

Paola. Dimmi, qual ??

Corona. Per farci morir tutti spacciatamente di doglia, acci? pi? oltra non avesse chi gli gridasse in capo.

Paola. Tu te 'nganni grossamente.

Corona. Anzi pur tu te 'nganni.

Paola. Come?

Corona. In creder alcuno dir male a bon fine.

Paola. Che male dice?

Corona. Non voglio parlarne.

Paola. Perch??

Corona. Temerei di qualche maladizione.

Paola. Or su confortati, figliuola, ch? al poledro fu sempre concesso puoter fin a doi capestri rumpere.[5]

Corona. Non rumpa gi? lo terzo.

Paola. Anzi totalmente nel ternario numero fermatosi, ha messo a luce il Caos del triperuno.

Corona. Qual Caos del triperuno?

Livia. El pare che non ti sovvegna!

Corona. Non mi sovviene per certo.

Livia. Le tre ?selve?, le quali heri legessimo, e, per segno di ci?, una allegoria bellissima tu di quelle saggiamente cavasti, quantunque io sia di senso molto dal tuo discosto.

Corona. O smemorata me, ch'ora me lo ricordo! Ma dimmi: ? di Teofilo?

Livia. Non sai che solamente vi si fa menzione di Merlino, Limerno e F?lica?

Corona. Troppo me lo ricordo! Ma che fusse di tuo fratello Camillo mi pensava.

Livia. Tu non pensasti dritto: ? di Teofilo.

Paola. Cos? ?; ma ditemi ambe dua lo argomento vostro che imaginato vi avete sopra questo Caos, ch? ancora io lo sentimento mio vi narrer?. Comincia tu, Livia.

ARGOMENTO PRIMO

LIVIA.

Questo Caos, in ?selve? tripartito, la vita de l'autore, la quale in tre fogge sin a quest'ora presente col tempo veloce se n'? gita, contiene. Nacque egli (come di me voi sapete meglio) a gli otto giorni ed ore duodeci di notte, nel mese di novembre, sotto Scorpione, essendo allora grandissimo freddo: laonde in questa sua prima ?Selva? narra l'orribile freddura in cui egli miseramente nacque, fingendo natura essergli stata, pi? di madre, madregna, e pur ne la puerizia, la quale appella ?aurea etade?, gust? alquanto di securo e dolce riposo.

Ne la seconda ?selva?, pervenuto egli omai ne gli anni di qualche cognizione, ritrova molti pastori, la cui vita e costumi e quieta pace molto gli piacquero, volendovi inferire che di sedeci anni egli co' l'abito cangi? la vita. E veramente s? come a li pastori apparve l'angelo e mostr? loro dove giacesse il nasciuto fanciullo Ies? Cristo, cos? allora, su quel principio che egli prese a far vita comune co' gli altri pastori, trov? Cristo parvolino entro il presepio collocato; ma col tempo poi, per cagione di... (ma non voglio parlarne chiaro, ch? ancora egli va pi? riservato che sia possibile) traviato, si mise a seguir amorosamente una donna bellissima, la quale sopra un sfrenato cavallo gli scampa innanzi per tirarsilo drieto al precipizio d'ogni perdizione. N? chi sia questa dongella n? dove finalmente lo conducesse, vogliovi manifestar se non in l'orecchia dicendolo: ma, conchiudendo la seconda ?selva?, dico che 'l laberinto intricatissimo, nel quale ultimamente si ritrova, pare a me una soperstizione tenacissima significare, de la cui caligine se non per divin aiuto si p? essere liberato. Ed in questa tal foggia seconda di vivere, essendo egli gi? fora del sentiero diritto, compose lo poema di Merlino con tutte l'altre favole e sogni amorosi, li quali ne la ?selva? seconda si leggono.

Or dunque Cristo si gli scopre in quel centro d'ignoranzia de la ?selva? terza apparendo, e d'indi smosso, lo driccia sul cammino al terrestre paradiso duttore. Ch? per divina inspirazione conoscendosi egli perder il tempo supersticiosamente in quella seconda ?selva?, ritornasi a la sincera vita da l'evangelio primamente a lui demonstrata; e fatto del suo core un dono a Cristo Ies?, da lui ne riceve tutto 'l mondo in ricompenso e guiderdone di esso; e giunto nel paradiso terrestre, gli vien ivi comandato che non mangi de l'arbore de la scienza del bene e male, ma solamente si pasca e nudrisca del legno vitale, per darci sopra ci? un bell'avviso: che, quantunque ogni constituzione o sia tradizione de alcun santo padre bona e fundata su l'evangelio sia, nulla di manco assai pi? secura e utile cosa ? non partirsi dal mero evangelio; perch?, s? come ogni norma e regula de santi ha in s? figura de l'arbore del saper il bene e il male, cos? de l'arbore di vita contiene in s? lo leggier peso del Servatore nostro. Laonde esso mio zio Teofilo commetteria la terza sciocchezza quando mai lasciasse pi? lo vecchio sentiero per tornar al novo. E questo ? il senso mio circa la dechiarazione di questo Caos.

ARGOMENTO SECONDO

CORONA.

Arguto ed ingenioso fu questo da te pensato soggetto, Livia cara; ma non tanto a l'intenzione di tuo zio mi par agiatamente accascare, quanto quello ch'heri ti dissi ed ora sono ad ambe dua per ragionare. Move dunque mio fratello pi? generalmente il voler scrivere di qualunque altro uomo che del suo proprio fatto; onde ne la prima ?selva? narra la infanzia e puerizia umana, ne la seconda la precipitosa giovenezza, ne la terza la matura e virile etade.

Or dunque, ne la prima descrive in quanti affanni e travagli qualunque uomo, per fallo del primo nostro padre Adam, nasce in questo mondo, chiamandovi Natura ?crudele matregna?: da la quale di scorze, peli, piume e squame provveduto viene ad ogni altro animale quantunque vilissimo; ed egli solo, nudo nascendo, non ha schermo alcuno e difesa contra le ingiurie del tempo. Ma poscia, per beneficio de la industria ed arte pervenuto a la puerizia, dimanda quella ?l'aurea etade?, perch? la innocenzia del fanciullo sen passa quel poco di tempo senza sapere che sia rigidezza di legge, t?ma di tiranno ed inquietudine di avarizia.

Uscito poi egli dal bel giardino di puerizia, entra ne l'impetuosa giovenezza, la quale, innanzi che da l'ardente desio anco non vien assalita, comincia, con la mente tutta svegliata, de l'esser non pur suo, ma d'ogni altra cosa a ripensare. E quivi, ne la seconda ?selva?, mio germano, in persona (come gi? sopra dissi) d'ogni altra razionale creatura, fingesi trovar pastori, e Cristo Ies? tra quelli nasciuto, per darci questo avviso: che l'uomo, quanto prima ne gli anni di ragione entrar comincia, per favore del suo bon genio, incontanente ricorre a la cognizione di veritade, la qual ? Cristo nostro Servatore. Ma, levatasi poi la consueta tempestade di nostra carne, ecco la voluptade, ecco 'l desio sotto il viso di vaga dongella, sul sboccato cavallo de la delettazione, lo riconduce al varco de le due strade, per tirarsilo drieto a la sinistra del vizio, lasciando la destra de la veritade. Quivi dubitoso, ne la prima giunta, stassi ove gir si debbia: quinci, da belli e boni avvisi a la destra invitato; quindi, da gli umani piaceri combattuto che egli muovasi a la mancina. Soperato dunque e vinto finalmente dal fugace desio, v?gli impetuoso drieto, dovunque la falsa incantatrice, losingando, a s? in guisa di calamita lo smarrito animo tira, passando tutta fiata per sogni, chimere ed amorose favole, quali sono le ?fizzioni macaronesche?, come gli appellano, di Merlino, li sonetti, ed altre assai vane frascuzze, per signar il tempo da la giovenezza inutilmente trapassato, in fin che poi nel laberinto di qualche travaglio si ritrova essere: cosa che 'l pi? de le volte dopo gli piaceri s?le a gli gioveni accascare.[6]

Laonde, come ne la terza ?selva? noi leggemo, l'uomo angustiato ricorre al divino suffragio: e Cristo gli appare bello e pietoso, cavandolo benignamente di quella ignoranzia d'amore, e talmente li tocca il core, che 'l giovene, gi? venuto virile, si mette in considerazione di quanto mai fece Iddio per l'uomo. Dil che mio fratello sopra questo finge che, avendo Cristo ricevuto il core da lui, cri?gli tutto quanto il mondo, e al paradiso terrestre dricciatolo, gli comanda che, pascendosi egli del legno de la vita, il quale ha di sua grazia in s? la figura, non gusti per niente di quello del bene e male; il quale a me par dover significare che l'uomo, facendo le bone opere, quelle non debbe a soi meriti tribuire, anzi tutte nel divin favore collocarle. Tal ? dunque il concetto mio dal Caos divenuto.

ARGOMENTO TERZO

PAOLA.

Sentenzia divina ? che ?la lettera uccide l'anima?. Fermamosi, prego, dunque sul Caos di questa materia, lasciando in parte s? la vita di mio figliuolo in spezialitade, la quale per vigor e sottiezza de peregrini ingegni forse col tempo verr? in luce pi? secura, s? quella ancora di qualunque altro uomo, in questa umana gabbia precipitato.

Ne la prima ?selva? contienesi, adunque, l'uomo studioso ed avido d'imparare mettersi prima in considerazione di queste cose pi? basse de l'umana natura, fra le quali se l'arte liberale con la industria insieme non fusse, oh quanto inferiore a gli altri animali sarebbe l'uomo, non cos? provvisto da natura contra le ingiurie del tempo, quanto di piume, squame e peli sono quelli! Onde pare che meritamente pi? lei chiami ?madre? che ?madregna?, se la nuditade od altra miseria nel nascere ben si comprende. Ma contemplando per mezzo di queste divine arti liberali aver da non curarsi di qualunque onta naturale, si move al studio simplicemente di umanitade, lo quale ?aurea etade? meritatamente appella, quando che tutta d'oro sia cotesta disciplina e d'ogni scrupulo del nostro intelletto fora.

Ne la seconda ?selva?, questo medemo studente si delibera pur di trovar la veritade di quante cose naturali e soprannaturali ne' libri si contengono. Partesi da gli umani giardini per saltar ne la filosofia; ma tosto lo genio suo bono gli antepone la umanit? di Ies? Cristo e affermali non essere altra veritade di questo. Eppur la curiositade di pescar pi? sul fondo, in guisa di donna sopra un sfrenato destriero, lo tira per vie scabrose in fin sul passo che divide lo sentiero in due parti: quinci a la man destra invitalo l'evangelica, quindi a la sinistra la peripatetica d'oggid? teologia. Ma, vinto da la curiositade ancora, si avventa senza freno drieto a quella per chimere, sogni e favole sofisticali, trovandovi drento Merlin Cocaio; per notificarci la grossa e incorretta retorica ed elocuzione de la maggior parte de' nostri moderni teologi, ove quelli loro vocaboli ?causalitade?, ?entitade?, ?intuitiva? ed ?abstractiva?, con l'altra barbaria tengono corte bandita: per che al fine di mille dubitanze, errori ed eresie, nel laberinto egli avviluppato si ritrova e seppellito.

Or ne la terza ?selva?, commosso Ies? Cristo da dolce pietade verso quella anima invischiata ed allacciata in quei tanti ?utrum, probo, nego, arguo, pro, contra?, ecc., tiralo al mero e puro latte del santissimo Vangelo ed al fidel e tutissimo porto di san Paolo, con tutto il resto de' libri del Testamento novo e vecchio, nel qual egli studiosamente ruminando a Dio fa un dono del suo core. Lo quale, in cambio di s? legger cosa, fallo signore de l'universo, criandogli di novo il cielo, il mar e la terra; e dapoi tanto, al paradiso terrestre mandatolo, quivi gli comanda che voglia solamente pascersi di contemplar quanta sia verso noi la divina misericordia, ma non quale e quanta sia la maiestade e potenzia sua. E questo ? l'arbore de la bona e mala scienza, s? come quell'altro ? legno de la vita. A me cotesta allegoria pare de le vostre meglio quadrare al Caos di mio figliuolo. Ors?, leggemolo dunque di compagnia, e prima li tre nomi di esso.

 

MERLINUS.

Tres sumus unius tum animae tum corporis. Iste
nascitur, ille cadit, tertius erigitur.
Is legi paret naturae, schismatis ille
rebus, evangelico posterus imperio.
Nomine sub ficto ?triperuni? cogimur idem:
infans et iuvenis virque, sed unus inest.

 

LIMERNO.

Giove, Nettuno, Pluto d'un Saturno
ebber a sorte il ciel, il mar, l'inferno;
fulmini, denti, teste in lor governo:
tre trine insegne per tre cause f?rno.
Tre fonti, oltra le tre del mio Liburno,
nacquer d'un capo santo al sbalzo terno:[7]
cos? Merlino, F?lica, Limerno
si calcian d'un Teofil il coturno.
Mantoa sen ride e parla con Virgilio:
— Tu sei pastor, agricola, soldato,
perch? del n?mer terno Dio s'allegra.
Ridi tu meco ancora, dolce filio,
quando che sotto un nome triplicato
sortisca una confusa mole e pegra.[8]

 

F?LICA.

Fermati alquanto, lettore amantissimo. Son certo che lo exastico e sonetto di mei compagni di sopra ti parono duri e scabrosi. Non vi slungar, in guisa di rinoceronte, suso il naso, ti prego, ch? 'l ladro il quale rubasse di giorno saria tantosto compreso. Quivi ci fa mistiero di scurezza e caliginosa nebbia: ma se li capoversi per tutto il nostro Caos provvidamente scegliere saperai, chiaro e limpido finalmente ti parr? lo intricato soggetto nostro. Ma solamente un bell'avviso quivi darti intendo: che totalmente sul ternario numero siamosi, per conveniente ragione, fundati. Prima tu vedi lo titolo del libro essere tre parole: Caos del triperuno.[9] Segueno poi le tre folenghe,[10] ovver f?liche son dette, le quali sono antiquissima insegna di casa nostra in Mantoa. E sotto specie di loro succedono le tre donne[11] di tre etadi[12] e di tre fogge di parentela[13], da le quali derivano li tre prolissi argomenti[14], ciascuno di loro in tre parti diviso[15]. Noi siamo poi di tre nomi: Merlino, Limerno, F?lica.[16]

Li quali, cominciando il nostro Caos, in tre ?selve? lo spartimo,[17] con li soi tre sentimenti[18]; ma lo pi? autenticato al giudicio de l'ingenioso lettore dimettemo.


SELVA PRIMA

DISTICHON

Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe;
tres dixere Chaos: numero Deus impare gaudet.
Stemma con le lettere M L F T; ai lati FE. GO.

HEXASTICHON

Quae nat aquis coeloque interdum attollitur ales,
vel nat amore aquilae vel volat icta metu.
Nam quae solis adit, veluti Iovis ales, acumen?
est Fulicae ut Minti ludat in amne sui.
At, si illa huc humile ad stagnum descenderit ales,
quae nat aquis, aquilis digna erit esca suis.

TRIPERUNO.

Voi, ch'ad un'alta e faticosa impresa
vedete or me salir audacemente
per via mai forse da null'altro intesa,
piacciavi d'ascoltare queste lente
mie corde in voce lagrimosa e mesta,[19]
ch'altro non s'ha d'un'anima dolente.
E, bench'i' veda alzandovi la testa
mia virt? debil al salir tant'alto,[20]
di che sovente per vilt? s'arresta;
pur spiego l'ale, e quanto so m'exalto
l? 've m'accenna il lume d'ogni lume,
per cui non temo alcun spennato salto.
Ch?, mentre su con le 'ncerate piume[21]
tolgomi de le nubi sopra 'l velo,
d'un Dedalo megliore sotto 'l nume,
vedr? ch'immobil stassi e volge 'l cielo,[22]
sostien la terra, e l'universo a 'n cenno,
volendo, p? cangiar o 'n foco o 'n gelo.
Or dunque, di pi? sana audacia e senno
ch'Icaro mai non ebbe, a l'ardua via
ambo gli piedi, ambo le braccia impenno.
E cantovi di questa nostra ria[23]
prigion che ?vita? nominar non oso,
le frode di essa, il volgo, la pazzia;
e di quel Re, che 'n un presepio ascoso
vidi fra le duo bestie a gran bisogna,
ver' se stesso crudel, ver' noi pietoso,[24]
che svelse il mundo tutto di menzogna
con sua dottrina colma di quel foco,
ch'arde s? dolce in alma che non sogna.
Io dico te, Ies?, lo qual invoco
mio Febo, mio Elicona, mio Parnasso,
ov'ogni bel pensier al fin coll?co.
So ben che di te dir via pi? t'abbasso,
che tacendo non alzo; e pur m'offersi,
ecco, a dricciar nel tuo bel nome il passo.
Ch?, come vedi, son questi miei versi[25]
d'amor almanco e caritade in cima,
se non toscani, ben sonori e tersi.

TRIPERUNO.

Di quella spera pi? capace ed ima[26]
del ciel, ove l'Artefice soperno
fabbrica ognor quanto mai finse prima,
io novamente usciva, fatto eterno
candido spirto leggiadretto e bianco,
che bianca pi? non vien neve d'inverno;
quando 'l mio stesso fabbro un calzo al fianco
vibrommi tal, che gi? ne venni a piombo
in loco basso e d'ogni posa manco.
E come vago e timido colombo[27]
vola quando si parte da la torma,
del ciel tonante al subito ribombo;
tal io vi errava tanto che, d'un'orma
uscendo in l'altra, mi trovai sul porto,
dove l'oblio nostro 'ntelletto addorma.
Guardomi intorno paventoso e smorto,[28]
ch? teso in ogni parte vedo un rete,
onde ch'entrarvi debbia mi sconforto.
Quivi spicciando fora d'un parete
largo cos?, ch'ampio paese cinge,
chiara fontana porsemi gran sete.
La qual fra sassi mormorando astringe
al dolce ber qualunque vi s'applica;
ma tosto se ne pente chi lei tinge,
perch'ella il senso e lo 'ntelletto intrica.
Per? non men a un vischio tal m'accolsi,[29]
tratto dal bere e da l'usanza antica.
Quivi cum brame tanto me ne tolsi,
che tutto 'l bene che capisce in noi
non pur lasciai, ma nel contrario avvolsi.
Acque maligne, acque di t?sco, voi
pi? del m?le soavi, pi? che manna,
scoprite il fele al nostro error dopoi:
ch? chi vi gusta pur, non che tracanna,[30]
presto ne gli occhi, anzi nel cor s'annebbia:
dura cagion, che a questo ci condanna!
Cangiasi d'un bel raggio in scura nebbia,
n? qual era pur dianzi non ricorda,
n? su quel punto sa che far si debbia.
Io dunque, alma di bere troppo ingorda,
le parti mie d'alti pensieri dotte
perdei qual cieca forsennata e sorda.
Perch? non so: s?ssel colui, che notte
far giorno e giorno notte pote solo,
e d? sovente a noi d'amare b?tte.
Per fallo d'uno preme tutto 'l stolo,[31]
e vedesi alcun padre umil e domo
irsene gi? per colpa del figliuolo.
Or chi l'intenderebbe, che d'un pomo
succeda tanto incomodo, ch'ognora
sostegna il ceppo uman l'error d'un uomo?
Ben fu di acerbe tempre, poi ch'ancora
foggia non ? la qual digesto l'abbia,
n? mai (tant'esser deve crudo!) f?ra,
se chi nostr'alme spinge in questa gabbia,[32]
col raggio di piet? nol dissacerba
e tempra di giustizia in s? la rabbia;
n? stomaco di struzio n? onto n? erba,
mentre da noi per quest'ombre si viva,
? per smaltir un'esca tanto acerba.
I' non fu' mai di tal cibo conviva,
e pur padirlo, anzi patirlo, deggio,
per cui vien ciascun'alma del ciel priva.
La qual ir non dovria di mal in peggio,[33]
se, al priego d'una femina, colui
morse 'l mal frutto e p?rsevi 'l bel seggio.
A che unqua nascer noi, se per altrui
fallir par ch'anco l'ira non s'estingua
divina in noi, per loghi alpestri e bui?
Ahi miser! taci e morditi la lingua,
ch? maladetto fie chi in ci? s'adira:
gi? Dio mai d'uman sangue non s'impingua;
anzi ama l'opre sue, contempla e mira,
e studia l'uomo a s? fatto simile
scampare dal suo stesso foco ed ira.
Ma non pensar, non che cercar, suo stile[34]
via troppo da l'uman pensier rimoto,
ch? alto pensier non cape in senso vile.
Dunque dir? che quanto chiaro e noto
m'era dinanzi al ber de l'acque sparve,
onde fui d'ombra pieno e di sol v?to.
Eccomi sogni intorno, fauni e larve,
che mi facean per quella notte scorta,
n? mai pi? 'l bel ricordo dianzi apparve.
Pur mi raffronto a quella orribil porta[35]
fiso mirando, e qui fermai lo piede
com'uom ch'entrarvi drento si sconforta,
e, fin ch'altri vi passi, dubbio sede.

GENIO.

?Alma, che per altrui difetto al varco
dubbioso arrivi e Dio ti vi destina,
or quivi entrando inchina
l'orgoglio, alzando gli occhi al ciel che carco
gira di stelle e mostrasi luntano!
Di l? scendesti, e pi? non ti rimembra[36]
qual eri avanti 'l poculo di Lete!
Ma se tornarvi brami, quelle membra,
ove tu d?i corcarti a man a mano,
fa' che raffreni fin che 'n lor s'acquete
l'uman desio che le conduce al rete
s? di legger, ove ne resti presa.
Ma strenua contesa
non sa fatica, finalmente, o carco?.

TRIPERUNO.

Queste parole, in man d'un vecchio bianco,
vedendo appese di quell'uscio in fronte,
io tremai forte e tremone pur anco.
Anzi n'ho, rimembrando, a gli occhi un fonte:
ch? allor, mentre per me gi? si delibra
non ir pi? innanzi e volgomi dal ponte,
donna m'appar accanto, che mi vibra[37]
un pugno al fianco e drieto mi flagella,
ch'avea ne l'altra man un'aurea libra.
Ritornomi a la porta, dove quella
mi piega col temone di sue pugna,
drieto chiamando sempre: — Alma rubella,
alma proterva, fa' che non ti giugna
scamparti da colui che qui ti move
ad una faticosa e strana pugna,
ch'avrai con esso teco e non altrove,[38]
e per vincer leoni, tigri ed orsi,
vincendo te, minori son le prove! —
I' non mil fei ridir, ma via trascorsi,
qual timido cavallo che s'arresta
ne l'apparir d'un'ombra e sta su' morsi;
poi, v?lto in fuga, soffia ad alta testa,
ma chi gli sede addosso presto il torna,
stringel ai fianchi e fra l'orecchie il pesta;
ond'egli per le b?tte si ritorna
in quella parte onde lo smosse l'ombra,
di passo no, ma corre e non soggiorna.
Traggomi drento, al fine, ove me 'ngombra[39]
notte ch'ancor pi? m'ebbe ottenebrato,
in luogo cui la terra intorno adombra.
Ed io ne stetti non d'abisso al lato,
ma in centro d'ombre grosse denso e folto,
qual talpa preso in gli occhi e smemorato.
Cos? pi? mesi in quella tomba involto,[40]
io, pronto spirto ne la carne inferma,
stetti non pur prigione, ma sepolto,
fin che, o Natura, l'opra tua fu ferma.

MELPOMENE.

Mentre piangendo l'alte strida ed urli,
sorelle mie, s? duramente innalzo
(da me sol viene il tragico costume),[41]
lasci?ti i crin al vento, ch? ridurli
qui non bisogna in trezza n? 'l pi? scalzo
guidar per vaghi fiori e verdi piume
de' prati lungo al fiume,
anzi, sdegnando quella piaggia e questo
poggetto ameno, statine qui meco
in solitaro speco,
fin che mie rime udite sian di mesto
e lagrimoso canto, il qual risulte
da quei sassosi monti e valli inculte.
Depon, Urania mia, la tua siringa,[42]
che settiforme ha in s? del ciel il tipo;
e tu, Clio, la lira, ove 'l mant?o
al greco vate fai ch'egual attinga;
e mentre i lauri e l'edere diss?po,
spargi quei fior del corno, che l'er?o
gi? svelse ad Acheloo,
Erato mia: n? tu, Polinnia, il plettro,
n?, Calliope, l'arpa, n? la cetra,
Talia (s'unqua s'impetra[43]
grazia da voi!), pulsate, ch'ora il settro
tengo fra noi, cessando ancor le stanze
di Euterpe, e di Tersicore le danze.
Ahi! di qual gioia e quanto bella effige
traboccar vidi l'uomo in tanto scorno!
Mir?ti 'l ciel come, di grado in grado,
sol per causarli util piacer, s'afflige[44]
volgersi tra duo moti adversi intorno!
Mir?ti 'l Gange, l'Istro, Nilo e Pado,
ogni altro fiume e vado
tornarsi d'onda in onda al vecchio padre!
Pioven le nubi e la porosa terra
dal centro si disserra,
sorbendo il dato umor, onde gi? madre
fassi di questo fior e di quel pomo,
per aggradir ed aggrandir un uomo:
l'uomo che, ingrato a Dio non ch'a Natura,[45]
per antiporre un fral desire al dolce
suo fermo stato, giustamente abietto
fu d'alta gloria in infima iattura,
la cui durabil colpa in ciel si folce,
che mai non parte dal divin aspetto.
Per? sta fermo e stretto
destin, a penitenzia d'un tal fallo,
che l'uomo in grembo a morte quivi nasca:
cos? dal cielo casca[46]
l'alma di novo fatta in scuro vallo,
dove se stessa oblia cieca ed inferma,
gi? devoluta in sterco, fango e sperma.
Indi Natura, per supplicio degno,
men se gli mostra madre che noverca;
la qual ogni animal provvede contra
l'onte del tempo, dandogli sostegno.
Nasce pur l'uomo ignudo, il quale cerca[47]
schermirsi d'un agnello, volpe o lontra,
dal gelo in cui se 'ncontra,
ch? di scampo megliore non ha copia.
Ma di squame coperti, penne e lane
per fiumi, selve e tane
van pesci, augelli e fiere. In somma inopia
sol nasce l'uomo, cui cad? per sorte
pianger nascendo e, nato, gir a morte.
Non cos? tosto un augelletto spunta
de l'uovo fora, quando a tempo nasce:
ecco s'addriccia e, con soppresso grido,
del becco l'esca piglia in su la punta,
e senza documento di chi 'l pasce
su l'orlo estremo tirasi del nido,
donde gi? funde al lido
ci? che smaltisce per servarsi netto.
Non cos? l'uomo, no, ch? d'ora in ora[48]
convien di fascie fora
cavarlo, in cui legato stassi stretto,
e trarlo di sozzura e puzzo lordo,
al misero suo stato e cieco e sordo.
Or dite, prego, quand'egli mai s'erge[49]
co' l'aspetto nel ciel onde si parte,
che pria carpone de le braccia gambe
non faccia, mentre in foggia d'angue perge?
Ch? se al contrasto di natura l'arte,
l'industria in suo ripar non fusser ambe,
mentr'egli sugge e lambe
lo sin materno, peggio de le belve
ne rimarrebbe, tanto l'odia e sdegna
e fassigli matregna
colei ch'abbella monti, valli e selve,
e d'un s? gentil figlio non tien cura[50]
pel torto del primier; dico Natura!
Solo la donna artifice e la industre
parton de le sue membre l'officina;
ma quant'? 'l pianto e quante le percosse
anzi ch'ancora il misero s'industre
saper su piedi starsi! onde ruina
sovente s?, che molte fiate mosse
di luogo porta l'osse,
restandone d'un mostro pi? deforme.
Cosa non gi?, che ne li armenti caschi:
cercate e' verdi paschi,
le nubi, i fiumi, quante sian le forme
che, nate appena, chi 'l n?to, chi 'l volo,
chi prende il corso; e l'uomo casca solo!
Deh! perch? nasce lo 'nfelice dunque[51]
di tanti strali ad esser un versaglio?
Ogni tempesta in lui s'aggira e scarca,
ogni virgulto se gli attacca, ovunque
move di questa selva nel travaglio.
S'avvien ch'egli pur goda, ecco la Parca[52]
rumpelo al mezzo, e varca
la vita, al sol qual nebbia o fumo al vento:
stato penoso e miserabil tanto!
Ch'altro che affanni e pianto,
travagli, sdegni, lagrime, scontento
attende uomo che nasce? e se lo move
fortuna a qualche onor, morte vi 'l smove.
Queste parole in capo
voglio sculpite sian d'ogni tiranno,
lo qual non esser Dio, ma fumo e nebbia[53]
s'intenda, e che non debbia
farsi adorar al mondo, perch? vanno
e vengon tutti eguali di fral seme,
ma tal le piume, tal le paglie preme.

TRIPERUNO.

Dapoi li giorni e mesi, che 'n tal centro
s? lordo il mio destin crescer mi fece,
donna m'apparse a quel girone dentro,[54]
ch'indi sciolto mi trasse d'orbo in vece,
poi molto altiera disse: — Or tienti in mente,
mortal, che pi? tornar qui non ti lece! —
E ci? parlando, l'empia ed inclemente,[55]
nudo fanciul ne la stagion pi? acerba
lasciommi solo e sparve incontanente.
Sparve costei d'aspetto alta e soperba,
ed ove allor passava, in ogni canto
seccar facea con fior e frondi l'erba,
fin che di neve col gelato manto
mi ricoperse intorno e monti e selve;
di che tremavo con dirotto pianto.
Miravami da lato e fiere e belve
con ogni augello d'alcun pel guarnito,
qual sia che 'n grotte alberghi o qual s'inselve;
ma sol io nudo sopra il nudo lito
stavami d'Aquilone sotto 'l fiato,
n? fui per tanto da pietade udito.
Il qual piangendo mover quel spietato[56]
avrei potuto, ch'ogni fanciullino
uccise per mal zelo del suo stato.
Chi vide mai d'inverno un cagnolino
tremar su l'uscio chiuso di chi 'l tiene
usato starsi di madonna in sino;
cos? veder potea me con le rene
in terra nude, v?lto in quella parte
del ciel ove 'l suo moto si conviene,
ed ove 'l Serpe tortuoso parte[57]
l'orribil Orse, dove nasce il spirto
del fier Boote che non mai si parte
(qual fiume e lago, ch'aspro duro ed irto
non ferma il corso) di Callisto in braccio.
Ma non vidi poi s? d'un lauro e mirto,
anzi con altri assai di quell'impaccio
lor vidi sciolti, e con bella verdura
starsen di neve in mezzo e presso al ghiaccio,
merc? le calde gonne, che Natura[58]
lor diede per servarli eterna vita:
a lor s? mite, a noi maligna e dura!
Ma una dongella, non so d'onde uscita,
presta ne gli atti e d'abito succinta,
m'accolse in grembo, di servir spedita:
poi lunga fascia intorno m'ebbe cinta,
portatomi gi? dentro una spelonca
ben chiusa intorno e di fuligin tinta.
Ver ? che, d'uomo come statoa tronca
di braccia e gambe, in que' legami resto,
e cos? giacqui stretto in picciol conca.
Onde col capo sol (ch'un'oncia il resto
mover non poscio) v?lto a lei parlava,
con quell'istesso di fanciullo gesto
qual fece altrui con Dio, quando d'ignava[59]
lingua mostrossi e proferir non valse,
dovendo predicar a gente prava.
— Chi fu la donna — dissi — cui s? calse
gittarmi in terra nudo al vento e pioggia,
onde 'l mio corpo di gran gelo n'alse? —
Ella sorrise, lagrimando, in foggia
di chi nel petto amaro e dolce copre;
poi disse: — Eternamente non s'alloggia
in questa terra, n? si cela e scopre
il sol eternamente: sol un franco
e fermo stato ? molto al ciel dissopre.
Di l? cadesti e sei per montarvi anco,
se 'n questa umana vita di due strade[60]
dritto sentiero pigli e lasci 'l manco.
Per? ch'al fin de la pi? molle etade
ti trovarai sul passo di Eleuteria,
che per doi rami ? guida a dua contrade.
Quinci ratto si viene a la miseria,
quindi al pregio acquistato per lung'uso,
che s'ha quanto di aver si d? materia.
Ovver fia dunque tempo che 'n ciel suso
ritornarai vittor di questa giostra
o cascarai, di quel che sei, pi? giuso.
La donna, che s? cruda ti si mostra,
fidel ancilla de l'Eterno Padre,
non odiar, perch'? la madre nostra,
nostra non pur, ma d'ogni pianta madre,
Almafisa chiamata, che riceve
sua fama in variar cose leggiadre.[61]
E s'or il mondo t'ha cangiato in neve,
non d'aspettar t'incresca, perch? i lidi
rinnovellar de' fiori ancor ti deve.
N? sia perch'animale alcun inv?di
uomo per piume o squame o pel che s'abbia,
n? perch? sappian tesser antri o nidi;
e tu sol, nudo, isposto a l'empia rabbia
di Borea, veda ogni vil canna e legno
armato contra 'l freddo ed atra scabbia.
Questo forse ti pare d'odio segno;
pur sta' sicuro e fa' che ti conforte,
ch'odio non ?, ma sol un breve sdegno.[62]
S'odio tal fusse, ti darebbe morte,
n? avrebbeti produtto Dio giammai
n? fatto del suo regno al fin consorte.
— O me felice — dissi allor — non mai
esser nasciuto e, senza altra vittoria
di carne, gioir sempre in gli alti rai!
— Ne' rai — quella rispose — de la gloria,
de cui ragioni, per gioir non eri,
se pria non dato avessi qui memoria.
Alma non fu n? f?ra mai che speri,
innanzi d'esta vita i vari affanni,
viver del ciel in que' lunghi piaceri.
Guarda, figliuol, che forse tu te 'nganni,
s'esser for che 'n idea ti pensi eterno,
nanti la forma de' corporei panni.
Li quali ebber principio dal soperno
Padre, con l'alma scesa in questi guai,
ove, de la vert? se col governo[63]
di questo vento l'onde sosterrai,
che non ti caccia quinci e quindi a voglia,
oh lode, oh fama, oh pregio che n'avrai!
Per? d'esser nasciuto non ti doglia,
n? di Almafisa il sdegno oltra ti prema,
ch? 'n ciel d?i riportar felice spoglia,
e salirai sopra la cinta estrema,
che le soggette del suo moto avvisa
e molto di lor proprio moto scema.
Anchinia industre sono, sempre fisa[64]
supplir ai mancamenti con bell'arte,
se mancamento ? in quella d'Almafisa.
N? son, quand'ella cessi, per mancarte[65]
di pronti avvisi e di sagaci modi,
scoprendoti mie prove in ogni parte.
Fra tanto cos? stretto in questi nodi
voglio tenerti, fin che a tempo ritto
ti sosterrai su piedi fermi e sodi.
Ma viene ecco mia sore, che 'n Egitto[66]
uscita, da' caldei l'uman dottrina
port? de le scienze a tuo profitto;
ed anco ? audace s?, ch'assai vicina[67]
sovente a Dio poggiando si ritrova
e vede lui d'una persona e trina.
Costei l'altezza di natura prova,[68]
distingue, insegna in argomenti fermi,[69]
ma sopra lei sol contemplar le giova,[70]
ch? sa quanto sian debil ed inermi
gli sensi umani e la divina altura,
non che i ragionamenti ottusi e 'nfermi.
Costei la terra, il mar, il ciel misura,[71]
n?mera le cagion di piogge e venti[72]
con l'osservar di stelle ogni mistura.[73]
Costei qua gi? gli armonici concenti[74]
seppe cavar su dal soave moto,
per levamento de l'afflitte genti.
Costei, de' spirti con vigor, l'ignoto[75]
cognito fa, li quali sotto l'etra
pendon ne l'aere pi? dal ciel rimoto.
Costei sa le virt? d'ogni erba e pietra,[76]
orando persuade il giusto e il torto,[77]
e canta e' gesti altrui ne l'aurea cetra.[78]
Senza costei non ? stabil conforto[79]
di questo mare al travagliato corso:
da lei tu sempre avrai securo porto.
Ed io con lei ti mostrar? quell'Orso[80]
con l'Orsatino suo, che sian tuo guida
per ogni spiaggia e periglioso dorso.
Non sar? vento mai che ti divida,
stanne sicuro, dal governo loro,
che la sua luce alt?ra nol conquida.
Quel di Vinegia sommo concistoro
muove sotto costei lo gran stendardo
e pose in man de l'Orso il leon d'oro:
Orso non men di senso che di guardo,[81]
pronto a le imprese, liberal e schietto,
veloce al perdonar, a l'onte tardo. —
Parlava la dongiella e gran diletto
favoleggiar di quello si prendea,
quando l'altra, giungendo a lei rimpetto,
con voce e viso altier cos? dicea:

TECNILLA.

Su, presto, Anchinia, su, che tardiam noi?[82]
Esca d'impaccio omai, n? pi? si lasce
tanto bel spirto avvolto in quelle fasce,
ch? aver eterni in ciel d?' i giorni soi!

ANCHINIA.

Far una impresa tostamente e bene,
che d'alto pregio ed eccellente sia,
nostra vert? non ?, Tecnilla mia,
ma solo al Re celeste ci? conviene.
Egli sol ?, che tra 'l pensier e l'atto
non cape tempo, quanto esser pu?, breve;
che producendo un fior non ha men leve
fatica, ch'ebbe a far quanto ? mai fatto.
Quest'animal ? di maniera tale,[83]
che, qual sia per venir, non vien s? presto;
cosa non gi? d'altro animal, ch? questo
vive dapoi, quell'? caduco e frale.
Per? gran tempo, ove l'arte s'impaccia,
va tanto pi? quant'? l'opra pi? degna:
tu stessa el sai, n? alcun altro te 'nsegna,
se non la prova e le tue stanche braccia.

TECNILLA.

Non le dir stanche, ove 'l sudor gradisce,[84]
ch? un dolce incarco mai non fa stracchezza;
onde, quanto lo indugio, la prestezza
perfettamente ogni opra sua compisce;
ch?, ove intervien de nostri alti pensieri
volunteroso ed avido consenso,
s? pria l'affetto e poi l'effetto immenso[85]
cresce, ch'al fin non ha che pi? alto speri.
Io sola in l'uomo tutti e' miei concetti
lieta riposi, e non in altra cosa;
e tu, Almafisa, bench? neghittosa
gli sei, non temo gi? che 'l sottometti.

ANCHINIA.

Taci, non dir cos?, germana sciocca,
ch'error di lingua va n? mai ritorna;[86]
troppo sei baldanzosa; e chi le corna
in ciel v?l porre, al fin gi? si trabocca.
Natura non pur l'uomo, ma, pi? d'uomo
se cosa alt?ra nasce, per la chioma
la tien al segno; egli la grave soma,
volendo o no, sen porta, umile e domo.

TECNILLA.

S?; quando l'arte mia non vi s'arrisca[87]
opporsi a quante passioni ed onte
fargli pu? mai quella soperba fronte,
ch'ei sotto soi flagelli s'invilisca.

ANCHINIA.

Tu fermamente, se non tutta, in parte
sei fatta stolta e garrula, Tecnilla,
la qual in foggia d'arrogante ancilla
a tua madonna crediti agguagliarte.
So ben ch'ogni pensier hai d'imitarla[88]
e, v?lta in tal desio, sempre la inv?di;
onde, perch? non mai la giugni, gridi
e latri come chi d'altri mal parla.
Ma sta' sicura che senz'onda il mare,
senza splendor il sole, senza belve
e nanti senza augelli fian le selve,
ch'un picciol nevo mai lei poscia equare.
E ci? saper non m'? durezza alcuna,
quando ch'io d'ambe voi son l'aiutrice,
ed anco Pirra, donna ferma, altrice[89]
di tutte prove, vien meco in quest'una
sentenza: che Natura, in un momento
formando un picciol vermo, eccede tanto
l'arte operante al sforzo estremo, quanto
ogni vil cosa l'ampio fermamento.
Di che qui darti intendo un sano avviso:
se alcuna ? in te virt?, la riconoschi
sol d'Almafisa, che se i monti e boschi
ci nega, l'opre nostre son un riso.

TECNILLA.

Non far, Anchinia, pi? di ci? parole;
so ben ch'Industria in losingar Natura
fu sempre vaga, onde non ha misura[90]
lo giudice che tien la parte sola.

ANCHINIA.

Se d'adular son vaga nostra madre,
tu adulterarla pi?; ch? 'n l'altrui vista
fai natural quel ch'opra ? di sofista,[91]
n? men le mani hai de le voglie ladre.

TECNILLA.

