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The Project Gutenberg e-Book of Il Re Dei Re vol. 4 (di 4); Author: F. Petruccelli Della Gattina. /head>

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The Project Gutenberg EBook of Il re dei re, vol. 4 (di 4), by 




Ferdinando Petruccelli della Gattina









This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with




almost no restrictions whatsoever.  You may copy it, give it away or




re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included




with this eBook or online at www.gutenberg.org/license














Title: Il re dei re, vol. 4 (di 4)




       Convoglio diretto nell'XI secolo









Author: Ferdinando Petruccelli della Gattina









Release Date: December 7, 2013 [EBook #44383]









Language: Italian









Character set encoding: ISO-8859-1









*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL RE DEI RE, VOL. 4 (DI 4) ***
























Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the




Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net




(This file was produced from images generously made




available by The Internet Archive)


































BIBLIOTECA NUOVA
PUBBLICATA DA G. DAELLI

IL RE DEI RE

Stabil. tip. gi? Bonlotti, diretto da F. Gareffi.

IL
RE DEI RE
CONVOGLIO DIRETTO
NELL'XI SECOLO

PER
F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA

VOL. IV.

MILANO
G. Daelli e C. Editori.

1864.

(p. 5) LIBRO SETTIMO
IL MESSAGGIO.

(p. 7) I.

Alla nostra citt? non fe' paura
Arrigo gi? con tutta la sua possa
Quando i confini avea presso alle mura.

MachiavelliL'asino d'oro.

Sicuro Enrico di lasciar ben curate le sue cose di Germania a Federico di Staufen, senza mettere indugi prese le mosse per alla volta d'Italia. Il considerevole esercito seguivano assai tra vescovi, principi, duchi e signori di ogni grado, e per dovunque passava con le voci di plauso raccoglieva attestati di divozione e di omaggio. Segnatamente gl'Italiani, ahi pur troppo! che dalla venuta del re speravano messe di gloria e concessioni di libert?. Le schiere dei combattenti correvano a folla sotto le sue bandiere. Ogni Comune mandava le sue milizie cittadine. Ogni barone conduceva i suoi uomini d'armi e cavalcava al campo. Sicch? Enrico, giunto a Verona ove (p. 8) celebr? la Pasqua, si trov? a capo di esercito poderoso, il quale niente meglio desiderava che pugna, che vendetta dell'astioso pontefice. Dall'altro lato la contessa Matilde aveva messe insieme le sue bande e comandato ai suoi vassalli che, chiunque possedesse una spada ed un cavallo fosse atto a servirsene, la seguissero nella spedizione contra il re. Ed ella stessa, lasciate da banda le mollezze femminili, che veramente non conobbe mai troppo, lasciate da banda le discettazioni teologiche e le pratiche beate della divozione, vest? lorica e celata ed al campo di Mantova trasse.

Le sue genti sovra i giachi di maglia e le corazze portavano corta tonica bianca divisata di croce nera, ed a foggia di croce l'elsa degli stocchi. Nei loro accampamenti non gironzavano cantoniere, giullari, istrioni, buffoni d'ogni maniera, e merciaiuoli. Invece, frati d'ogni colore a tutti i crocicchi alzavano panche, e fatto un po' di crocchio predicavano irate parole contro Enrico il Madianita, che veniva a contristare Israele, e seminare le discordie nelle terre di Canaan. E quei soldati severi nelle fisonomie e nella condotta, lungi dal rompersi a crapole su per bische e lupanari, e ad orgie ubbriache nelle osterie, nelle parole parchi, negli atti misurati, raccolti, a capo giuso, rassegnati, si ragunavano la mattina nel grande spianato del campo, dove il vescovo Anselmo di Lucca, uomo sulla taglia di Gregorio, (p. 9) celebrava la messa e trinciava loro benedizioni a iosa. Ed al tramonto cantavano in uno l'angelus prima di dispensarsi alle guardie dei valli e delle trincee. Matilde si teneva sempre in mezzo di loro, ne parlava il linguaggio, la pi? assidua nei lavori del campo, la pi? sagace nelle deliberazioni dei capitani, dei disagi improvvida, delle fatiche non schiva. Al conspetto di altrui, nelle assemblee, percorrendo a cavallo le tende, il suo volto era sereno perch? aveva posto confidenza in Dio. Ma la notte, ma nel silenzio ella non sapeva siffattamente imporre al suo cuore di posare tranquillo sul pensiero, che le sue truppe erano pochissime e mal proprie contro l'esercito di Enrico, precaria la sua posizione, pericolosa quella del papa, terribile quella del paese a lei soggetto, e che era odiatissima. E quell'odio, cosa strana, ha sopravvissuto al tempo. Anche oggid?, il contado la crede tristissima donna; inesorabile coi vassalli; imbertonnata dal papa con cui ebbe tresche lubriche nel tempo del suo marito Goffredo il gobbo; in commercio con i diavoli che le fabbricarono in una notte quaranta castelli; che facesse costruire torri e campanili per ordine del confessore, onde purgarsi di sue peccata; e che, infine, scoppiasse a Bianello, sull'altare, nel momento proprio in cui celebrava la messa, di cui papa Gregorio le aveva impartita facolt?. Le leggende su Donna Matilde brulicano nell'Emilia, gremita dai ruderi dei suoi (p. 10) castelli—e non una carezzevole, per questa donna s? carezzata dai papi, per questa donna che segnava, Mathilda gratia Dei, si quid est! Alle conseguenze di quest'odio vivissimo allora, si arrogeva che l'imperatore non le avrebbe punto perdonato la resistenza, ed il ritardo alla sua corsa vittoriosa sopra Roma. Nondimanco niuna debolezza trad? mai n? la condotta n? il carattere di lei. E forse non la si vide giammai pi? tranquilla che quando seppe Enrico in Italia, ed acquartierato a poche miglia dal suo Campo. Ella doveva resistere al primo urto del nemico.