M'allegro ben che te stessa condanni!
O scema d'intelletto, non t'accorgi
quanto di scorno, me biasmando, porgi
a te medema e 'l tuo veder appanni?
Son io ne l'opre mie pi? da ragione
che da l'industria mossa, e 'n l'aspra imago
de la viril Et?a ben pi? m'appago,[92]
che 'n la tua, ornata sol di fizzione;
ch? quanto avanzar puoi de le nostr'opre,[93]
t'industri porlo in grembo d'avarizia,
e fai cos?, che l'empia tua malizia
col manto mio ne gli occhi altrui si copre.
Per? qual maraviglia se la fraude
di verit? sta involta ne la pelle
e se imputate a l'arte sian le felle[94]
tue astuzie, onde Almafisa ride e plaude?
Sen ride e plaude in foggia di chi, altrui
odiando, il vede scorso in qualche scherno.
E tu quella pur sei, che ne l'inferno
t'ingegni penetrar ai luoghi bui
e trarne la cagion di tante risse,
furti, omicidii, stupri e sacrilegi:
dico 'l metallo, con cui adorni e fregi
le menti umane s?, che 'n quel stan fisse
n? pi? s'innalzano a specchiar il lume,[95]
ch'io di Natura posi oltra la cima,
e men d'un'arca d'or' si prezza e stima
un atto generoso e bel costume!
Ma perch? l'ingordigia di quel mostro,
c'ha ventre e morso d'adamante e foco,
empir non puoi, ch? ogni esca gli par puoco
e va fremendo in questo mortal chiostro;
tu che levarmi d'Arte il nome cerchi
e quel che Alchimia si dimanda pormi,
altri metalli in or' par che trasformi:
oro non sono ed esser pur alterchi!
Misera che tu sei, non vedi chiaro[96]
ci? che fai senza l'arte sa di froda?
non vedi ben che non si rumpe o snoda
il laccio che a la gola tien lo avaro?
Quanto meglio farai non dipartirti
dal primo nostro rito e modi antiqui,
e 'nvestigar in ciel qua' sian li obliqui,
e qua' gli dritti segni, e pi? alto i spirti
che causan e' duo moti e tante fiamme
scoperte a l'uomo nostro, che 'n la culla
qui tieni avvolto come cosa nulla,
cui rumper gi? s'affretta Cloto il stamme!

ANCHINIA.

S'io s? rubalda qual or m'hai depinto
io teco fusse, o maldicente donna,
rubalda anco sarei con mia madonna,[97]
c'ha fatto l'uomo e non, come tu, finto.
Tu fingi l'uomo, anzi tu 'l stempri e spezzi,
tu 'l snervi, tu 'l disossi, guasti e spolpi,
e poi, se mal gli vien, Natura incolpi,[98]
che pi? d'un uomo una formica apprezzi.
Dimmi, insolente donna, perch? resti
con quella forza tua, che d'Almafissa
passa l'altezza (s? la sai prolissa!),
oprar che mal alcun non l'uomo infesti?
Se ferreo ? il nervo, se d'azzale ? il braccio,
se tant'? 'l tuo valor ch'aver ti vanti,
perch? non smovi le cagion de' tanti
uman affanni, febre, caldo e ghiaccio?
perch? non freni (se la Grecia tua,
ove s? splende, parla sempre il vero)
quell'Eolo, de' venti c'ha l'impero,
e fa sentir altrui la forza sua?
perch'anco in cielo, d'Orion a tergo
latrando, un picciol Cane tanta rabbia
sparge d'ardor, e tant'umor e scabbia
diffunde il Drago dal suo eterno albergo?
Oltra dir?: per qual cagion non svelli
de le sanguigne mani di Tan?ta[99]
la falce, che giammai non si racqueta
troncar gli umani e farne polve d'elli?
Tan?ta i' dico, s?, atra ninfa e cruda,
che i tuoi Platoni e Socrati non scelse;
anzi, quanto le teste son pi? eccelse,
lor spezza, e d'elli tu ne resti nuda!

TECNILLA.

Quanto a le dua stagioni a l'uomo infeste,
non ti rispondo, perch? gi? la impresa
ti diedi di ci? degna: far la spesa,[100]
contra lor, d'ombre, tetti, piume e veste.
Ad altri morbi assai per te si occorre,
c'hai simil esercizio, n? vergogna
ti paia impreso aver da la cicogna
un ventre adusto foggia per diporre.
E come a la mia ninfa Filomusa[101]
la tibia per isporre il canto usata
trovasti gi?, cos? ha Farmacia grata
la tromba che al purgar un ventre s'usa.
Di ta' remedi al miser uomo e schermi
contra l'offese di Natura certo
studio ti vien, e poi la laude e 'l merto,
perch? sollevi, Anchinia mia, gl'infermi.
Ma quanto a quel che l'invincibil ferro[102]
de l'improba messora frenar debbia,
voglio non puoter farlo, ch? di nebbia,
per mezzo suo, gli alti intelletti sferro.
La morte a miei seguaci ? un'esca dolce
e di Natura for del fango i purga,
ed ? cagion ch'un'alma d'ombra surga
ne l'alta luce, di che 'l mondo folce.
?Qual ? chi viva e non vedr? la morte??,
David cantava lieto ne la cetra,
bramoso il gentil spirto d'esta tetra
prigion uscir a la celeste corte.
Per? di' meglio, ch'io puotendo tiri
tanti miei figli tosto d'esta tomba,
ch? un cor non pi? s'incende al son di tromba,
d'un'alma santa a gli ultimi sospiri,
n? farle pu? Natura pi? grand'onta
che 'n questa vita sua menarla in lungo,
la qual p? invidiar un fior, un fungo,
che nasce e mor fra un sol ch'ascende e smonta.

ANCHINIA.

Stolto parlar se non stolta risposta
potrebbe aver; onde chi sempre tacque
a gli insolenti detti, sempre piacque:
dico quanto al clistero o sia sopposta.
Ben si potrebbe un portico, un palagio,
un vestal tempio ed un anfiteatro
addurre in loda mia, l'arme, l'aratro,
la nave e tante cose; ma 'l malvagio
rancor t'accieca e l?gati la lingua,
che non p? dir quel che ragion la sferza.
Tu non sei prima n? seconda e terza,
quando che l'ordin nostro si distingua,
se ti credi esser, non di te son quarta.
Roditi pur, se sai, che non ti cedo;
e s'attendermi v?i mentre ch'io riedo,
possio condur chi tal dubbio diparta.

TECNILLA.

O temeraria ed arrogante! mira
come si gonfia questa fabbra vile!
Qual giudice sar? tanto sottile,
che nostra lite concia? dimmi, ? Pira?[103]
dico quell'altra de le prove mastra,
che, come tu, vantandosi va ch'io
cosa che vaglia senza lei non spio,
e di Almafisa appellami figliastra.

ANCHINIA.

Vantarsi drittamente pu? qualunque
trovasi aver servito qualche ingrato;
ch? quanto ben ? in te non l'hai trovato
se non per il suo mezzo. E pur, ovunque
esser ti trovi, ch'altri non conosca
l'astuziette tue donde prevali,
ti fai s? grande che, s'avessi l'ali
cos? d'ogni altro augel com'hai di mosca,[104]
egual salir vorresti al gran Monarca;
lo quale sol v?l essere, che senza
sian l'opre sue d'alcuna esperienza,
ove egli pienamente e ratto varca.

TECNILLA.

Di me medema meco mi vergogno,
trovandomi altercar con essa teco!
Hai forse il capo tepido di greco,
ubriaca che tu sei? ch'ancor bisogno
farotti aver del tempo, c'hai qui speso
in dirmi oltraggi, meretrice lorda!

ANCHINIA.

Non mi toccar, Tecnilla, questa corda,
ch? peggio sentirai quel c'ho sospeso
di lingua in cima. Or taci e fia tuo meglio!
Dir onte altrui n? udirle voler poscia,[105]
? di pazzo costume; ma, d'angoscia
mentre sei pregna, va' mirarti al speglio,
se vergognarti v?i pi? del tuo volto
fatto di mostro per soverchia furia,
che litigar qui meco e dirmi ingiuria,
le quali di te meglio forte ascolto.

TRIPERUNO.

Eran le dua sorelle omai s? d'ira,[106]
per la puntura di sue lingue, in cima,
che fu tra lor per esser pugna dira.
Ma grave donna di molt'altre prima,
dolce cantando, fuvvi sopraggiunta,
la cui belt? non quanta sia s'estima.
Un'arpa con sua voce ben congiunta
fece che da le dua gi? in arme prone
la gara venne tostamente sgiunta.
Latte di tigre o sangue di dragone[107]
ben mostrarebbe aver beuto infante,
chi non saltasse udendo sua canzone!
Non ? di pietra cor, non d'adamante,
non di Neron, Mezenzio, Erode, Silla,
che non si dileguasse a lei davante.
Onde non pur Anchinia con Tecnilla
lasci?r l'ingiurie fattesi, ma sono
e questa e quella pi? che mai tranquilla;
anzi leggiadre, al numerabil s?no
di diece corde, mosser una danza,
dandosi un bascio ad ogni sbalzo nono.[108]
Quivi Almafisa venne con l'onranza,
fra mille ninfe d'arbori e de fiumi,
ch? ognun concorre a quella concoranza:[109]
n? men scherzan in cielo e' chiari lumi,
nel mar e' pesci, e 'n cielo quei dal volo,
le fiere in terra e i serpi ne' lor dumi.
Stavami ne le fascie stretto e solo,
s? come l'augelletto, il qual distende
l'ale, ma non s'innalza e n'ha gran dolo.
Chi su, chi gi? quel tutto che s'intende
da l'uom, se non a pieno, almen in parte,
va, vien, traversa, corre, monta e scende.
— Ciascun mai d'Omon?a non si diparte! — [110]
cos? la cantatrice udi' chiamare,
che i passi altrui col canto suo comparte.
Io che l'errante macchina danzare,
per quel dolce concento, vidi al moto[111]
universal e poi particolare,
di quei legami tutto mi riscuoto,
come colui che lungo indugio annoi,
dovendosi asseguir qualche suo voto.
Svelsi di quelle scorze un braccio e poi,
con quella svelta man che i nodi sterpe,
tanto cercai ch'usciron ambi doi.
E con quel modo ch'un immondo serpe,
vedendo, ov'era 'l ghiaccio, nato il fiore,
si sbuca lieto d'un'angosta sterpe,
dove si spoglia il vecchio corio fore
tutto d'argento, ed or fassi pi? cinte[112]
del ventre al capo ed or segue 'l suo amore;
tal io, poi che le spoglie risospinte
m'ebbi d'addosso, per danzar su m'ersi;
ma f?rno dal desio mie forze vinte.
Ch? surto in piede starvi non soffersi,
anzi cascai, donde corse a comporre
Anchinia un carro, il qual meco si versi.
Su tre rotelle il carriuolo corre,
ed ?, s? come io son di lui, mio guida
che al passo infermo e debile soccorre.
Di ci? par ch'Almafisa se ne rida,
che 'l legno arguto poggia ovunque poggio,
e che l'industre Anchinia ? che m'affida.
Ma con le mani a lui mentre m'appoggio
ed ir con seco quinci e quindi bramo,
ecco me 'ntoppo in qualche adverso poggio;
di che sossopra il carro ed io n'andiamo:
quel resta int?gro ed io n'ho rotto 'l naso,
e che ritto mi torni Anchinia chiamo.
Anchinia mi rileva, e d'ogni caso
per le percosse ch'atterrato piglio
presta ricorre de l'onguento al vaso.
Ed io, ch'oltra 'l dolor esser vermiglio
comprendo il lito del mio sangue, invoco
lei con la mano posta al pesto ciglio.
Ma quella mi risana, ed anco al gioco[113]
di quel mio tal destriero mi riduce,
in fin che da me stesso, a poco a poco,
ir poscia senza il carro ed altro duce.

SESTINA LI CUI CAPIVERSI DICONO QUELLA SENTENZIA:
?CONCORDANTIA — DVRANT — CVNCTA — NATURE — FEDERA?.

URANIA.

C ome 'l primo veloce mobil cielo,
O pposto a quei che volgono le stelle,
N on li distempra e s? tramuta in foco?
C om'? sospesa? e chi sostien la terra?
O nde con lei forma ritonda il mare
R itien, e mai posando non ha pace?
D'una concorde e ragionevol pace[114]
A vvinse l'alta causa cielo a cielo,
N ? men con pace in maggior cerchio il mare
T iensi a la terra, e giran sette stelle
I n sette sfere, il cui centro ? la terra,
A nti da l'aer cinta e poi dal foco.
D ubbio non ? che 'l mondo o in acqua o 'n foco
V err? sommerso, quando la lor pace
R otta sar?, per sfare il mar, la terra,[115]
A llor che d?' fermarsi il nono cielo
N ? pi? rotarsi 'l sol con le sei stelle,
T rarsi nel centro de la terra il mare.
C rebbe, fu tempo gi?, su l'alpe il mare;
V orar il mondo deve ancor il foco;
N on fia perpetuo il giro de le stelle,
C he al fin col cielo avran quiete e pace;
T ratto gi? il ceppo uman o su nel cielo
A starvi sempre, o 'n centro de la terra.
N on t'invaghir dunque, omo de la terra.
A nzi contendi (ove di gloria il mare
T u lieto solcarai) salir in cielo,
U' sempra t'arda l'amoroso fuoco,
R iposto d'alma in alma in somma pace,
E sotto i piedi ti vedrai le stelle.
F ece l'alto fattor, sopra le stelle
E gi? nel pi? profundo de la terra,
D ue stanze, l'una detta eterna pace,
E l'altra, di perpetuo foco mare.
R inchiuso entro la terra, a l'ombre, ? il foco;
A l'alme, gioia eterna su nel cielo.
Fe' Dio l'uomo di terra, che 'n le stelle
avesse pace; ma chi nacque in mare[116]
trallo dal cielo in sempiterno foco.

TRIPERUNO.

Poscia che vide, per Industria ed Arte,
Natura finalmente l'uomo in piede
correr veloce in questa e 'n quella parte,
ed esser l'animale, il qual possede
alto saper e di ragion dottrina,
che f?ra poi d'eterna vita erede,
con lieto e dolce aspetto a me s'inchina,
qual mansueta madre che al figliolo
prima di sdegno fu cruda e ferina.
D'innumerabil figli dentro il stolo
da lei fui ricondutto al bel giardino
dove altrui vive lieto e senza dolo.
Quivi sotto 'l pacifico dom?no
ed aurea stagione di Akak?a,[117]
vissi gran tempo semplice bambino,
fin ch'indi mosso poi, per lunga via,
fui ricondutto a ritrovar Alt?a[118]
e l'altra donna che 'n nostra bal?a
commette ambe le strade e bona e rea.

DE LA PUERIZIA ED AUREA STAGIONE

EUTERPE.

Gi? rinnovella intorno la stagione,
ch'eternamente verdeggiar solea
prima ch'avesse Astrea[119]
gli uomini a sdegno e s? tornasse ai d?i,
lasciando in lor quell'altra cos? rea
che li arde, mentre Febo alto s'impone
al tergo di Leone,
o quella che dai monti iperbor?i
riporta il gielo a gli afri e nabatei.
Or che l'occhio del ciel aggiorna in Tauro,
or che 'l fior spunta ove 'l ghiaccio dilegua,[120]
or che 'l scita co' l'indo vento tregua[121]
fatt'hanno e dato ? in preda il tempo al Mauro,
Zefiro torna incolorar i lidi,[122]
e i pronti a tesser nidi
vaghi augelletti, per lor macchie errando,
natura van lodando,
c'ha ricondutto cos? lieti giorni,
d'aura gentile, d'erbe e fronde adorni.
F?rmati, Apollo, pregoti, nel grado,
ch'oggi ascendendo e poggi e selve abbelli,
e gli aurei tuoi capelli
tempratamente spandi a l'universo;
onde amorosi, leggiadretti e snelli[123]
ne vengon gli animali tutti al vado
non d'Istro, Gange o Pado,
ma del suo natural obbietto verso,
c'ha l'un de l'altro, quand'? 'l ciel pi? terso,
verde la terra, il mar tranquillo e piano.
F?rmati, Apollo, e 'n s? bel trono sedi,
fin che a le mani, al collo, a l'ale, ai piedi
del Tempo (egli scamparse a man a mano[124]
s'asseta, tant'? vano!)
Pirene ed Appennino sian appesi,
che non si parta e i mesi
porti con seco e l'aura e 'l dolce umore,
ch'or monta in ogni foglia, in ogni fiore.
L'aureo, gioioso e mansueto aprile,
ch'or sparger d'ombre i verdi campi veggio,
piacciali eterno seggio
qui prender nosco, ch'altri non succeda.
Partito lui, si va di mal in peggio;[125]
mentre vi spira l'ausura a gentile,
Parca non sia, che file
umana vita, e Morte a Pluto rieda,
sol ombre ove posseda;
rinverdasi da s? omai la terra;
valete aratri, marre, falci e zappe!
non pi? vepri saranno, cardi e lappe.
Quella natia vert? che 'n lei si serra,
senza ch'altri la sferra,
uscendo stessa ci dimostra quanto
sia di natura il manto
pi? bello senza l'arte e pi? verace,[126]
ch'opra di voglia pi? de l'altre piace.
Ecco di latte scorreno gi? i fiumi,
sudano m?le i faggi, olio li abeti,
e su per que' laureti
celeste manna ricogliendo vanno
le virgin ape; e i rosignoli lieti,
c'han d'or' le penne, entro purpurei dumi
nidi d'argento e fine perle fanno,
securi di rapina o d'altro danno.[127]
L'impaventosa lepre lato al cane,
l'agnella presso al lupo queta dorme,
ch? tutti li animal, gi? in lor conforme,
natura tiene in sue medeme tane:
securi pesci e rane,
questi da lontra, quelle da le biscie:
non ? chi strida o fiscie
l'un contra l'altro per stracciarsi 'l pelo,
ch? l'aurea etade gi? scese dal cielo.
Date quiete, posti li aspri giovi,
a' vostri armenti omai, duri bifolci,
ed a que' fonti dolci
lasciateli appressare! n? quel rivo
di voi sia alcun che pi? 'l sostegna o folci,
n? chi di loco a loco lo rimovi,
ch? 'n questi giorni novi
non ? di libert? chi venga privo.
Cantate anco, pastori, ch? l'estivo
e freddo ardore non privar pi? deve
di latte od appestar e' vostri greggi!
Non pi? clamosi f?ri, non pi? leggi,
ch? ci? vita gioiosa non riceve.
O giovo dolce e leve
a l'uomo ancora, il qual sprezza fortuna,[128]
siagli pur chiara o bruna,
ch? chi vivendo non fa oltraggio altrui
securo di l'aurea stagion ? in lui.
E simplicetta e pueril canzone,
come richiede il suo stesso soggetto,
fu questa mia, dottissime sorelle;
di che a voi chiama: — Non son io di quelle
che, Urania, scrivi con s? bel soggetto
e n'empi il sino e petto
ai duo novi Franceschi, l'un ch'agnelli
canta, lupi e ruscelli,
l'altro del Senator l'alta pazzia!
Ma chi fa il suo poter con gli altri stia.

 

FINISCE LA PRIMA SELVA DEL TRIPERUNO.

 
 

DIVVS VATES
OPTIMA QVAEQVE DIES MISERIS MORTALIBVS AEVI
PRIMA FVGIT SVBEVNT MORBI TRISTISQVE SENECTVS
ET LABOR ET DIRAE PARIT INCLEMENTIA MORTIS


SELVA SECONDA

DISTICHON

Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe;
tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.
Stemma con le lettere M L F T; ai lati CA. VR.

HEXASTICHON

Mintiadas inter fulicas mihi sueta phaselus
currere, nunc tumidis aequore fertur aquis.
Quonam tanta animi fiducia? Nobile sidus
adstitit en capiti quae praeit Ursa meo.
Ursa potens mundi, firmo quem torquet ab axe,
ursa potens pelagi, qua duce nauta canit.

PREFAZIONE

Or pervegnuti siamo al centro confusissimo di questo nostro[129] Caos, lo quale ritrovasi ne la presente seconda ?selva? di varie maniere d'arbori, virgulti, spine e pruni mescolatamente ripiena, cio? di prose, versi senza rime e con rime, latini, macaroneschi, dialoghi, e d'altra diversitade confusa, ma non anco s? confusa e rammeschiata che, dovendosi questo Caos con lo 'ntelletto nostro disciogliere, tutti gli elementi non subitamente sapessero al proprio lor seggio ritornarsi.

 

TRIPERUNO.

D'errori, sogni, favole, chimere,[130]
fantasme, larve un pieno laberinto,
ch'un popol infinito, a larghe schiere,
assorbe ognora, tien prigione e vinto,
voglio sculpir non ne l'antiche cere,
non ne le nove carte; anzi depinto
di lagrime, sudor, di sangue schietto
avrollo in fronte sempre o 'n mezzo 'l petto.
In fronte o 'n mezzo 'l petto, ovunque io perga,
terr? qual pellegrino mie fortune;
datimi, o muse, una cannuccia o verga,
ch'io, scalzo e cinto ai fianchi d'aspra fune,
veda come 'l sol esca e poi s'immerga
ne l'Oce?no, e come ardendo imbrune
qua li eti?pi e l? di neve imbianchi
tartari e sciti del bel raggio manchi.
Ma poi che di mia sorte il duro esempio
mostrato abbia del mondo in ogni clima,
fia cos? noto, appeso in qualche tempio[131]
od in polito marmore s'imprima,
che chi mirando 'l cos? acerbo ed empio,
considri ben qual sia buon calle, prima
che l'un d'ambi sentieri d'esta vita
si metta entrare a l'ardua salita.
Oh, ben saggio colui che 'l suo dal mio
voler avr? diverso ne' prim'anni
di nostra s? dubbiosa etade, ch'io
volendo scorsi ne' miei stessi danni,
travolto in vie s? alpestri dal desio,
ch'anco ne porto il viso rotto e' panni,
fin che mia sorte, poi che assonto in alto
m'ebbe, gi? basso far mi fece un salto!

TRIPERUNO.

D e l'innocente ninfa l'aurea etade,[132]
I l bel giardino, le colline, i fonti
V annosi omai, ch? 'l tempo invidioso[133]
I n un istante quelli s'ingiottisse.
B andito dunque sol per l'altrui fallo,
E rrava quinci e quindi ove pur l'alma
N atura mi torcea con fidel scorta.
E ra quella stagion quando Aquilone,[134]
D a l'iperboree cime sibilando,
I n vetro i fiumi, in latte cangia i monti;
C ?cciomi dentro un bosco tutto solo;
T anto vi errai, ch'al fine mi compresi
I n le capanne de' pastori giunto.
R iposto s'era Febo drieto un colle,
E la sorella con sue fredde corna
G i? percotea le selve ed ogni ripa.
V ago di riposarmi su lor fronde,
L a porta chiusa d'una mandra i' batto:
A l sesto e nono cenno fummi aperto.[135]
S tarsene quivi ben rinchiusi e caldi
V idi quei pegorari, al foco intorno,
B ere acque dolci e pascersi de frutta.
Q ual stato mai per che si sia sublime,
V'ha pare al pastoral di contentezza?
A ltri di strame rifrescar ed altri
M onger vidi gli armenti, altri purgarli.
I ntenti ancor son altri gli agnelletti
P ortar di luogo a luogo e ritornarli
S otto lor madri, ed altri con virgulti
E gionchi acuti tessono sportelle.
M a parte ancora, di pi? verde etade,[136]
I ntenti sono a giovenili giochi,
L otte, salti diversi e slanzar dardi.
I n altra parte s'usan dicer versi,
T occar sampogne e contrastar di rime.
A ltri, de' pi? attempati, di lor gregge
T rattano, s'han pi? spesa che guadagno.
V adon e riedon altri, pi? robusti,
R icercando le mandre, ove ben spesso
V olpe, lupi selvaggi e pi? gli umani
S oglion discommodar lor santa pace.
I n ogni lor impresa vanno lieti,
A mandosi l'un l'altro con gran fede,
M erc? che 'l capo lor sa l'arte a pieno.
I vi raccolto fui nel dolce tanto[137]
N umero lor e fatto di sua prole.
G i? in mezzo al corso di sua lunga via
R otavasi la notte, passo passo:
E cco, dal sommo d'una capannella,
D ove molti pastori guarda fanno
I nsieme al grande armento con lor cani,
O desi, dentro una mirabil luce,
R esonar canti e dolce melodia.
P orgon l'udita e sentono che — Gloria
I n excelsis — dicean i bianchi spirti;
E d avvisati dove 'l Salvatore
N asciuto giace, l?, con allegrezza
T osto da noi partiti, s'avventaro
I n quella banda che fu lor mostrata.
S ol io ritratto in parte for de gli altri
S edevami pensar tal novitade,
I n fin che, ritornati, cose orrende,
M ai non udite pi?, d'un fanciullino
A noi contaron di stupor insani.
E cco, senza far motto alcun ad elli,[138]
T utto soletto quinci mi diparto,
E sollevando gli occhi al ciel sereno
V idi una stella rutilar fra l'altre,
A nti scorgendo sempre il mio sentero,
N ? mai fermossi fin che al santo loco
G iunto non mi vedesse e poi smarritte;
E d una voce ancor dal ciel mi venne,
L a qual dicea: — Felice criatura,
I o son quella verace e schietta donna
C he vai cercando in terra e stommi 'n cielo.[139]
A ltea mi chiamo: or entra qui sicuro. —
E poi ch'ebbe parlato, un bel concento
S'udiva d'arpe, cetre, plettri e lire.
T acendo poscia, fu non so chi disse:

TERSICORE

Or tienti fermo e non girar altrove,[140]
o spirto avventuroso, di tal guida;
ma cauto va', ch? un lupo non t'uccida,
lo quale altrui dal dritto calle smove.
N? da l'antiche leggi, per le nove,
sia mai, se non Ies?, che ti divida,
lo qual non pur ? saggia scorta e fida,
ma via che da vert? non si rimove.
Ben vedi a quanta gloria il ciel ti degna,
ch? Dio (qual nome dirsi pu? maggiore?)
volse adempir sua legge in tuo conforto.[141]
Egli farsi uomo sol per te non sdegna,
e guida tal, che 'n questo uman errore
conduceratti di salute in porto.

TRIPERUNO

Io ben intesi di tal voce il s?no;
ma, lasso, che servarla fui poi tardo!
E so che quanto tuttavia ragiono
non vien inteso; ma sotto 'l stendardo
de l'Orso grande, ove posto mi sono,
spero dir chiaro senza alcun risguardo.
Or dunque in una grotta entrai soletto,
con passo lento e colmo di sospetto.
Qui la pi? bella, onesta, saggia, umile[142]
donna che mai Natura, col sopremo
suo sforzo e col di rado usato stile,
finger potesse in questo ben terreno,
avea sul strame, in loco abbietto e vile
(trovavasi al bisogno troppo estremo)
riposto un suo nasciuto allor infante,
nudo, a la rabbia d'aquilon tremante.
E se d'un bianco e liggiadretto velo,
levandosi 'l di testa, non fatt'ella
qualche riparo avesse al crudo gelo,
pensato avrei che 'l parvolino in quella
paglia mancar dovesse, e lui, che 'n cielo
volge coi giri soi ciascuna stella,
stringesse la stagion orribil: tanto
prender gli piacque di miseria il manto!
Con quel contratto volto ed alto ciglio
ch'alcuno mira cose strane e nove,
stavami prono a contemplar quel figlio,
s? di me stesso for, che men del bove,[143]
de l'asinelio men, ebbi consiglio
di riconoscer lui che 'l tutto move
essersi carne fatto, non per boi,
non altri bruti, no, ma a servar noi.
Un for di stile e d'uso uman sembiante,
una celeste angelica figura
di quel nasciuto allor allor infante
fu, ch'al veder mi tolse ogni misura.
Ch? s'al visibil sol non ? costante,
or che al divin potea nostra natura?
Bench'era in carne ascoso, pur non pote
di fora non aver de le sue note.
Non che 'ntendessi allora la cagione
ch'io fussi in quel fanciullo s? conquiso;
ma, vinto da non so qual passione,
pi? tosto che ritrarmi dal bel viso
lasciato avrei non pur le belle e bone[144]
cose del mondo, ma anco il paradiso.
E finalmente io, sciocco (temo a dirlo!),
stetti pi? volte in voglia di rapirlo;
rapirlo meco in parte ove sol io,
nutrendol prima, l'adorassi dopo,
sperando non mai f?ra ch'altro Dio
maggior di lui mi soccorresse a l'uopo;
quando che 'l mundo tant'era in oblio,
che l'indo, il mauro, il scito e l'eti?po
cingevan il gran spazio, ove chi 'l sole,
chi 'l mar, chi un sasso, chi 'l suo rege cole.
Ma, forse accorta del pensier mio folle
in far tal preda, la pudica donna,
levatolo di paglie, s? sel tolle
in grembo e 'l ricoperse ne la gonna;
ch? esser d'uomo veduta gi? non volle
mentre li porge il latte. Poi l'assonna,[145]
ed assonnato il bascia, e tornal anco
sul strame, a lato un vecchio grave e bianco.
Ma non s? tosto gi? posato l'ave,
ch'un giovenetto a lato, in veste bruna,
qui sotto entrando porta un grosso trave
di ponderosa croce, ed altri d'una
colonna carco; e dopo loro grave
e longa tratta d'angioli s'aduna
intorno del presepio, lagrimosa,
ciascun in man avendo una sol cosa:
questo di spine una corona, quello
sopra la canna una spongia bibace;
chi un chiodo, chi una sferza, chi 'l martello,
chi l'asta, chi la fune, chi la face.
La donna, quando i vide, in atto bello
presto si leva e vereconda tace.
Quelli non men di lei onor le fanno,
poi taciti al fanciullo intorno stanno
(dorm'egli) in atto di basciarlo mille
e mille volte, n? esserne satollo:[146]
par che nettar, ambrosia e manna stille
da gli occhi soi, dal mento, fronte e collo!
Eran le cose in modo allor tranquille,
ch'al mondo non sentivi un picciol crollo,
come se con la notte l'universo
stesse nel sonno, co' l'infante, merso.
Ma dopo alquanto indugio, ecco 'l piccino
subitamente non so chi disturba.
Egli alza il guardo e vedesi vicino
cinger intorno la celeste turba,
ch'ognun sta penseroso e 'n terra chino,
con quelle orribil armi; onde si turba
nel volto il bel sembiante e di spavento
piange, tremando come fronda al vento.
S? come al vento foglia, trema e piange,
n? 'l viso piega mai da quella croce;
e mentre qui si dole, cruccia ed ange,
quattro angioletti in lagrimosa voce
incomenciar un inno detto il Pange;[147]
il qual pensando, ancor m'incende e cuoce
de l'amoroso foco, il cui soggetto
spezza di fiera non che d'uom un petto.
Non fu gi? pietra in quelle mura (pensi
un cor gentil ch'esser dovea la madre!)
che non s'intenerisse ai forti intensi
gemiti del fanciullo, a le leggiadre
rime di que' cantori. Ond'io con densi
sospiri m'avvicino al bianco padre,
col qual piangendo mi proposi allotta
non mai distormi pi? di quella grotta.
Grotta gioiosa, che degnossi 'l cielo
partir de le sue cose in mia salute!
grotta felice in cui di carne il velo
intorno vidi aver l'alta virtute!
grotta sal?bre, ove servato il stelo
di pudicizia nacque, tra le acute[148]
mondane spine, il fior tant'anni occulto,
di terra uscito senza umano culto!
Poscia che i quattro spirti bianchi fine
poser al Pange lingua gloriosi,
quel da la croce, c'ha l'aurato crine,
d'avolio il viso e gli occhi s? amorosi,
l'ale tessute d'oro e perle fine,
dritto si leva in piedi con ritrosi
guardi ver' me, stendendo la man destra,
e la croce sostien con la sinestra.

GENIO

Uomo, animale — disse — fra gli altri solo de la ragione capace, che de gli eterni piaceri con meco sei ad essere felicissimo consorte (non gi? perch? n? tu n? di tua natura alcuno giammai facesse impresa veruna per la cui dignitade ci? guadagnar si potesse, ma l'infinita d'Iddio bontade cos? a dover avvenire nel principio dispose); or odi quale e quanta verso voi uomini sia stata di lui la benevolenzia. Lo quale, da l'antico legame di perdizione per scatenarvi, gi? non sofferse aver a schivo se istesso condennare ad essere un simile vostro di carne, una vittima, un sacrificio, un miserabilissimo spettacolo, dovendosi egli sottomettere a la severa legge, di lei non pur conditore ma distretto[149] osservatore, mostrandovi, con esempio prima e con dottrina poi, per quanto piacevole sentiero ciascuno di voi, le sue vestigia seguendo, potrebbe al lume di verit? pervenire. Da la quale, per l'infiata soperbia de gli ignoranti dottori e saviezza mondana, tutti[150] omai s?te miserabilmente sotto l'empia potestade d'un tiranno traboccati, lo quale sepolti, non che imprigionati, nel puzzo d'ogni scelleraggine sin ad ora v'ha ritardati. Vedi tu cotesto bellissimo fanciullino, questa leggiadretta sopra ogni altra criatura? questo uomo di spirto e carne test? nasciuto? Lo quale so che ti pare soave tanto, che gi? di non voler indi partire tu ti sei fermamente deliberato. Se io, che sol spirito sono, cos? fussi agevole di ragionar la lui potenzia, la lui maiestade, la lui smisurata benignitade, come tu, uomo carnale, manco idonio sei ad ascoltare, potrei quivi acconciatamente dar principio. Ma debilissima ? pur[151] troppo de noi angioli la natura, e vieppi? la vostra umana, in comparazione di quella profundissima, incomprensibile e impenetrevole divina. Dilch? sciocchi e presontuosi furono pur troppo alquanti dottori, che cos? leggermente a tal cosa isperimentare si sono abbandonati.

Ora dunque saperai prima qualmente la intelligenzia del Sempiterno Padre, la quale noi similemente ?prima sapienza e divino sermone? con grandissimo tremore nominamo, tanto di vostra salute le calse, tanto l'incommutabil sua natura si commosse verso di voi a pietade, che non me, non alcun altro di angelica stirpe si elesse per vostro redentore e de l'inferno distruggitore, ma da se medema, volendo oggimai la divinitade sua con la umanitade vostra conciliare, discese occultamente da l'empireo nostro in questo vostro passibile stato, constituendosi ad essere con essi voi fratello, compagno e servitore; quando che non volse il benignissimo figliuolo vestirsi la forma d'alcun potente signore, ma ben gli piacque con perfettissima umilitade sottoporsi a vile servitude per confutare l'alterigia de' sapienti mondani. Eccolo quivi d'una polcella, mediantovi la vert? del Spirito Santo, poverissimamente nasciuto. Dimmi, uomo, dimmi, animal di ragione, qual umiltade di cotesta maggiore potriasi unqua imaginare? P?ronti forse quelli duo animaluzzi vilissimi, fra li quali sul feno lor egli giace, convengano a la omnipotenzia di sua profundissima maiestade? parti ch'un diversorio immondo, un presepio de bovi, la diroccata stanza, lo notturno pellegrinaggio, la freddissima stagione siano al divino trono, a la celeste beatitudine, a le ierarchie d'infiniti spiriti convenevoli e corrispondenti? parti che questa diminutezza d'un infante a la grandezza del criatore e fondatore de l'universo s'adegui? Ma quanto pi? di maraviglia prenderai tu, se mai fia tempo che l'instrumenti orribili, li quali con questa croce intorno a lui miri essere portati, tu veda crudelmente adoperati ne la innocentissima sua persona! O gran fortezza di pietade, la quale puote l'altissima giustizia[152] cos? piegare, che 'l padre, per riscotere il servo, traditte l'unico figliuolo, che avesse ad essere tra gli suoi domestichi un bersaglio di mille onte, ingiurie, bestemmie, derisioni, contumelie, scorni, guanciate, battiture, flagelli, sputi, lanciate e finalmente un vituperoso spettacolo, tra li doi scellerati, su la contumeliosa croce inchiavato! O affocato amore, o benivolenzia verso noi uomini ardentissima! Iddio fassi omo per te salvar, o uomo: offende s?, difende te; ancide s?, vivifica te! O mansuetissimo agnello! Vedi, vedilo l?, uomo, vedi lo tuo salvatore, vedi la via, la veritade, vedi come lagrimoso dal presepio ti mira e guata, vedi come gestisse d'abbracciarti in foggia di caro germano! Egli ben sa che per te, uomo, solo in questa miseria fu dal Padre mandato, discese in terra per guidarti al cielo, s'ha fatto famiglio per costituirti signore! Or dunque chi render? mai guiderdone a tanto[153] beneficio eguale? qual grazie, qual lode a tanto premio? fia forse di oro, di gemme, di porpora, di altri beni temporali cotesto premio? anzi del preciosissimo suo sangue. Con questo ti laver?, ti monder? de le peccata, de le tante scelleraggini; con questo ti pascer? e nudrir?, lasciandotilo, con la carne sua propria, ad essere tuo cibo di vita eterna. Sfattene dunque, uomo, nel santo proposito in cui test? amorosamente ti ritrovi; e quando pur sotto 'l gravissimo peso di questa tua carne avverr? che ne trabocchi, l?vati presto, chiama dal ciel aiuto, non ti addossar in terra, non vi far le radici. L'abito solo ? quella peste, quel morbo se non per grandissima misericordia d'Iddio sanabile, quell'inferno d'ignoranzia, quel laberinto d'errori, ove dubito non sii finalmente per tua inavvertenzia dal sfrenato desio tirato.

TRIPERUNO

Finitte appena l'angelo divino questo sermone, che quattro de gli pi? vaghi angioletti cantando cos? dolcemente incomenciaro:

Un aspro cuor, un'empia e cruda voglia,
una durezza, impresa gi? molt'anni,
se altrui depor contende, non s'affanni
sperar ch'altri ch'Iddio mai vi 'l distoglia.
E s'uomo stesso il fa, dite che spoglia
non riport?r tirannide tiranni
di questa mai pi? bella e che pi? appanni
ogn'altra gloria, ch'uomo al mondo invoglia.
Ma il ciel di stelle e d'acque il mar fia manco,[154]
qualor accaschi in uomo tanta forza,
ch'ei vecchio stile da s? levi unquanco.
Per? convien ch'al bon Ies? si torza,
merc? attendendo, ed anco il prieghi ed anco,
fin che qual serpe l?sciavi la scorza.

TRIPERUNO

V enuti al fine de l'orribil metro
E ran li cantator empirei, quando
R uppesi un s?no fuor de la capanna,
U n s?no di percosse e battiture
M eschiate con minacce ed altri gridi.
I n quell'instante (ah mio crudel destino!)
G iunsevi un altro frettoloso genio
N on senza gran spavento, e disse: — Or presto
A ffrettati, Iosefo, prendi 'l figlio:
T u, con la madre sua, scampa in Egitto;
I nsta gi? 'l tempo ch'un fier mercenaro
I nsanguinar si vol di questo agnello.[155]
F ra gli pastori ha ricondotto d'empii
L upi cotanta rabbia, che gli agnelli
O morti verran tutti o lacerati.
R isse, discordie, gare, aspri litigi[156]
E sser fra lor non odi ancor diffora?
N on pi? dramma d'amor, non pi? di pace
T ra quelli omai si trova; di che scampa
I n altre bande ove gi? nacque M?se.
N ? quindi fa' ti parti, fin che a tempo
I o venga darti avviso del ritorno. —
T aciuto ch'ebbe il nunzio, vidi gli altri
A ngioli su le penne al ciel salire,[157]
N ? pur un solo a dietro vi rimane:
T anto le liti, le contese e zuffe
A la corte d'Iddio son odiose!
— A rme, arme! — cos? chiaman tuttavia;
M a stavami sol io ne l'antro ascoso,
B attendomi gran t?ma sempre il cuore.
I n su quel punto similmente un'atra
T empesta, con gran vento e spessi lampi,
I ncomenci? tonando farsi udire
O ve 'l contrasto cresce ognor pi? acerbo.[158]
V inse una parte finalmente, e l'altra[159]
T rassesi ne la grotta per suo scampo.
I o mi discopro e la cagion di tanta
L ite fra loro cerco di sapere.
— L asso! — rispose un vecchio — non m'accorsi
A vvolto in un agnello esser un lupo!

LAMENTO DI CORNAGIANNI

P iangeti meco, voi fiere selvatiche,
V oi sassi alpestri, voi monti precipiti,
R ipe, virgulti e stipiti:
I es? da noi si parte, ch? le pratiche
T rovate fra pastori tanto crebbero,
A im?! ch'al fin non ebbero
S e non forza di far le gregge erratiche.
A hi mercenaro e lupo insaziabile,[160]
N ato d'inganno e mantellata insidia!
I n cui tanta perfidia
M ai puote luogo aver? O incommutabile,
O giustissimo Dio, perch? non subito
R isguardi a noi? deh! dubito
V ani sian nostri prieghi, ch? stoltizia
M aggior non ? s'un reo chiede giustizia.

TRIPERUNO

P arlava il vecchio lacrimando forte,
E poi le labbra cos? chiuse, ch'egli
N on mai pi? volse aprirle; ma co' gli occhi
I n un parete fissi, geme e piagne
T anto che fece l'ultimo sospiro.
— V attine al ciel, alma d'ogni ben carca! —
S'ud? una voce dir — vanne felice! —
C os? di que' pastori giacque il padre,
O rbato d'esta vita, ma in ciel suso
R apito a l'altra; e l'empio mercenaro
R imase de gli armenti possessore,
V olgendo e' be' costumi de gli antichi[161]
P astori audacemente in frode e furti,
T anto che le sampogne e dolci rime
A ndati sonsi e d'arme sol si parla.
D eposto dunque fu lo gran pastore
E ntro d'un cavo sasso; e a quello sopra,
C armi leggiadri e rime di gran s?no
I nscritte f?rno da pastori e ninfe.
D ond'io piangendo ancor questi vi posi:

TUMULO DEL CORNAGIANNI

?E cco, del monte congrega — ci? nella
R uppe — gran pianto pel suo cor Narciso.
I l fior anti no fu sua morte fella?.
T al fu 'l mio verso, ma, per t?ma, scuro.

TRIPERUNO

Io da' pastori alquanto dilungato,
con quali esser mai giunto ancor mi dole,
d'un monticello in largo e verde prato
mi porto, gi?, fra rose, gigli e viole;
poi dentro ad un antico bosco entrato,
tanto vi errai che sul montar del sole
si m'appresenta un'ampio e bel palaccio:
cerco l'entrata e presto vi mi caccio.
N?ve cose giammai non anti viste
veggio fra quelle mura in un vallone,[162]
di urtiche, vepri, spine e lappe miste
densato s?, che mai non vi si pone
piede senza lacciarlo a l'erbe triste,
e farsi, o voglia o no, di lor prigione;
ma s? mi preme l'ira d'una donna,
ch'io scampo e lascio a squarzi la mia gonna.
Perocch?, ne l'entrar, quella soperba,[163]
pallida in volto, magra e macilente,
con voce alt?ra minacciante acerba
seguivami gridando: — Mai vincente
uomo non fia, se l'animo non serba
a' miei flagelli forte e paziente! —
Io allor m'offersi al suo comando, e presto
scorro di qua di l?, n? unqua m'arresto.
Dov'ir mi deggia segno non appare
di bestial non che d'uman vestigio:
di che sovente fammi traboccare
de panni co' miei passi gran litigio,
fin tanto che, sul lido accosto il mare
giunto, m'assisi stanco a gran servigio
di nostra fragil vita, e poi mi levo,
e del cammin doppio pensier ricevo.
Se al dritto o manco viaggio me ne vada
non so, ch? n?ve m'eran le contrate.
Ma, tra ambi doi mentre 'l voler abbada,
ecco a le spalle, co' le labbra infiate
di sdegno, m'? la donna tutta fiada
quanto mai fusse nuda di pietate.
— Tu v?i pur anco — dice — chi t'accolga,
rubaldo, e ne' capei le man t'involga! —
Io, dal spavento pi? che mai commosso,
lungo la manca spiaggia formo e stampo
miei passi, lor frettando quant'i' puosso,
sin che dal suo furor mi fuggo e scampo.
Cos? infelice non pi? aver riposso
giammai vi spero; e d'uno in altro campo,
qual timidetta lepre, uscendo, un fosco
antro di spine trovo e vi me 'mbosco.
Ma ne l'entrar (ah quanta mia sventura!),
ecco si mi raffronta un uomo strano,
anzi doi, sgiunti fin a la cintura:
pi? mostro assai che finto non fu Giano
o Proteo falsator di sua figura;
tal anco ? scritto Castor e 'l germano,
ch? sol due gambe quel corporeo peso
di duo persone tengono sospeso.
Ei, quando avanti lui giunto mi vide,
scosse le membra e tutte si li ruppe.
Stupido, il guardo ch'ei digrigna e ride
e par che 'n altri volti s'avviluppe.
I non era n? Teseo n? anco Alcide
o chi nel ventre il gran Piton disruppe,[164]
che fronteggiar bastassi un mostro tale;
onde spiegai pur anco al corso l'ale.
Per un sentier (sol un sentiero v'era)
sferzo me stesso, e gran t?ma mi punge.
Ma poi che da l'incerta e 'nstabil fiera
esser mi vidi al trar d'un arco lunge,
fermo mi volgo; ed egli, sua primera[165]
forma cangiando, in doi corpi si sgiunge:
questo di donna, vago, pronto, ameno;
quel d'un formoso e bianco palafreno.
Oh qual mi feci a l'apparir di loro
s? grata vista e dolce leggiadria!
Mill'altre prime facce assai mi f?ro
moleste in cui cangiato egli s'avia,
ch? n? orso n? leon n? pardo o toro
n? cervo n? animal chi chi si sia,
gradir mi puote, anzi mi fe' spavento:
di questi doi sol ne restai contento.
Ella, succinta in abito gentile,[166]
tra fiori a l'aura si rendea pi? degna.
Vidi anco intorno lei (s? 'l feminile
aspetto valse) con lor verde insegna,
stesi per l'erbe e fronde, Marzo e Aprile
la terra far d'assai colori pregna,
e su per folte macchie lieti e snelli
facean cantando errar diversi augelli.
Pi? bello, altero, candido e vivace[167]
nullo animal di questo vidi mai;
tanto mi piacque allora, che 'l fugace
e timido desio presto frenai,
volgendol tutto ove sperava pace
in duo begli occhi, anzi potenti rai,
ch'umilemente alzati sol d'un cenno
quanto temea davanti obliar mi fenno.
Tratto dal mio voler gi? torno in dietro
e di mai non partirmi da lei bramo.
Ella quel bel destrier c'ha 'l fren di vetro
? gi? salita, e d'un frondoso ramo
di mirto il tocca e contra un folto e tetro
bosco lo caccia. Io che pur troppo l'amo,
correndo a tergo, me ne doglio e strazio,
e luntanato son da lei gran spazio.
Per un sentier, colmo di t?sco e f?l va
battendo sempre il palafren da tergo,
tanto che sc?rse ne l'oscura selva
e mi si tol di vista; ond'io sol m'ergo
de l'orme ai segni (ch? si vaga belva[168]
perder non voglio), e tutto mi sommergo,
non, pur d'averla, ne le insane voglie,
ma ne' intricati rami, sterpi e foglie.
Tanto durai nel corso a quella traccia,
ch'al fin del bosco, fra tre alte colonne,
la via par che 'n duo branchi vi si faccia,
qual oggi e' greci fingon l'ipsilonne;
di che dubbio pensier l'andar m'impaccia,
fin ch'una turba di polite donne[169]
mi f?r in cerco, e losingando parte
di loro a manca man mi tranne ad arte.
Quivi d'accorte e ladre parolette
foggia non ? che non mi circonvenga;
ma l'altra parte di luntano stette
pensando in quale guisa mi sovvenga.
Io, che fra tanto sono entro le strette
d'abbracciamenti e garrula losenga,
irmene al manco viaggio mi delibro;[170]
ma donna mi viet?, c'ha in man un cribro.
Un cribro in mano la dongella tiene,
d'acqua ripieno, e goccia non si versa,
che di la turma luntanata viene,
gridando forte: — Non far, alma persa,
non far; se 'l fai, tu sol n'avrai le pene,
ch? non sai quella via quant'? perversa.
Ma qui piuttosto volge a la man destra,
che da l'errante volgo altrui sequestra. —
A la cui voce gi? lo entrato piede[171]
ritrassi al modo di chi un serpe calca.
— Deh! saggia ninfa, dimmi per mercede,
— risposi a lei — dove 'l mio ben cavalca?
Perch? fra voi questo altercar procede?
perch? tanto di tempo mi diffalca?
Quella sen fugge e tuttavia non cessa,
onde non spero mai pi? veder essa.
— Lascila gir — diss'ella, — ch? la truce[172]
e pestilente donna, tuo malgrado,
de l'improba Fortuna ti conduce
al seggio incerto ed a l'instabil guado.
Ma se tu segui me, ti sar? duce
nel destro calle, ove di grado in grado
montando, e non col volo di fortuna,
vedrai quel ben che 'n s? vert? raguna.
Or viemmi dopo, ch? su l'alte cime
di sapienza trovarai l'ascesa.
Fuggi costoro, perch? al fin de l'ime
valli d'errore mostran la discesa. —
Allor io per costei lascio le prime
e seco me ne vo; ma gran contesa
ecco nascer fra l'una e l'altra turba,
che 'l mar, la terra e sin al ciel disturba.
E prima di parole tanta rabbia
si sullev? tra quelle donne e queste,
che non bast? menar con scura labbia
la lingua e denti, ma l'ornate teste[173]
vengon a scapigliarsi, e su la sabbia
gi? molte veggio, per l'orrende peste
de' calci e pugna, traboccar avvolte.
Ma presto vien chi via l'ebbe distolte.
Ch? a l'apparir di donna antica e grave[174]
tosto la pugna fu da lor divisa:
chi si racconcia il sino e chi le flave
chiome si annoda e chi di dar sta in guisa.
Ma la matrona con parlar soave
voltossi a me dicendo: — Qui s'avvisa
per me qual porta entrar deve chi brama
o quinci o quindi racquistarsi fama.
Quinci Vert?, quindi Fortuna alloggia,
i' ti l'ho detto: va', ch'ambo le porte[175]
ti mostro aperte. — E detto ci?, s'appoggia
sul petto il viso di Vertute e sorte
fra le colonne. Ed io ne stava in foggia
di chi non sa de le dua porte apporte
quale si prenda, s'una prender deve;
e mentre dubbia, gran duolo riceve.
La destra via mi elessi finalmente:
cos? movea di Nursia il saggio spirto.
Ma le sinistre donne, triste e lente,
trasser a l'ombra insieme d'un suo mirto.
Quivi tra loro un lupo immantenente
comparse (onde non so) minace ed irto,
del quale una di lor, se ben rimembro,
svelse sdegnando il genitale membro.
Poscia chi per il pi?, chi per l'orecchia
lo tranno a terra gi? quelle fanciulle,
mentre l'altare e 'l foco una apparecchia.
Ciascuna par che 'n quello si trastulle
svenarlo, e qui s'accoglie e si sorbecchia
tanto del sangue suo, che 'n tante mulle[176]
le vidi esser cangiate a me davante,
e 'l foco stesso le arse tutte quante.
E 'l mirto similmente in altra forma
mutarse vidi, ch'ogni suo rampollo
contrasse al tronco dentro, e si trasforma
in bella donna, e gambe e braccia e collo;
e 'l lupo, il qual sul lido par che dorma,
prende a l'orecchia, e dritto sullevollo,
cangiato omai di lupo in un destrero:
s?ltavi addosso e sgombra via 'l sentiero.
Io la conobbi, aim?! nel sguardo acuto,
acuto s?, ch'anco smovermi puote
dal bel proposto e farmi sordo e muto
a le preghiere d'ogni effetto v?te
de l'altre donne; anzi mi faccio un scuto[177]
d'infamia contra il ben che mi percuote,
e gridami nel capo, mi urta ed ange,
ma nulla fa, ch? 'l suo voler si frange.
Onde le donne insieme neghittose,
poi ch'e' soi prieghi gittaron a l'aura,
in un pratel de gigli, viole e rose,
sott'ombra de la petrarchesca Laura,
stetter in cerchio contra me sdegnose;
ed un quadrato altare qui s'instaura,
sul qual, mentr'arde un tenero licorno,
ivan quelle piangendo intorno intorno.
Io pur, quantunque l'ascoltassi invito,
la fin volsi veder del sacrificio,
ch'un nuvol bianco su dal ciel partito
s? mi l'ascose, e per divin giudicio
tal tono seco fu, che tutto 'l lito
trem? d'intorno, e sparve lo edificio,
le donne, la matrona e 'l nuvol anco,
restando pur la via del lato manco.
Stavami, su quel punto che la terra
tutta trem?, non men for di me stesso
che 'l viandante, il quale mentre ch'erra
cercando un tetto, perch? un nimbo spesso
li tona in capo, il fulmine si sferra
dal ciel gridando e piantasigli appresso,
ch? un'alta pioppa in sua presenzia tocca
e tutta in foco e fumo la dirocca.
— Non temer d'alcun ciel che ti minaccia,
ch? bella botta non mai colse augello! — [178]
A cotal voce rivoltai la faccia,
ed ecco un uomo lieto, grasso e bello
mi sovraggiunge e stretto a s? m'abbraccia.
S'io gli fussi figliol, padre o fratello,
io l'addimando vergognosamente.
Chi fusse, egli rispose immantenente.

LA CAROSSA

MERLINUS COCAIUS

Ille ego qui quondam formaio plenus et ovis
quique, botirivoro stipans ventrone lasagnas,
arma valenthominis cantavi horrentia Baldi,
quo non Hectorior, quo non Orlandior alter,
grandisonam cuius famam nomenque gaiardum
terra tremit baratrumque metu se cagat adossum,
at nunc Tortelii egressus gymnasia, postquam
tanta menestrarum smaltita est copia. Baldi
gesta maronisono cantemus digna stivallo.
Huc, Zoppine pater, tua si tibi chiachiara curae,[179]
si tua calcatim veneti ad pillastra Samarchi
trat lyra menchiones bezzosque ad carmen inescat,
huc mihi cordicinam iuncta cum voce rubebam
flecte soporantem stantes in littore barcas,
ut dorsicurvos olim delphinas Arion.
Tuque, Comina, tene guidam temonis, et issa
issa, Pedrala, mihi ad ghebbam tuque alta sonantem
ad cighignolam velamina pande levanto,
Berta, grego, postquam salpata est ?ncora fundo.
Non ad muscipares voltanda est orza canellos,
non ad fangosas ladrorum daccia Bebbas,
Bebbas, cui nomen tum splenduit, aequore postquam
Cingar anegavit pegoras, saltantibus illis
una post aliam, nullo aiutante Tesino,
dumque trabuccabant, ?b? b?? sonuere frequenter:
hinc Bebbas dixere patres, quod nomen ad astra
surgitur, et lunge soravanzat honore Popozzas.
Non mihi Fornaces per stagna viazus ad udas,
perque Padi gremium ad Stellatam Figaque rolum
undantem contra et retro cava ligna ferentem,
seu sit Bondeni seu sit mage Francolini
piatta, vel Argentae, vel burchius Sermidos audax.
Bramai Alixandrae portus mea barca tenere.

NARRATIO

Thebanis fabrefacta viris, antiquior altris
urbibus Italiae, dum Mantua rege sub uno,
nomine Gaioffo, quasi iam dispersa gemebat,
viderat in somnis venientem a Marte baronem
mozzantemque caput Gaioffo, seque gridantem
libertatem urbi et populo praestasse vetusto.
Hinc aliquod confortum animi conceperat illa
speranzamque omnem Baldi ficcaverat armis.
Non erat huic toto quisquam affrontandus in orbe
forcibus aut potius destrezza corporis ipsa.
Nil illum (tanta est hominis baldanza gaiardi!)
arma spaventabant, nil coelum, nilque diavol.
Vir iuste membrosus erat, mediocriter altus,
largus in expassis relevato pectore spallis,
at brevis angustos stringit centura fiancos;
nerviger in gambis, pede parvus, cruribus acer;
rectus in andatu, levibus qui passibus ipso
vix sabione suas poterat signare pedattas.
Aurea iungebat faciei barba decorem,
vivacesque oculos huc illuc alta rotabat
frons, quae spaventat quando est turbata diablos,
sed ridens noctemque fugat giornumque reducit;
spadazzam laevo semper gallone cadentem
portabat, guantumque presae mortisque daghettam.
Saltando legiadrus erat, qui pleniter armis
indutus montabat equum sine tangere staffam.
Ipse gubernabat terram, quam diximus olim
nomine Cipadam, gentemque illius habebat
ad cennum prontamque armis habilemque bataiae.
Praecipuos hinc tres elegerat ille sodales,
quorum Cingar erat strictissimus alter Acates.
Is veterem duxit Margutti a sanguine razzam,
qui risu, quondam simia cagante, crepavit.
At Cingar trincatus erat truffator in arte
Cingaris, aut vecchium segato dente cavallum
per iuvenem vendens, aut bolsum fraude barattans.
Scarnus in aspectu, reliquo sed corpore nervis
plenus erat nudusque caput rizzusque capillos.
At sassinandi poltronam exercuit artem,
in machiis quandoque latens mala guida viarum,
namque viandantes ad boscos arte tirabat
spoiabatque illos, sibi nec restante camisa.
Sacchellam semper noctu post terga ferebat,
sgaraboldellis plenam surdisque tenais;
is mercadantum reserabat saepe botegas
compagnosque ipsos pannis finoque veluto
tornabat caricos ad ladrorum antra Cypadam,
officioque boni compagni, quisquis aiuttum
porrexisset ei, tolta sibi parte botini
ibat contentus. Precibus sed denique Baldi
destitit, et savius forcam lazzumque soghetti
scansavit, iam iam illorum compresus ab orma.
Huic tanto coniunctus erat Falchettus amore
(Falchettus qui ortum Pulicani ab origine traxit),
quod sine Falchetto poterat nec vivere Cingar,
nec Falchettus idem faciens sine Cingare vixit.
Non fuit in toto cursor velocior orbe,
namque erat a cerebro ad cinturam corporis usque
semivir, et restum corsi canis instar habebat.
Hic cervos agilesque capras leporesque fugaces
captabat manibus saltuque (stupibile dictu!),
saepe grues tardas se ad volum tollere coepit.
Multi illum reges, reginae, papa, papessae
ducere tentabant, donantes munera, secum.
At ille, incagans papae regumque parolis,
cum Baldo semper dormit mangiatque bibitque.
Inde gigantonem Fracassum Baldus amabat,
progenies cuius Morganto advenit ab illo,
qui iam suetus erat campanae ferre bataium.
Huius longa fuit cubitos statura quaranta,
grossilitate stari aequabat sua testa misuram,
andassetque trimus per buccam manzus apertam;
in spatio frontis potuisses ludere dadis
auriculisque suis fecisses octo stivallos;
spallazzas habuit largas, schenamque decentem
ferre boves carrumque simul pesosque ducentos;
arripiens quandoque bovem per cornua grassum
ad centum passus balzabat, more quadrelli.
Marmoreos etenim pillastros atque columnas
tergore gestabat, nulla straccante fadiga;
streppabat digitis quercus stabilesque cipressos,
ac si fortificam foderet tellure cipollam.
Castronem mediumque bovem denasque menestras,
trenta simul panes coena mangiabat in una.
Tanto ibat strepitu, libras ter mille pesoccus,
tota sub ipsius pedibus quod terra tremebat.
At viltatis homo crudeltatisque minister,[180]
Gaioffus, Baldum Baldique timebat amicos.
Imperii zelosus erat, noctesque diesque
masinat in cerebro, lambiccat, fabricat altos
a?re castellos, velut est usanza tiranni,
suspectumque super Baldum plantaverat omnem.
At quia grandilitas animi generosaque virtus
tum gratum patribus tum plebi fecerat illum,
stat regno metuens, ut vulpes vecchia quietus.
Verum mille modos fingit groppatque casones,[181]
summittitque homines falsos, nugasque silenter
seminat in populo; Baldi bona fama, gradatim
malmenata, fluit, iam facta infamia crescit
bacchaturque omnem coelo montata per urbem,
deque viro illustri canto straparlat in omni,
quod ladronus erat, quod fur, quod mille diablos
corpore gestabat, quod forcas mille merebat.[182]
Hinc nactus causam patres Gaioffus adunat,
conseiumque facit, pensans comprendere Baldum,
mittaturve suo capiti firmissima taia.
Maxima patricii generis convenerat illuc
squadra, repossato disponens cuncta vedero.
Est locus in quadro, ?salam? dixere moderni,
bancarum populique capax sibi iura petentis:
illius ad frontem, inter multa sedilia patrum,
aurea Gaioffi solio est errecta levato
scrannea, spadiferis semper circumdata bravis.
Hic sedet ille, minax vultu sitiensque cruoris.
Non delatores unquam longantur ab illo,
non giottonorum bardassarumque potentum
copia, non ladri, furfantes mille, parati
condonare suam minimo quadrante balottam.
Inter eos garrit centum discordia linguis,
minibus et zanzis populi complentur orecchiae,
semper ut offendant proni referuntque per urbem
ambassarias, quibus arma repente menantur.
Ergo ubi nobilium cumulata caterva resedit
claudunturque fores plebisque canaia recedit,
imperat annutu prius ille silentia dextrae,
talia dehinc solio parlans commenzat ab alto:

ORATIO

Vos, Domini patriaeque patres circumque sedentes
consiliatores, qui nostrae ad iussa bachettae
praesentati estis, causamque modumque sietis
quare ad campanae bottos huc traximus omnes.[183]
Quippe (diu nostis) vestra non absque saputa
omnia semper ego dispono, tracto, ministro,
non quia me pactus vel lex magis obliget ulla,
verum solus amor vestri et dilectio regis,
id quod amicitiae, tamquam sit iuris, adoprat.
Hactenus insimulans tacui, grossumque magonem
pectore nutrivi, saepe ut prudentia reges
expetit; at, vobis veluti experientia monstrat,
tegnosum fecit mater pietosa fiolum.
Nostis enim pridem quae, quanta et qualia Baldi
sint probra, nec modus est in furtis atque rapinis.
Incoepit postquam aetatem intrare virilem,
incoepit secum mariolos ducere bravos,
quos ?mangiaferros? vocitant ?taiaque pilastros?,
aut ?taiaborsas? melius quis dicere posset.
Non fuit in mundo giottonior alter, et ipsum
rex ego sustineam? patiar? fruiturque ribaldus
sic bontate mea? quid non pro pace meorum
cittadinorum tolero, postquam improbus iste
urbis in excidium, novus ut Catilina, pependit?
Nostra illum patres patientia longa ribaldum[184]
fecit, ut in ladris non sit ladronior alter.
Quid me vosque simul bertezat, soiat, agabbat?
ad quam perveniet sua tandem audacia finem?
non illum facies tanta gravitudine vestrae
maiestasque mei removent, non guardia noctis,
non sbirri zaffique simul, non mille diavoi
spaventat, tanta est hominis petulantia ladri!
An sentit coelo, terrae baratroque patere
iam caedes gladiosque suos? an contrahit omnem,
quae sassinorum semper fuit arca, Cipadam,
ut cives populumque meum gens illa trucidet?
illa, inquam, gens nata urbem pro struggere nostram?
Quis, rogo, scoppatur nostrae sub lege cadreghae,
quisve tenaiatur mediaque in fronte bolatur,
berlinaeque provat scornum forcaeque soghettum,
ni Baldi comes et villae mala schiatta Cipadae?
doctoratur ibi robbandi vulgus in arte,[185]
estque scholarorum Baldo data cura magistro.
Hinc docti iuvenes sub praeceptore galanto
blasphemare Deum variis didicere loquelis;
mox sibi boscorum ladri domicilia quaerunt,
expediuntque manus furtis stradasque traversant,
assaltant homines, amazzant inque paludes
omnia spoiatos buttant pascuntque ranocchios.
Quum simul albergant, squadraque serantur in una
mille cruentosas roncas teretesque zanettas,
spuntonesque, alebardas, quae sunt arma diabli,
dantque focum schioppis, tuf taf resonante balotta.
Semper habent foedas barbazzas pulvere, semper
cagnescos oculos nigra sub fronte revolvunt.
Protinus ad cifolum se intendunt esse propinquum
quem faciant robbas pariterque relinquere vitam.
Praesidet his ergo Baldus caporalis, ab ipso
tot mala dependent: Baldo cessante, quid ultra
mercator timeat? quid gens peregrina? quid urbs haec?
Ad caput, o patres, est ad caput ensis habendus,
membra nihil possunt quum spallis testa levatur:
frange caput serpae, non amplius illa menazzat!
Dixi: nunc vero quaenam sententia vestra est
expecto, ut cunctis sit larga licentia fandi.
Dixerat, et sdegnum premere alto in pectore fingit.
Confremuere omnes, aut quae contraria Baldo
pars erat, aut vafri quos longa oratio regis
spinserat in coleram, tollentesque ora manusque,
iustitiam clamant: — Quid adhuc mala bestia vivit,
quid nisi iacturas, homicidia, furta, rapinas,
o rex, a ladro poterit sperarier unquam?
picchentur fures, brusetur villa Cipadae,
ipseque squartatus reliquis exempla ribaldis
praestet, amorbator coeli terraeque marisque! —
Tum vero ingemuit strictis pars altera buccis
compescens digito, Gaioffo adstante, labellum.
At Gonzaga pater, quo non audentior alter
iustitiae in partes et linguae et robore spadae,
omnium ut aspexit vultus firmarier in se,
stat morulam, dehinc quantus erat de sede levatus
apparet, solvitque ingentem ad dicere linguam:

RESPONSIO

Inclyte rex, regisque viri, vosque urbis honori
instantes proceres, quamvis locus iste soluta
labra petat laxasque velit sine vindice linguas,
attamen, aut iure hoc aut quadam lege rasonis,
quam natura docet, ne me angat culpa tacendi,
incipiam. Baldi animum Baldique valorem,
Baldi consilium novi a puerilibus omne.
Ingenium est homini, quum prima aetate tenellus
luxuriat, facili scelerum se inferre camino,
si incustoditus fuerit nulloque magistro:
cursitat huc illuc, ceu fert ignara voluntas.
At puer ingenuus, quamvis retinacula brenae
non tulit, illecebras seguitans, si forte virum quem
maturum semel audierit leviterque monentem[186]
principio, ne virga nimis tenerina, potenti
contrectata manu, media spezzetur in opra,
deposita sensim patitur feritate doceri,
seque hominem monstrat, quem humana modestia tantum
retrahit a vitio iurisque in glutine firmat.
Cernimus indomitos plaustro succumbere tauros,
quorum duriciem removet destrezza biolchi;
semper idem saeviret equus cozzone carente,
nec venit ad pugnum sparaverius absque polastro.
Ne, rogo, conscripti patres (id forsitan unquam
rex sensit), pigeat miras audire prodezzas
quum fanciullus erat Baldus baculumque sbriabat.
Gallicus, ut fama est, e Franzae partibus olim
in Lombardiae, gravida cum uxore, pa?sum
straccus arivavit, nostramque hanc ductus ad urbem
albergavit agro tantum una nocte Cipadae,
donec ibi gravidata uxor sub fine laboris
ederet infantem, qua Baldus prodiit iste,
qui nascens oculos (veluti dixere comadres
huic circumstantes) coelo tendebat apertos,
quem nemo, ut mos est infantum, flere notavit.
Hinc vox e summo fuit ascoltata solaro:
— Nascere macte, puer, cui coelum, terra fretumque
ac elementa dabunt tot afannos totque malhoras;
non terrae sat erit centum superare travaios,
ense viam faciens inter densissima tela,
verum quam citius pelago tu intrare parabis,
cinctus ab undosis montagnis nocte dieque
fortunae ingentis patiere tonitrua, ventos,
fulmina, corsaros ac centum mille diablos.
Sed tandem, haud dubites, gaiarditer omnia vinces.
Vocis ad hunc sonitum, mater meschina, vel ipso
supplicio partus vel sic pirlamina fusi
finierant Parcae, puerum pariterque fiatum
sborravit: puerum vulva, pulmone fiatum.
Vos meditate suo qualis tunc doia marito
ingruit, ut mortam uxorem natumque puellum
ante oculos proprios tractu sibi vidit in uno!
Ergo infantillum villano tradidit uni,
mox abiit tacitus nec post apparuit unquam.
Nescitur, fateor, qui sit, verum alta gaiardi
forcia si Baldi, si animi prudentia, si frons[187]
gentilesca alacris, si tandem forma notatur,
non nisi fortis erat, prudens, gentilis et acer
formosusque pater, licet huic sors aspra fuisset,
namque bonum semper fructum bona parturit arbor.
Interea villanus (adhuc cum coniuge vivit)
infantem ad gesiam causa baptismatis affert.
Quem dum pretus aqua signat, terque ore gudazzum
compadrumque rogat quod debet nomen habere,
en quoque ter facta est summo responsio templo:
— Baldum, vos Baldum fantino imponite nomen! —
Constupuere omnes: devenit murmur ad urbem,
hic testes centum tantae novitatis habentur.
Lactiferam Baldus tantum bibit ergo madregnam,
ut iam carriolum, quo imprendit ducere gambas,
linqueret ecussis rotulis cantone refractum,
et pede firmatus nunc huc, nunc cursitat illuc,
quem pater, ignarum veri patris, instruit omni
rusticitate, docens villae poltronus usanzam.
Post merdulentas iubet illum pergere vaccas,
sed gentilis eam reprobat natura facendam:
non it post vaccas; at saepe venibat ad urbem,
atque ad villani despectum praticat illam.
Solis in occasum villae tamen ipse redibat,
atque reportabat testam quandoque cruentam;
magnanimus quoniam puer, ut solet esse per urbes,
semper pugnorum guerris gaudebat inesse,
sive bataiolis bastonum sive petrarum.
Nec pensetis eum quod certans ultimus esset;
at ferus ante alios squadram exortabat amicam,
et centum lapides saltu reparabat in uno.
Quum villanus eum villam abhorrere notavit,
experimentum aliud, puerum quo exturbet ab armis
in quibus immersum cognoverat esse, provavit:
nam neque villanus sese cum milite confat.
Comprat ei fortem tabulettam roboris (illam
rupisset subito), qua sculptum addisceret ?a, b?:
ille scholam primo laetanter currere coepit,
inque tribus magnum profectum fecerat annis,
ut quoscumque libros legeret sine fallere iotam.
At mox Orlandi grandissima bella nasavit,
non vacat ultra deponentia discere verba,
non species, numeros, non casus atque figuras,
non Doctrinalis versamina tradere menti.
Regula Donati, prunis, salcicia coxit;
ivit et in centum scartozzos Norma Perotti.
Quid Catholiconis malnetta vocabula dicam,
quae quot habent letras tot habent menchionica verba,
et quot habent cartas tot culos illa netarent?
Orlandi tantum cantataque gesta Rinaldi
agradant puero, quamdam in cor dantia bramam,
ut cuperet iam vir fieri spadamque galono
cingere et auxilio rationis quaerere soldum;
ut legit errantes quondam fecisse guereros.
Viderat Ancroiam, velut orlandesca necarat
dextra, gigantissam, vel quum de funere Carlum
dongellettus adhuc rapuit, tractoque guainis
ense durindana secat alto e tergore testam
ingentem Almontis, Franzamque recuperat omnem.
Viderat ut miris Agricanem forcibus atque
mille alios fortesque viros fortesque gigantos,
arce sub Albracchae, giorno truncavit in uno.
Viderat ut nimias scoccante Cupidine stralas,
ipse gaiardorum princeps, ipse orbis acumen[188]
duxerat ad mortem, rupto gallone, cusinum;
at manus Angelichae, dum coelo brazzus ab alto
mortalem ferret colpum, succurrit, et ipsum
orlandescum animum tenuit spadamque pependit.
Saepius his lectis puer instigatur ad arma,
sed gemit exigui quod adhuc sit corporis, annos
praecipites cupiens, ut vir se denique posset
vestire ingentemque elmum ingentemque corazzam.
Is tamen hispanam semper gallone daghettam
dependentem habuit, qua plures saepe bravettos
terruit inque fugam solettus verterat omnes.
O pueri audentes animos agilemque prodezzam!
At video e vobis hinc plures volvere testam,
nasutosque mihi parlanti ostendere nasos.
Quam bene nunc vestri pensiria nosco magonis!
An subsannatis quia nostra oratio tandem
finiet, ut mores videatur in hasce favorem
porgere sbriccorum? veluti si Baldulus infans
tum bene fecisset quum Lanzalotta vigazzum
traiecit gladio? sic divi nonne sbisaos
castigare solent? sic nonne superbia nostra
cogitur interdum vilem portare cavezzam?
Quid, rogo, quid?...

TRIPERUNO

V olea seguir ancora il vecchio grasso,
N ? molto mi spiacea di starlo udire:
I l dol, nulladimanco, il troppo indugio
C h'era di ricercar la vaga ninfa,
A ndarmi allor da lui luntan mi astrinse.
Q ueto mi stoglio, senza dirli ?_vale_?,
V olgendomi d'un rio lungo a la ripa,
E pur egli mi segue passo passo.
F iumi di latte, laghi di falerno,[189]
V alli di macaroni e lasagnette,
E cco mi veggio intorno, e poggi ed alte
R upi di cacio duro e sodo lardo,
A cque stillate de capponi grassi,
T orte, tortelli, gnocchi e tagliatelle.
— B eata vita — dissi allor mirando —
? questa, che di tante trippe abbonda!
N on mai quinci partire mi delibro. — [190]
E con questo pensier, mentre ad un fonte
D i moscatella malvasia m'abbasso,
I o tolsene, bevendo, in quella copia
C h'un bove sitibondo d'acqua sorbe.
— T rinch trinch! — con altro vaneggiar tedesco
I ncomenciai balordo a proferire.
R otavasi gi? 'l mondo a gli occhi miei,
E sottosopra il mar, la terra, il cielo
G iran intorno e fannomi qual foglia
V olar al vento, e gli arbori, le ripe,
L e spiagge mi parean cotanti veltri
A i fianchi de le capre gir correndo.
S altano ad alto l'erbe e gli virgulti,
A lpe con monti e 'nsieme con poggetti
C orreno in rota e danzano leggiadri.
R apito poi con elli il mio cervello,
I n un momento scorse l'universo
S enza posarsi mai, senz'ulla tregua.
M entre cos? danzava a la moresca,[191]
O do dir: — Triperuno! — Ed ecco in mezzo
R atto mi vidi posto d'una turba.
I o contemplai non so che volti grassi
B ere sovente e poi cantar sonetti,
V otando zaine, fiaschi e gran bottazzi;
S altavan poi chi su chi gi? d'intorno,
I n quella foggia che vili fasoli[192]
G irano, a spessi tomi volteggiando,
N el caldaio su fiamme ardenti posto.
A llor con quelli insieme canto in gorga[193]
T utta tremante: — Bacco evo?! —
I ncomenciando poi cos? dir versi:

FUROR

— S urgite trippivorae, Merlini cura, Camoenae:
?T rinch trinch? si canimus, quid erit? cantate, bocali!
E cce menestrarum quae copia quantaque stridet
R ostizzana super brasas squaquarare bisognat.
C urrite, gnoccorum smalzo lardoque colantum
O conchae, plenique cadi plenique tinazzi!
R umpite brodiflues per stagna lasagnica fontes,
E rrantesque novo semper de lacte ruscelli!
F estinate meam per buccam intrare, foiadae
E t vos formaio tortae filante sotilum;
D um canimus trippas, trippae sint gutture dignae
A tque altis cubitum calchetur panza fritadis!
P ande tuae, Merline, fores spinasque catinae,
V ernazzam gregumque simul corsumque bevandae
T rade todescanae, donec se quisque prophetam
R erum cognoscat venientum qualis et ipse est,
E t quisquis cyatosque levat vodatque caraffas! —
T alia dum loquimur, somno demergimur alto.
V enit at interea mihi trippiger ille Cocaius,
I lle, inquam, cui panza pedes cascabat ad imos
R umpebatque uteri multa grassedine pellem.
— T une — ait — o Triperune tener, Triperune tenelle,
V enisti? venisti etiam, Triperune galante?
T une ades? o mi lac, mi mel, mi marzaque panis,
E ya age, zuccarate puer, ne, puppule, dormi,
S urge oculosque leva! hui, sbadacchias? surge, gaiarde!
A n, mellite, fugis sic me? me, ingratule, scampas?[194]
B astardelle levis levisque cinedule, sic sic
I ndignatus abis? Sta mecum, argutule, semper:
E n paradisus adest, en hortus deliciarum;
R elligio quaenam melior, quae tam bona lex, quam
E sse hac in vita, qua vivimus absque travaio?
O vitam sanctam, o ritus moresque beatos!
M ellis molle mare est, illud travogabimus ambo,[195]
N os ambo travogabimus, ambo errabimus, ambo
E t simul ad poggiam simul et veniemus ad orzam.
S urge, po?ta novelle, cane, heus, puer, accipe pivam!
D ic improviso macaronica gesta cothurno,
I ncipe, parve puer: qui non suxere fiascos,
I lli, consumpto lardo, sonuere carettam.

TRIPERUNO

V ano ha il pensier ed il desir inutile,
E sser chi crede un cielo a questo simile.[196]
R idi, cor mio, ch? cosa verisimile
T ornar un'alma a Dio non ?, ma futile.
I tene, leggi, e voi scritture ambigue,
T empo ch'eterno sia gli d?i s'appropriano,
E pel nostro sperar di risa scoppiano.

MERLINUS

S unt tibi tortificae faciles ad carmina musae,
O mi belle puer, sic sic bene concinis? an sic
R ecte recta canis? iam iam macaronicus esto.
T ale tuum carmen nobis, quale ocha plena
E st aio mensis, quale est damatina todesco
M alvasia recens, sus caulae, melque fritellis.

TRIPERUNO

N ? per speranza d'altri beni, n?[197]
V oglio per alcun pregio for di qui
R eddurmi ad altri pi? felici d?.
S ciocco sperar il ben ch'anco non ?!
I o nacqui solo per gioir qua gi?:
N oi dunque in terra e Dio nel ciel si sta;
I ndarno altrui sperarvi chi non sa!

MERLINUS

V era ais! O corsi, o admiranda potentia greghi!
T antula ne in puero doctula lingua meo?

TRIPERUNO

R iposte cime, poggi ombrosi e colli,
E voi di lardo e di persutto ripe,
D ensi antri d'onto e tripe,
E mp?ti noi, che pieni e ben satolli
A vostro onore scoppiaremo versi,
T a' forse, che non mai son?r s? tersi!

MERLINUS

P annadae hinc abeant, aqua coctaque febribus apta!
R adices herbaeque habiles in pascere capras,
I te ad menchiones, ite ad saturare legeros,
S tant qui per boscos, per montes perque cavernas[198]
T essere sportellas, tenuatum battere corpus,
I nglutire favas, giandas ac millia quae fert
N atura et porcis et asellis atque cavallis!
A t nos hic melius starnae turdoque studemus.

TRIPERUNO

N on sia cagion che mai da te mi scioglia,
O mio maestro e guida,
R iposo, oggetto mio, mia scorta fida!
M angiamo dunque e rallentamo i fianchi,
A cci? ch'un bon castron da noi si franchi.

MERLINUS

P ersutti accedant primo, bagnentur aceto,[199]
A pponatur apri lumbus, cui salsa maridet,
T ripparumque buseccarumque adsit mihi conca,
R ognones vituli lessi sapor albus odoret,
I nsurgant speto quaiae, mostarda sequatur!
S ic vivenda vita haec: veteres migrate fasoli!

LA MATOTTA

TRIPERUNO

Stavami un giorno fra li altri col mio maestro Merlino su la ripa d'un rapidissimo fiume di latte, lo quale, impetuosamente le fragil sponde di pane fresco diroccando, un suavissimo talento di mangiar suppe di cotal mistura porgevaci. Ma io talmente trovavami esser allora di frittelle compiuto e satollo, che (in mia laude vo' dirlo!) col dito per la gola quelle toccare averei potuto: laonde mi fu mistero la cintura, se scoppiare non vi voleva, rallentarmi su' fianchi. Vero ? che 'l mio precettore, assai di me non[200] pur meglior poeta, ma bevitore, mangiatore e dormitore, tutto che di quelle istesse frittelle dovea ripieno essere, niente di meno erasi pur anco apposto agiatamente a l'impresa di espugnare un capacissimo vaso di lasagne, non gi? di pasta per zappatori usata, ma di pellicole de grassi capponi, li quali de l'istesso colore, c'hanno la testa li giudei, erano. E mentre io, con seco favoleggiando, mi trastullo in veder un porco col griffo nel caldaio di broda l? guazzare, ed egli per non perder il tempo mi ascolta solo e mai nulla risponde, ecco vi sovraggiunse un damigello, d'aspetto, per quel che mi ne parea, molto gentile e saputo, lo quale una sua cetra soavemente ricercando, cos? accomodatosi con la voce al s?no e appoggiatosi ad un lauro a lui vicino, disse:

LIMERNO

La fama, il grido e l'onorevol suono
di vostra gran belt?, madonna, ? tale,
che 'n voi tanto 'l desio gi? spiega l'ale,
che non mi val s'addrieto il giro o sprono.
Di che s'al nome sol l'arme ripono
con cui spuntai d'Amore pi? d'un strale,
or che fia poi vedendo l'immortale[201]
aspetto vostro, a noi s? raro dono?
Ma, lasso! Mentre i' bramo e 'nsieme tremo
vederlo, pi? s'arretra la speranza
quanto l'ardor pi? cresce col desio.
Per? di quella omai poco m'avanza;
e pur s'un riso vostro aver poss'io,
resorto fia da voi sul punto estremo.

TRIPERUNO

Al soavissimo canto e suono di quel giovene tacquero s? le selve, racquetatosi ogni vento, che le fronde niente si moveano, non gi? perch? nel contado del mio maestro fusse de fioriti prati, ombrosi boschi, verdi poggetti amenitade veruna (quando che la vaghezza di quel luogo era solamente di lardo, botiro, cagiate, brode grasse ed altre simili leccardie), ma quella fiumara, che dissi essere di latte, eravi confine di tre molto differenti regioni, come se fussero la Europa, l'Africa e l'Asia. La prima regione, ove io col mio maestro abitavamo, gi? pienamente dessignata avemo, la quale Carossa fu nominata. La seconda, tutta vaga[202] e ripiena di vive fontane, frondosi lauri, mirti, faggi, abeti, frassini, olive, querze, e d'altri assai bellissimi legni addombrata, chiamavasi Matotta, ove questo Limerno dimorava. La terza, per[203] il contrario, tutta sassosa, rigida, secca, sterile ed arenosa, Perissa[204] fu appellata, ne la quale un eremita detto F?lica, senza ch'altrui lo invidiasse, abitava. Or dunque m'accorsi quel giovenetto dover essere del paese di Matotta, lo quale, cos? polito de vestimenta e perfumato di muschio, sapeva dolcemente a l'instrumento concordare la voce; onde io tratto in quella parte celatamente, che n? egli n? Merlino se n'avvedesse, trapassai lo fiume di latte in quella verdura di l? e, drento uno cespuglio di rose e spine appiattatomi non troppo da lui remoto, stetti ad ascoltarlo. Lo quale, dopoi un lunghetto ricercare di quelle sonore corde, in queste rime cos? proruppe, dicendo:

LIMERNO

So ben che 'l mio lodarvi, donna altera,
quando che non vi giunga, avete a sdegno;
so ben che 'l mio avvezzato in fiumi legno
trovar porto nel vostro mar dispera.
Ma de' vostr'occhi se quell'alma spera[205]
mi si scoprisse alquanto, forse al segno
uguale mi vedrei, che 'l nostro ingegno
ascende amando e pi? oltra gir non spera.
Non ? barchetta cos? lenta e frale,
ch'avendo voi, e vosco Amor, in poppa,
per ogni ondoso mar non spieghi l'ale.
Onde la musa mia va pegra e zoppa,
se schiva udite lei; ma se vi cale
il suo cantarvi, allor lieta galoppa.

TRIPERUNO

Tosto che finito ebbe di dire, eccovi sprovvedutamente un augelletto, o per caso o tratto dal suo concento, si ripose appresso d'un arbore sopra un ramo secco, ove, taciuto ch'ebbe Limerno, con un dirotto gemito faceva la selva intorno richiamare: di che egli, alzata la fronte a quella, cos? a l'improvviso incominci? con seco a ragionare:

LIMERNO

— Vaga, solinga e dolce tortorella,
ch'ivi sul ramo di quell'olmo secco
ferma t'appoggi ed hai pallido il becco,
spennata, pegra e men de l'altre bella;
dimmi, che piagni? — Piango mia sorella
perduta in queste selve, e lei dal stecco
di questo antico legno chiamo, ond'Ecco
miei lai riporta a la pi? estrema stella. —
Lasso! ch'anco la mia pennando i' chero
per questi boschi, e 'ndarno quella abbraccio,[206]
fingendo lei quell'albero, quel pino.
Ma acci? che 'l nostro affanno men sia fiero,
partiamo a l'uno e l'altro il suo destino,
ch? altrui miseria al miser ? solaccio.

TRIPERUNO

Piacquemi sommamente quella foggia di dire, senza ch'avessevi egli, come si s?le, faticosamente avanti ripensato. Ma, levandosi quella un'altra fiata su le penne, giuso in una valle portata, da gli occhi di quello si tolse. Ed esso, rallentata la corda del canto pi? de l'altre affaticata, mettesi a passeggiare accanto il fiume, tutto sopra di s?, come penseroso, levandosi, non avendo ancora scorto lo mio maestro di l? dal fiume, su la ripa del pane fresco, agiatamente disteso. Ma vedutolo cos? sprovveduto, ritenne il passo e, tutto il viso in riso cangiatosi, cominci? ad interrogarlo in questo modo.


DIALOGO PRIMO

LIMERNO E MERLINO

 

Limerno. Che fai, Merlino?

Merlino. Empiomi lo magazzeno.

Limerno. Avvantaggiato mercadante sei tu! mangi tu forse?

Merlino. Non hai tu gli occhi da vederlo?

Limerno. Ben veggio con gli occhi, ma non comprendo.

Merlino. Per qual cagione mi domandi tu adonca s'io mangio, non lo potendo chiaramente vedere?

Limerno. Io so che i fabbri trattano solamente cose da fabbri:[207] laonde parrebbemi cosa disusata e nova veder Merlino far altro che mangiare.

Merlino. Io so ben far altro ancora.

Limerno. Credolti troppo; ma che ne facci test? la prova, non molto mi cale.

Merlino. Perch? cos??

Limerno. Vi faressi sentire d'altro che zibetto e acqua nanfa!

Merlino. ? cosa naturale.

Limerno. Via pi? asinale.

Merlino. Da quanto tempo in qua sei tu cos? delicato e schivoso devenuto? non ti fai, se mi rammento bene, chiamar Limerno?

Limerno. Limerno son per certo.

Merlino. Limerno Pitocco?

Limerno. Io son pur desso.

Merlino. Dimmi adonca, Limerno Pitocco, per qual cagione tu ti mostri ora tanto schivo e ritroso d'udir nominare quella cosa con cui lordamente hai sconcacato quel tuo Orlandino?

Limerno. Da te solo ne tolsi lo esempio, Merlino.

Merlino. E dove?

Limerno. Ne la quinta fantasia del tuo volume.

Merlino. Pi? questo in un Zambello potevasi tollerare che in un cavallero e paladino di Franza, e pi? col mio stile macaronico che col vostro tanto onorevole toscano.

Limerno. Adonca, se ben comprendo, appresso di te lo stile toscano ? avuto in riverenzia, che ?cos? onorevole? lo chiami?

Merlino. Perch? no?

Limerno. Che ne so io? mi pare di stranio ch'un uomo macaronesco voglia magnificare l'eloquenza toscana.

Merlino. La cagione?

Limerno. Perch? lo bove si rallegra nel suo puzzo.[208]

Merlino. Ed a te quanto la lingua toscana viene in grazia? in che openione l'hai tu?

Limerno. Sopra tutte le altre quella reputo degna, laudo, magnifico, e contra li detrattori di essa virilmente lei deffendo; ch?, quando talora per sotto queste ombre mi trovo le belle rime del mio Francesco Petrarca aver in mano ovvero quella fontana eloquentissima del Boccaccio, uscisco, leggendo, fora di me stesso, devengone un sasso, un legno, una fantasma, per soverchia maraviglia di cotanta dottrina! Qual pi? elegante verso, limato, pieno e sonoro di quello del Petrarca si pu? leggere? qual prosa orazione si pu? eguagliare di dottrina, di arte, di arguzia, di proprietade a quella del facondissimo Boccaccio? Dilch? io reputo gli uomini litterati, li quali nulla delettazione di questa lingua si pigliano, essere non pur di lei ma di cortesia, gentilezza ed umanitade privi.

Merlino. E quali sono questi detrattori di essa?

Limerno. Alquanti persianisti pedagogi o pedantuzzi.

Merlino. Che cosa dicono?

Limerno. Cotesta lingua essere cagione di lasciar la romana.

Merlino. Ed io nel numero di costoro mi rallegro essere, ch? di te e d'altri toi simili ignoranti maravigliomi, li quali, non intendendo dramma de la tulliana facondia e gravitade virgiliana, vi s?te totalmente affisi ed adescati al ?quinci?, ?quindi?, ?test??, ?altres??, ?chiunque?, ?unquanco?, ?altronde?, ed altri dal tosco usitati vocaboli.

Limerno. Ah volto di tavolazzo, ubriaco che tu ti sei! presumi tu forse di tanta sufficienzia essere che tu poscia la sublimitade de la toscana lingua diminuire?

Merlino. Ah muso di giottone e forca che tu ti sei! ardisci tu dunque cotanto lodare lo stile petrarchesco e boccacciano, che la romana eloquenzia, non essendo da te nominata, da te riporti infamia?

Limerno. Tu ne menti molto bene, ch? non biasmo io la rom?na lingua.

Merlino. Tu ne stramenti molto pi?, ch?, mentre innalzi[209] quella troppo, questa abbassi e deonesti molto.

Limerno. Deh, vedi cotesto poetuzzo macaronesco in che modo non pur giudice ma advocato di Tullio e Virgilio da se medemo si constituisse!

Merlino. Deh, mira cotesto zaratano lombarduzzo come si mette al rischio di saper ragionar toscano, ove egli non men si aff? d'un asino a la lira!

Limerno. Che zaratano? che lombarduzzo? Come se un conte di Scandiano, un Ludovico Ariosto, un Tebaldeo, un Lelio, un Molza ed altri molti valentuomini non fussero in Lombardia nasciuti!

Merlino. Non sei tu gi? del numero loro?

Limerno. Desidro esserne: onde ogni mio studio ? di, se non eguarmi, almanco appressarmi a loro.

Merlino. Molto luntano tu li vai!

Limerno. Lo bon animo non vi manca. Ma tu come hai bene osservato le divine vestigia di Virgilio in quel tuo perdimento di tempo!

Merlino. Quale?

Limerno. Quel tuo volume dico, nel cui sobbietto le prodezze de non so chi Baldo cachi e canti.

Merlino. Quanto al cantare non ho io gi? da imitare Virgilio, quando che del mio idioma, lo quale sopra tutti li altri appresso di me vien reputato nobile, io non mi tegna aver superiore alcuno; ma quanto al cacare, non voglioti rispondere altrimente, perch?, se ne l'opera mia son stato io sin a li galloni in quella tal materia puzzolente, tu, Limerno mio, sin a gli occhi ti vi sei lordamente voltato. Per? lasciamo, pregoti, questo soprabbondevole ragionamento in disparte, ch? tu ed io abbiamo in ogni modo strabocchevolmente errato.

Limerno. Io tolsi lo nome solamente di Pitocco per dire un tratto lo mio concetto.

Merlino. Ed al soggetto, qual ? quello, non accascava se non malagevolmente il nome di Pitocco, ed anco dedicarlo a un signore non si doveva.

Limerno. Ors? dunque, lasciamo, Merlino caro, le dette tra noi ingiurie, e siamo amighi come prima.[210]

Merlino. Fa' come ti pare.

Limerno. Ma vorrei da te una grazia sola, caro mio Cocaio, impetrare: non mi la negare, pregoti, se 'l bottazzo non mai ti si parti dal gallone.

Merlino. Tu non p?i fallire di domandarmi, ch? a me star? poi, parendomi, darti.

Limerno. Non ti voler pi? oltra con esso meco turbare se un mio concetto, a?to gi? molti mesi, ora sono per scoprirti....

Merlino. Con la lingua di' pur ci? che ti pare, ma tacciano sopra tutto le mani.

Limerno. Non vi ? pericolo, mediante fra noi lo fiume, di conflitto alcuno, Merlino caro. Ma taci, prego: non odi? Conosco la dotta mano, conosco lo novo Anfione, conosco lo mio Marco Antonio, o mirabilissimo musico, ch? ben quella virtude a la gentilezza d'un tal animo degnamente conviene. Non odi tu lo accomodatissimo ricercare d'un la?to? Costui discese da Vinegia, di tutta Italia nutrice. Egli per doi giorni s'? dignato[211] qui fra noi dimorare. Or ascoltamolo, ti prego: egli ancora non ci ha veduto, e men voglio che ci lasciamo da lui vedere, acci? lo rispetto suo verso de noi cessare noi faccia da s? dolce impresa.

A l ciel or triunfando spiego l'ale;
N on ho di sorte ch'io pi? tema l'onte,
D a poi ch'anti s? altera e degna fronte[212]
R agiono, ed ella udirmi assai le cale;
E perch? del suo nome alto immortale
A lzar pi? non potrei le note c?nte,
S crissile in capo de' miei versi al monte,
D ove salir vorrei con pi? alte scale.
G loria del mondo non che d'un sol stato
R egna costui, ch'ai fatti egregi e ad essa
I ntegra forma ogni mortal eccede.
T urchi, mori, tedeschi, e d'ogni lato
V ien gente al grido; e mentre l'ode e vede,
S ovra la fama esser il ver confessa.

LIMERNO

A l'eccellenzia e magnanimitade d'un cotal principe meglior tuba, che lo sollevi e innalzi, non si potria giammai trovare di questa. E se d'intender brami lo nome del lodato signore, li capoversi del cantato sonetto chiaramente quello ti appresentano. Ma ecco si move a dirne appresso: sta' queto.

Voi che soavi accenti, alte parole,
rime leggiadre e pronti sensi ognora
impetrate dal ciel, deh! perch'un'ora
ei non me 'nspira esser di vostra prole?
Direi che d'un tal principe non s?le
gi? 'l mondo esser adorno, il qual onora
non pur Vinegia bella, ma di fora[213]
le genti sotto l'uno e l'altro sole.
Cantate 'l dunque voi, ch?, a me se diede
benigna udienza (onde lieto ringrazio
l'inclita sua virt?), l'atto gentile
quanto pi? voi di dire avrete spazio!
Ma ben v'annunzio che stolt'? chi crede
poter tant'alto porger uman stile.

LIMERNO E MERLINO

Limerno. Or ecco, Merlino, che a tempo questo gentil musico porsemi bona cagione di dirti lo gi? mio promesso a te concetto. Per qual dunque ragione tu, omai attempato, di questo tuo paese di Carossa, paese dico da ubriachi, parassiti,[214] lurconi, crapuloni, oggi mai non ti svelli? perch? pur anco vi dimori tu? Qual foggia di vita potrai tu forse in questa regione de lupi adoperare, la quale posciati con la utilitade insieme recarti qualche onorevol fama in questo mondo e removerti finalmente quel nome di Cocaio; nome, dico, di somma leggerezza, s? come il nome di Pitocco ancor io spero di lasciare?

Merlino. De l'onorevol fama tanta io me ne acquisto col mio botiro e lardo, quanto tu con quelli toi zibetti e ambracani. Ma de l'utilitade io t'ho saggiamente da rispondere: niuna cosa essere pi? utile che 'l mangiare e bere. Non dicoti le antiche giande da tutti lodate e non toccate se non da' porci, anzi parlo di questi miei delicatissimi liquori, ove la vera e dritta via di ben vivere gi? molti anni passati mi ricondusse.

Limerno. Qual immortalitade di animo vi consegui tu per bere o mangiare?

Merlino. Or come potrai tu, grossolano che tu ti sei, vivere senza queste due parti?

Limerno. Anzi tu vivi allora sol per mangiare, e questa ? vita bestiale.

Merlino. Va' al diavolo! Vivi tu forse senza mangiare?

Limerno. Ben mangio, ma sol per vivere.

Merlino. Ed io vivo per mangiare.

Limerno. Grandissima differenzia ? cotesta.

Merlino. Anzi ? una istessa cosa, ma non la comprendi.

Limerno. Ben io la conosco, ch? assai ti f?ra meglio mangiare per vivere che vivere per mangiare.

Merlino. Ed io quell'istesso ti replico: che meglio sarebbeti mangiare per smaltire che smaltire per mangiare.

Limerno. Qual fama, qual gloria, qual immortalitade ne averai poi? non ti reuscirebbe meglio mangiar per vivere e, vivendo, acquistarti perpetuitade di gloria?

Merlino. Di qual gloria intendi tu?

Limerno. Di questo mondo.

Merlino. Aspettava che mi parlassi del cielo.

Limerno. Mi pensi tu forse cos? pazzo ch'io creda sopra la luna?

Merlino. Ed io di te assai manco credo; ch?, volendo una fiata salir un arbore di fico ad empirmene de le sue frutta, per mia sventura venendovi abbasso, ruppimi una spalla, onde d'allora in qua non ho mai voluto pi? credere sin a l'altezza de li arbori. Ma qual ? questa gloria del mondo c'hai detto?

Limerno. Innam?rati, raccendati, aff?cati, impazzisceti di qualche bella donna!

Merlino. Con diavolo impazzirmi? d?lti forse d'essere solo pazzo che me in compagnia cerchi di aver ancora? Ben doppia saria cotesta mattezza, che io omai vecchio ribambito mi cacciassi in cotal impresa. E quando pur io lo facessi, qual fama onorevole, come hai tu detto, ne conseguisco poi?

Limerno. O dolce, o soave mattezza di questo tenero Cupidine, lo quale di tanta virtude si rende ne gli amanti cagione! Voglio primeramente che a grande contento siati lo gire non[215] pur de fini e strafoggiati panni ma de costumi e gesti lascivi ornato, perfumarti le mani, lo viso, le labbra, li capelli sovente di zibetto, muschio ed altri unguenti con acque di grato odore, sforzarti di sapere ogni arte, ogni astuzietta con qualche simulata invenzione di farti o pur conservarti grato a la tua madonna, non perdonar a la borsa in feste, danze, conviti, notturne, mattinate, e qualche dono per truzzimani a lei celatamente dricciato. Ma sopra tutto per il sprono e dolce incarco di questo amoroso affetto tu sempre averai lo componer arguti versi pronto e dilettevole; laonde voglio che totalmente a la musica vocale tu[216] ti abbandoni, cantando le cortesie, gli sdegni, gli atti, le parole, o in lira o in la?to o in altro soave strumento, de la tua diva.

Merlino. Non mi fa mistiero lo gi? perfettamente imparato imparare di novo. Pensi tu forse, o Limerno, ch'io non sappia le passioni di quello arciere, per cui gi? tanto cantai ch'ora ne son roco e imbolsito?

Limerno. Troppo til credo, ch? 'l fiasco per soverchio bere[217] consuma un corpo.

Merlino. Anzi lo bere fa bona ed espedita voce.

Limerno. Ed anco li quattro fa parerti otto. Ma dimmi: soni tu d'altro instrumento che di fiasco?

Merlino. Ecco lo sacco.

Limerno. Per la croce di Dio! tu d?i essere un boia.

Merlino. Che voi dir boia?

Limerno. Un mastro di giustizia, al quale si d? per sua mercede tre libre di piccioli e un sacco.

Merlino. Ma non gli d?nno per? la piva drento.

Limerno. Tu dunque vi tieni drento la piva?

Merlino. Eccola.

Limerno. Gonfia, ti prego!

Merlino. Lirum bi lirum. Vuoi ch'io ti mostri s'io so meglio di te cantare?

Limerno. Aspetta, prego, ch'io prima dir? ne la cetra, e tu con la piva mi succederai.

Merlino. Io ne son molto ben contento. Ma dimmi in lombardo stile, ch? non t'intenderei toscano.

Limerno. Farollo veramente. Odi un endecasillabo del sonno:

Huc, huc, noctivage pater tenebrae;
huc som.....

Merlino. Taci l?! questo mi par latino, e non lombardo.

Limerno. Anzi e' lombardi fanno pessimamente, partendosi elli da gli antiqui soi maestri di lingua latina, quando che lo materno parlare tanto rozzo e barbaro gli sia. Onde s'io considero chi di Mantoa, chi di Verona e altri luoghi di Lombardia nacque,[218] dir? che 'l proprio parlare de' lombardi saria lo latino.

Merlino. Or ben conosco che sei uomo vano e smemorato,[219] ch'ora contradici a la openione tua innanzi detta. Anzi lo proprio de' lombardi ? lo barbaro, da' longobardi derivato: ma di' meglio (forsennato che tu ti sei!), che 'l proprio idioma de gli abitatori di Lombardia sarebbe lo latino, perch? Lombardia non fu Lombardia se non dapoi che i longobardi la barbarie cos? del parlare come de' costumi portarono in quelle parti. Li costumi se ne sono in sua malora partiti, e lo parlare vi ? restato; e per? confermarotti quello che gi? sopra dissi: che tu, essendo lombardo, pi? presto avvezzarti doveressi a la paterna tua lingua latina che a la pellegrina a te toscana; ch? molto pi? di fama e gloria conseguiranno per lo avvenire li scrittori latini che li toscani, quantunque oggid? a molti lo contrario appaia, servando per? sempre la dignitade de la mia macaronesca. Or dunque, mentre io m'apparecchio responderti, di' suso quel tuo promesso endecasillabo: o latino o lombardo che si sia, non voglio di cotesto pi? teco disputare.

LIMERNO

Huc, huc, noctivage pater tenebrae;
huc, Somne; huc, placidae sator quietis
Morpheu; huc, insiliens meis ocellis
amplexusque thorum, cuba aut pererra
totum hoc populeo madens liquore
corpus, tum gelidum bibens papaver.
Hinc hinc mordicus intimis medullis
haerentes abeant cadantve curae,
ut grato superum fruar sopore,
mox grates superis feram diurnas.

MERLINUS

Post vernazzi flui sugum botazzi,
post corsi tenerum greghique trinchum,
et roccam cerebri capit fumana
et sguerzae obtenebrant caput chimaerae.
O dulcis bibulo quies todesco,
seu feno recubat canente naso,
seu terrae iaceat sonante culo!
Mox panzae decus est tirare pellem,
mos est sic asino bovique grasso.

LIMERNO E MERLINO

Limerno. Ah! ah! ah! tu mi rumpi de le risa il petto con questa tua gentil Camena. Veridico filosofo ben fu quello che disse: lo ranocchio non sapersi comportare del suo fango fora.

Merlino. Non mi dar piglio a la coda, Limerno, ch'io so meglio mordere che tu pigliare.

Limerno. Non ti adirare, prego, ch? d'adirarti causa non ?. Gi? cotal proverbio non dissi per biasmo tuo, anzi contra me solo volsi accennare, che via pi? sono manco agevole a dir latino che toscano.

Merlino. Ed io similemente trovomi essere manco idonio ad ascoltare toscano che bergamasco, e questo men aggradiscemi del romano o v?i latino. Dilch? se hai pur a dirne pi?, ecco ai nomeri latini mille orecchie ti spalanco e sbaratto.

Limerno. Di qual nome fassi degno, Merlino mio, un uomo che ingrato sia?

Merlino. Dilli ragionevolmente ?bestia?.

Limerno. Cos? da bestia te ne voglio trattare uno. Or odi:

Iam geris humanos nec quidquam, perfide, vultus,
iam cole cum nemorum stirpe, ferine, nemus,
immemor accepti qui muneris infremis instar
belluae, et in nostrani saevis, inique, fidem.
Prodis amicitiae foedus, nec te pudor ullus
arguit! i, pete (vir non eris inde!) feras.

Chiamavasi costui per nome Urbano; e male convenivagli veramente, ch? mai n? il pi? scortese n? il pi? rozzo n? il pi? aspro si puote vedere di lui fra quante ville di Padoa o Vicenza si trovano. Del quale fu gi? composto quella similitudine contraria:

Lucus luce carens nomen de luce recepit;
bellum, quod bellum sit minus, inde venit.
Hinc quoque te Urbanum merito appellamus, ut isto
nomine rusticitas sit tua nota magis.

Deh! pregoti, amantissimo Merlino, lasciami ch'io canti di Amore in toscano idioma, ch? veramente non so io pi? che dirti latino.

Merlino. Non lo far? io giammai: tu canti a me e non a te.

Limerno. Non voglio per niuna guisa esserti ritroso; e perch? di cotesta materia latina ho molta penuria, e tu vi hai pur piantato ostinatamente lo chiodo ch'io non debbia se non latinamente cantare, non mi ritraggo a dirti alquanti versi da me ancor fanciullino composti, trovandomi su quello di Ferrara in certa villa, mandatovi da mio padre per imparare lettere appresso d'un prete, lo quale molti scolari teneva soggetti, e pi? li belli che li brutti; nel qual luogo, per corruttela di grosso aere, soprabbondavano tante biscie, rane, zenzale e pipastrelli, che uno inferno mi pareva di tormentatori. Laonde, ritrovandomi ogni sera in guisa d'un Lazzaro mendico tutto da le punture di quelli volatili animaluzzi impiagato, cos? al mio maestro puerilmente recitai:

LIMERNUS

O mihi Pieriis liceat demergier undis,
o veniat votis dexter Apollo meis!
Quidquid ago, fateor, sunt carmina, carmina sed quae
non sapiunt liquidas Bellerophontis aquas.
Hic nisi densa palus iuncis et harundine tordet,
hic nisi stagnanti me Padus amne lavat.[220]
Advoco sic musas: pro musis ecce caterva
insurgit culicum, meque per ora notat!
Dum cantare paro fletu mihi lumen inundat,
factaque per culices vulnera rore madent.
Hic quoque noctivagae strident ululantque volucres,
ac ventura nigrae damna minantur aves.
Quid referam pulices, agili qui corpore saltant?
Utraque quos caedens iam caret ungue manus!

MERLINO

Questi toi versi quantunque mi sappiano di puerizia, pur non vi manca l'arte e, per dir meglio, la veritade. Imperocch? io molto pi? voluntieri abitarei su lo contado di qualunque altra cittade che su quello di Ferrara, non gi? perch? ella non abbia tutte le bone condizioni che si ricercano in una simil terra, cos? di reggimento come di nodrimento, ma baldamente dir? che causa veruna non le occorre perch? de l'aere o sia del cielo ella si debbia lodare, ch?, quando la industria pi? de la natura non vi avesse provveduto, guai a le sue gambe! Laonde, essendovi non so qual poeta mantoano, per un eccesso non piccolo, destinato dal signore a partirne in onesto esiglio, e gi? pervenuto su l'entrata di essa, in queste parole sospirando ruppe:

MERLINUS

Insperata meis salve. Ferraria, curis,
tale sis exilium ne, rogo, quale daris!
Me non parva reum fecit tibi culpa: reatum
ex te num luerit congrua poena meum?
Noster, ais, veni; nostros quoque suscipe ritus;
vivitur humano sanguine, trade cibum!
Mantous culicis funus iam lusit Homerus;[221]
mantous culicum tu quoque gesta cane.

LIMERNO E MERLINO

Limerno. Che quelle bestiuole siano causa per cui lo usar in Ferrara non ti aggrada, malamente te lo credo.

Merlino. Poco errore ? questa tua mescredenza.

Limerno. Perch? dici tu dunque la menzogna?

Merlino. Se per mezzo de la menzogna tu intendi la veritade, perch? mentitore mi fai?

Limerno. Mentitore sei per certo.

Merlino. S?, ma verace.

Limerno. Qual veritade ho io gi? inteso per la bugia test? fatta?

Merlino. Perch? Ferrara cortesa non per mosche o tavanelle mi ? a noia, ma perch? ivi raccoglionsi lor vini su le groppe de le rane. Pensa m? tu qual eccidio, qual ruina sarebbe del mio stomaco!

Limerno. Ferrara e Mantoa di molte qualitadi si corrispondano. Ma voglio che, s? come ora ti concessi lo mio cantar latino, cos? non manco tu ti comporti ne l'ascoltarmi un breve capitolo.

Merlino. Chi fu lo autore di esso?

Limerno. Perch? ci? mi domandi tu?

Merlino. Quando che non mi dilettino molto le cose tue, e consequevolmente non ti presto udienza se non sforzato.

Limerno. Non ? mio veramente: io gi? fora d'un scrigniolo quello rubbai dentro di Lementana, o Nomentana meglio diremo,[222] luntano da Roma diece migliara; castello nobile s? per la vecchiezza di esso s? per la generosissima famiglia de Orsini, di quello ed altre assai terre posseditrice e madonna. E bench? io molte volte l'abbia per mio recitato, nulla di manco (mi confesso a te) non esser egli mio son certo, ma d'un Gian Lorenzo Capodoca secretario del signore del loco.

Merlino. Ora incomincia, ed io frattanto un sonetto voglioti comporre.

LIMERNO

Sia pur contrario a noi l'aspro furore
d'ogni stella crudel, d'ogni elemento,
ch? l'ira sua non piega un stabil cuore:
latri chi vol latrar, io gli 'l consento,[223]
ch? tanto si alza pi? la fiamma accesa
quando lei spegner vole un picciol vento.
Qual pi? lodevol, qual pi? chiara empresa
d'una costante, d'una fede pura,
ch'odio non teme n? di sorte offesa?
Un fermo scoglio d'onde non ha cura
n? un stabil cuore di qualunque oltraggio,
ch? fede intorno a lui pi? allor s'indura.
Sol ne gli affanni si conosce il saggio,
lo qual, per ch'un bersaglio sia di sorte,
non parte mai dal cominciato viaggio.
N? di ferro minacce n? di morte,
mentre animosamente spiega l'ale
di fede, mai paventa un uomo forte.
Per? la forza lor in noi che vale?
Gi? chi congiunse il ciel altrui non scioglie
perch? non svaria mai corso fatale.
Lasciali pur empir lor empie voglie:
livido cuor sol di se stesso ? pena,
e chi semina t?sco, t?sco accoglie.
Pingon in ghiaccio e solcan ne la rena,
e quelli de le pugna al vento d?nno,
che rodon la fidel nostra catena.
Ma tu la lor malizia, il loro inganno
impara di conoscer, e lor fraude,
ch? bello ? l'imparar a l'altrui danno.
Se ride 'l tuo nemico, se 'l t'applaude,
tu similmente applaudi e ridi ad esso,
ch'esser falso co' falsi ? somma laude.
Se ancora ti minaccia e morde spesso,
contienti d'ira, ch? ti fia gran palma:
summa vittoria ? 'l vincere se stesso.
Non d?' turbarsi un'incolpevol alma,
s'ognor in lei pi? l'odio si rinforza,
ch'un gir leal non sa peso n? salma.
Ma se considri ben sua debil forza,
tu riderai di lor invidia ed onte:
ardor di paglie subito s'ammorza.
Sian dunque lor insidie occulte o c?nte,[224]
osserva quelle e queste ridi e sprezza,
ch? 'l bon nocchier, se tien la fronte a fronte
di sorte accortamente, mai non spezza.

MERLINO E LIMERNO

Merlino. Oh quanto m'? giovato questa dolcezza!

Limerno. Or vedi tu dunque che sin a te la soavitade di rime toscane sono aggradevoli?

Merlino. Per qual segno conosci tu in me cotal effetto essere?

Limerno. Come! tu non hai gi? detto questa dolcezza averti non poco gradito?

Merlino. S?, del sonno che ho fatto.

Limerno. Tu dormevi dunque mentre io cantava?

Merlino. Che maraviglia! non sei tu gi? di minor vigore d'una sirena!

Limerno. Dormevi tu, caro Merlino?

Merlino. Domine, ita. Ben ti lo dissi da prima.

Limerno. Che cosa?

Merlino. Di componerti un sonnetto.

Limerno. Or baldamente t'intendo: grandissima ? la differenzia tra lo ?sonnetto? e ?sonetto?.

Merlino. Quanto ? tra 'l persutto e lo schenale.

Limerno. Io ti voleva domandare lo giudizio tuo s? de lo verso come del recitatore; ma, per quello che me ne pare, ho ragionato con le mura.

Merlino. Anzi, e la campana e lo campanaro mi ? piaciuto, ma...

Limerno. Ma che?

Merlino. Aggradito m'averia pi?, se...

Limerno. Se che?

Merlino. Se pi? lungo fusse proceduto.

Limerno. La cagione?

Merlino. Per pi? dormire.

Limerno. E pur gran torto me fai non ascoltarmi cos? come io voluntieri ascolto te, non gi? per fasto e vanagloria, ma per avere solamente qualche avviso da gli uditori, se dicendo nell'instrumento mi sconcio troppo nel volger il capo, nel girar de gli occhi, nel finger caldi sospiri, se graziosamente o no tengomi sul braccio la cetra, se abbasso oppur troppo innalzo la voce,[225] e altri simili particulari effetti d'un amante, acci? che per l'altrui avviso pi? ragionevolmente avvezzare mi sapessi, dovendomi egli poscia essere a molto accrescimento de lo amore di mia donna.

Merlino. Se queste parti non hai, ben ti le poscio mostrar io, se mi ascolti per una pezza; e forse lo sonno ti star? luntano per vigor de la mia piva. Or odi una oda in loda d'una mia amorosa detta la Mafelina, ed impara da me gli affettuosi gesti.

Limerno. Comincia, ch'io mi sento voglia di mangiar riso!

MERLINUS.

Aspra, crudelis, manigolda, ladra,
fezza bordelli, mulier diabli,
vacca vaccarum, lupaque luparum
porgat orecchiam,
porgat uditam, Mafelina, pivae;
Liron o bliron, coleramque nostri
dentis ascoltet, crepet atque scoppiet,
more vesighae!
Illa stendardum facie scoperta
fert puttanarum, petit et guadagnum
illa, marchettis cupiens duobus
saepe pagari.
Semper ad postam gabiazza, rosso[226]
plena belletto, sedet ante portam,
chiamat, invitat, pregat atque tirat
mille famatos;
mille descalzos petit ad cadregam,
perque mantellum faciens carezzas,
intus agraffat, quid habent monetae
prima domandat.
Quis mihi credat quod avara stabit
salda ad unius pagamenti bezzi?
Quis bagassarum similem scoazzam
vidit Arena?
Nulla Veronae meretrix Arenae
peior Ancroia reperitur ista,
heu! tapinelli poverique amantes,
ite dabandam,
ite luntani, moneo! Provator
ipse crustarum putridae carognae
ibit in Franzam. Pochi pendit istum[227]
quisquis avisum.

LIMERNO E MERLINO

Limerno. Merlino mio, questa tua foggia di cantare non si domanda ?cantare?, ma un abbagliare, un muggire, un tonare su per le ripe del Pado.

Merlino. Sonano li pifari su per li argini del Pado.

Limerno. E raggiano, come dice il mantoano, li asini.

Merlino. Tu v?i dunque dire che in questa mia chiusura fra tanti asini io canto?

Limerno. Ed anco peggio ti direi, s'io sapessi.

Merlino. Pi? rozzo cantore di lui non saperei io gi? mai trovare.

Limerno. S?, di canto figurato.

Merlino. Cantano forse altramente che di figurato?

Limerno. Lo suo naturale e nativo.

Merlino. Qual ??

Limerno. Canto quadrato, largo, sonoro e molto di gorga, e pi? de le volte fannoli drento un strano contrappunto.

Merlino. In qual modo?

Limerno. Con la musica di drieto, la quale mantengono con la eguale battitura de' calzi, non mai alterandovi la misura.

Merlino. Dunque lo asino ha una parte da natura pi? de gli altri animali.

Limerno. Come cos??

Merlino. Che l'asino con due voci in una istessa musica pu? cantare.

Limerno. Anzi pu? cantare, sonare e battere insieme.

Merlino. Ann?davi un altro groppo a questa virt?.

Limerno. Quale?

Merlino. Messer lo asino sa chiudere una borsa senza serraglie.

Limerno. Maravigliavimi se da gli asini si potesse guadagnare altro che calzi e corregge e da un Merlino altro che sporche e stomacose parole. Or stattine, tuo mal grado, in questa tua lordura, porco da brotaglie che tu sei, ch? ben di me medemo non possio fare che non mi maraviglia, standomi quivi ad altercar con un devorone di lasagne, nemico di gentilezze e cortesie.

Merlino. Vanne tu, vanissimo ed effeminato cinedo! ch? gli odori de quelli toi unguenti e impiastri fumentati per altra cagione non porti tu, se non per ammortare e spegnere lo fetore de le sozze bagascie fra le quali giorno e notte sempre tu dimori.

LIMERNO

Forsennato e pazzo che son io! essermi raffrontato a favoleggiare con questa destruzione di rafi?li! O meschino me! se la unica mia signora e divinissima dea giammai presentisse lo suo Limerno aver dimorato una bona pezza con un lordissimo porco, or che direbbe? or che farebbe ella? Per lo vero, non mai pi? se non con torto sembiante mi guardarebbe. Voi adunque, chiari fonti, cristallini ruscelli, porporei fiori, amene piagge, riposti antri; voi, gai augelletti, lascivetti conigli, guardativi che alcuno di voi non presumi lo folle mio errore a lei manifestare; a lei dico, la cui presenzia tutti con un sol riso vi abbella, che molte volte d?gnavi de l'angelico suo conspetto, appoggiando le belle membra or su quella fiorita sponda del vivo ruscello or sotto quel speco inederato di allori, mentre l'ardente sole a gli animali rende l'ombre aggradevoli. Deh! pregovi, tenetimi dal mio sole coperto; ch? dubbio non ?, quando ella non pi? si degnasse di comportar le mie lodi, lo mio ver' lei amore, io ne morirei, io da me istesso di quell'olmo al vecchio tronco mi sospenderei. Ma, inanti la miserabil morte mia, annunziovi che crudel vendetta di tutti voi ne pigliarei: non ? fiore, non ? pianta, non ? fonte, che impetuosamente non stracciassi, svellessi e disturbassi. Statene dunque, o de' miei secreti consapevoli, statene taciti e quieti, ma non s? taciti e quieti che le rime mie, le quali ora sono cantando per isfogare, non subito le riportati e recantati a le sue divine orecchie. E perch? voi avete ad essere miei fidelissimi compagni, consequevolmente voglio che d'ogni mio secreto voi siate participevoli.

Io dunque meritar puotei la entrata di questo santissimo giardino allora quando la fama sola d'una non pur bellissima ma prudentissima madonna mi cocque le medolle, lo cui bel nome voi ne' capoversi di questo succedente sonetto potreti conoscere, lo quale gi? lo fido mio Falcone nel scorzo di quel frassino intagliando scrisse:

G loriosa madonna, il cui bel nome
I n capo de' miei versi porr? sempre,
V orrei pur io saper de quali tempre
S ian que' vostr'occhi neri ed auree chiome!
T rema ciascun in lor, mirando come[228]
I vi sia la virtude, che distempre
N ostra natura e 'n ferro i cuori tempre,
A cci? pi? di leggier lor tiri e dome.
D i calamita dunque se non s?te,
I n voi di cotal pietra ? forza almanco
V ivace s?, ch'ogni materia liga.
I o tragger vidi de' vostr'occhi al rete
N atura, Amor e 'l Sol di sua quadriga.
A ltra simile a voi chi vide unquanco?

LIMERNO

Mirabilissima ? per certo di costei la beltade e cortesia, la cui fama sola (or che fa poi la presenzia?) puote di luntane contrade altrui ricondurre a vedere e contemplare la tanta lei vaghezza, la tanta lei graziosissima onestade. Laonde chiunque al primier assalto la vede, subitamente vien constretto a prorumpere in coteste simili parole:

Or non pi? fama, or non pi? 'l sparso grido
l'unica sua bellezza mi dichiara;
ch?, mentre agli occhi nostri non fu avara,[229]
vidila s?, che cos? ardendo i' grido:
— Per l'universo non che 'n questo lido
pi? bella, accorta, pronta, onesta e rara
donna chi vide mai? quivi s'impara
nata belt? d'Amore ad esser nido. —
Per? se questo e quello od altri l'ama,
maraviglia qual ?? ma ben saria,
s'uom ? che lei mirando non s'impetra!
Quel guardo pregno d'alta leggiadria,
quel dolce riso anco nel cuor mi chiama:
— Costei sola del ciel le grazie impetra!

LIMERNO

Ma s? come dal ciel ogni grazia in lei discese, cos? ella in me non dedignossi la sua impartire, contentandosi ch'io di lei faccia resonare voi, sollevati colli e ombrosi poggetti. Or dunque abbassativi, o verdi cime de voi, faggi ed abeti; de voi, lauri e mirti; de voi, querze ed ilici; de voi, viti ed olmi: abbassativi, dico, ad ascoltare questa mia sonora cetra, ma non bastevolmente sonora a l'altezza di quella madonna; ad udire queste mie leggiadre rime, ma non leggiadre al merito di quella dea; a sentire lo mio dirotto pianto, ma non s? dirotto che poscia l'ardentissime faci spegnere de l'affocato core! E se troppo baldanzosamente vi paio di fare mentre io dico di lei d'ogni alto stile degna, incolpate sol Amore, lo quale mi fa sovente dire quello che di tacere assai mi f?ra meglio, e, sognandomi pi? volte, movemi a vaneggiare quanto ora s?te per udire in questa mia debil cetra:

LIMERNO

Questa madonna, che s? dolce, altiera,
un sol di tante stelle in mezzo asside,[230]
dimmi, dond'? che austera in volto ride
scoprendo insieme il verno e primavera?
Vedi se di vert? donna s? intera
fu mai, ch'un cor a un sol riso conquide!
Ma lui tropp'alta speme non affide,
ch? fugge 'l riso ed egli pi? non spera.
Cos? l'alta guerrera e sferza e freno
tien di chi l'ama, ed ama chi la vede,
anzi chi l'ode, anzi chi dir ne sente.
Cos? 'l regno d'amor costei possede,
ove tanti be' spirti, saggiamente
bella, nudrisce al dolce suo veleno.

LIMERNO

Quando l'alma gentile, per cui sola
moro la notte e poi rinasco 'l giorno,
venne dal ciel, per farvi anco ritorno,
in questa vita ch'? d'errori scola,
Amor, che 'nqueto quinci e quindi vola,
si le fe' contra di sue spoglie adorno,
qual fier tiranno ch'al suo carro intorno
ha tanti uomini e d?i, ch'al mondo invola.
Ma, lei di s? maggiore e d'altre frezze
vista luntan alteramente armata,
stette smarrito e dal triunfo scese.
Quella da sue virt?, da sue bellezze,
di che l'orn? natura e 'l ciel, levata
nel carro stesso, in noi l'arco si tese.

LIMERNO

Alluntanato ? 'l sole, e noi qui manchi
del suo bel raggio (fan pi? giorni) lassa.
Io, pur spiando s'altri quindi passa,
spesso alzo gli occhi, di mirar gi? stanchi!
I' dico, s'alcun passa, che rifranchi
noi d'esta valle del suo lume cassa,
narrando il suo ritorno; ma trapassa
con speme l'anno, e morte abbiamo ai fianchi.[231]
Sleguasi 'l tempo n? pur anco appare
chi dica: — Annuncio a voi grande allegrezza:
ecco torna colei che 'l mondo abbella! —
Lasso! non so che pi? mi speri, ch? ella
per su que' monti con Diana, pare,
va solacciando e noi qui gi? non prezza.

LIMERNO

In quelle parti, ove di poggio in valle,
di valle in poggio va scherzando aprile,
madonna or giace e in atto signorile
sovente in l'erbe pon su' fior le spalle.
Zefiro intorno baldamente v?lle
spirando in quella faccia, in quel gentile[232]
sino d'avorio schietto, e chiama vile
di Borea l'Orizia e biasmo d?lle.
Talor ella si parte al loco, dove
gi? di sua Laura s? altamente disse
colui che 'n rime dir ha 'l pi? bel vanto.
Quivi s'inchina um?le al sasso e move
a l'ossa ch'entro stanno un dolce pianto,
ch'Amor sul marmo di sua man poi scrisse.

LIMERNO

Quando 'l tempo, madonna, a noi s? parco,
dramma di s? concedami talora
di vosco ragionar, i' grido allora:
— Dolci fiamme d'amore, dolce l'arco! —
Ma quando invidia le pi? fiate il varco
mi serra ai lumi, ove convien ch'io mora,
vo richiamando mille volte l'ora:
non ? amarezza a l'amoroso incarco!
Qui poi la fede, che di par col sole[233]
certar solea, s'annebbia di sospetto,
fulgura il sdegno e zelosia tempesta.
Per? scusar si deve se, d'un petto
scacciato 'l cor dal vermo che l'infesta,
non gi? d'invidia ma d'amor si dole.

LIMERNO

Invido ciel che tante stelle e tante
in grembo hai sempre e di lor vista godi,
a che per cento vie, per cento modi,[234]
la mia levar contendi a me davante?
N'hai mille e mille di splendor prestante,
e pien d'invidia pur t'affanni e rodi!
Per cui? sol per colei che, acci? mie lodi
sianle pi? belle, starmi degna innante.
Bastar ti deve il tuo, lascia 'l sol mio,
che 'nfiamme i spirti e sopra s? l'innalzi,
come 'l tuo nutre i corpi, l'erbe, i fonti.
Ma 'l mio perch? pi? bello, in tal desio
rancor ti sferza, che ne trai de' calzi,
e 'n su le cime tue v?i ch'egli monti.

LAMENTO DI BELLEZZA

I o tratto a l'ombra d'un gentil boschetto
V idi, giacendo su la piaggia erbosa,
S tarsi donna solinga e penserosa,
T urbata in vista, col mento sul petto.
I n tal vaghezza stava, ch'ivi intorno
N ? fu pianta n? augel che non movesse
A lei mirar e seco ne piangesse.
I' mi le appresso e per veder m'abbasso.
V idila troppo, aim?! ch?, alzando il viso,
S i mi scoperse in lei tal paradiso,
T al, dico, che mi fece d'uom un sasso.
I n me si volse e disse: — Fa' ritorno,
N ? star qui meco ove star sola deggio
A pianger quel che, tarda, in me correggio.
I l dolo amar che pi? sempre si acerba
V ien d'alterigia molta e troppo orgoglio;[235]
S on bella, come vedi, e mi raccoglio
T utta sovente in donna, ma soperba
I nalzo lei cos?, che 'n questo scorno
N e son rimasta, onde l'alta bontade
A ma suppor l'orgoglio ad umiltade.
I n queste bande su dal primo cielo
V ols'egli in scherno mio, ch'un'alma stella
S cendesse umile assai di me pi? bella.
T ant'ella ? pi? gentil quant'ha pi? 'l velo
I n cerco de ligustri e rose adorno.
N acque non per mostrar quant'? bellezza,
A nzi, bench? sia bella, lei disprezza.
I o son (perch? ti miro star sospeso)
V ana belt?, ch'orno di gigli e rose[236]
S ol de le donne i volti, ma ritrose
T utte le faccio e di cuore scorteso
I n lor amanti, cui di giorno in giorno
N udrendo van di speme, e mai non giunge
A lor il patto, ma si fa pi? lunge.
I n questo l'alto padre pi? adirato
V er' me ch'abbello i visi e i cuor inaspro
S culpendo lor di porfido e diaspro,
T olse 'l bel spirto e l'ebbe incatenato
I n quelle belle membra ove soggiorno.
N on fa soperbia mai, non schivo sdegno,
A nzi ? d'alte virtudi un vaso pregno.
I l nome suo dal ciel in terra stette.
V olendolo saper, fa' che misure,
S cendendo d'alto, le maggior figure:
T re volte e quattro il trovarai di sette
I n sette versi. — Allor indi mi torno,
N ? possio pi? di lei dolermi fina
A tanto che sei nosco, alma divina!

CENTRO DI QUESTO CAOS, DETTO ?LABERINTO?

CLIO

Qual gode in carne perch? in carne viva
e, in terra stando, l'animo da terra
non leva al ciel (onde si parte) unquanco,
colui d'umana spezie, in cui si serra
l'alta ragione, ad or ad or si priva,
s? come di candela il lume stanco
vedesi, giunto al verde, venir manco.
Di che, gi? spento, non che morto, il sole
de la giustizia, resta cieco e palpa
la circonfusa nebbia e, come talpa
sotterra errando, uscir n? sa n? vole;
tanto che 'l miser s?le
un nuvol d'ignoranzia farsi tale[237]
che mai del ciel non sa trovar le scale.
Se mi deggia pensar o in terra dentro
o sotto 'l ciel, fra terra e l'aer puro,
esser in pene stabil altro inferno
d'un core ne' peccati antico e duro,
non so, s?ssel pur Dio! Mi par un centro,
l'abito nel mal far, di foco eterno;
quando che n? d'estade n? di verno
forza veruna o sia losinga d'uomo
(questo sperar dal cielo sol si debbe!)
quell'infelice misero potrebbe
indi ritrarlo pi? di bestia indomo.
Per? tal vizio nomo
l'orribil ombre del Ca?s deforme,
cui sempre a morte in grembo un'alma dorme.

TRIPERUNO

S tavami basso nel cespuglio e queto,
V ago d'udire pi? che mai Limerno,
E gi? m'era disposto per adrieto
V olgermi di Merlin for del governo.
E al fin sbucato da la macchia, lieto[238]
R ichiamo lui: — Deh! svellemi d'inferno! —
A lui dico, che gi?, calando il sole,
T olsesi dal cantar dolci parole.
— O vago — a lui diceva — giovenetto,
B en mi terrei de gli altri pi? beato,
S'io fusse tale che tu avessi grato
T enermi (ecco son presto!) a te soggetto. —
R estossi allora quello, e col bel viso
I l novo Ciparisso ovver Narciso:
— C hi chiama? — disse e, vistomi soletto,
T ennesi a lungo il naso fra le dita:
— O h tu! mi sai — dicea — di lorda vita!
C ?cciati presto in quel fragrante rivo,
L avandoti lo puzzo fin ch'io torni. —
A llor si parte ritrosetto e schivo,
V edendo una carogna in luoghi adorni.
S pogliomi nudo in quel fonte lascivo[239]
T emprato d'acque nanfe, che da' forni
R igando viene gi? d'un monticello,
O ve Ciprigna gode Adonio bello.
C elavasi, ne l'alpe giunto, il sole.
E cco, fra molte ninfe vaghe e snelle
L imerno torna solacciando, e quelle
L ui van ferendo a b?tte de viole.
I o, ch'era nudo, ambe le mani aduno
Su quelle parti oscene che ciascuno,
Q uantunque sia piccino, coprir s?le.
— V edrai — parla Limerno — quant'? meglio
E sser di miei che di quel sporco veglio!
R ecativi 'l in braccio, o belle ninfe,
E d a la dea portandolo direte:
— M adonna, dentro le muschiate linfe
O fferto s'? costui nel nostro rete:
T egnamolo qui nosco, se 'l vi pare,
I donio testimon, quando che v'abbia
S empre a lodar ne l'amorosa rabbia. —
— O — dissi allor, — o di vaghezza fiore,
C hi mi porge la stola ond'io mi copra?
— C uor mio — rispose — quivi non s'adopra
V estir alcuno dove regna Amore,[240]
L o qual ignudo va co' soi seguaci:
T aci l? dunque, pazzarello, taci! —
A llor fui ricondutto a grand'onore
T ra gioveni leggiadri e damigelle,
A vanti una pi? bella de le belle.
V enere fu costei, la qual nel seggio
R egina di Matotta il settro tiene.
— B enedetto sia 'l cuore di chi viene
— I ncomenciossi allor cantar intorno —
S otto Amatonta al dolce lei soggiorno! —
L a?ti, cetre, lire ed organetti
I van toccando parte, parte al s?no
T enean le voci giunte, ahi quanto vaghe.
I n quel medesmo tempo, a vinti a trenta,
B asciandosi l'un l'altro insieme stretti[241]
V anno danzando intorno, e questi sono
S inceri giovenetti e donne maghe.
E rano mille fiamme intorno accese
S otto gli aurati travi de la sala:
S tanno da parte alquanti e fan un'ala
E qua e di l? mirando le contese.
P endono da' pareti alte cortine
R icchissime di seta, argento ed oro,
O ro sopr'oro, dico, spesso e rizzo
C on mille groppi, ziffere e beschizzo;
V asi di pietre di gran pregio e fine
L ungo a le mense fanno un bel tesoro.
A cque rosate, nanfe ed altri odori
T endon spruzzare i pargoletti Amori.
N ascosi molti a le cortine drieto
V anno non so che far, ed escon dopo
N el volto fatti in guisa di piropo
C he furon d'alabastro per adrieto.

AMORE DI TRIPERUNO E GALANTA

I o dunque nudo fra cotanti nudi
N on pi? arrossisco, non pi? mi vergogno,
F atto di lor famiglia, ove m'agogno
L assivamente in quei salaci studi.
A lato la regina sta Limerno,
T enendole la bocca ne l'orecchia,
O nd'io ne fui chiamato possia al trono.
I n terra umilemente i' m'abbandono,
N anti ch'al primo grado vi montassi,
C he d'altro che de marmi, petre e sassi
E rano, ma sol oro e gemme sono.
D ritto poi sullevato gi? m'avento
I n fretta nanti a l'alta imperatrice,
T remando per vilt? qual foglia al vento.
I ncomenci? l'altiera: — O Triperuno,
V assallo mio, de gli altri non men caro,
S appi che 'l tuo Limerno saggio e raro
T'ha impetrato da me quel che nessuno
I n questa corte mai gioir non puote.
N ove anni e sei non passa una fanciulla:
A te la dono e facciovi la dote.
C ostei, pronta, vivace, accorta e bella,
V oglio ch'ami, desidri prima ed ardi
C he piagna e canti, assorto ne' soi guardi,
V ersi pregni d'Amor e sue quadrella.
L imerno fia tuo mastro e fida scorta:
L imerno sa quel si ricerca amando.
O h dolce sorte a chi entra cotal porta!
A ffrettati, Lagnilla, e qui Galanta[242]
T ien modo di condur furtivamente,
Q uando ch'ella non esce mai di ciambra. —
V enne la ninfa chiesta finalmente,
E tutto di rossore il viso ammanta.
— G alanta mia — dicea l'imperatrice —
A lza la fronte e mira il novo amante! —
L ev? la vista, dunque, ove si elice
E cco una fiamma ed ove un cieco infante,
R accolto l'arco e la saetta, altrice
A hi! di quanti martiri, lo diamante
T rito mi ruppe al petto e quindi svelse
I l cor gi? fatto de' sospiri al vento
S tridente face e d'acque un fiume lento.
O h quante da quell'ora incomenciaro
P ene, tormenti, affanni, sdegni ed ire,
T ravagli, doglie, angoscie e zelosie!
A rsi, alsi di ghiaccio e fiamme dire,
T al che 'l dolce al fin divenne amaro.
I mper? ch'una Laura sozza e lorda,
N efanda, incantatrice, invidiosa
E ra del nostro amor la lima sorda.
S orda lima costei fu senza posa,
S enza quiete mai, del dolce nodo,
E bra sol di spuntar col chiodo il chiodo.[243]
T ant'ella fece, ch'io nel fin m'accorsi
O mbrosa esser cotesta ria cavalla.
G alanta ne ridea, donde pi? acerba,
I niqua pi?, ne venne ai duri morsi,
S ? ch'io le scrissi questo in una querza:

TRIPERUNO

Sl?guati in polve, fulminando Giove,
o tu, che, sozza tanto, lorda e vieta,
lo nome hai di colei che 'l gran pianeta
mosse da prima ad altre imprese e n?ve!
Fogo dal ciel giammai non casca dove
natura strinse l'onorata meta
del sempre verde lauro, che non vieta
ulla stagion far le sue antiche prove.
Ma Dio tal legge in te servar non deve,
ch? hai sol il nome e non di Laura i gesti:
sei di carbone e credi esser di neve.
Pur meglio, acci? 'l bel lauro non s'incesti,
quel ?v?, che 'l terzo seggio vi riceve,[244]
tolgasi 'l quarto, acci? che ?larva? resti.[245]

DIALOGO SECONDO

LIMERNO, TRIPERUNO E F?LICA

 

LIMERNO

Io canto sotto l'ombra del bel lauro
che pose il gran Petrarca in tanta altura,
lo qual, merc? d'Amore, mentre dura
il ciel, terr? la chiave del tesauro.
Nel mese quando 'l sole si alza in Tauro
ed empie il monte e 'l piano de verdura,
nacque una bella e saggia creatura,
che riconduce a noi l'et? de l'auro.
Cantar vorrei sue lodi, o fresche linfe:
linfe fresche di Cirra, or dati bere
a chi dicer d'un Febo novo brama!
Girolamo sol dico, in cui non spere
pi? di me affaticar altrui le ninfe,
ch? pi? di me, so bene, altrui non l'ama.

LIMERNO

H or che per prova, Amor, t'intesi a pieno
I n fiamme ove gi? n'alsi e 'n ghiaccio n'arsi,
E cco mi tieni d'altro dol a freno.
R egnar di se medemo e suo gi? farsi
O h chi potr? giammai sotto 'l tuo giovo?
N iun, o se pur gli ?, non sa trovarsi.
I o quella via, quest'altra cerco e provo,
M a che mi val? tu mi travolvi e giri
A l'aspro tuo voler, n? schermo i' trovo.
D iluntanarmi volsi e placar Tiri
(I ri tant'empie!) di te, fier tiranno,
E nulla feci, ch? pi? in me t'adiri:
D i maggior pene, onde maggior ? 'l danno,
A mor, mi sproni e fai il tuo costume.
H aggia chi pi? s'allunga pi? d'affanno.
I o piansi gi? molt'anni sotto 'l nume
E rrando d'una ninfa, onde, per pace
R ecarmi, mi privai del suo bel lume.
O h qual mi crebbe ardente e cruda face
N el petto allor che gli occhi, anzi due stelle,
I o non pi? vidi, e 'l raggio lor mi sface!
M i sface il raggio lor; e pur senz'elle
I' non vivrei giammai, perch? non pinse
M ai Zeusi un s? bel volto o 'ntagli? Apelle.
E cco, donna, il mart?r, ch'al cor s'avvinse:
R itrassimi da voi, ma non lo volle
C olui che 'n me sovente ragion vinse.
A dunque per gir lunge non si tolle
T anta mia passion, ch'ebbi gi? inante;
E questo avvien ch? 'l mal ? in le medolle.
L untan il corpo mi port?r le piante,
L untan il cor non gi?, perch? vel diede
I n su l'aurata punta il vostro amante.
D iedel a voi, ch'avesse ad esser sede
I mmobile perpetua d'esso, e voi
V i 'l toglieste per cambio, data fede
A l'un e l'altro sempre esser fra doi.

TRIPERUNO E LIMERNO

Triperuno. Nel vero, caro mio maestro, non sono giammai tanto fastidito ed annoiato che, udendo voi e l'aurea vostra lira insieme cantare, non subitamente mi racconsoli.

Limerno. Ed io credevami tanto da la turba e volgo entro questa selva luntanato essere che niuno, se non le querze ed[246] olmi, avessero ad ascoltare.

Triperuno. Dogliomi essere uomo di turba e vulgare; ma, la dolcezza di vostre muse ovunque mi volgo sentendo, non men di ferro a la tenace calamita son io da quella tirato. Nulla di manco, se da me voi s?te del vostro singular concento impedito, parendovi, ora mi parto e solo vi lascio.

Limerno. Solo non ? chi ama, anzi de' pensieri ne la moltitudine sommerso! Io sopra ogni altro veggioti volentieri, Triperuno mio. Vero ? che lo essermi da la consueta nostra compagnia distratto potevati accertare che da me dovevasi far cosa la quale fusse da essere secreta. Io, come tu sentisti, cantai test? una canzone, li cui capoversi non vorrei gi? ch'uomo del mondo avesse notato, che 'l gentilissimo spirito, di cui sono (gi? molto tempo fa) umile servitore, non men ha cura de l'onorevole suo stato che del comun obietto di questo nostro amore. Dimmi dunque: hai tu lo nome suo compreso?

Triperuno. Non, per il dolce groppo di mia Galanta!

Limerno. Non senza molta cagione ricondutto mi sono a l'ombra di questo lauro, lo quale, tanto agiatamente difeso da queste duo collaterali querze cos? da venti e procelle come da' raggi de l'ardentissimo sole, al sopranominato giovene con le sue sempre chiome verde fa di s? gratissimo soggiorno. Ma dimmi, se 'l sai, questi doi versi latini, li quali nel tenero scorzo di esso lauro tu vedi quivi intagliati essere, chi fu lo sottil interpretatore di essi?

Triperuno. Isidoro.

Limerno. Isidoro Chiarino?

Triperuno. Esso fu.

Limerno. Oh divino spirito d'un fanciullo! ch? veramente nel sino di Talia succi? le dotte mamme, n? maggior fama ed onore si arreca lo autore che 'l commentatore loro.

Triperuno. Sono assai male insculpiti.

Limerno. Scriveli, prego, un'altra volta pi? ad alto, e perch? lo argomento loro in quello... sai? intagliali col ferro acuto.

Triperuno. Intendo.

DE SOMNO

Hic Iaceo, Et Repens Oculis Natat Intima Mors, At
Divorum Imperio Est Dulcior Ambrosia.

LIMERNO

Tu quelli hai gi? scritto? Oh quanto bene stanno! Fammi appresso un piacere, perch? lo ingegno del giovenetto pi? ognora posciasi addestrare: scrivi ancora un altro enigma non men di questo laborioso, lo quale dopoi la morte di Giulio pontifice, sotto Leone, fu nel candidissimo tumulo di Catarina, dal suo consorte crudelmente uccisa, sculpito, dove ella cos? parlando dice:

TUMULUS CATHARIN?

CONfodit SORS ME VSum ROBoris ERige TUScha
Sphera, necis causa est non nisi nulla meae.

TRIPERUNO

Cotesta Catarina, se bene mi sovviene, fu gentilissima ed amorosa donna; a la quale fu gi? mandato quel sonetto con un paio de guanti insieme, li capoversi del quale dicono lo nome suo:

D'una tenera, bianca, leggiadretta,
I ntegra onesta man elesse 'l cielo
V oi, puri guanti, ad esser dolce velo:
A ndati a lei, ch'omai lieta v'aspetta!
C ortesamente la terrete stretta,
A nzi pur calda contra l'empio gelo,
T utto, per?, ch'io per soverchio zelo
H abbia di voi non a prender vendetta.
A mo l'alta virt? che 'n s? diversa
R egna pi? ch'in Aracne od ella istessa
I nventrice de l'ago e bel trapunto.[247]
N ? man pi? dotta n? pi? dolce e tersa
A vvinse guanto mai, n? chi promessa
Onestamente pi? servasse appunto.

LIMERNO E TRIPERUNO

Limerno. Dirotti la veritade, o Triperuno: questi capoversi, non usati mai da valentuomo veruno, poco a me sono aggradevoli e a gli altri sodisfacevoli, imperocch? altro non vi si trova se non durezza di senso ed un impazzire di cervello. Ma ragionamo d'un'altra cosa di assai pi? importanza di questa. Confessati meco, e non vi aver un minimo risguardo. Chi fu lo compositore di que' versi, li quali oggi furono da tutta la corte in una querza letti e biasmati?

Triperuno. Perch?, caro maestro? sapeno forse come gli altri miei?

Limerno. Di che?

Triperuno. Di mastro di scola.

Limerno. Perch? cos? d?': ?mastro di scola??

Triperuno. Li quali, per la variet? de' stili da loro adoperati pedantescamente, come voglio dire, scrivono e fanno un Caos non men intricato del mio.

Limerno. Io bene di cotesto tuo ravviluppato Caos mi sono maravigliato, lo quale potrebbe a gli uomini dotti forse piacere; ma non lo credo, e spezialmente per cagione di quelle tue postille latine suso per le margini del libro sparse.

Triperuno. Io per confonderlo pi?, come la materia istessa richiede, volsivi ancora la prosa latina in aiuto de lo argomento porre.

Limerno. Lasciamo in disparte lo stile tuo, o sia pedantesco o triviale; ma peggio ?, che sono quelli versi mordaci de la fama di tale che leggermente potrebbeti offendere. Tu non conosci ancora, buono uomo, la rabbia d'una adirata ed orgogliosa donna, la quale tengasi da qualcuno oltraggiata e sprezzata.

Triperuno. Qual bene o male posso io sperare o temere da questa larva o volsi dire Laura?

Limerno. Voglia pur Iddio che tu non ne faccia veruna isperienza!

Triperuno. In qual modo un sacco di carcami, una cloaca di fango, una stomacosa meretrice del dio Sterquilinio ? per vendicarse di me?

Limerno. Con mille modi, non che uno.

Triperuno. Come?

Limerno. ? peritissima vindicatrice.

Triperuno. Qual s? terribile ruffiano d'una trita bagascia prenderia giammai la difesa?

Limerno. Non vi mancano gli affamati al mondo. Ma sei male, Triperuno, su la via di conoscere, in cui posciati ella danneggiare.

Triperuno. Avvelenarmi?

Limerno. No.

Triperuno. Farmi con ferro uccidere?

Limerno. N? questo ancora.

Triperuno. T?rmi la fama?

Limerno. Non ha credito.

Triperuno. In qual foggia dunque?

Limerno. Trasformarti in uno asino.

Triperuno. Che dite voi?

Limerno. Un asino, s?; tu ti maravigli dunque?

Triperuno. Ho ben io pi? volte inteso queste donne aver possanza, con non so che unguenti, voltar gli uomini in becchi.

Limerno. Anzi, assai pi? becchi fanno che castroni. Quanti oggid? conosco io, li quali gi? per violenzia de suffumigi da queste maghe adoperati furono in bovi, buffali ed elefanti conversi!

Triperuno. Questo saria ben lo diavolo! Se questa Laura mi trasfigurasse in un becco, vorrebbemi pi? oltra bene Galanta?

Limerno. Pi? che mai.

Triperuno. Come? io sarei pur un becco?

Limerno. Ed ella una capra.

Triperuno. Cambiarebbe ancora lei?

Limerno. Che 'n credi tu?

Triperuno. Io gi? comincio temere.

Limerno. Tien stretto.

Triperuno. Forse che non sa ella ancora chi sia lo autore?

Limerno. Tu sei pazzo persuadendoti una malefica non sapere quello che a tutta la corte gi? divolgato leggesi.

Triperuno. Lasso! ch'io me ne doglio.

Limerno. Tu vi dovevi pi? per tempo considerare e prenderne[248] da me consiglio.

Triperuno. Non l'ho fatto, in mia malora!

Limerno. Se tu sapessi la importanza di questo scrivere e lo mandar cos? facilmente a luce le cose sue, vi averessi meglio pensato; ch? pagarei un tesoro di Tiberio, non mai ne gli occhi de tanti valentuomini una mia operetta scoperta si fusse.

Triperuno. Come far? io dunque, misero me? ch'io debbia un asino devenire?

Limerno. Or va' pi? animosamente! tu gi? sei v?lto in fuga, e niuno ti caccia: non ti partirai da me se non bene consigliato e consolato. Ma pregoti, Triperuno mio, non t'incresca sotto l'ombra di quel platano corcarti, fin che io faccia la prova di alquanti versi con la cetra, da essere in questa sera da me recitati avanti la regina; e veramente assai aver? che fare, se li quattro sonetti da lei richiesti aggradirla potranno.

Triperuno. Questo tal comporre a l'altrui petizione difficilmente pu? sodisfare a coloro li quali non vi hanno parte alcuna. Ma ditemi, prego, avanti che da voi mi parta, lo soggetto de' quattro sonetti.

Limerno. Dirottilo ispeditamente. Gi? la signora non ? cagione propria di questi: ma heri Giuberto e Focilla, Falcone e Mirtella mi condussero in una camera secretamente, ove, trovati ch'ebbeno le carte lusorie de trionfi, quelli a sorte fra loro si divisero; e v?lto a me, ciascuno di loro la sorte propria de li toccati trionfi mi espose, pregandomi che sopra quelli un sonetto gli componessi.

Triperuno. Assai pi? duro soggetto potrebbevi sotto la sorte che sotto lo beneplacito del poeta accascare.

Limerno. E questa tua ragione qualche bona iscusazione appresso gli uomini intelligenti recarammi, se non cos? facili, come la natura del verso richiede, saranno. Ora vegnamo dunque primeramente a la ventura ovvero sorte di Giuberto; dopoi la quale, n? pi? n? meno, voglioti lo sonetto di quella recitare, ove potrai diligentemente considerare tutti li detti trionfi, a ciascaduno sonetto singularmente sortiti, essere quattro fiate nominati s? come con lo aiuto de le maggiori figure si comprende:

 

GIUSTIZIA, ANGIOLO, DIAVOLO, FOCO, AMORE

Quando 'l Foco d'Amor, che m'arde ognora,
penso e ripenso, fra me stesso i' dico:
— Angiol di Dio non ?, ma lo nemico
che la Giustizia spinse del ciel fora.
Ed ? pur chi qual Angiolo l'adora,
chiamando le sue fiamme ?dolce intrico?.
Ma nego ci?, ch? di Giustizia amico
non mai fu chi in Demonio s'innamora.
Amor di donna ? ardor d'un spirto nero,[249]
lo cui viso se 'n gli occhi un Angiol pare,
non t'ingannar, ch'? fraude e non Giustizia.
Giustizia esser non puote, ove malizia
ripose de sue faci il crudo arciero,
per cui Sat?n Angiol di luce appare.

TRIPERUNO E LIMERNO

Triperuno. Molto arguto parmi questo primo, n? anco di soverchio difficile; ma che egli aggradire debbia la regina con l'altre donne, non credo.

Limerno. Dimmi la causa.

Triperuno. Lo sobbietto non lauda il feminile sesso.

Limerno. E Giuberto non lo volse d'altra sentenzia di quella c'hai udito. Or vengone al secondo, nel quale la sorte di Focilla contienesi.

 

MONDO, STELLA, ROTA, FORTEZZA TEMPERANZIA, BAGATTELLA

Questa fortuna al mondo ? 'n Bagattella,
ch'or quinci altrui solleva, or quindi abbassa.
Non ? Tempranzia in lei, per? fracassa
la forza di chi nacque in prava Stella.
Sol una temperata forte e bella[250]
donna, che di splendor le Stelle passa,
la instabil Rota tien umile e bassa;
e 'n gioco lei di galle al mondo appella.
Costei tempratamente sua Fortezza
usato ha sempre, tal che 'l Mondo e 'nsieme
la sorte de le Stelle a scherzo mena.
Ben pu? fortuna con sua leggerezza
ir ne le Stelle di pi? forze estreme:
chi sa temprarsi lei col Mondo affrena.

TRIPERUNO E LIMERNO

Triperuno. Questo altro sonetto appresso di me pi? del primo lodevole mi pare: cosa che gi? per lo contrario giudicai da prima dover essere, attendendovi quella sorte del ?Bagattella? non potere se non li soli consorti disconciare. Ma, s? come a me pare, de gli altri assai meglio vi quadra.

Limerno. Ogni cosa che ad essere patisce durezza, lo pi? de le volte eccellente diviene: laonde Focilla, donna, come si vede, prudentissima, contristandosi prima di cotal leggerezza a lei per ventura sortita, or che reuscita la vede in maggior suo onore, giubila e saltella. Ma vengo a l'oscurissimo soggetto de li disordinati trionfi di Falcone, al quale, sopra tutti gli altri gentile, doveva la meglior fortuna accadere.

 

LUNA, APPICCATO, PAPA, IMPERATORE, PAPESSA

Europa mia, quando fia mai che l'una
parte di te, c'ha il turco traditore,
rifr?ncati lo Papa o Imperatore,
mentre han le chiavi in man, per lor fortuna?
Aim?! la traditrice ed importuna
ripose in man . . . . . . . . . . onore[251]
di . . . . . e tien . . . . . furore
sol contra il giglio e non contra la Luna.
Ch? se 'l . . . . non fusse una . . . .
che per un pi? . . . . . . . . sospeso tiene,
la Luna in griffo a l'aquila vedrei;
ma questi . . . . . . . . . . miei
fan s? che mia Papessa far si viene
la Luna, e vo' appiccarmi da me stessa[252].

TRIPERUNO E LIMERNO

Triperuno. Voi giocate, maestro mio, sovente al mutolo in questo sonetto.

Limerno. Fu sempre lodevole.

Triperuno. Che cosa?

Limerno. La verit?...

Triperuno. Confessare?

Limerno. Anzi tacere.

Triperuno. La cagione?

Limerno. Per scampar l'odio.

Triperuno. Di poco momento ? questo odio, se non vi susseguisse la persecuzione.

Limerno. Per? lo freno fu trovato per la bocca.

Triperuno. Meglio ? martire che confessore.

Limerno. Cotesto ? pi? che vero. Ma veggiamo finalmente lo sonetto di Mirtella, la cui sorte fu questa:

 

SOLE, MORTE, TEMPO, CARRO, IMPERATRICE, MATTO

Simil pazzia non trovo sotto 'l Sole,
di chi a gioir del Tempo tempo aspetta:
Morte, su 'l Carro Imperatrice, affretta
mandar in polve nostra umana prole.
Al Sole in breve tempo le viole
col strame il villanel sul Carro assetta:
Matto chi teme la mortal saetta,[253]
ch'anco l'Imperatrici uccider vole.
Per? de' sciocchi avrai sul Carro imperio
s'indugi, donna, pi? mentre sei bella,
ch? 'l Sol d'ogni bellezza invecchia e more.
Godi, pazza! che attendi? godi 'l fiore!
fugge del Sol il Carro, e il cimiterio
la nera Imperatrice empir s'abbella.

TRIPERUNO, LIMERNO E F?LICA

Triperuno. Or questo de gli altri pi? sodisfarmi pare, maestro mio.

Limerno. Avrei con men durezza composto loro, se la divisione di essi trionfi in mia bal?a stata fusse. Onde pregoti non t'incresca udirne un altro, molto (per quello che me ne paia) de gli gi? recitati men rozzo e triviale, quando che la libertade di esso tutta in me solo stata sia, dove li ventiuno trionfi, aggiungendovi appresso la Fama ed il Matto, si contengono:

Amor, sotto 'l cui impero molte imprese
van senza Tempo sciolte da Fortuna,
vide Morte sul Carro orrenda e bruna
volger fra quanta gente al Mondo prese.
— Per qual Giustizia — disse — a te si rese
n? Papa mai n?, s'?, Papessa alcuna? —
Rispose: — Chi col Sol fece la Luna
tolse contra mie Forze lor difese.
— Sciocco qual sei! ? quel Foco — disse Amore —
ch'or Angiol or Demonio appare, come
temprar sannosi altrui sotto mia Stella.[254]
Tu Imperatrice ai corpi sei, ma un cuore
bench? sospendi, non uccidi, e un nome
sol d'alta Fama tienti un Bagattella.

Ma che miracolo ? questo ch'ora veggio, Triperuno mio?

Triperuno. Dove?

Limerno. Quel matto solenne di F?lica veggio a noi venire.

Triperuno. ? dunque passato di Perissa in Matotta?[255]

Limerno. Costui veramente, se non fallo, ha gittato in disparte le sportelle col breviario e vole de' nostri farse. O vecchio forsennato, che cos? inutilmente da gli soi primi verdi anni s'ha ricondutto fin a la impossibilitade di poter pi? gioire di questi nostri piaceri! Oh come ha lunga barba il santo eremita! Oh come va savio, noverandosi li passi, questo santuzzo del tempo vecchio!

Triperuno. Tac?ti, per Dio, ch?, omai troppo vicino, potrebbevi sentire.

F?lica. Dio vi salvi, amici miei.

Limerno. Et vos, domine pater.

F?lica. Di che cosa ragionate voi?

Limerno. Di amore.

F?lica. Amore spirituale?

Limerno. No, animale.

F?lica. Sta molto bene.

Limerno. Ma, dite voi, qual importante causa vi mena in questa regione amorosa? qual convenienzia ? di questi nostri muschi ed ambracani con quelli vostri rigidissimi costumi?

F?lica. Causa non pur importante, ma importantissima, mi driccia a te, Limerno mio, acci? che con gli altri toi simili omai da questo mortal sonno vi svegli?ti. Queste tre nostre regioni, Carossa, Matotta e Perissa, veramente sono uno laberinto di cento migliara di errori; n? mai se non test? la ignoranzia, la sciocchezza, la soperstizia di me e mei compagni ho conosciuto, li quali avevamo la felicitade nostra riposto ne l'andar scalci, radersi il capo, portar cilizio ed altre cose assai, le quali, quantunque siano bone, fanno per? lasciar le megliori. Ma non v'incresca udirmi, ch? forse oggi la comune nostra salute aver? principio.

Limerno. Vi ascoltaremo voluntieri: or incomenciate.


LA ASINARIA

DIALOGO TERZO

 

F?LICA, LIMERNO E TRIPERUNO

F?lica. In poco frutto reuscirebbe lo mio ragionamento assai lungo, se primamente non mi movessi al sommo principio de tutte le cose, e pregarlo ch'egli si degni aprirvi gli occhi ed il core, gi? tanto tempo fa cieco e da la veritade di lungo intervallo disgiunto.

Omnipotens pater, aethereo qui lumine circum
mortale hoc nostrum saepis ubique genus,
ut queat artificis tenebrarum evadere fraudes,
utve queat recti tramitis ire viam,
excipias animam hanc, usu quae perdita longo,
iam petit infernas non reditura sedes!

Limerno. Ah! ah! ah! ridi meco, Triperuno mio! vedi questo insensato come ha pregato non so che suo dio per me, come se altro iddio fusse pi? di Cupidine da esser temuto e pregato.

Triperuno. Ascoltiamolo, caro maestro, ch? egli gi? si leva da la orazione.

F?lica. Ritrovandomi heri, per avventura, non molto luntano da la spelonca mia col mio fidelissimo Liberato, da me molto amato e a?to caro, avvenne che, vedendomi egli tutto nel viso maninconioso, di me tenero e pietoso divenuto, s? come colui che di benigno ingegno era e non poco mi amava, umilemente mi domand? la cagione per che s? tristo io fussi e penseroso e quasi tutto in uno freddo ed insensibile sasso tramutato. Ed appresso tanto mi preg? che insieme con esso lui in sin ad un boschetto, lo quale assai vicino era a la grotta mia, ne andai. Camminando dunque noi con lenti e tardi passi verso il delettevole boschetto: — Deh! — dissi allora, — caro mio Liberato, gi? fussi io morto in culla! ch?, poi ch'io mi sono dato a gli vani studi de la naturale filosofia, a cercare di conoscere le proprietadi de le cose a noi occulte e impenetrabili, non ebbi mai l'animo mio tranquillo n? quieto, ed ora pi? che mai l'ho travagliato e de vari e diversi pensieri tutto ripieno e distratto. Io non veggio omai quello che per me si debba adoperare o credere; perch?, se veraci sono gli evangelici dottori e se parimente li sottili e tenebricosi maestri in teologia e nostri sofisti dicono il vero; se li pontificali decreti ovvero umane leggi, che vogliamo dire, ligano o ligar possiano le nostre coscienze; ed oltra di questo se alcuni altri dottori moderni non sono n? capitali nemici de la vera fede n? bugiardi, ma hanno la verit? ritrovata; a cui creder? io? a cui prestar? fede? Nel vero, io non comprendo come tutti non possino errare s? come coloro che omini sono, n? mi pu? entrare nel capo come a tutti egualmente noi debbiamo o possiamo credere. O miseri cristiani! ov'? fuggita la ferma fede e piena di credenza de li venerabili patriarchi, de gli santi profeti, de' poveri apostoli e de tutti i nostri maggiori? Oim?! donde sono tante e s? diverse openioni? donde s? contrarie s?tte e s? ripugnanti? onde tante vane quistioni? onde tante liti ed empie contenzioni? Se una ? la fede e uno battesmo, poscia che ? uno sol Dio e un signore e fattore de tutte le cose, cos? invisibili ed incorporee ed eterne come ancora de le visibili e corporee e mortali, perch? dunque siete voi tra voi tutti divisi? — Non cos? tosto quelle poche parole ebbi detto, una asinina voce, subitamente rumpendo lo aere, con soi pietosi accenti percosse le nostre orecchie.

Limerno. Ditemi la verit?, F?lica.

F?lica. Io son presto.

Limerno. Donde veniti?

F?lica. Da Perissa. Per qual cagione questo mi domandi?

Limerno. Le parole vostre mi sapiono di Carossa: baldamente che Merlino vi ha retenuto ne la catena sua! non gli ? mancato una dramma, che questo asino da la bocca vostra non abbia parlato!

F?lica. Anzi cos? chiaramente con queste mie orecchie io l'ho sentito ragionare, come ora facemo noi.

Limerno. Con diavolo! ch'un asino ha parlato?

Triperuno. Lasciamolo finire, caro maestro.

Limerno. S?guiti a sua posta.

F?lica. — Confortativi — disse quella voce — o boni uomini, e non abbiate paura, ma siate di forte animo! — Per la qual cosa noi tutti sbigottiti, dattorno v?lti, guardavamo se alcuno vi fusse che noi, senza esserne avveduti, ascosamente ascoltasse. Ma nessuno vedendovi se non questo asino, che vecchissimo essere pareva e molto attempato, il quale quivi nel boschetto pasceva, essendo noi gi? al fine pervenuti del nostro cammino, vie pi? che innanzi, la pietosa e lamentevole voce udendo, temuto non avevamo, incomenciammo a stordire e forte temere, e varie cose fra noi stessi a rivolgere.

Laonde questo asino, alzata un poco la testa, quasi sorridendo, un'altra volta racconfortandoci disse: — Cacci?ti da voi ogni gelata paura. Io sono a voi da Dio mandato a mostrarvi la cristiana e vera fede e sciolvervi ogni dubbio ed ogni vostra questione a finire e terminare.

Le quali parole udendo noi, quale e quanto fusse lo stordimento, voi da voi stessi puotete pensare: dico che tutti li capelli se ne arricciarono e, quasi perdute tutte le sentimenta, pi? morti che vivi in terra cademmo. Ma ritornate poscia in noi le perdute forze ed il natural vigore e rassicuratene alquanto, lo comenciamo a scongiurare ed a comandare da parte de Dio che, se ci? inganno fusse del diavolo, tosto indi si dipartisse. Ma egli, che veramente da Dio era, tutto immobil si stette; e per levarci ogni sospetto ed ogni dubbiosa mescredenza che ne l'animo nostro nasciuta fusse o nascerci potesse, con voce assai umana ed umile rispose cos?: — Quanto sia, figliuoli miei, da fuggire e biasimare l'essere sciocco e imprudente, e troppo agevolmente e di leggiero dare orecchie ed aver fede a visioni e parole, quantunque e buone e veracissime quelle ne paiano, io non potrei giammai con parole spiegare n? con la penna scrivere. Ma colui, il quale vorr? pi? sottilmente con l'acume de lo intelletto considerare la cagione de tutte l'umane miserie, non potr? certamente ritrovar alcuna altra che la sciocchezza e la s?bita ed empia credenza a?ta da li nostri primi parenti al velenato e mendacissimo serpente. Onde Cristo, che troppo bene conosceva il malvagio ingegno di questo fallace nemico: — State — disse a gli apostoli e a' suoi cari discepoli — saggi ed avveduti a guisa de li serpenti e de gli aspidi sordi, i quali, come ? scritto nel salmo, si riturano gli orecchi acci? che non sentano la voce n? li versi de l'incantatore. — Perch? io reputo gran senno a sapersi guardare e defendere da gli agguati e da gl'inganni de l'infernale Lucifero primo inventore e padre de la bugia. E voi bene in ci? e saggiamente avete adoperato; ch?, ancora che per avventura alcuna volta il credere scioccamente non rechi il creditore n? lo metta in grande miseria, anzi il tragga da grave noia e da grandissimi pericoli e ripongalo in sicurissimo e felice stato, non ? perci? da commendare molto, dove la instabile fortuna e non l'umano ingegno s'interpone. N? per il contrario ? da biasimare e riprendere colui lo quale, essendogli la fortuna nemica e niente favorevole, si ritrova al fine in povero e assai vile stato e in grandissima miseria, dove bene adoperare egli si sia ingegnato, ponendo ogni sollicitudine ed ogni arte ed ogni forza per potere a buono e laudevole fine condurre i fatti suoi. Ma lasciamo ora stare cos? fatti ragionamenti, e s? per non esser troppo lunghi (ed in quella cosa massimamente ne la quale non ? di bisogno) e s? ancora per potere pi? pienamente ragionare de la cristiana fede, la quale assai larga ed ampia materia di s? ne dar? da parlare.

Limerno. Non mi maraviglio punto se, nel parlare, molto s?te lungo e fastidioso; e pi? di noi, che stiamovi quivi ad ascoltare.

F?lica. Perch? son io cos? lungo e fastidioso?

Limerno. La pienezza di quel vostro biancuzzo volto dicemi voi essere di flemma tutto ripieno.

Triperuno. Un flemmatico ? dunque molto verboso?

Limerno. S?, secondo li fisici nostri. N? solamente la flemma causa moltiloquio e nugacitade, ma tutte l'altre operazioni del corpo rende pi? tarde e pegre; al contrario d'uno che collerico sia, lo quale il pi? de le volte le cose comencia due fiate, non riescendogli bene la prima per l'ingordigia solamente del soperchio desiderio.

Triperuno. Tu v?i forse inferire che egli flemmatico ti neca!

Limerno. Che v?l dir ?neca??

Triperuno. ?Ammaccia?, ?uccide?, ?ancide?.

Limerno. Anzi gli sta cotesto vocabolo molto bene, ch? fermamente non trovo ?morte? a quella d'una lingua, quale ? quella d'un Alberto da Carpo di testa rasa.

Triperuno. Io molto bene lo riconosco, lo quale, gi? d'anni carco ed attempato, ha fatto la pi? bella pazzia che fusse mai, che dirotti poi; ma fra l'altre sue vert? ? mordacissimo, loquacissimo e vanissimo: ed appresso lui un Sebastiano non men[256] di lui chiacchiarone e puzzolente di bocca, lo quale mentendo fassi fiorentino.

Limerno. Megliore vendetta non si pu? fare che scrivere (se non ti lasciano stare) li soi costumi.

Triperuno. Anzi odi questo mio tetrastico de la nugacitade di quello da non nominare Alberto, fondato sopra questo verbo latino:

 

NECAT

N on necat ulla magis nos N ex, non unda necat, no N
E t necat igne modo, necat E t modo Iuppiter imbr E,
C um necor a lingua, mos C ui nescire loqui, ne C
A t tamen obthurat tot hy A ntia dentibus or A,
T e necat ore, necat ges T u, nece totus abunda T.

LIMERNO, F?LICA E TRIPERUNO

Limerno. Molto ? bello e artificioso, ma, per quello che me ne paia, oscuro e faticoso.

F?lica. Deh, per lo amore de la passione di Cristo, non siate cos? ritrosi a la salute vostra! Lasciatimi finire, non mi sconciate dal bono e santo proposito, ch'io sono certo delettarannovi li miei ragionamenti.

Limerno. Posciovi molto bene ascoltare, ma non voluntieri, se non mi parlate di qualche bella donna.

Triperuno. Or oltra, ch? vi porgemo le orecchie.

Limerno. Assai men lunghe di quelle del suo asino.

F?LICA

Stupefatto dunque Liberato, ch'un asino cos? qual uomo saputamente parlasse, gridando disse: — Oh che cosa ? questa ch'io veggio e sento? dove son io? or dormo io ancora o son pur desto? Io, per quello me ne paia, non so se vedo quello che vedo, n? so altres? se odo quel che odo. Sarei io mai un altro divenuto? Dimmi dunque, messer l'asino, come pu? egli essere che, essendo tu una bestia la quale di grossezza ogn'altra, quantunque grossissima ella si sia, avanzi, ora parli e ragioni non altrimenti che se uno saggio uomo fussi e molto avveduto? Questo ? contra a la tua natura. N? di ci? ? meno da maravigliare che se il fuogo freddo divenisse e pi? non rescaldasse. E qual mai fia colui s? stolto e d'intelletto s? scemo e senza senno che, raccontandogli noi quello che ora con gli occhi de la fronte ne pare di vedere, non ci reputi ubbriachi ovver dormiglioni? Perch? voluntieri io saperei se vano sogno ? quello che io veggio o no. — Queste ed altre simiglianti parole udendo, messer l'asino schioppava tutto de la risa; ma aspettando poi il fine di quelle, poi ch'egli si tacque, cos? incomenci?:

— Estimava io assai sofficiente e bastevole testimonianza avervi potuto fare i vostri scongiuri allora quando per essi non mi mossi io punto, ma tutto immobile mi vedeste stare. Ma egli ? altrimenti avvenuto che io avvisato non mi sono. Per la qual cosa nel rimanente di questo giorno, che fia poco, intendo io di dimostrarvi con vere ed aperte ragioni quello che voi vedete e udite non essere n? vana spezie o sogno n? favole n? alcuno inganno. E ci? di leggero mi potr? venire fatto, dove voi vorrete con intento animo raccogliere tutte le mie parole. Per?, quando a grado vi sia, vi potrete su la verde erba porre a sedere, per ascoltare pi? agiatamente le mie ragioni, a le quali, poscia che il sole con frettolosi passi incomencia gi? traboccare da la sommit? del cielo, tempo mi pare convenevole da dar omai principio.

Dovete adunque sapere che ogni artefice, il quale secondo il suo arbitrio e volunt? opera, pu? fare ed altres? non fare uno medesimo effetto come e quando il meglio li piace. E cotale principio ? dirittissimamente da l'empio Averoi chiamato principio di contradizione. ? un altro principio naturale, il quale ? determinato ad un sol fine, e solamente uno medesimo effetto in ogni luogo e in ciascuno tempo sempre necessariamente produce: il che manifestamente essere veggiamo nel fuogo, il quale ?, come dicono, formalmente caldo e sempre genera il calore e sempre scalda e non pu? altrimenti adoperare dove egli si ritrove. N? sono da essere ascoltati quelli filosofi, li quali niegavano affatto cotesto naturale principio, dicendo ogni cosa essere or buona or rea, or dolce or amara, or calda or fredda, e brievemente ogni cosa essere tale, quale a noi ne paia e quale le varie e diverse openioni de gli uomini essere giudicassino. Nel vero stoltissimo f?ra colui, che dicesse le cose gravi ugualmente e senza alcuna differenza, ma secondo la falsa openione e umano giudicio, or scendere nel centro ed or salire a la circonferenza, conciosiacosach? qua gi? sempre quelle da loro gravezza sospinte discendano, ma l? s? mai elevare non si possino se non per violenza e per altrui forza e contra loro natura; ancora che altrimenti estimi la nostra openione, la quale mutare non pu? le nature e proprietati de le cose, s? come colei che naturalmente seguitare dee, e la cui veritade pende e nasce da loro verit?, come apertamente si pu? vedere ne gli sopradetti esempi. Che perch? noi crediamo la grave pietra discendere, non ? perci? la nostra openione cagione de la verit? de lo scendere de la pietra; ma s? bene il discendere di quella ? cagione perch? vera sia la nostra openione e credenza. Ma perch? mi distendo io in pi? parole? Dico che ogni nostra openione o conoscenza, o vera o falsa che ella si sia, viene dietro a le cose, come scrive Aristotile nel libro De la interpretazione, ed ogni cosa procede e va innanzi a la nostra scienza, s? come oggetto e cagion di quella. Ma il contrario avviene de l'eterna ed immutabil sapienza del Padre, la quale ? principio e cagione de tutte le cose, de la quale ancora ne parlaremo con lo aiuto di Colui che ogni cosa col suo intelletto e governa e regge e dispone con la sua infinita vert? e provvidenza. Ma da ritornare ? (perci? che troppo dilungati siamo) l? onde ne departimmo.

Dissi che duo erano gli principi, l'uno libero e voluntario, l'altro naturale, necessario e determinato. Iddio dunque, il quale (come cantando dice il profeta) cri? e produsse tutto ci? che egli volle e fece i cieli e la terra con l'intelletto, non ? da dire che egli sia alcuno naturale principio o determinato, ma del tutto libero e voluntario, anzi essa prima ed eterna volunt? e potentissimo arbitrio senza principio e sopra ogni principio, come pi? pienamente dimostraremo quando ragionare ne converr? de la creazione di questo mondo sensibile contra a gli naturali filosofi, e massimamente contra al principe de li peripatetici e contra[257] al suo ostinato commentatore, gli quali vogliano questo mondo[258] sempre essere stato senza mai comenciare e sempre dovere durare senza mai finire. Non ? dunque gran maraviglia, nonch? impossibile, purch? a Dio piaccia, che uno asino parli e ragioni cos? come un uomo d'alto ingegno dotato ragionarebbe. Or non pu? egli fare ci? che egli vole? ? forsi egli cos? infermo ed impotente che adempire egli non possa ogni sua voglia e sodisfare a ogni suo appetito e desiderio? Il che se fare non pu?, ov'? la sua onnipotenza? ove ? la sua infinita vert?? ove ? la sua perfettissima beatitudine e felicit?? Nel vero, io non so come egli possa cos? agevolmente a uno sasso, non pur a uno animale come l'asino ?, dare la vita e l'intelletto, come liberalissimamente a gli uomini dare gli piace. N? veggio simigliantemente alcuna differenza tra 'l nostro e vostro corpo, e perch? piuttosto il vostro possa ricevere tanta nobile forma quanto ? l'intelletto, che non possa ancora il nostro. Ma lasciamo ora alquanto le ragioni ne' loro termini stare, e produciamo in mezzo le sacre e veracissime istorie, e manifestamente vedremo nessuna cosa essere a Dio faticosa e impossibile.

Leggiamo nel Genesi che la verga, la quale teneva Mos? in mano, d'uno legno, per divina potenza, divenne uno serpente e ritorn? poi di serpente ne la sua primiera forma. Ecco chiaramente veggiamo che puote Egli le spezie mutare e le forme de le nature de le cose, s? come colui nel cui arbitrio ? dare e t?rre ogni essere ed ogni vita ed ogni intelletto. Leggiamo ancora che molte statue o idoli di metallo o di pietra per diabolica virt? parlavano e rispondevano a coloro che gli domandavano. Che direte voi qui? niegarete voi non potere Iddio operare in uno asino quello che gli diavoli hanno potuto operare in uno insensibile marmo o metallo? Questo certamente non niegarete voi, ch? niegare non si dee il vero n? a quello mai contrastare, ma dargli perfetta e piena fede. Taccio io Lazzaro e molti altri da Cristo e da' suoi santi risuscitati, taccio altres? molti ciechi alluminati, taccio gli attratti dirizzati, taccio e' leprosi mondati, taccio finalmente tutti gl'infermi da lunghe e mortifere infermitati con la sola parola curati e a perfetta ed intera sanit? renduti, i quali tutti senza alcun dubbio ne mostrano la divina potenza e vert?. Ora vengo a pi? aperto argomento di quella; e dico che niuno ? il quale non sappia che l'asino, o asina che ella si fusse, di Balaam profeta non solamente parl? ma, profeta ancora divenuto, profet? e predisse quelle cose le quali da Dio gli erano state rivelate. Che pi? dunque m'affatico di volere ci? pi? apertamente dimostrare? Chiarissimo argomento ? quella cosa essere possibile, la quale alcuna volta ? ovvero fu gi? buono tempo passato. N? mi fa qui ora mistieri di produrre l'Asino d'Apuleio, anzi di Luciano, stimolo de tutti i filosofi e morditore d'ogni laudevole openione, per ci? ch'io non intendo n? voglio ora dimostrare come possino gli uomini in uno asino o in qualunque altro animale mutarsi; di che io non ho dubbio alcuno. E volesse Iddio che pochi fussero quelli, li quali sovente di uomini divengono crudelissime fiere e, rivolgendosi ne la bruttura de tutti e' vizi e peccati, sono vie pi? peggiori de le bestie, le quali buone sono per ci? che vivono secondo la loro natura, la quale buona fu dal sapientissimo ed ottimo Maestro criata. N? altro forsi Pitagora, divinissimo matematico, volse intendere per lo trasmigrare d'uno in uno altro animale: il che ancor mi pare che abbia confermato il principe de tutti e' filosofi, Platone dico, il quale di gran lunga avanza e trapassa d'ingegno ogni altro filosofo che mai fusse o sar? nel mondo, togliendo dal nuovero quelli solamente li quali alluminati furono da la vera fede, o saranno, per opera del Spirito Santo, il quale per tutte le cose aver? scienza. Io credo fermamente avere sodisfatto secondo il mio giudizio a le vostre quistioni: ora intendo pi? dimesticamente con voi ragionare e ricontarvi le pi? maravigliose cose del mondo.

LIMERNO, F?LICA E TRIPERUNO

Limerno. Fatimi, prego, o padre St?nica, un piacere.

Triperuno. Con cui parlate, maestro? ove trovasi questo St?nica?

F?lica. Volse egli dirmi F?lica.

Limerno. O sia F?lica o St?nica, vorrei da Vostra Santitade una grazia.

F?lica. E dua, potendo.

Limerno. Non mi vogliate pi? oltra imbalordire lo debol cervello con queste vostre filosofie. A che tanti Platoni, Aristotili e asini? voi potreste cos? con le mura ragionare!

Triperuno. Anzi vorrei, caro mio maestro, che vi piacesse di ascoltarlo. Ma facciamone qualche poco di pausa.

Limerno. Ditemi, prego, santo F?lica: foste giammai di alcuna bella donna innamorato?

F?lica. Io fui e sono innamorato per certo.[259]

Limerno. Oh Sia lodato il Dio d'amore, che pi? oltra non verr? necato di parole al vento gittate! Voglio che 'n questa mia cetra cantiamo tutti noi tre successivamente qualche amoroso canto, come pi? al suo particolar soggetto ciascuno de noi aggradir?. Io dunque sar?, piacendovi, lo primiero e cantarovvi di mia diva la summa cortesia, la quale dignossi mandarmi un bianchissimo panno di lino, lo quale, dapoi lungo sudore nel danzare preso, mi avesse a sciugare le membra.

?Bruggia la terra il lino col suo seme?,[260]
disse cantando il mantoan Omero.
Perch? un verso non gionse a dir pi? intiero?
Del lin cosa non ? ch'un cor pi? creme!
Quel lino, che le man vostre medeme
dopo il grato sudor, donna, mi diero,
tessuto l'ha (chi 'l nega?) il crudo arciero:
tanto m'incende l'ossa e 'l cor mi preme!
Vi lo rimando. Ahi! rimandar non posso
l'ardor per?, ch'ogni or sta 'n le medolle,
n? umor di pianto v'ha che gi? mil lave!
Ma prego Amor, s? come incender volle
tutte le mie, che almanco roda un osso
in voi, o di mia vita ferma chiave!

Piacquevi cotesto bel soggetto, o padre eremita?

F?lica. Molto aggradisce l'umana generazione questa vocale musica.

Limerno. Or segui, Triperuno.

Triperuno. Dir? io alquante parole d'un oroglio di vetro, con lo quale mediantovi una tritissima rena si misura d'ora in ora lo tempo.

Pensarsi non sapea pi? agevolmente
cosa che d'uman stato avesse imago
d'un fragil vetro in vista cos? vago,
che libra il tempo a polve giustamente.
Vedi le trite rene come lente
filan e' giorni pel foro d'un ago,
e fan col fiume or quello or questo lago
in doi grembi, s'altrui volge sovente!
Ma cotal opra tosto va in conquasso,[261]
se avvien che fra doi vetri a la giuntura
quel debil filo e cera si dissolve.
O forsennato, chi d'aver procura
in terra stato, sendo un vetro al sasso,
al foco molle cera, al vento polve!

F?lica. Assai pi? lo discipolo mi piace che lo maestro, e particolarmente la fine di questo tuo morale sonetto, Triperuno mio dilettissimo; ed annunzioti che in breve cangiarai vita e costumi in assai megliore stato.

Triperuno. Io non son tale che mai puotessi adeguare l'alto ingegno del mio maestro. Ma t?ccavi, padre, la volta vostra.

F?LICA

Nacque di fiera in luogo alpestro ed ermo,
ed ebbe co' le man il cor d'incude
(ove d? e notte gi? molt'anni sude
far a l'inopia il pover labro schermo),
qualunque al pio Ies? gi? stanco, infermo
a l'onte, ai scherni, a le percosse crude,
sofferse in croce le sue membra nude
al segno trar per darvi un chiodo fermo.
Quinci una mano, quindi affisse l'altra
ed ambo e' piedi al smisurato trave;
n? vinse lui quel mansueto aspetto.
Ma questo avvien, ch? in prava mente e scaltra
e che di sangue uman sempre si lave,
non cape amor n? alcun pietoso affetto.

Limerno. Non altramente sperava io dover avvenire di questo ipocrita e torto collo, e degno da esser nominato (se lo capo raso vien bene considerato) ?cavallero de la gatta?. Mal abbia chi giammai ti mise quello bardocucullo al dosso, frate del diavolo!

Triperuno. Deh, caro maestro, non vi partite!

F?lica. Lascialo andare, figliolo. Colui che su nel cielo regna, solo pu? fare di Saulo, Paolo; di lupo, agnello; di notte, giorno. Ma tu ne verrai meco e, acci? che la lunghezza del cammino siati meno a noia, seguir? de lo asino la miracolosa dottrina.

Triperuno. Anzi ve ne volea pregare, quando che molto lo vostro favoleggiare m'addolcisca il core, avendo voi parlamenti di vita.

F?LICA

— Voglio che sappi?ti — diceva quello — che gli asini e gli bovi ancora hanno lo 'ntelletto; non che lo possono avere. Di che ve ne pu? far chiari Esaia quando dice: ?Conobbe il bove il suo possessore, e l'asino lo presepio del suo signore?, e David: ?Non vogliate — dice — divenire cavalli e muli?, e soggiungevi la ragione: ?perch? sono — dice — senza senno e senza alcuno avvedimento?. Per che Cristo, umile e mansuetissimo signore e obbedientissimo figliuolo al suo Padre, non volse montare suopra gli cavalli n? suopra gli muli, superbissimi animali e oltre a modo ostinati, ma s? voluntieri si degn? ascendere suopra il mansueto asinello. O beati gli asini e vie pi? ch'ogni altro animale felici! O beati quelli che asini divengono e sono degni di portare il Re de la gloria in Gierusalem, citt? de li angioli e de tutti i santi! li quali sempre veggono il sole de la giustizia che rasserena le nostre menti piene d'errori oscuri e folti, e sempre mirano la divina e vera bellezza, la quale gli fa in eterno beati e giulivi. Non posso io qui tacere la soperbia e 'l fasto di coloro che ?servi di Cristo? e ?suoi discepoli? si fanno chiamare, e temo forte che siano a guisa di quelli servitori dalli quali ? luntano il loro signore. Ma se pur di cos? sacro nome si[262] vogliono gloriare, perch? essi con pi? pompa e con maggiore fasto cavalcano pi? ricchi cavalli e pi? belli muli che Cristo mai non fece? e perch? non cavalcano essi gli asini, come 'l loro maestro e signore (come dicono) gli ha dato esempio? Ma in ci? prudentemente hanno fatto e fanno, ancora cavalcando quelli animali gli quali loro pi? assomigliano.

— Deh! guarda bene — disse allora Liberato a l'asino — e considera quello che tu parli; ch? se per mala sciagura mai si sapr?, tu ne sarai molto male trattato, ed io ti so bene accertare che tutte l'ossa con un grosso bastone rotte ti saranno in dosso in cos? fatta guisa che mai pi? non portarai soma, ma miseramente di questa vita passarai. N? ti giovar? merc? per Dio chiedere: per te morta sar? piet?, n? potrai alcuno aiuto o conforto ritrovare. Deh! non sai tu quello che ind?ce Iddio per bocca del profeta: che dobbiamo lasciare stare i Cristi suoi? Perch? dunque tu gli tocchi, perch? gli mordi, perch? non gli lasci stare?

Rispose l'asino con un mal viso e disse: — Se temessi io il bastone e le busse pi? che Iddio, io mi tacerei, n? sarei mai oso di dire la verit?. Ma perci? che io sono disposto, dove a Dio non dispiaccia, morire, se mi fia di bisogno, non ho paura di confessare e dire il vero. N? perch? io dica la verit?, si debbono essi reputare essere offesi da me, se veramente discepoli sono e servi o amici di Cristo, il quale, come egli di se medesimo fa vera testimonianza, ? essa prima verit? e cagione d'ogni nostra verit?. Io non mordo loro, io non gli tocco n? pungo; io lascio stare, anzi riverisco e temo i veri Cristi e sacerdoti e regi. Io favello di quelli che vogliono essere creduti buoni[263] pastori e vogliono essere commendati e riveriti, li quali nel vero sono mercenari e prezzolati, che a prezzo temporale e vilissimo pascono le pecore di Cristo e sono per avventura affamati lupi; ch? a li buoni e veraci pastori e santi prelati de la Chiesa convenevole cosa ?, anzi necessaria, a fargli ogni onore il pi? che noi gli possiamo. S? che giusto sdegno mi sospinge a biasimare la lorda e malvagia vita de li mali cherici e rettori de la Chiesa. N? pu? l'animo mio sofferire di vedere quelli cavalcare con tanta pompa e compagnia, quanta mai non si vide in Campidoglio ne gli vittoriosi trionfi de li romani, nel tempo che avevano in mano il freno e 'l governo de tutte le provincie e de le genti barbare, le quali di d? in d? soggiogano i nostri dolci paesi, togliendoci oggi una citt? e domani l'altra, ed or questo castello ed or quell'altro, e temo che in brieve non ci togliano le persone. Cristo cavalc? una sol volta sopra l'asino, ma gli soi discepoli trionfalmente a le pi? volte si fanno portare dove a pi? andare devrebbono.

— Non hai tu — disse Liberato — di ci? troppo da rammaricarti e da dolerti, che dove una fiata portasti sopra gli omeri tuoi il nostro Signore, leggerissimo e soave peso, ne la santa citt? di Ierusalem, ora ti converrebbe portare i suoi vicari e suoi discepoli per oscuri boschi e per le frondute selve, discorrendo or in qua or in l?, a le maggiori fatiche del mondo, senza che[264] oltre al convenevole saresti carico d'una gravissima soma, in maniera che staresti male. Per che ti d?i assai bene contentare del tuo quieto stato, n? vogli procurare scabbia al tuo corpo che sanissimo esser veggio. E maravigliomi io forte di cos? fatte parole quali sono state le tue; ch? io fermissimamente creduto avrei, ed ancor credo, che voi asini sempre fuggito avereste cotali pompe, l? dove ora mi pare che procacciate voi d'averle. Io sempre ho udito dire che a gli asini non dilettino molto l'ornate e nobili selle n? gli aurati freni n? le fregiate vestimenta e quelle che d'oro sono o d'ariento dipinte. N? vidi io mai alcuno di voi essere troppo vago del s?no de le corna o d'altri dilettevoli istromenti, onde sogliono e' greci dire d'alcuno, che sia d'alcuna cosa rozzo e grosso, uno cotale proverbio: ?Egli ? a guisa d'un asino a la lira?. De l'uccellare e de andare a cazza non mi ? ora di bisogno che io ne parli, perci? che dilettare non vi possono quelle cose le quali contrastano a la vostra natura, la quale non vi diede l'ali a volare n? veloci piedi e leggieri a potere forte correre. Per le quali tutte cose io brievemente conchiudo che ingiustamente voi e senza ragione facciate alcuna querela o romore de lo vostro sbandeggiamento, recandovi a vergogna l'essere scacciati da coloro, il cui maestro, se pur suoi veraci discepoli sono, vi elesse per suo portatore, quasi come pi? vi caglia il giudicio de gli uomini che quello di Dio. Per che vi dovete voi dare pace di tutto ci? che a Colui piace, a la cui direttissima volont? ed eterna disposizione e legge immutabile ogni cosa si creda per certo essere soggetta. Or dubitate forse voi de la divina ordinazione ed infallibile provvidenza? Credete voi che alcuna cosa senza ordine e senza alcuno reggimento qua gi? sempre errando vada? Il che se voi credete, perch? incolpate voi gli uomini e non la instabile fortuna? Non avete dunque voi giusta cagione da dolervi n? da riprendere i chierici e prelati de la madre Chiesa; a li quali, bench? di scellerata e cattiva vita siano alquanti e avvenga che facciano le sconcie cose, nondimeno dovete voi fargli ogni onore ed ogni riverenza come a vostri maggiori e come a quelli li quali sono da Dio ordinati e mandati a nostra utilit?, abbiando riguardo al divinissimo precetto di Cristo che ne comanda e dice: ?Facete voi quelle cose le quali essi vi dicono e predicano che fare dobbiate; ma le malvagie opere loro, le quali essi sovente fanno, non vogliate voi fare?.

— Non pi? — rispose l'asino — non pi? parole. Io non niego che non debbiano essere ascoltate ed ubbidite loro leggi oneste e pie, n? vitupero io in tutto loro decreti e canoni o regole del ben vivere. Non sono io di coloro che forse v'immaginate, ma di Cristo e vivo e morto, al quale io servo e servire voglio nel suo dolce e grazioso evangelio, n? di servirgli sar? mai sazio. Al quale cos? piangendo son astretto di dire: — O benignissimo Padre, riguarda! riguarda, o bono pastore, con l'occhio de la piet? le tue povere e deboli pecorelle, le quali tra crudelissimi lupi sono poste drento a cardi, vepri, spine ed altre viziose erbe a pascere! Ecco, oim?! di quelli uno pi? de gli altri affamato e fiero, Licaone, a passo a passo, senza alcuno rispiarmo, tutte le caccia, le svena, le straccia, le divora. Defendile, potentissimo Signore, defendile da gli soi crudi artigli. Che...

TRIPERUNO

E ra per seguir anco il vecchio bono
G i? su l'entrar d'un poggio il qual si monta
N on senza gran sudore, quando un grido
A l tergo viemmi, rotto di dolore.
T orsi la fronte, ed ecco for d'un bosco
I o vidi una dongiella scapigliata
V enir fuggendo, ed ha chi l'urta ed ange
S empre battendo lei con aspra fune.
S tetti prima qual sasso; ma dapoi,
Q uando comprendo il viso di Galanta,
V olgo le spalle pi? d'un strale in fretta
A F?lica per trarla for d'affanni.
R ompeva la meschina l'aere intorno
C on alte strida e suon di petto e mani.
I ntendo l'occhio a chi la fea gridare:
A hi! ch'io la riconobbi, ahi! cruda ed empia
L aura maligna, incantatrice e maga,
V enefica non men di Circe fiera,
P utta sfacciata, vecchia, il cui fetore
V olgea gli uomini in bestie, augelli e serpi,
S tringendo ai carmi soi l'altrui costumi.
F ?lica su pel monte ansando scampa,
L o qual non pi? vedere i' puoti mai.
O vunque una sen fugge, e l'altra segue.
R atto m'avvento al fondo d'un vallone:
E cco vidi Galanta in un instante
N on esser pi? Galanta, ma curvarsi
T utta ritratta, e capo e braccia e gambe,
I n una picciol forma di mustella.
N on puoti far allora, che non, ratto
V ?lto in gran fuga e lagrimando forte,
S campassi per nascondermi da Laura.
D i passo in passo mi volgeva a drieto,
E rrando e qua e l? come stordito.
S tettesi la malvagia su duo piedi
T utta minace in vista e neghittosa.
R esto ancor io nel folto d'una macchia,
V edendo lei ma non da lei veduto.
C ess? dunque la vecchia scellerata
T ener pi? via d'avermi allor nel griffo;
O nde, quindi partita, io mi discopro
R itornando a veder ov'? Galanta.
R amparsi lungo al fusto d'un sambuco
E cco la veggio, oh quanto vaga e snella,
L eggiadra, pronta, sedula, sagace!
I o la richiamo come far solea:
— G alanta mia, perch? mi fuggi, ingrata?
I o son il tuo fidele Triperuno:
O ve serpendo vai? vieni a me, vieni,
N on ti levar da me, ch? bona cura
I o sempre avr? di te, fin che col tempo
S i trovi chi ti renda a l'esser vero. —
D issi queste parole e passo passo
I' m'avvicino, losingando, a lei.
V enne dunqu'ella, dolce mormorando,
I ntratami nel sino a starvi ad agio.
B asci soavi quella mi porgeva,
E d io basciava lei, non men insano,
N on men caldo di quel che fui davanti.
E ra sul picciol dorso tutta d'oro,
D i latte il corpo e leggiadretti piedi,
I ntorno al collo un circolo di perle
C into l'adorna e fammi esser men grave
T utta la doglia che m'assalse, quando
I o vidi lei cangiarsi a me davante.
L o giorno mai, la notte mai non cesso
A ppagarmi di questo sol piacere.
V enni a Perissa finalmente, dove[265]
R estar non volse F?lica, ch? 'l loco
E ra d'errori e soperstizia pieno.
S tetti qui molti giorni, mesi ed anni
I n una grotta sol per fiere usata,
B evendo acque de stagni torbe immonde,
I onci e palme tessendo e molli vinci.
N on mi levai dal dosso mai la gonna,
O nde l'immondi vermi di pi? sorte
M'erano sempre intorno vigilanti,
E d un setoso manto folto ed aspro
N on mai gi? da le nude carne i' tolsi.
V arcar un uomo in ciel non io credea,
I l qual fuggisse vivere famato,
N udrirsi d'erbe, more, fraghe e giande,
D estarsi a mezzanotte e macerarsi
I l corpo gi? omicida di se stesso,
C orcarsi o su le frondi o in terra nuda,
A rrecarsi a gran merto il girne scalzo,
V ender se stesso ad altri, non avere
I l proprio arbitrio in s?, che Dio concesse
T enacemente al spirto di ragione.
A l fin, essendo sotto l'altrui voglia,
T olta mi fu la mia dolce Galanta:
L o mio solaccio, il mio contento e spasso,
A im?! da me fu radicato e svelto.
R imasi d'alma privo, ma nel dolo
V ivendo sempre tanto piansi ed arsi,
A rsi d'amore, piansi di dolore,
M orte chiamando ognor, che al fin privato
I o fui de gli occhi e d'ogni sentimento.
L aura qui ottenne il seggio, e sol de volpi,
L upi, tigri, pantere, draghi e serpi,
V entrosi vermi empitte boschi e selve,
M onti, valli, spelonche, fiumi e stagni.
A ttonita scampavasi la turba
P er le fantasme, sogni e negre larve,
P er l'ombre infauste che da l'empia Erinni
E rano sparse drento al laberinto,
L aberinto d'errori colmo e pieno,
L aberinto che gi? di Dio fu stanza.
A ugellazzi notturni d'ogn'intorno
N on cessano volar con alte strida;
D el sole omai non pi? v'entran le fiamme,
V olti de spirti neri sempre in gli occhi
M'erano fisi digrignando e' denti.
E la Galanta mia fu in preda d'altri
S uso al bel mondo, in grembo altrui, rimasa:
S uso al bel mondo, ed io nel pi? profondo
E ra del Caos, centro e laberinto!
C olui che l'ebbe in mano fu l'egregio,
E gregio mio Grifalco, il qual non ebbe,
N on ha, non avr? mai di s? pi? fido.
S trinse Galanta mia fra l'uscio e muro.
E lla mor? chiamando: — Triperuno! —
M a 'l giovene magnanimo e cortese
V olse che d'alabastro un fino vaso
S epolcro fusse a la gentil mustella.

TUMULI GALANTHIDIS MUSTELLAE

GRIFALCO

Cogimur exiguam deflere Galanthida, virtus
quippe sub exiguo corpore multa fuit.
Hanc neque tum poterat limen collidere, vixit
quae pede cervus, aper fulmine, corde leo.
At magis offensas ulta est Saturnia priscas,
solvit ubi, invita hac, ventre Galanthis heram.

F?LICA

Si brevis hic tumulus, breve carmen, me breve fatum,
quae mustella fui tam brevis, huc rapuit.

MERLINUS

Ter mutata, fuit Mulier, Mus, Stella, Galanthis:
me Mulier, tumulum Mus pete, Stella polum.

LIMERNUS

Quae mulier quondam, quae nunc mustella fuisti,
hic medium linquis nomen et astra tenes.

PAULUS F.

Lusus eram, nunc luctus heri, qui fraude peremptam
Lucinae officio me decorat tumuli.

MARCUS C.

An misera, an felix? dominum damnemve probemve,
Cum dederit mortem qui modo fert tumulum?
Si pius, unde mihi mors est? si non pius, unde
et decus et laudes et lacrymae et tumulus?

IDEM

Dum placeo interi. Occidit dum diligit, ingens
struxit Amor tumulum, sed prius ille necem.

IDEM

Mole brevi brevis ipsa tegor mustella, gementis
delitiae nuper, nunc lacrymae domini.

ISIDORUS C.

IUNONIS QUERELA

O ego quantum egi! extinxisse Galanthida dudum
credideram lethaeisque immersisse sub undis,
dum terris prohibere paro, coelum occupat audax
et vatum celebri late iam carmine vivet.

IDEM

Indulges lacrymis inane quiddam
deflens et teneram gemens alumnam,
Grifalco; at nihil huic magis salubre,
magis nobile praestitisse posses.
Vivens cognita vix tibi latebat.
Vitae munere functa, nunc perenni
vivet iam celebrata laude! per te
haec dum mortem obiit, absoluta morte est.

TRIPERUNUS AD DEUM CONFITETUR

Summe opifex rerum, pater instaurator et unus,
qui Deus existens coelo terraque potenter
cuncta regis, certo dum lapsu saecula torques,
en ego, si ante tuum debentur vota tribunal
assistique hominum curae trutinisque movendae,
quid faciam, tanto qui absumpto tempore noctes
produxi vigiles ea per figmenta, volumen
nugarum aedificans? En culpae cognitor omnis,
en quibus ingenium, quo nos decora alta subimus,
turpiter implicui fabellis, quo per ineptos
consenuit lusus viridis squalore iuventa!
Pars melior consumpta mei, redituraque nunquam
rapta est, unde animi ratio me conscia torquet.
Heu! heu! quid volvi misero mihi? sordibus aurum,
perditus, et gemmas immisi fecibus indas.

 
 

FINISCE LA SECONDA SELVA.


SELVA TERZA

Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe:
tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.
Stemma con le lettere M L F T; ai lati FR. GR.
F ortuna, con soi larghi e pronti G iri
R otandosi, nel volto ad altri R ide,
A d altri pur par sempre che s'ad I ri.
N on so, Grifalco mio, che me ne F ide:
C ostei veggio ch'a molti spenna le A le
E dal ciel tratti in terra li col L ide,
S i come Borea fa de le ci C ale.
C he temer lei, s'un Dio nel ciel ad O ro
O ver s'in terra un Mecenate o N oro?
Or sbuco gi? qual nottula di tomba,
ed oltra quella spera, onde la pioggia
descende e per augel rado si poggia,
date mi son le penne di colomba.
Tant'alto salir?, che mi soccomba
chi ha 'l giro di trent'anni, e 'n l'aurea Loggia,
ove 'n se stesso un Trino Sol s'appoggia,
fia tempo ch'al convito suo discomba.
Quivi non sotto enimma, non per velo
ch'abbia su gli occhi M?se, non per mano
posta al forame di l'eburneo ventre,
non pi? a le spalle no, ma in vista piano
l'Altissimo vedr? quanto sia, mentre
si turba entro lo 'nferno e ride il cielo.

 
 

MAGNANIMVS TEMPLVM HOC MVSIS GRIFALCO LOCAVIT


PREFAZIONE

Lo animale ragionevole, lo quale per vivere o soperstizioso o lascivamente, ovvero che per falsa dottrina avvezzato e abituato non pi? sente lo errore suo, ma cieco ed oblivioso nel grembo de la regina de' peccati e difetti, che ? la ignoranzia, sede e dorme, costui non pur di bestia peggiore, ma un'ombra, anzi uno niente si p? chiamare, come quello che non ode, non sente, non vede, non tocca pi? di se stesso lo essere. Or dunque trovasi egli nel Caos, e a lui non ? fatto ancora il mondo: dilch? per divina pietade apparegli una fiammella d'intelletto, e cos? a poco a poco entra egli in cognizione di queste cose per lui da Dio criate e talmente vi affigge il core, che distinguendo e scegliendo va lo smisurato beneficio da Dio a lui dato. Ma non troppo egli vien poi rassicurato da questa nostra umana e corrotta natura, che non caschi o poscia egli cadere in alterigia, vedendosi essere di tante belle cose tiranno. Per? l'anima, d'ogni macchia purgata, ? nello stato che gi? fu Adam (intendendosi questo allegoricamente) avanti lo gustato pomo: la natura gli ? ancora incorrotta; non vi ? lo tempo, non vi ? la morte. Vero ? che nel paradiso terrestre de la purgata conscienzia potrebbe ella facilmente con lo arbore del libero arbitrio fallire: o sia nel tornare a la soperstiziosa vita lasciando lo vangelo, secondo Livia; o sia per lo tribuire a soi istessi meriti la acquistata grazia, secondo Corona; o sia nel voler comprendere e diffinire la incomprensibil ed infinita potenzia di Dio, dando opera al studio de li nostri moderni teologi infruttuosamente per noi affaticati, secondo Paola.

 

TRIPERUNO

Quel spaventevol mar, che a' naviganti[266]
promette l'Epicuro s? soave,
solcai gran tempo in feste, gioie e canti,
fin che la gola, il sonno e l'ozio m'ave
travolto in bande ove d'acerbi pianti
nel scoglio si fiacc? mia debol nave,
che aperse a l'acque il fondo ed ogni sponda
e 'n preda mi lasci? de' pesci a l'onda.
E l'ignoranzia d'ogni ben nemica,
tosto che 'n grembo a morte andar mi vide,[267]
corsevi come donna ch'impudica
con vista t'ama e col pensier t'ancide.
Quindi svelto mi trasse ove s'intrica
nostr'intelletto in quel sogno, ch'asside
fra le sirene, e dormevi egli in guisa,
che sua spezie da s? resta divisa.
Vago mi parve s? l'aspetto loro,[268]
che froda in tal sembianza non pensai;
ma ci? che splende poi non esser oro
tardo conobbi e subito provai.
Un d'angeliche voci eletto coro
entrato esser mi parve, e poi mirai
cangiarsi e' bianchi volti in sozze larve,
e il lor concento in stridi ed urli sparve.
Ed una nebbia orribile, che adombra
la ragion, lo 'ntelletto e l'altro lume,
m'avea offoscato s? ch'inutil ombra
io mi trovai for d'ogni uman costume
e in stato di color cui sempre ingombra
la dolce sete a l'oblioso fiume;
ch?, come egli son vani e fatti nulla,
tal vien chi in ignoranzia si trastulla.
D'onde s'ardisco dire che 'n niente
m'avea travolto la regina cieca,
taccia chi 'n l'altrui fama sempre ha 'l dente
n? dica il mio cantar favola greca.
Ma Dio, com'era fece a me, sua mente
svella dal stesso nuvol che l'accieca
e scotalo dal sonno (ah troppo interno!)
che puoco fummi ad esser pianto eterno.
Per? ti rendo mille grazie, e lodo,
lodar quanto pu? mai pot?sta umana,
te, dolce mio Ies?; te, fermo chiodo
de l'alta fede ch'ogni dubbio spiana;
te, dico, che disciolto m'hai quel nodo
il qual ci lega e fanne cosa vana;
te, sommo autor di tal' e tante cose,
che 'l suo tesor per noi l? suso ascose.[269]
N? lingua voci n? 'ntelletto sensi
muova giammai senza 'l tuo nome sacro,
nome, che sempre, o canti o scriva e pensi,
spero pietoso e temo giusto ed acro,
Ies?, te dunque invoco per l'immensi
chiodi amorosi, ch'alto simulacro
t'han fatto in terra al popolo cristiano!
Or mentr'io scrivo scorgimi la mano;
scorgi la man non pi? cruda, rapace,
non pi? del mondo posta in servitute;
la man che particella, se 'l ti piace,
scriver desia de l'alta tua vertute,
la quale d'ogni senso uman capace
mi ricondusse al poggio di salute,
e nel tuo nome pareggiar vorria
mio basso stile un'alta fantasia.

TRIPERUNO

Il grave sonno, in cui m'era sepolto[270]
quanto di bono vien dal primo cielo,
ruppemi orrendo grido, qual in molto
scoppio far s?le il fulgurante telo.
Apro le ciglia e, quando ebbi distolto
da' sensi un puoco l'importuno velo,
dritto m'innalzo, guato e nulla veggio,
perch'era il mondo ancora d'ombre un seggio.
Anzi n? ciel n? terra n? 'l mar era,
n? averli mai veduto mi sovvenne;
non verno, estate, autunno, primavera,
non animai de' peli, squamme o penne;
non selve, monti, fiumi, non minera
d'alcun metallo; non veli n? antenne,
merc? ch'era del Caos in la massa
d'ogni ombra piena e d'ogni lume cassa.
N? pi? sapea di me stesso, n? manco
di chi vaneggia in forza di gran febre,[271]
star o insensibil pietra o trar del fianco,
aver maschile o sesso muliebre,
esser o verde o secco o negro o bianco:
s? m'eran folte intorno le ten?bre!
Pur sempre non vi stetti, ma ecco d'alto
un sol m'apparve, onde ne godo e salto.
Perch?, s? come il pullo dentro l'uovo,
bramando indi migrar, si fa fenestra
col becco donde v'entra il raggio nuovo,
e poscia da le spoglie si sequestra;
tal io, mentre me stesso in l'ombre covo,
luce spontar mi vidi a la man destra,
ch'emp? la notte, onde ratto m'avvento
l? col desio che 'l corso far s?l lento.
Inusitato e subito conforto
ardir m'offerse al cuor ed ale al piede.
Lungo un sentier de gli altri men distorto
affretto i passi ovunque l'occhio il vede.
Oh avventurosa fuga, che a buon porto
giunger mi fece d'un tal pregio erede!
Ben duolmi che, narrarvi ci? volendo
mentre son carne, in van mie rime spendo!
Di luce un gioven cinto, anzi un'aurora,[272]
ch'appare spesso a l'alma cieca e frale,
ecco si mi presenta e mi 'ncolora
col viso pi? che 'l sol di luce eguale.
Onesto e lieto sguardo, che 'namora
ogni aspro e rozzo core, onde immortale
so ben che a tal belt? l'avrei pensato,
se allor io fussi, quel ch'oggi son, stato!
Que' soi begli occhi ch'abbell?r il bello,
quanto su ne risplende e giuso nasce,
raccolsi a la mia vista, e fui da quello
non men depinto che quando rinasce[273]
Proserpina in obietto del fratello
e de' soi rai, bench? luntan, si pasce.
N? il lume pur, ma un amoroso ardore
sentiva entrarmi dolcemente al core.
Pur come avvenne a Piero, in sua presenzia
la vista persi, il senno e le ginocchia.
Chi sopra uman valor si fa violenzia
portar tal peso, vinto s'inginocchia.
Veggendomi egli a terra, di clemenzia
pingesi 'l volto e con pianto m'adocchia:
poi, sollevando i lumi al ciel, tal voce
muosse, ch'anco m'abbruggia e mai non cuoce.

FIGLIO AL PADRE

O tu, che 'ntendi te, te, qual son io,[274]
quant'alto sei, quant'eccellente e saggio,
lo qual in nulla cosa mai non manchi,
sublime s?, che sotto e sopra quello
che sei pensar non puossi, e quest'? 'l mio
non mai dal lume tuo smembrato raggio,
io non di te n? tu di me ti stanchi
mirar quanto ti sia e mi sii bello;
n? quel spirito snello
e fuogo che fra noi sempre s'avvampa
ed or in dolce lampa
or in colomba formasi, minore
di noi giammai procede n? maggiore.
Padre, Figliol e l'almo Spirto un Dio
eterno siamo, fuor d'ogni vantaggio.
Tre siam un, ed un tre, securi e franchi
che l'un vegna de l'altro mai rubello;
non cape in noi speranza n? desio,
non spazio tra 'l comun voler n? oltraggio.
Io del tuo lume e tu del mio t'imbianchi;
n? dal nodo che tien l'alto suggello
unqua, Padre, mi svello.
Per? d'ogni bont? nostra ? la stampa,
che l'amorosa vampa
del Paracleto imprime; onde 'l ?Motore
del Tutto? siamo detti e ?Creatore?.
Or di quel nostro incomprensibil rio,
cos? soave a l'umile coraggio
(s'umile mai verr? ne' spirti bianchi
conoscitor di noi), l'uomo novello
nasce d'animo e sangue santo e pio,
ch'avr? del mondo in man tutto 'l rivaggio.[275]
N? voi verrete in suo servigio stanchi,
stellati cieli e tu, nostro scabello,
ritonda terra; ma ello
s'indura contra noi l'ungiuta ciampa,
e gi? si finge e stampa
di ferro e pietra statue, quell'onore
lor dando che a Dio vien, del tutto autore.
Nascon insieme l'uomo e l'alto oblio
del dritto ed anteposto a lui viaggio:
dico 'l sentier, che al fin porge doi branchi,
l'un stretto, dolce; l'altro piano, fello.
Quinci al gioioso, quindi al stato rio
s'arriva, onde giustizia in lor dannaggio
a' tristi vegna, e tengali ne' fianchi
t?ma per sprono e morte per flagello:
morte che, in un fardello
cogliendo tutti, ovunque v?l si rampa.
Nullo da lei mai scampa;
sia pur bel volto, sia pur verde il fiore,
far non pu? mai che morte nol scolore.
Ma guai, chi 'n mal far sempre ha del restio,
ch? ogni sempre di l? trova 'l paraggio;
que' d? che mai di colpa non f?r manchi
men fian di pena ove gli rei flagello,
in fin a l'ore estreme, quando 'l fio
pagar verrammi inante ogni linguaggio,
dal ciel i destri e da l'inferno i manchi.
Pur stando in carne, lor spesso rappello:
— Non son tigre n? agnello:
chi 'l perso ben per racquistar s'accampa,[276]
chi 'l viver suo ristampa,
intenda realmente che 'l Signore
del ciel in ciel non sdegna il peccatore!
Dunque, Padre, mi 'nvio dare suffragio
a loro, che non san chi sia pur quello
ch'altri da morte scampa, ed esso muore!

TRIPERUNO

A li alti accenti d'un tal s?no eroico,
del quale ne tremai com'uom frenetico,
vennemi voce altronde: — A che esser stoico,
miser, ti giova n? peripatetico?
che ti val fra l'un mar e l'altro euboico
pigliar oracli e ber fiume poetico?
a che spiar la verit? da gli uomini,[277]
che di menzogna furon mastri e domini? —
Io, che sculpito in cuor le note aveami
d'un s? bel viso, d'un parlar s? altiloquo,
a poco a poco gli occhi aprir vedeami
al s?no di colui tanto veriloquo.
Pur tal era l'error ch'anco teneami,
che a pena svelto fui; perch? 'l dottiloquo
gioven mi sciolse, onde ci? che anti nubilo
mi parve intendo, ed intendendo giubilo.
Giubilo perch? intendo (intenda e Plinio,
ch'or vive morto!) viver sempre l'anima;
non s? per?, ch'i' stia sotto 'l dominio
di chi 'l tegume d'uman spirto inanima.
Stetti gran tempo in tale sterquilinio,
nel qual concedo ben che l'alma exanima
la troppo vaga ed addolcita letera,[278]
e molti uccide il canto d'esta cetera.
Qual ? chi 'l creda, ch'oggi tanta insania
la nostra verit? s? prema e vapoli?
S'io mi diparto a l'umile Betania
per alto mar da Roma o sia da Napoli,
ecco a man manca dal Parnasso Urania
scopremi l'Elicona, ove mi attrapoli.[279]
Ben sa che a lei m'avvento, bench? 'l Tevere
lasciassi per Giordan, quell'acque a bevere.
Acque s? dolci! quanto pi? bev?mone,
pi? a la tantalea sete si rinfrescano!
Quivi l'argute ninfe lacedemone[280]
a gli ami occulti nostre voglie adescano;
cos? non mai dal bianco il negro demone
sceglier mi so, non mai l'onde si pescano,
cui trasser a la destra del navigio
Piero e Gioan de' pesci il gran prodigio.
Per? dal mio Ies? se detto fiami
giammai: — Di poca fede, or perch? dubiti? —
scusarmi non sapr?, quando che siami
concesso por le dita fin ai cubiti
nel suo costato e trarvi 'l ben, che diami
fidi pensieri e al vero creder subiti.
Non lece dunque pi? d'Egitto in gremio
starsi, ma gir con M?se al certo premio.
Assai d'oro forniti e gemme carichi,[281]
di Faraon scampiam omai la furia;
n? s? men gravi paran i rammarichi
e pene che ci dava l'empia curia,
che nel deserto alcun de noi prevarichi,
dicendo in faccia a M?se questa ingiuria:
— Mancaron entro Egitto forse i tumuli,
ch? morir noi per queste valli accumuli? —
Ma non cos? l'alma gentil improvere
a chi oltra 'l mar asciutto mena un popolo;
ch? nel primo sentier, quantunque povere
sian le contrate, ove sol giande accopolo
per cibo, al fin vedrassi manna piovere,
sorger un largo rio di nudo scopolo,
che cominciando a ber nostri cristigeni[282]
san quanto noccia usar co' li alienigeni.
Deh! non ci chiuda il passo ai rivi, ch'ondano
di latte e m?le, nostra ingratitudine:
rivi che noi di lepra e scabbia mondano,
contratta dianzi ne la solitudine.
O di qual m?l e' nostri petti abbondano,
ch'assaggi?r pria di f?l l'amaritudine!
Ma ci? non prima seppi, che 'n cuor fissemi
Ies? questi s? dolci accenti e dissemi:

DIALOGO

CRISTO E TRIPERUNO

 

CRISTO

Pace tra noi, ch'amor ci? v?l, o privo
d'amor e pace miser animale,
s? bello dianzi ed or s? lordo e schivo!
Amor sia, prego, e pace teco, ch? ale
n? augel mai vola senza, n? alma, cui
amor e pace manchi, ad alto sale.
Ma non m'intendi (s? contende i tui[283]
sensi la folta nebbia!): u' l'aurea face
del cuor spent'hai, n? vedi te n? altrui.
Ahi! misero, che speri? ove fugace
te sottraendo a l'ira vai? ch? altrove
ben giugne al varco l'empio contumace!
Le tue (non solle?) mal pensate prove
t'han scolorato 'l viso e spento a' piedi
la scorta luce. Dove vai? di', dove?
Or vegno liberarti: spera e credi,
porge la man, n? aver, uomo, di t?ma[284]
el spirto sol, d'amor anco 'l possedi.
Ma un dono qui ti cheggio, cui l'estrema
vert? del ciel, ch'or tu non sai, si pasce,
n? in lui divina fame unqua vien scema.

TRIPERUNO

Il vago vostro aspetto, onde mi nasce
un trepido sperar (qual che voi siate,
Signor), deh, in questo errore non mi lasce!
O dolce man ed occhi di pietate,
(ch'or man i' stringo, ch'or begli occhi veggio),
morr? se 'l venir vosco mi negate!
Mentre vi guardo e 'nsieme favoleggio,
si rasserena e sfassi quella scabbia
nel cor gi? fatta un smalto e duro seggio.
Qual s? fort'ira, qual schiumosa rabbia
non ratto cade al viso vostro onesto?
E pace mi chiedete in questa gabbia?
in questa d'error gabbia chiuso e mesto,
privo d'ogni, se non sia il vostro, aiuto,
dunque, ch'i' v'ami e doni son richiesto?
Amarvi, anzi adorarvi, non refuto;
ch?, quanto parmi al bel sembiante alt?ro,
amarvi, anzi adorarvi son tenuto.[285]

CRISTO

Oh se co' l'occhio avessi 'l cor sincero,
pi? che di for me 'ntenderessi dentro!
Per? di me non hai giudicio intero.

TRIPERUNO

Non pur voi, ma me stesso, e 'n questo centro
come 'ntrassi non so. Ben or vi dico:
s'uscirne poscio, mai, non mai pi? v'entro!
Non trovo in lui n? porta n? postico
per cercar chi' mi faccia, e brancolando
in guisa d'orbo, pi? miei passi intrico.
Oggimai tempo ? trarsi d'ombra, quando
la luce de vostr'occhi essermi scorta
non sdegni a l'uscio per voi fatto entrando.

CRISTO

Questa prigion da tutte parti porta
non ha, for ch'a l'entrare; ma ritorno
far indi e sovra girsen, via pi? importa.[286]
Questo ? quel lungo nel mal far soggiorno:
non speri uman valor, chi uscirci v?le;
ed io lo guida son ch'altrui distorno.
Di che se ben sentissi, o ingrata prole,
quanto ti diedi e darti anco apparecchio
di questa cieca ed inornata mole,
non f?ra mai che per alcuno specchio
di verit? lasciassi 'l vero lume,
avendo al falso pronto s? l'orecchio.
Son io la verit?, son io l'acume
del raggio che, volendo, sempre avrai:
persona i' son de l'inscrutabil nume.
Io son l'amor divin, che ti criai
uomo simile mio, del ciel consorte,
se 'l cor porgi che pria t'addimandai.[287]
A te il mio regno, a me il tuo cor per sorte
convien. Stolto sarai se darmi 'l nieghi,
ch? nol facendo ti verr? la morte!
Morte, fera crudele, ai lunghi prieghi
che le sian fatti acci? non ti divore,
immobil sta, non che punto si pieghi.
Ma se remetti ne le man mie il core
e per altrove porlo indi nol svelli,
non fia perch? abbi tu di lei timore.
Soi tumuli, sepolcri, roghi, avelli
e quant'urne s'affretta empire d'ossa
non temer, n? di forza ch'aggian elli.
Lei, di catene vinta in scura fossa
rinchiusa, freno; ch?, sci?rse volendo,
talora si dimena con tal possa,
ch'ella, te il cor ritolto avermi udendo,
subito rotte lasciaralle a dietro.
E, quant'or ti son bello e ti risplendo,
questa pi? lorda e d'aspro viso e tetro
ti assalir? co' l'insaziabil ferro
di nervo tal, ch'ogni altro li ? qual vetro;
e 'n peggior stato, di cui ora ti sferro,
respinto ancideratti, e parangone[288]
farai del gran destin che altrove serro
a te, sol d'intelletto e di ragione
bell'alma. Poi ch'ucciso morte t'aggia,
in Dio de l'opre tue sta 'l guidardone!
Pur speme n? timor da te ti caggia,
ma l'una e l'altro insieme fa' che libri;
ch? chi spera temendo alfin assaggia
di me quale dolcezza l? si vibri,
ove sfrenato amor ragion non stempre,
ma sian le due vert? del senso i cribri.

TRIPERUNO

Se per cosa, Signor, di basse tempre
da voi s? largo pregio me n'acquisto,
ecco, vi dono il cuor! abbiatel sempre!
Ma (dirlo vaglia!) non pi? bello acquisto
far si potria di quel ch'or faccio: averve,
o d'ogni ben bellezza, in fronte visto,
in quella fronte, onde tal foco ferve[289]
in l'alma mia, che ardendo s'addolcisce,
mentre che 'l suo del vostr'occhio si serve.
Non ho che io temi morte se perisce
ogni sua forza, pur che sempre v'ami;
e il sempre amarvi troppo m'aggradisce.

CRISTO

Non mancheranno tesi lacci ed ami
d'un adversario tuo, che 'nvidioso
al don, ch'or ti dar?, sotto velami
di verit? cerchi farti ritroso
a l'amistade nostra; ma pi? bassi
che puoi gli occhi terrai col piede ombroso.
Muovi tu dunque accortamente i passi
per questo calle che a man destra miri,
onde al terrestro paradiso vassi.[290]
Cosa non avvi per cui unqua sospiri,
anzi gioisci di quel dolce ch'io
t'apporto, acci? che m'ami e toi desiri
commetta a me che t'ho svelto d'oblio.

TRIPERUNO

Com'esser pu? ch'un arbore, ch'un fiume
l'un stia verde giammai senza radice,
l'altro pi? scorra se acqua non s'elice
di fonte, o neve a l'austro si consume?
Com'esser pu? che 'ncendasi le piume,
mancando il sole, l'unica fenice,
o ch'ardi al spento foco cera o pice
di natural e non divin costume?
Com'esser pu?, dal cor un'alma sgiunta,
che 'n corpo viva, come allor viss'io
che 'l cor al car mio dolce Ies? diedi?[291]
Ma 'n ci? tu sol, amor, natura eccedi,
ch'un corpo viver fai, bench? 'l desio
sen porti altrove il cor su l'aurea punta.

TALIA

Pi? di voi fortunati sotto 'l sole
fra quantunque animal non muove spirto,
ch'al fin d'esta mortal incerta nebbia
migrar ci ? dato sovra l'alte stelle!
Bont? di lui, che, a man destra del Padre
regnando, fassi degna nostra guida.
Nostra per cieco labirinto guida,
ove smarri de lo 'ntelletto il sole;
nostro fermo dottor, che s? col Padre
esser c'insegna un Dio co' l'almo Spirto,
un Dio, che stabil muove il mar, le stelle,
augelli, belve, frondi, vento e nebbia.
Ma da l'Egeo mar un'atra nebbia,[292]
che a tanti perder fa la dolce guida,
levata in alto fin sotto le stelle,
ai saggi erranti cela il vero sole:
ch? pi? credon salir di Plato il spirto,
che Paolo e M?se, che d'Isacco 'l padre;
n? Archesilao n? de stoici il padre
sin qui gli han tolto via del cuor la nebbia,
che penetrar non lascia ove sia 'l spirto
motor di ci? che muove, mastro e guida.
Per? van ciechi e bassi, e solo al sole
molti dricci?r altari ed a le stelle.
O voi dunque, mortali, de le stelle,
de l'anime e di noi cercate il sole,
e non del dubbio Socrate la nebbia.
Meglio ? morendo aver Ies? per guida
che ad Esculapio offrir d'un gallo il spirto![293]
I' veggio trasformato il negro spirto
in angelo di luce, per le stelle
volando, a noi mostrarsi esser lor guida,
se leggo Averois, d'errori padre.
Ma l'aquila Gioanni in bianca nebbia
sublime affise gli occhi al Sol del sole;
al Sol del sole, onde 'l figliuol, dal padre
mandato in questa nebbia su a le stelle,
si ? fatto nostra guida, amor e spirto.

DISSOLUZIONE DEL CAOS

TRIPERUNO

Finito che fu dunque l'alto verbo,
bench? infinito sempre lo servai,
disparve 'l mio Signor in un soperbo
triunfo tolto a mille e mille rai;
ma nel fuggir un s?no cos? acerbo
ton? dal negro ciel, ch'io ne cascai
come frassino o pino, il qual per rabbia
di vento stride e stendesi a la sabbia.
Vidi la cieca massa, in quell'istante
che 'l capo m'intron? l'orribil scopio,
smembrarsi in quattro parti a me davante,
ed elle sgiunte aver gi? loco propio,
due parti in capo e due sotto le piante:
sommmistrarmi sento effetto dopio,
qual puro e caldo, qual sottil e leve,
qual molle e freddo, qual densato e greve.[294]
Vidi anco le 'ncurvate spere intorno
de la terrestre balla farsi cerchio,
che rotan sempre e mai non fan ritorno:
sol'una ? fatta a noi stabil coperchio.
Ma 'l ciel d'innumerabil lumi adorno
(un solo non mi parve di soverchio)
m'offerse al fin girando un s? bell'occhio,
che lui per adorar fissi 'l ginocchio.
Egli, s? alzando, tal mi apparse, ch'io
lasciai pur anco 'l fren in abbandono,
drieto a l'error del credulo desio,
che 'n tal sentier non sferzo mai n? sprono.[295]
Ma strana voce, onde quell'occhio usc?o,
mentre ch'assorto in lui sto fiso e prono,
scridommi come Paolo ai listri fece,
che di Mercurio l'ador?r in vece.

SOLE

Alma felice, c'hai sola quel vanto[296]
aver di l'alta mente simiglianza,
onde guardar mi puoi frontoso, altero,
qual or ti fai, ch? 'n me, codarda tanto,
pi? estimi questo raggio che l'orranza
del dato a te sovra ogni stella impero?
Non Dio, ma un messaggero
di lui ti vegno da quell'una luce,
ove ben sette volte intorno avrai
di me pi? bianchi rai;
da Quel senza cui nulla fiamma luce,
ma come in vetro egli per noi traluce.
Or dunque pi? alto e non s? basso adora,
ch? l'esser mio fu solo in tuo servigio.
Mira come ascendendo passo passo,
senza mai far in lunga via dimora,
di miei cavalli tempro s? 'l vestigio,
che l'ampia rota, ove tornando passo,
non unqua vario e lasso,
finir a la prescritta meta deggio.
Vedi come l'estreme parti abbraccio,
e quanto puosso faccio
sol per accomodarti l'uman seggio,
ove di quanto sai voler provveggio.
Mira quell'ampia zona come obliqua[297]
mi volge a drieto, onde ne vado e riedo[298]
insieme, ostando al mio tornar s? ratto.
N? di' che tal ripulsa mi sia iniqua;
ch? risospinto, mentre vi procedo,
l'un emisfero aggiorno, l'altro annotto,
scorrendo quattro ed otto
segni per tanti mesi, e passeggiando
causo molta bellezza di natura,
c'ha, variando, cura
farti pi? vago e lieto il mondo, quando
d'ambi solstici a l'equinozio scando.
Quinci l'arista, e 'l ghiaccio quindi apporto,
l? il fior e 'l frutto a pi? tua dolce gioia.
Ma non usar del ben concesso in male,[299]
ch? sentiressi quanto ? ratto e corto
il mio gir lento, e ti darei gran noia
solcando il cerchio estivo e glaciale.
Poi 'l tempo c'ha cent'ale
a gli omeri, a le mani, al capo, ai piedi,
ch'ora sotterra giace in le catene,
verria st?rti dal bene
ch'oggi s? lieto godi e te 'l possedi;
e ne faria soi giorni e mesi eredi.
Ben tempo fu, che chi sia 'l tempo e morte
quello provasti, e questa dir sentisti;
e l'uomo Dio, che d'uomo a tempo nacque
(ma sempre di Dio nasce, ed or le porte
del ciel entrar hai visto), gi? servisti,
quando per l'uomo farsi uomo li piacque;
ch? nel presepio giacque
nudo, fra l'asinello e bue nasciuto.
Ma, d'ignoranzia in grembo, l'hai scordato:
per? da Dio novato
col mondo sei, che dianzi eri perduto,
e novo Adamo fatto sei di luto.
Luto non sei pi?, no, ma novo Adamo
per cui ruppe oggi Dio la massa, e d'ella
novellamente noi per tuo ben scelse;
noi, dico, stelle, ch'anzi ti eravamo
co' l'altre cose nulla o quel si appella
?Caos?, donde 'l bel seclo Dio ti svelse.
Ma sovra le pi? excelse[300]
corna de' monti, onde ti porto il giorno,
piantato t'? un terrestre paradiso,
che di solaccio e riso
onestamente sendo sempre adorno,
Ies? spesso vi fa teco soggiorno.
Adora lui, se forse quanto sia,
(dandogli 'l cor s? come hai fatto), gusti.
Quel non son io, perch? da te adorato
ne vegna, come al mondo errore fia
di Manicheo e soi sequaci ingiusti.
Cristo non son, perch'egli sempre a lato
del Padre sia chiamato
?sol di giustizia?; dond'ei dir si puote
Cristo esser sole, e 'l sol non esser Cristo.
Sol son io 'l sole, visto
d'occhio mortal; ma l'altro sol percuote
di cieco error chi v?l mirar sue rote.[301]
Ora pi? non m'attempo,
ch? senza me vedi ogni errante stella
(per trarne frutto, chi test?, chi a tempo),
volersi unir indarno a mia sorella,
che adultera s'appella[302]
d'ogni pianeta, e pur senza noi dua
con puoco effetto va la vert? sua.

TRIPERUNO

A l'increpar um?le del mio Apollo,
come uom che cade e s? vergogna l'erge,
mi rilevai, mirando quanto armollo
di sua potenzia Dio, che, ovunque asperge
li aurati raggi, il mondo fa satollo[303]
di caldo lume, e ratto che s'immerge
a l'altro uscito gi? d'un emispero,
imbianca quello, e questo lascia nero.
Ma non s? tosto il giorno fu dal lume
solar causato e nanti mi rifulse,
che l? una fonte, qua bagnar un fiume
vidi le ripe sue da l'onde impulse:
parte stagnarsi e mitigar lor schiume,
parte volgersi al mar e l'acque insulse
far salse, ove l'orribil Oce?no
distende l'ampie braccia di luntano.
In mille parti ruppesi la terra,
donde montagne alpestri al ciel ne usciro.
Quinci una valle, quindi un lago serra
de' colli e piagge qualche aprico giro.
L'alto profundo mar gi? non pur erra
la sua consorte che rotonda miro,
anzi, fatta la via per calle stretto,
in grembo a lei si fece agiato letto.
Gi? d'erbe, fiori, piante e de' virgulti
la terra d'ogn'intorno si verdeggia;
quai poggi erbosi, e quai lor gioghi occulti
han di frondose cime, e qual pareggia
monte le nebbie. Ma de' boschi adulti
ecco gi? sbuca l'infinita greggia
de gli animali: chi presto, chi pegro,
chi fier, chi mansueto, o bianco o negro.
Anco d'augelli un'alta copia vidi
sciolti vagar per l'aere, ed altri tanti
su per le frondi e macchie tesser nidi
o rassettar col becco li aurei manti
(non ? poggetto e riva, che non gridi
lor vari e ben proporzionati canti),
altri lasciare il volo e al nuoto darsi
e, in acque scesi, d'augei pesci farsi.
Stavami affiso, e nel mirar un dolce
pensier alto diletto m'apportava:
gran cosa il mondo, e pi? chi 'l guida e molce
troppo mi parve allor, e ch'ei non grava
n? l'un n? l'altro polo che lo folce,
e ch'un s? magno artefice l'inchiava!
N? fu mirabil men, che de niente
pender lo vidi ad alto incontanente.[304]
Tra nulla e tutto 'l mondo alcun indugio,
quantunque pargoletto, in Dio non cape.
Or stracco di stupir non pi? m'indugio:
ma, v?lto il passo ad un pratel che d'ape
tutto risona, dando a lor rifugio
s? l'aura dolce come i fior le dape,
mi si presenta ratto in bella gonna,
ch'esce d'un bosco, sola e grave donna.
Presta ne' gesti, e di sguardo matura,
ma pi? d'augello ne l'andar spedita,
ha vesta bianca, gialla e di verdura,
e ci? che 'ncontra tocca e d?lle vita.
Che nulla a drieto lasciasi procura;
e sopraggiunta ov'era l'infinita
mandra de l'ape, tutte le raguna,
e fece lor non so che, ad un' ad una
Vago di lei saper, non che la causa
perch? s? or questa or quella cosa tocchi,
vadole contra; e poi, di farle nausa
temendo, mi ritraggo e basso gli occhi.
Ella che accorto m'ebbe fece pausa
con le man giunte al ciel e li ginocchi
piegati in terra, e tal parole sciolse,
che poi finite, a me lieta si volse:

NATURA

Quell'inclito animale d'alto pregio,
ch'ogni altro avanza e tiensil basso e domo,
ecco, celeste Padre Santo, il nomo,
se da voi porre i nomi ho privilegio!
Ma gi? trovai nel nostro sortilegio,
che nominar il debba ?fragil uomo?,
per quel s? dolce e pestilente pomo
cui si nascose il primo sacrilegio.
Ben vedo che per me, ?Natura? detta,[305]
l'eterno oprar che destemi si perde,
e nasce ognor che mi persegua il tempo.
Onde, per ch'ora sia sempre sul verde,
altre stagion verranno assai per tempo,
che al fine mi trasportan qual saetta.

DIALOGO

NATURA E TRIPERUNO

 

NATURA

Spirto immortale, a cui sol alza Dio[306]
la fronte in cielo e fattene capace,
fa' che a me torni udendo l'esser mio!

TRIPERUNO

Io sospicai di troppo esser audace,
volendo e te sapere e l'opre tue:
per? mi volsi adrieto per mia pace.

NATURA

Anzi dal Padre destinato fue
che sol da l'uomo l'esser mio s'intenda
fin a la meta de le fiamme sue;
ma che l'ottavo cerchio non trascenda,
se non quando abbia seco parte in cielo
e l'alto pegno, d'onde 'l tolse, renda.
Ch'i' sia la tua Natura non ti celo,
da Lui fatta del mondo servatrice
sempre, se sempre dura l'uman velo.

TRIPERUNO

Dunque sei quella mastra, quell'altrice,
quell'onoranda madre, quella grande[307]
di Dio ministra e del mio ben radice?
Ecco se lunge tua belt? si spande,
o causa se non prima, almen seconda,
ecco se chiara sei da tutte bande!
Verd'? la terra, gialla, rossa e bionda,
che 'l tuo pennello intorno mi la pinse
e mi la rese agli occhi s? gioconda.
E 'l ciel ne lodo, e lui che il mondo avvinse
di quel forse non mai solubil groppo,
n? men chi a l'opra nobile t'accinse.

NATURA

Saggio animal, pur son colei che 'ngroppo
le fila ch'altri l? dissopra ordisce:[308]
lieta ne vo, ma non sicura troppo.
Anzi 'l vivo pensier, che m'addolcisce
pensando al tuo, non pur al mio decore,
sento che passo passo in me languisce.[309]
Deh! non fallir, alma gentil, amore,
che ad esser ti degn? suo dolce obietto,
dandoli tu, de cui si pasce, il cuore!

TRIPERUNO

Il cuor a lui gi? diedi, ed ogni affetto
ho di seguir e non lasciarlo unquanco
per non privarmi del suo bello aspetto.
Non sazio mai, non mai vedrommi stanco[310]
mentre mi volgo a contemplar ognora
l'amor per cui di gioia mai non manco.
E pur se dubbia sei, madre, n? ancora
ben stabile considri esser il chiodo,
battil cos? che mai non esca fora!

NATURA

Figliuol, gi? strinsi a l'altre cose un nodo,
donde sferrarsi quelle non potranno,
se Dio non le ritorna al primo sodo.
A te con li altri, che saputi vanno,
diede l'alto motor un liber giovo,
che o lor in pregio vegna o lor in danno.
Per? mistier non ? ch'io batta 'l chiovo;
altro braccio del mio sovente il preme;
tu stesso il sai che 'l fatto non t'? novo.
Ragion, memoria, e lo 'ntelletto insieme[311]
sceser in te da le soperne idee,
c'han di tua libert? le parti estreme.
Se mai verr? che contra 'l ben si cree
pensier in te, non temer, che non senta
le voglie entrate se sian bone o ree.
Perch? la scorta tua sta sempre intenta
del cor al varco e sa chi va chi viene,
n? in darti avviso mai fia pegra e lenta.[312]
Per? ch'io sol la rabbia in te raffrene!
forse tempo verr? che da me impetri
de le stagion di foco e ghiaccio piene.
Ch? quando sia che i d? brumali e tetri
volgerti il chiaro ciel sossopra miri,
e i monti neve, e i stagni farse vetri,
nostra in bal?a sar? che 'l mondo giri,
lo qual il tempo adorno riconduca,
e l'erbe e' fior novellamente aspiri.
Ma non sia ch'alcun serpe mai t'induca
de l'arbore vietato a c?r il frutto,
che ancide altrui se 'l morde o se 'l manuca.

TRIPERUNO

Pi? tosto il sol fermarsi e 'l mar asciutto
forse vedr?, che mai contra la voglia
cosa mi faccia di chi move 'l tutto.
Ma scoprimi tu gi? (quando che foglia
mai senza tuo vigor non penda in ramo)
quanto sii vaga e bella sotto spoglia!

NATURA

Qual pianta, qual augel, qual fiera pi? amo
di te, saggio animal? Per? mie cose
io pi? mostrarti, che tu veder, bramo.
Voi dunque, freschi rivi, piagge erbose,
opachi colli, cavernosi monti,
campi de gigli, de ligustri e rose;
voi, rilevate ripe, laghi e fonti,
riposte valli, ruscelletti e fiumi,
ch'anco miei segni non gli avete c?nti;
anzi del ciel voi fiammeggianti lumi,
quella vert? spandete a l'uomo nostro,
ch'omai l'assenni e del mio ben l'allumi!
Nel cui servigio mosse l'esser vostro[313]
un Dio: per? ch'ei sol v'intenda lece,
al qual faceste un altro pi? bel chiostro;
chiostro di tante stelle ornato in vece
d'un bel trapunto, ove specchi e gioisca
le quattro e sette l?, qua l'otto e diece.
E quanto su contempla e gi?, sortisca
in grazia tal, che lo 'ntelletto pigli
non men de l'occhio, e par a lui salisca.
Orsi, tigri, leon, lepre, conigli,
pantere, volpi, orche, ceti, delfini,
aquile, strucci, nottole, smerigli,
non sia de voi chi umile non s'inchini
a l'assennata forma, ovunque scorre
tra voi platani, abeti, faggi e pini.
Di tutte vostre cause in lui concorre
una dal sommo artefice criata,
che a l'uomo suo voi tutti ebbe a comporre.
Ma sento gi? l'error! Ahi, scellerata
soperbia, che pur l'uscio trovi aperto,
ben cara costaratti quell'entrata,[314]
ch'io vengo il premio compensarti al merto!

TRIPERUNO solo

Se dir volessi a mille e mille lingue,
se por in carte a mille e mille penne,
col senno ch'ogni groppo ci distingue,
dramma del sommo ben ch'allor mi venne,
dapoi che l'alta donna con le pingue
di sdegno gote al ciel spieg? le penne,
direi che tra' mortali l'esser mio
saria non d'uomo anzi terrestre Dio.
Gi? mai s? bel secreto fu di lei
n? in erbe, fonti, pietre, stelle occulto,
ch'al subito girar de gli occhi miei
non mi restasse in l'alta mente sculto.
So ben che mille Atlanti e Tolomei
de l'intelletto, ch'oggi m'? sepulto,
non sen trarrebber una particella,
perch? saliscon d'una in altra stella.
Ma, lasso! il chiaro vetro in ch'io solea
specchiar da fronte i secli, e poi le spalle,
per ch'io 'l trovai s? fosco? perch? Astrea
pi? star non volse meco in questa valle?
perch? ridir non so quant'io scorgea
per un angosto ma soave calle?
Lassiamlo dunque; anzi a le cose parve
scendiamo, poscia che l'altezza sparve!
Sparve Natura molto neghittosa,
merc? che volse a Dio l'orgoglio equarse.
I' mi fermai sott'una macchia ombrosa,[315]
mirando l'ape, quinci e quindi sparse,
a sacco porre una campagna erbosa
ed a vicenda in loco poi ritrarse,
ove locar di cera e m?le vidi
per cave querze i tetti lor e' nidi.
Se fu ne' grandi corpi molto industre
Natura, ove mirabil officina
corc?, quanto pi? parmi saggia e illustre
fingendo l'apa in forma s? piccina!
N? l'apa sol, ma ci? ch'umor palustre
nudrisce, dico, o riscaldata brina,
donde sbucarse veggio tarli e culci,
vespe, cicade, mosche, ragni e pulci.
Dimmi tu, senso altier che a tutta puossa
intender cerchi Dio n? mai lo aggiugni,
perch?, s'han elli sangue, nervi ed ossa
sol per sapere, non te stesso impugni?
perch? sottrarsi da qualche percossa
lor presti miro, che morte no 'i giugni?
Segno evidente ch'in tal corpicello
non men la madre opr? ch'in un gambello.
Ch'instrusse mai quella solerte vespa
svenar il ragno e trasferirlo al speco,
dove co' piedi e rostro pria l'increspa
e tienlo poi, qual uovo, in grembo seco,
in fin ch'un figlio in quella tana crespa
gli nasca d'ale privo, ignudo e cieco,
ma di troncate mosche tanto 'l pasce,
ch'egli gi? vespa salta fuor di fasce?
Qual mastro dito a l'errabondo fuso
volve di quel del ragno pi? bel stame,
ch'or suso va cos? veloce, or giuso,
nodando, per far preda, l'alte trame?
Poi, ne la stanza pendula rinchiuso,
attende al varco, per scemar la fame,
qual animal vi caschi ne le stuppe,
che con prolisse gambe ravviluppe.
N? la formica men sagace parmi,
ch'ognor s'affanna per schivar il stento.
Di quanta forza veggio che co' l'armi[316]
e schiene va burlando il gran frumento
(cos? nel far teatri grevi marmi
s?lsi condur per gli uomini al cimento),
poi l'incaverna e fiedelo col rostro,
che non s'imboschi dentro l'ampio chiostro!
Ecco sen passa d'una in altra forma
quel vermo onde la seta for s'elice.
O bell'instinto natural e norma,
che sanza le sua fila n? testrice
n? aurefice ben soi trapunti forma!
Taccio l'ovra del candido bombice
che dal svelto per pioggia fior di querza
nasce cangiato in fin la volta terza.
Mille altre spezie de la picciol greggia
pospongo agevolmente or in disparte.
Segue ch'io solamente l'ampia reggia
de l'ape contemplando chiuda in carte;
ch? 'l magistrato lor forse pareggia,
se non in tutto, il nostro almen in parte,
s? come quelle c'han statuti e legge,
n? manca il duca lor che le corregge.
Anzi de la pi? parte da' suffraggi
lo eletto imperator sostien la verga;
satelliti, littori, servi e paggi
vannogli sempre appresso ovunque perga.
Esso le pene simili a li oltraggi
librando va: per? non ? chi s'erga
soperbamente contra lui, ch? amando
temesi un rege pi? che minacciando.[317]
Non come l'altre l'umido mucrone
(armollo assai sua maiestade) cura.
Mentre la plebe strenua compone
senza Vetruvio tanta architettura,
egli sta sopra e lor case dispone,
servando (ove convien) modo e misura.
Non esce mai di corte se non quando
del popol manda una gran parte in bando.
E se a tardarla fusse allor men tosta
qualche armonia di ferro o d'altro s?no,
l'impulsa torma irebbe assai discosta.
Cos? dal rege suo guidate sono:
per? Natura v?l che senza sosta
lor di concento arresti qualche tono,
e 'nsieme le raguni a nova tomba,
in guisa de' soldati al s?n di tromba.
Ma s'io non voglio che 'l mio popol n'esca
di sue contrade per migrar altrove,
un'ala tronco al capo de la tresca,
la qual non senza lui mai fuga move.
S'ei langue infermo, dangli bere ed esca;[318]
chi 'l porta, chi 'l sostien, chi 'n grembo il fove;
s'anche smarrito errando va per caso,
vien c?nto, qual patron da' cani, a naso.
E se di qua di l? trovar nol sanno,
allora per consiglio si delibra
condurse ad altro duca, e for sen vanno
a la cittade altrui, n? alcun si vibra
de' cittadini contra e fa lor danno,
anzi nel tetto si compensa e libra
di quanta plebe sia capace; dopo
n? pi? n? men li accettan che li ? uopo.
Tal volta ch'egli morto caschi occorre:
pensi chi ama il suo rege qual supplizio!
Di tutte bande al corpo si concorre,
gittate a terra l'util esercizio;
con lagrime non san elle gi? sporre
lor gran cordoglio al funeral uffizio;
dir? ben veramente aver udito
strepito d'ale con vocal ruggito.
Se d'ordinato e regolar costume
giammai l'uso mortal restasse privo,
puoterlo aver da l'api si presume,
n? l'uomo forse l'averebbe a schivo;
ch?, stando elle di notte ne' lor piume
si il stato per servar s? il rege vivo,[319]
la vigil guarda sempre a l'uscio ascolta,
cascando a queste e quelle la sua volta.
Ma de l'augel cristato non s? presto
s'annunzia gi? spuntarse nova luce,
ecco di tromba un s?no manifesto
fa dar per le contrate il pronto duce.
S'ode di par il s?no: ? il volgo desto,
al solito lavor che si riduce,
o lieto ch'in cospetto al rege primo
va fuora e riede carco sol di timo.
La verde giovenezza ? che sen fugge
a la ricolta in bande assai longinque.
Chi qua la rosa, chi l? il giglio sugge;
chi assale questo fior e chi 'l relinque.
Fassi gran preda, ed Ibla si distrugge
co' l'altre terre che vi son propinque;
la turba d'ogn'intorno succia e lambe,
n? cessan riportar l'enfiate gambe.
Ma de le pi? attempate un storno arguto
col suo signor in r?cca stassi a l'ombra,
cui per ufficio vien locar in tuto
la roba che, portata, il tetto ingombra:
depor i fasci a parte dan aiuto,
parte, gi? leve, a la campagna sgombra.
Tanto al divin servigio, a l'uman gusto[320]
di piacer brama un vermo si robusto!
Talora un vento subito (quantunque
del tempo sian presaghe) di tranquillo
cos? molesto vien, che scossa ovunque
si pascon elle in fin l'umil serpillo.
Ecco la madre le ha provviste dunque;
ch?, toltosi ne' piedi alcun lapillo,
van elle poco del gran vento in forza,
librando qual nocchier il volo ad orza.
Ed anco se la notte per la loro
molta ingordigia d'acquistar le assale,
raccolte insieme quasi in concistoro
le gambe al ciel e 'n terra posan l'ale;
ch? de le stelle il rugiadoso coro
le avvinge s? che poco il volo vale,
se non s'industran starsene sopine
tutta la notte ad aspettar il fine.
Taccio le ultrici guerre, ch'a le volte
tra l'un vicino rege e l'altro fansi.
Tu vedi tante squadre intorno accolte,[321]
che poscia a t?r la vita irate vansi,
e se ritornan parte in fuga v?lte,
ritrandosi lor duci fiacchi ed ansi,
parte seguendo vittoriosa gode,
n? altro che plausi e voci liete s'ode.
Indi iattura tal (se non dissolve
l'agricola prudente lor litigi
co' l'importuno fumo e secco polve)
vi nasce, che la morte ai campi stigi
la parte vinta e la vittrice involve.
O grandi spesso al stato uman prodigi!
ch? de lor code mandon l'alte spine,
cui per grand'ira seguon l'intestine!
La vile mandra de' pannosi fuchi
trovan sovente starsen al presepe,
ove cosa non ? che non manuchi;
ma poi nel faticarse, pegra, tepe.
Tu vedi lor scacciati esser da' buchi,
e morti far in cerco folta sepe;
e il simil fan de l'apa tarda e pigra,
che uccisa vien s'occulta non sen migra.
Tra gli diversi lor nemici e morbi
come vespe, crabroni e rondinelle,
ragni, lacerte, acqua de stagni torbi,
puzzo de cancri, culici, mustelle,
par che la rana pi? le affanni e storbi;
perch'ella contra i brandi lor ha pelle
non men sicura e di maggior fiduccia,
del ferro al colpo, d'una fral cannuccia.
Ecco mirabil vermo, che disopre
li altri animali (non pur dico insetti,
ma quanti piuma, squame e lana copre)
esser fatto mirai per santi effetti,
tra' quai conobbi le lodevol opre
di cera, dentro ai cristiani tetti,
ove non ben di notte Dio si cole,
se m?ncavi di cere acceso il sole.
D'altri animali, dicovi seguendo,
tenni le cause d'infallibil prova;
ma quante rimembrar in me contendo
e porle inanzi a voi, nulla mi giova.
Cos? volse il mio fallo che, s'io spendo,
per risaper ci? ch'in natura cova,
il tempo invan, ne pianga giustamente
e faccia come quel che tardo pente!
Di poggio in piano, di campagna in selva,
giravami qual spirto che di gioia
pascendosi l? su per l'ampio ciel va,
n? mai cosa v'incontra che lo annoia.
Qual orso, qual leon, qual altra belva
rest? venirmi (non che desse noia)
scherzar intorno, e dentro le lor sanne
prendermi leggermente ambo le spanne?
Palpava il dorso al tigro, come solsi
far d'un cagnolo o d'altro picciol pollo.
Comai le sete a li apri e mi ravvolsi
le vipere a le braccia, al capo, al collo,
li augelli al pugno e' pesci al lido accolsi,
n? de mirarli venni unqua satollo.
Poscia mi volsi a la man dritta, come
sopra mi disse quel dal dolce nome.[322]

PARADISO TERRESTRE

TRIPERUNO

Dopoi che sopra e sotto 'l ciel usciro
l'opre del summo artefice s? belle,
n? molto spazio and? che l'empio e diro
popol de li dem?n fu da le stelle
bandito al centro basso, ove periro
con l'ombre eternamente al ciel rubelle,
su l'uomo Dio fond? stabil disegno,
ch'empir di novo avesse il vodo regno.
N? pi? son pesci in acque n? pi? foglie
in selve, come in ciel private stanze.
Per? Michel, poi ch'ebbe l'atre spoglie
di Pluto trionfando su le lanze
sospese ai tetti ove l'onor s'accoglie,
discinto il brando e tolte le bilanze,
venne qui gi? per farvi non pi? guerra,
ma sol un paradiso a l'uom in terra.
Qui, di soperba fatta invidiosa[323]
la greggia de' cornuti negri, quando
questo antivede, cruda e neghittosa,
ripiglia contra noi l'occulto brando
(i' dico ?brando occulto? a pi? dannosa
nostra ruina), e sempre va celando
quinci quel vischio, quindi quella pania,[324]
tanto che la pi? parte avvinge e lania.
Piantato dunque in terra un paradiso
da l'angiol fu di Dio detto ?Fortezza?;
luoco non privo mai d'onesto riso,
de s?ni, canti, giochi a gran dolcezza.
Quivi trovai pur anco l'aureo viso
di quel Ies? che l'amorosa frezza
nel cor m'immerse prima, e seco poscia
portollo, me lasciando in dolce angoscia.
Su ne le pi? levate cime, donde
Febo riporta il mattutino giorno,
un monte, c'ha l'inaccessibil sponde
e cento millia passi volge intorno,
vidi che al ciel lunar il capo asconde
e par che tocchi i piedi a Capricorno.
L? fui chiamato d'una nebbia scura:
— Vieni oggimai, o santa creatura! —
Suso mi porto, ed ecco alte muraglie
vidi luntano con quadrata cinta
serrar de poggi e campi e di boscaglie
una provincia in pi? parti distinta.
Ma quello muro quasi mi abbarbaglia
la vista, dal suo lume resospinta,
merc? ch'era cristallo ed oro, intorno
di perle e tutte l'altre gemme adorno.
Or su per quel parete schietto e fino
vidi ch'avean Michel e Raffaele
(non l'urbinate, dico, o 'l fiorentino,
ch'or lascian dopo s? gran lode in tele)
depinto per mio specchio il fier destino
di Lucibello, a se stesso crudele,
che, bello troppo a se medemo, d'alto
prese co' gli altri un smisurato salto.

LA PORTA

?Uomo, che vedi a quanto onor ti degna[325]
l'altissimo Fattore,
or entra ad obbedirlo, acci? che 'l cuore
da te gi? dato in grazia ti 'l mantegna!
Ma ne la gioia tua, ch'avrai s? lieta,
fa' che raffreni accortamente; cui
non repugnando, provarai col male
quant'era il ben, anzi che l'un di dui
pomi gustassi. Ch? se Dio ti 'l vieta,
toccar non d?i, per non venir mortale.
Dal serpe il piede e dal legno fatale
se non vieti la mano,
ecco d'un legno more il ceppo umano,[326]
e un legno per sua croce Dio non sdegna!?.

TRIPERUNO

Queste parole, trapuntate in oro,
sopra la porta, in un bel smalto, lessi;
ma i fregi e gli archi ed ornamenti loro
sono di fine gemme carchi e spessi.
Entrovi lieto per s? bel tesoro,
e in cerchio con le mani esser rannessi,
d'angioli pargoletti e nudi un stolo
vidi scherzando volteggiarsi a volo.
E su per merli e for de gli balconi,
quei di diamante e questi di cristallo,
mill'altri con diversi canti e suoni
muoveno d'altri tanti un lieto ballo:
arpe, la?ti, citere, lironi,
senza mai farvi punto d'intervallo,
addolciscon le orecchie d'uditori
al nome c'hanno impresso dentro i cuori:
al dolce nome sovra ogni altro grato,
nome amoroso, nome aureo e soave,
nome del mio Ies? forte, sacrato,
nome di grazie ponderoso e grave!
Non ? macchia s? lorda di peccato,
che 'l dolce nome di Ies? non lave;
nome che chi noma in spirto, sente
mordersi 'l cuore d'un pietoso dente!
Quivi se non in danze e giochi stassi,
danze pudiche, giochi allegri, onesti:
chi su le penne, chi su lievi passi,
que' leggiadretti spiriti modesti
scorron il bel giardino, or alti or bassi,
quelli de' boschi per le cime, questi
per le fiorite piagge e verdi prati,
succinti o in bianche stole o nudi alati.
Altri con reti d'oro i pesci snelli
tranne di questo rio, di quello fonte;
altri tendon guazzarsi ne' ruscelli
chi pi?, chi man, chi l'ale, chi la fronte;
altri celan archetti ai vaghi augelli
per macchie e ripe, o sotto o sopra un monte;
altri scaccian de' boschi e folti vepri
damme, conigli, cervi, capre e lepri.
Vidine molti ancora, con bei freni
di seta e d'oro, stringer lioncorni:
chi li rallenta il morso, chi 'l sostiene
con lievi sbalzi e volgimenti adorni.
Franguelli, piche, merli e filomene
con pappagalli, rondinelle e storni
volan di ramo in ramo, a schiera a schiera,
cantando la sua eterna primavera.
Eterna primavera qui verdeggia,
ch? 'n le catene il Tempo giace altrove;
aprile quivi e marzo signoreggia,
n? mai da l'ombre zefiro si move,
per cui soavemente sempre ondeggia
l'altezza de colline e poggi, dove
pini, cipressi, querze, faggi, abeti
adombrano vallette e campi lieti.
Quivi onoratamente fui raccolto
da duo barbati e candidi vecchioni.
L'uno fu Enocco, e l'altro che, distolto
di terra, ascese in ciel fra spirti boni,[327]
quando Eliseo videlo nel molto
foco volar a l'alte regioni.
Questi con lieto volto m'abbracciaro,
mostrando il mio advenir quant'ebber caro.
Vado fra loro poscia, lento lento,
favoleggiando verso il gran palaccio.
Ecco quegli angioletti, a trenta, a cento
lascian chi l'arpa, chi 'l danzar, chi 'l laccio,
e vengono assalirmi in un momento
con un soave intrico e dolce impaccio,
perch? mi carcan gli omeri, la testa
di sua leggiera salma e fanno festa.
Entrato ne l'adorna ed ampia stanza
non men di quelle del signor mio bella,
bella e gioiosa for d'umana usanza
(qual oggi a Marmir?l si rinnovella,
e qual li ombrosi campi sovravanza
in Pietole sul chiaro Minzio, e quella
ch'entro l'antiqua terra di Gonzaga
mostrasi al viatore tanto vaga),
trovamo un spacio quadro d'una liscia
piazza de marmi lustri ed altre pietre.
Ove nel mezzo la fatale biscia,
come sotto acqua fanno le lampetre,
sdrucciola quinci e quindi, ma non fiscia;
ch? 'l capo ha di dongiella e par ch'impetre,
col vago suo sembiante, che chi passa
subitamente al suo voler s'abbassa.
S'abbassi tostamente a la sua voglia
di por le mani a quel vietato ramo
e dispiccarne il frutto, onde la doglia
succede poscia al nostro interno, Adamo;
lo qual non mai si vede senza spoglia,
se non dapoi che l'esca di quell'amo
l'attosca s?, che morto ne rimane,
fin che 'l rilevi poi lo empireo pane:
quel pane dolce bianco ed immortale
che pasce in ciel l'angelica famiglia.
Non ? morbo n? peste s? mortale,
che questo pan, sal?bre a chi se 'l piglia
con salda fede, nol risani, quale
fu de' leprosi gi? la maraviglia.
Ma guardesi chiunque indegnamente
a un s? soperbo cibo admove il dente!
Soperbo cibo, che d'umilitade
profundissima sorse in mia salute;
soperbo cibo, ove l'alta bontade
cerc? d'erger a' morti la virtute;
soperbo cibo, il qual con veritade
convien che 'n corpo e sangue si trasmute,
in corpo e sangue de l'umano Dio,
che disse: — Or manucate il corpo mio! —
Ma come egli togliesse il grave assonto
in s? d'ogni mia colpa su la croce,
avrovvi a dir col tempo, s'io m'affronto
a un stil pi? grave, e non pi? che veloce.
Ch? se d'altri concetti al giogo monto
col senso, non sussegue poi la voce
se non debile e inferma; come chiaro
si vede ch'io non so, ma tardo imparo.
Vedr?, se 'l debil filo non si taglia
nel mezzo del cammin di nostra vita,
quel raggio, ch'ora il senso m'abbarbaglia,
con vista pi? vivace e pi? spedita.
De' bianchi e negri spirti la scrimaglia
ben tengo de le muse al monte ordita;
ma ch'abbia, se non tutto, almen in parte
di Lodovico attendo il stile e l'arte.
Non pi? Merlino, F?lica e Limerno
oltra sarovvi, ma sol Triperuno.
Tratto son oggi mai di quell'inferno
ove chi faccia ben non vi ? sol uno.[328]
Per te, Ies?, per te vedo e discerno
esser del cibo tuo sempre degiuno;
ed ?ingannato al fine si ritrova
chi lascia la via vecchia per la nova?.

 
 

FINISCE LO CAOS DEL TRIPERUNO.


DE AVREA VRNA QUA INCLUDITUR EUCHARISTIA

Urnula, quam gemmis auroque nitere videmus,
quaeritur angusto quid ferat illa sinu.
Haud ea, pestifero Pandorae infecta veterno,
intulit omnivagas orbe adaperta febres!
At pretium, quo non aliud pretiosius, ipsa haec
quod rerum amplexus non capit, urna capit.

MIRA DUORUM AMICITIA

F ortius an posset domus A rdua calce tener I,
R oboraque an piceum fir M a ratis oblita glute N,
A rctius, amborum, ut vide O, se vestra catheni S
N ectere amicitiae tum R arae pectora? et alt O
C olle fidem vestram stabile E rexisse tribuna L?
I nstat enim quercum dum T aurus vellere corn V,
S axaque spumosis in F luctibus ardua dum su B
C autibus unda quatit, magis I ma e sede mover I
O mnia tunc possent, quam D ivum haec unio, qua ni L
R ectius humanis viget, E t ferit aethera laud E,
UM braque post cineres con S tat per saecula grandi S.

de Georgio Anselmo

G randi vectus equo ruit E cce Georgius, hast A
E recta in colubri le T hum, cui guttur et ingue N
O ra per abrumpit tum in D ignos virginis artu S
R egalis bibitura. Quod E t tibi nomen honosqu E
G loriaque obtingit, iacu L is cum, Phoebe, nigrum fe L
I ngentes per agros furis I n pytona vomente M
V atem ergo ad tantum facit U num id nomen, ut act V
S it pro eodem Phoebus ver S u tituloque Georgiu S

TUMULUS MARCI

F elicem ingenio, lin G ua, patria, patre, Marcu M
I mmatura secat mors E cce, tuumque sub arc A
L umen obiisse gemis, stirps O Cornelia, nec cu R
I ngratae possis te R omae credere postha C
V ideris: ipse quidem dum G rato ad maxima vult V
S ceptra galeratus volat, I tur . . . . . . . .[329] S.

A l'integerrimo signor Alberto da Carpo

Signore mio, l'altissima cui fama
sin oltra 'l ciel ottavo s'alza e gira,
amor mi sprona e la ragion mi tira
dir quanto in terra ognun v'onora ed ama.
E mentre son per adempir mia brama,
giungendo rime al s?n di bassa lira,
mi resto e dico: — Ahi! mente mia delira,
che gir ti credi ove 'l desio ti chiama!
Chi salir? tant'alto? n? la lingua
di Tullio e di Virgilio l'aurea tromba
potria montar di sua vertude al giogo! —
E pur, come che 'l stile mio soccomba
a quell'altezza tanta, non si estingua
di lui cantar un desioso fuogo.

Ad un altro Alberto da Carpo di tal nome indegno

LIMERNO

Caro germano, potriati facilmente pervegnire a le orecchie che, favoleggiando noi, F?lica e Triperuno insieme, ed io con loro, de la miracolosa dottrina de uno asino, mi occorse adducerti in testimonio o sia esempio di coloro li quali, non sapendo parlare, si intromettono temerariamente fra gli saputi e savi uomini a ragionare de li altrui fatti e costumi, volendosi elli con lo biasmar altri mostrarsi di qualche onore e reputazione degni. E perch? tu da me ti chiamarai forse oltraggiato essere e vituperato, ti rispondo, nanti tratto, che con l'altre tue bone condizioni matto ancora ti mostrarai, quando in te non voglia patire quello che in altro giammai non cessi adoperare, io dico ne l'altrui fama e onore. Dimmi, uomo dappocaggine che tu ti sei, con che ragione, con che giustizia, con qual caritade tu con quell'altro che fiorentino si fa, Sebastiano ?puzzabocca?, e con altri toi simili furfanti, a li quali ben sta quella sentenzia del mio barbato Girolamo: ?Possident opes sub paupere Christo, quas sub locuplete diabolo non habuerint?; per qual, dico, necessaria cagione non mai vi straccate di cercare far danno ne la fama ed onore del giovene innocente Triperuno? in che cosa egli vi offende, diavoli che voi siete? Ah maladetta rabbia di questa invidia! come se indraca pi?, come se invipera nel sangue innocente, perch? sa, perch? vede lui aver posseduto di libertade lo paradiso terrestre, de lo evangelio la luce anti smarrita, d'un Orso mansuetissimo la grazia! Roditi dunque da te istessa, o conscienzia diabolica, la quale, per tua soperbia, lo perduto seggio a l'uomo esser donato vedi! Lasciatelo stare in vostra malora, arrabbiati cani, ch? egli non pur non vi offende, ma si sdegna pensar cos? bassamente de voi, malvagi e invidiosi spiriti, non tutti dico, non tutti appello, anzi lodo e reverisco li uomini quantunque rari conscienzienti. Ma tu, Alberto, al quale un tal nome di quello non pur accostumato e saputo signore ma profondissimo filosofo cos? conviene come ad uno asino la sella d'un bel destriero, per mio consiglio studiati avanti di meglio raffrenar la lingua, che non facevi lo tuo cavallo grosso, al tempo de le barde, essendo soldato vecchio; che nol facendo, mostrarotti una penna di oca pi? eloquente essere che la lingua d'uno baboino. Guardati!

 
 

FINE DEL VOLUME PRIMO.

 
 

NOTE:

[1] Mater prima, secunda soror, mihi tertia neptis.

[2] Maledictus homo qui negligit honorem suum!

[3] Sales animo languenti amarae sunt.

[4] Carmen reprehendite quod non | multa dies et multa litura co?rcuit etc.

[5] ?Iuvenile vitium est, regere non posse impetum?. Sen.

[6] Vexatio dat intellectum.

[7] San Paolo.

[8] Caos.

[9] Tre parole de titolo.

[10] Tre folenghe.

[11] Tre donne.

[12] Tre etadi.

[13] Tre fogge di parentado.

[14] Tre argomenti.

[15] Tre parti d'ogni argomento.

[16] Tre nomi.

[17] Tre selve.

[18] Tre allegorie.

[19] In moerore animae deicitur spiritus.

[20] Pusillanimitati virtus succumbit.

[21] Utitur metaphorice fabula Icari et Dedali.

[22] In perpetuis non differt posse et esse.

[23] Coecum quid et miserum hominibus vita.

[24] ?Proprio filio non pepercit, ut nos redimeret?. Paul.

[25] ?Summa Providentia carere fuco voluit ea quae divina sunt?. Lact.

[26] Tangit idearum opiniones.

[27] ?Nil sine magno | vita labore dedit mortalibus?. Horat.

[28] Rationalis anima, quae ad corpus accedit, oblivionem sui quam primum incurrit.

[29] Dulce quidem est poculum per quod praeteritorum fit bonorum oblivio.

[30] Difficillimum omnium rerum est mortalibus Dei consilium.

[31] De caeco nato scriptum est: ?Quid peccavit? Hic aut parentes eius??. Responsum est: ?Ut manifestentur opera Dei?.

[32] ?Sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur?. Paul.

[33] ?Adam obtemperans mulieri habet tipum rationis voluptati succumbentis?. Aug.

[34] ?Plato in libris Legum quid sit omnino Deus inquiri oportere non censet?. Cic.

[35] Utitur periphrasi circa id quod in instanti agitur.

[36] ?Cum igitur statuisset Deus ex omnibus animalibus solum hominem facere coelestem, cetera universa terrena, hunc ad coeli contemplationem rigidum erexit; ibi pedem constituit, scilicet ut eadem spectaret, unde illi origo est?. Sen.

[37] Iustitia Dei est, ut nullum malum transeat impunitum.

[38] Summa et omnium difficillima est victoria sui.

[39] Hic uterum matris intelligit.

[40] ?Decem mensium tempore coagulatus sum in sanguine?. Sap.

[41] ?Melpomene tragico proclamat moesta boatu?. Virg.

[42] Asperitatem rythmorum ipsa haec materies deposcit.

[43] ?Non facit ad lacrimas barbitos ulla meas?. Ovid.

[44] Summum erga hominem Dei beneficium.

[45] Peccatum originale, quod in Adam fuit personale, in aliis naturale.

[46] Anima rationalis hanc in miseriam devolvitur, ut mox altius se ipsam recognoscat.

[47] ?Principium iure tribuetur homini, cuius causa videtur cuncta alia genuisse natura, magna saeva mercede contra tanta sua munera; non sit ut satis aestimare, parens melior homini an tristior noverca fuerit?. Plin.

[48] ?Oh quam contempta res homo nisi supra humum se erexerit!?. Arist.

[49] ?Prima roboris spes primumque temporis munus quadrupedi similem facit?. Plin.

[50] ?Non quidem certe est aliquid miserius homine?. Homer.

[51] ?Itaque multi extitere qui non nasci optimum censerent aut qui ocissime aboleri?. Plin.

[52] ?Oh fallacem hominum spem fragilemque fortunam et inanes nostras conceptiones, quae mediocri in spatio saepe franguntur et corruunt!?. Cic.

[53] ?Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas | regumque turres?. Hor.

[54] Natura.

[55] ?Natura ceteris animantibus testas, cortices, coria, spinas, villos, setas, pilos, plumam, pennas, squamas, vellera tribuit; hominem tantum nudum in nuda humo natali die abicit ad vagitus statum et ploratum?. Ex Plin.

[56] Erode.

[57] Polus quod centrum est circuli arctici. ?Arctos oceani metuentes aequore tingi?. Virg.

[58] ?Truncos arboresque cortice interdum gemino a frigoribus et calore natura tutata est?. Ex Plin.

[59] ?Ah, Domine Deus, ecce nescio loqui, quia puer ego sum?. Hieremias.

[60] ?Littera Pythagorae discrimine secta bicorni?. Virg.

[61] Pulchrum naturae varietas est.

[62] ?Teneamus ut nihil censeamus esse malum quod sit a natura datum hominibus?. Cic.

[63] ?Aequaliter se in adversis gerere quid aliud est quam saevientem fortunam in adiutorium sui pudore victam convertere??. Val. Max.

[64] Industria.

[65] Industres homines, ubi dormitare videtur natura, exiliunt.

[66] Ars liberalis.

[67] Teologia.

[68] Fisica.

[69] Logica.

[70] Metafisica.

[71] Geometria.

[72] Aritmetica.

[73] Astrologia.

[74] Musica.

[75] Magia.

[76] Medicina.

[77] Arte oratoria.

[78] Poesia.

[79] Filosofia morale.

[80] Sotto metafora del navigar sotto tramontana parla di Camillo e suo figliuolo Paolo di casa Orsina.

[81] Arte militare.

[82] ?Praestantissimum animal est homo in terris existens?. Apuleius.

[83] Homo omnium animalium excellentissimus difficiles habet ortus incrementaque tarda.

[84] ?Generosos animos labor nutrit?. Sen.

[85] Ab affectu perficitur effectus.

[86] ?Nescit vox missa reverti?. Hor.

[87] Naturae humanae incommoda qui recte philosophantur non magni faciunt.

[88] Ars, in quantum potest, naturam imitatur.

[89] ?Per varios usus artem experientia fecit?. Manil.

[90] ?Qui iudicat voluntati suae obtemperare non oportet?. Amb.

[91] Ars sophistica apparens sapientia est, et non existens.

[92] Ragione.

[93] Hominum industria metallorum conversionem (quod est naturae) ob avaritiam quaerit.

[94] Liberalis ars culpa manualis industriae saepe calumniam patitur, ut patet de alchimistis.

[95] ?Magnitudo pecuniae a bono et honesto in pravum abstrahit?. Sallust.

[96] ?Semper discentes et numquam ad scientiam veritatis pervenientes?. Paul.

[97] Multa sunt quae natura industriae nostrae reliquit facienda ut domina ancillae.

[98] Natura enim quae hominis vitio corrupta est multa incommoda generi humano parit.

[99] Mors omnium naturalium incommoditatum terribilissima homini est.

[100] Industria quippe humana dicimus temporis iniurias ferre.

[101] Duabus sed diversis tibiis utuntur musica et medicina.

[102] ?Mors est munus necessarium naturae iam corruptae, quae non est fugienda, sed potius amplectenda et iterum fiat voluntarium quod futurum est necessarium?. Io. Chrys.

[103] Omnium artium experientia iudex videtur.

[104] Ars comparatione naturae musca est ad aquilam.

[105] ?Quod ab alio odis fieri tibi, vide ne alteri tu aliquando facias?. Tob.

[106] ?Furor arma ministrat?. Virg.

[107] Feritas ad harmoniae concentum facile mansuescit.

[108] Novem doctrinae atque scientiae nodos intellige sub novem musarum figura.

[109] Non sine maxima proportione et harmonia orbes coelestes invicem locati sunt.

[110] Concordantia.

[111] Deus noster gloriosus omnia in numero, pendere et mensura creavit.

[112] ?Nihil non tam proprium humanitatis est quam remitti dulcibus modis astringique contrariis?. Bo?t.

[113] Nutrix itaque fidelissima datur homini industria.

[114] Discordi quadam concordia coelos elementaque Deus omnipotens astrinxit.

[115] ?Ipse quoque in fatis reminiscitur affore tempus | quo mare, quo tellus correptaque regia coeli | ardeat et mundi moles operosa laboret?. Ovid.

[116] Venus, quae maris e spuma nata est, pro voluptate carnali accipitur.

[117] Innocentia.

[118] Veritas et Libertas.

[119] ?Et virgo caede madentes | ultima coelestum terras Astrea reliquit?. Ovid.

[120] Boreas.

[121] Auster.

[122] Zephirus.

[123] Amore.

[124] ?Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus?. Virg.

[125] Aureae pueritiae succedunt libidinosa iuventus, ambitiosa virilitas, curiosa senectus, stomachosa decrepitas.

[126] Per se fert omnia tellus.

[127] ?... fede e innocenza son reperte | solo ne' pargoletti, poi ciascuna | pria fugge che le guanze sian coperte?. Dante.

[128] ?Vitam beatam efficiunt tranquillitas conscientiae et securitas innocentiae?. Greg.

[129] Caos.

[130] ?Tria sunt difficilia, quarum penitus ignoro: viam aquilae in coelo, viam colubri super petram, viam viri in adolescentia sua?. Eccles.

[131] ?Me tabula sacer | votiva paries indicat uvida | suspendisse potenti | vestimenta maris deo?. Horat.

[132] Pueritia.

[133] ?Damnosa quod non imminuit dies est?. Hor.

[134] Lex naturae, quae omnia in medium ponit.

[135] Pulsanti aperitur, Evangelio teste.

[136] ?Apparet nullam aliam spem vitae homini esse propositam nisi ut, abiectis vanitatibus et errore miserabili, Deum cognoscat et Deo serviat?. Lact.

[137] Iam per reminiscentiam, ingruente rationis aetate, homo suam in se recolit naturam et dignitatem.

[138] ?Tu autem quum oraveris intra in cubiculum tuum, ubi, clauso ostio, patrem tuum in abscondito ora?. Evang.

[139] Veritas in coelo moratur, quia omnis homo mendax.

[140] ?Turpe est cedere oneri quod semel recepisti?. Sen.

[141] ?Omnia quaecumque voluit Dominus fecit in coelo et in terra?. Dav.

[142] Omnium miraculorum praestantissimum est quum virgo sine floris virginei detrimento Deum hominem parit, qui complectens universum angusto praesepio patitur includi.

[143] ?Cognovit bos possessorem suum et asinus praesepe domini sui, Isra?l ante me non cognovit?. Esaias.

[144] ?Unguentum suave et optimum est amor summi boni, quo pestes mentis sanantur et cordis oculi illuminantur?. Basil.

[145] ?Lacta, mater, cibum nostrum; lacta panem de coeli arce venientem et pone in praesepium velut piorum cibaria iumentorum?. Aug.

[146] ?O iugum sancti amoris, quod dulciter capis, gloriose laqueas, suaviter premis, delectanter oneras, fortiter stringis, prudenter erudis!?. Bernard.

[147] Divi Ambrosii hymnus.

[148] ?Veritas de terra orta est et iustitia de coelo prospexit?. David

[149] ?Finis legis Christus ad iustitiam omni credenti?. Paul.

[150] ?Tota vita Christi in terris per hominem quem gessit, disciplina mortis fuit?. Aug.

[151] ?Quo autem Deus pater genuerit filium, nolo discutias nec te curiosius ingeras in profundo arcani?. Hier.

[152] Pater noster, ut liberaret servum, tradidit filium.

[153] ?Deus noster purgari homines a peccatis maxime cupit, ideoque agi poenitentiam iubet. Agere autem poenitentiam nihil aliud est quod profiteri et affirmare se ulterius non peccaturum?. Lact.

[154] ?Difficile est resistere consuetudini, quae assimilatur naturae?. Arist.

[155] Novum Herodem supprimit.

[156] Ambitio et divitiae sunt principia et fontes seditionum.

[157] Pacem et litem convenire absurdum est.

[158] Fuit.

[159] Ratio corruptae naturae succumbit.

[160] Imminet erranti furque lupusque gregi.

[161] ?Omnium legum est inanis censura nisi divinae legis imaginem gerat?. Aug.

[162] ?Fidelis Deus est qui non patietur vos tentari supra id quod potestis?. Paul.

[163] Tentatio.

[164] Febo.

[165] Bis fugienti laqueus inicitur.

[166] ?Templum est super cloaca aedificatum?. Sen.

[167] ?Bona domus, malus hospes?. Socr.

[168] ?Malorum esca?. Plat.

[169] ?Voluptates blandissimae dominae maiores partes animae virtute detorquent?. Cic.

[170] ?Genus servitutis est coacta libertas?. Arist.

[171] ?Consilio, non impetu opus est?. Cur.

[172] ?Tristes voluptatis exitus?. Bo?t.

[173] Mens nostra quae in dubio pendet, huc illuc facile agitatur.

[174] Eleutheria.

[175] ?Quid autem est libertas nisi potestas vivendi ut velis??. Quintil.

[176] Omnis mappa redditur ad stuppam.

[177] Praecipiti animo nullum est consilium.

[178] Epicuro conveniens sententia.

[179] Vatem peritissimum invocat Zoppinum.

[180] Passarinorum e familia tangit tirannum.

[181] ?Nihil est tam credibile quin dicendo fiat probabile?. Cic.

[182] ?Sors ista tirannis | Convenit, invideant claris fortesque trucident?. Claudian.

[183] Quam artificiose procedat oratio, vide.

[184] ?Nam segnes natos facit indulgentia patris?. B.

[185] Mala utique et pessima doctrina.

[186] ?Facile nostra tenera conciliantur ingenia ad honesti rectique amorem?. Sen.

[187] Non splendor nisi splendoris causa.

[188] Renaldus.

[189] Incidit in Scyllam cupiens vitare Charybdim.

[190] ?Ebrietas homines impetuosos facit?. Arist.

[191] Illusiones ebrietatis.

[192] ?Vilemque faselum?. Virg.

[193] ?... nec non et carmina, vino | ingenium faciente, canunt?. Ovid.

[194] Concors discordia.

[195] Mare voluptuosum huius vitae.

[196] Inclinatio sordidae mentis ad illicita.

[197] Elata laetitia praeter modum opinione praesentis alicuius boni.

[198] Fomentum erroris.

[199] ?Hic ridere potes Epicuri de grege porcum?. Hor.

[200] ?Non immerito medici fidi cibo et crapula distensos scaeva et gravia somniare autumant?. Apul.

[201] ?Amatoria contagio facile fit et gravissima omnium pestis evadit?. Marsil.

[202] Crapula.

[203] Vanitade.

[204] Soperfluitade.

[205] Excitat ingenium miris amor artibus atque | Eximium e vili pectore vibrat opus.

[206] ?Ludit Amor sensus, oculos perstringit et aufert libertatem animi et mira nos fascinat arte?.

[207] ?Tractant fabrilia fabri?. Horat.

[208] Bos gaudet in stercore suo.

[209] Saepe ab unius laude alterius vituperatio dependet.

[210] Bacchus et Amor, crapula et vanitas, osculatae sunt.

[211] Biduo tantum in vanitatis loco retentus est.

[212] Proprium huius principis prudentia est.

[213] Summus locus bene regitur, quum is qui praeest vitiis potius quam populo dominatur.

[214] Crapula.

[215] Vanitas instruit crapulam.

[216] Delectatione opus perficitur.

[217] ?Copia vini et tentat gressus debilitatque | pedes?. Virg.

[218] Virgilio, Catullo, Plinio.

[219] Proprium vanitatis.

[220] Alveus antiquioris Padi.

[221] Virgilius.

[222] ?Nomentana meum tibi dat vindemia Bacchum | Si te quintus amat, commodiora bibas?. Mart.

[223] ?Oh felix hominum genus, si vestros animos amor, quo coelum regitur, regat!?. Bo?t.

[224] ?Fides sanctissimum humani pectoris bonum est?. Sen.

[225] Studium vanitatis.

[226] ?Tu procul hinc absis, cui formam vendere cura est?. Tib.

[227] ?Pochi pendit? pro ?parvi pendit?.

[228] ?Pulchra facile amatur, foeda non facile concupiscitur?. Hier.

[229] ?Anceps forma bonum mortalibus. Exigui donum breve temporis?. Sen.

[230] Suavis res est pulchritudo, quum viget prudentia.

[231] ?Quid non longa dies, quid non consumitis anni?? Mart.

[232] ?Forma bonum fragile est?. Ovid.

[233] ?Res est solliciti plena timoris Amor?. Ovid.

[234] ?Rivalem possum non ego ferre Iovem?. Prop.

[235] ?Fastus inest pulchris sequiturque superbia formam?. Ovid.

[236] ?Fallax gratia et vana est pulchritudo?. Prop.

[237] Omnium vitiorum perniciosissimum est malus habitus et ignorantia.

[238] Ut cadat in Scyllam cupiens vitare Charybdim.

[239] Hic pudicitia, hic natura adulteratur.

[240] ?Vanum cor vanitatis notitiam quaerit corpori?. Bern.

[241] ?Luxuriae nimium libera facta via est?. Prop.

[242] Lascivia.

[243] Clavus clavo extruditur.

[244] Laura.

[245] Larva.

[246] Alludit huic operi trium Sylvarum quod Chaos Triperuni vocat.

[247] Minerva.

[248] ?Consilium post factum, imber post tempora frugum?.

[249] ?Dux malorum foemina et scelerum artifex?. Sen.

[250] Rarissimum animal bona mulier.

[251] Fortuna fatta Papessa.

[252] Ecco il testo completo, quale si legge nella 2? edizione:

LUNA, APPICCATO, PAPA, IMPERATORE, PAPESSA

Europa mia, quando fia mai che l'una
parte di te, c'ha il turco traditore,
rifr?ncati lo Papa o Imperatore,
mentre han le chiavi in man, per lor fortuna?
Aim?! la traditrice ed importuna
ripose in man di donna il summo onore
di Piero e tiene l'imperial furore
sol contra il giglio e non contra la Luna.
Che se 'l papa non fusse una Papessa
che per un pi? Marcin sospeso tiene,
la Luna in griffo a l'aquila vedrei.
Ma questi papi o imperatori miei
fan s?, che mia Papessa far si viene
la Luna, e vo' appiccarmi da me stessa.

[253] ?Ut navem et aedificium idem destruit facillime qui struxit, sic hominem eadem optime quae conglutinavit natura dissolvit?. Cic.

[254] Venere.

[255] Soperstizia — Vanitade.

[256] Sebastiano di patria oscuro.

[257] Aristotile.

[258] Averroi.

[259] Hic Fulica supprimit divinum amorem.

[260] ?Urit enim lini campum seges?. Virg.

[261] ?Non est, crede mihi, sapientis dicere. Vivam. | Sera nimis vita est crastina: vive hodie?. Mart.

[262] ?Sunt ditiores quod fuerant saeculares: possident opes sub Christo paupere, quas sub locuplete diabolo non habuerant?. Hieronimus.

[263] ?Quid faciet sub tunica poenitentis regius animus? qui alios vult regere, alios iudicare et a nemine regi et a nemine iudicari?? Hieronimus.

[264] Venatio.

[265] Soperstizione.

[266] ?Molle ostentat iter via lata, sed ultima meta | Praecipitat captos volvitque per ardua saxa?. Virg.

[267] Mors peccati.

[268] Ignorantia inter delitias.

[269] Thesaurus coeli quem neque tinea neque erugo demolliuntur.

[270] Omnium honestarum rerum ignava perditaque neglegentia.

[271] ?Consuetudo cui non resistitur facta est necessitas?. Aug.

[272] ?Natura Dei est invisibilis; potest tamen videri in aliqua spetie quam ipse elegerit?. Aug.

[273] ?Etenim Deus noster ignis consumens est?. Paul.

[274] Deus Pater se ipsum intelligit et amat; quae intelligentia Filius est, amor vero Spiritus Sanctus.

[275] ?Non enim potest rationem hominis obtinere qui parentem animae suae Deum nescit: quae ignorantia facit ut Diis alienis serviat?. Lactan.

[276] ?Nemo renascitur in Christi corpore nisi prius nascatur in peccati corruptione?. Aug.

[277] ?Sapientia carnis inimica est Deo?. Paul.

[278] Litera enim occidit animam.

[279] Metaphorice.

[280] ?Qui addit scientiam addit dolorem?. Eccl.

[281] Spoliant Aegyptum qui e libris philosophorum eloquentia tantum eligunt.

[282] Sermo incultus divinarum scripturarum principio eloquentibus horret.

[283] ?Omne nostrum peccatum consuetudine vilescit et fit homini quasi nullum sit, obduruit, iam dolorem perdit et valde putre est nec dolet?. Hier.

[284] ?Non nostrum accepistis spiritum iterum in timore?. Paul.

[285] Summum et maximum mandatum est Deum colere et amare.

[286] ?Sed revocare gradum superasque evadere ad horas | Hoc opus hic labor est?. Virg.

[287] ?Graminibus pecudes pascuntur, rore cicadae | Quadrupedum tigres sanguine, corde Deus?.

[288] ?Prudentia carnis mors est, prudentia autem spiritus vita et pax est?. Paul.

[289] ?Iesus mel in ore, melos in aure, iubilus in corde?. Bern.

[290] ?Haec est in omnibus sola perfectio: suae imperfectionis cognitio?. Hier.

[291] ?Felix conscientia illa in cuius corde, praeter amorem Christi, nullus alius versatur amor?. Hier.

[292] Omnis doctrina et virtus philosophorum sine capite est, quia Deum nesciunt, qui est virtutis ac doctrinae caput.

[293] Socrates moriturus gallum immolari Esculapio iussit.

[294] ?Iudicet qui potest an maius sit iustos creare quam impios iustificare.? Aug.

[295] ?Facilis descensus Averni?. Virg.

[296] ?Anima facta est similis Deo, quia immortalem et indissolubilem fecit eam Deus. Imago erga ad formam pertinet, similitudo ad naturam?. Aug.

[297] Zodiacus.

[298] Duplex et diversus motus.

[299] ?Quanto maiora beneficia sunt hominibus constituta, tanto graviora peccantibus iudicia?. Chrys.

[300] ?Laetitia bonae conscientiae paradisus est, pollens affluentia gratiarum affluensque deliciis?. Aug.

[301] Inscrutabile Dei numen.

[302] Luna omnium planetarum concubina.

[303] Dies et nox.

[304] Subita rerum creatio.

?Nemo quaerat ex quibus ista materiis tam magna tamque mirifica opera Deus fecerit. Omnia enim fecit ex nihilo?. Lactant.

[305] Natura hominis corrupta proclivis et mutabilis est.

[306] ?Soli nos ex animantibus astrorum ortus, obitus cursusque cognovimus?. Cic.

[307] Natura divina et humana.

[308] Donec in carne anima est, patitur inquietudines.

[309] Diffidentia.

[310] ?Solent non nulli Deum in prosperis diligere, in adversis autem minus amare?. Greg.

[311] Mortalibus omnibus conscientia Deus.

[312] ?Heu quantum misero poenae mens conscia donat!?. Luc.

[313] ?Sunt nonnulli ex terra homines, non ut incolae et habitatores, sed quasi spectatores superarum rerum atque coelestium?. Cic.

[314] Homo cum in honore esset non intellexit.

[315] Si non vis intelligi, neque intelligaris, lector.

[316] ?Pars grandia trudunt | Obnixae frumenta humeris?. Virg.

[317] ?Qui vult amari, languida regnet manu?. Sen.

[318] ?Inexpugnabile munimentum est amor civium: quid pulchrius quam vivere optantibus cunctis??. Sen.

[319] ?Nunquam oportet domum esse sine custode?. Arist.

[320] ?Iustus ac honestus labor honoribus, praemiis, splendore decoratur?. Cic.

[321] ?Iamque faces et saxa volant, furor arma ministrat. | Tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem | Conspexere silent arrectisque auribus adstant?. Virg.

[322] ?Nomen Iesu lucet praedicatum, pascit re cogitatum, lenit invocatum, roborat virtutes, vegetat bonos mores, castas fovet affectiones?. Bern.

[323] ?Non enim invidia parit superbiam, sed superbia parit invidiam, quia non invidet nisi amor excellentiae?. Aug.

[324] Multi sunt vocati, pauci vero electi.

[325] Natura divina et humana.

[326] Ut qui in ligno vincebat, in ligno quoque vinceretur.

[327] Helias.

[328] ?Non est qui faciat bonum, non est usque ad unum?. David.

[329] Lacuna in tutte le edizioni [Ed.].

Nota del Trascrittore

Le Note, ad esclusione della 252 e 329, riportano annotazioni manoscritte dall'autore in alcune copie della prima edizione.

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.






























End of the Project Gutenberg EBook of Caos del Triperuno, by Teofilo Folengo









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