Matilde non era pi? nel fior della sua giovinezza. Ma l'et? non aveva avuto che leggera presa sulla sua persona, perch? in lei, se i sensi favellarono talvolta, il cuore aveva sempre assolutamente taciuto. Ora ogni ruga sulla fronte, ogni lampo ottenebrato nello splendore degli occhi, ogni pallor sull'incarnato delle labbra, non sono che una fotografia degli spasimi del cuore. L'amore ? una demolizione in permanenza. Laonde, al vederla, Matilde sembrava ancor una vergine a venti anni, come quelle madonne della scuola di Giotto che non hanno et? perch? non hanno anima. Una serenit? sovrumana splendeva sul suo sembiante, ma fissa, ma monotona come l'azzurro del cielo di oriente, ove un'aura non mormora, ove la vita sembra cristallizzata. Solamente quella serenit? non era la (p. 11) purezza, non era l'innocenza, non era l'incoscienza del dramma della esistenza, era la fatalit? rassegnata. La sua grande persona portava lo stigmata dell'inflessibilit? dello spirito. Era rigida, era quasi petrificata.

Nulla parlava in lei. Quella bocca, supremamente bella, che avrebbe attirati i baci degli angioli se fosse stata soave, viva, se il sangue vi avesse palpitato, non sembrava propria ad altro che a biascicare un ave maris stella o una condanna di morte, con eguale indifferenza. Quegli occhi che avrebbero avuto la profondit? infinita dei cobalti del cielo d'Italia se la fiamma divina dell'amore li avesse fatti corruscare, erano ora stupidamente inespressivi, quasi fossero stati di cristallo. Quella fronte che sarebbe sembrata l'olimpo del pensiero e degli affetti, se Matilde fosse stata una donna, era levigata e pura come una lamina di ghiaccio, era muta come una sfinge. L'insieme di quella donna, che sarebbe stata la demenza della volutt? per l'armonia delle forme, era una maschera, era una larva, era un prodigio d'insensibilit?, era un miracolo d'amore mancato. Iddio aveva obliato di mettervi una scintilla. Nulla in lei rivelava l'innocenza, quella che unicamente rende s? seducenti le madonne di Raffaello. La sua purezza significava ad ogni analisi che la era una negazione di sensibilit? e di sentimento. L'aria beata che la circondava della sua aureola non era luminosa, non era come quelle brezze della sera delle coste (p. 12) della baia napoletana, che vi seducono, vi commuovono, vi elevano a Dio di cui sembrano il respiro. Tutto in Matilde tradiva la divota, l'ascetismo spinto al fanatismo. Per? non il disprezzo della terra per elevarsi alla compenetrazione con Dio—con l'infinito—ma l'oblio della creatura—cio? l'oblio di tutto quanto soffre, pensa, ama, piange.

Matilde teneva alla terra per la punta d'una spada, di cui aveva messa l'elsa in mano al pontefice—cio? per l'ambizione, per il dominio, per servirsi della creatura come il villano si serve dell'ingrasso per far germogliare le spighe nei campi, i fiori nel colto.

Lenta a pensare, a muoversi; flemmatica nelle risoluzioni, quasi le scolpisse in un blocco di bronzo e perci? irremovibili; fisa con uno sguardo catalettico nello scopo, non comprendendo lo spasimo della carne e dell'anima; contando le miserie dell'esistenza come una elevazione verso Dio, e perci?, quando anco le comprendeva, rinculava dall'addolcirle; dando a tutti i sintomi del rigoglio della vita un significato di colpa e di degradazione—un eco del peccato o un peccato—considerando l'autorit? come un'emanazione da Dio, e perci? incarnata nel papa, e perci? imperdonabile ribellione contro Dio quella contro il papa; Matilde fu nel suo secolo, fu pel suo popolo, era per i suoi vassalli in quell'ora come una lama di Toledo, che non brilla, non (p. 13) si spezza, non si riscalda onde percuotere, non resta mai curva, che ? sottile, fina, fredda, elegante, graziosa, aristocratica, inesorabile, anche un vezzo od un ornamento se occorre, che non ha che la punta, e che dovunque tocca lascia uno stigmata, spicca il sangue, porta la morte—strumento sempre di castigo e di dolore.

Matilde si era gittata innanzi ai passi di Enrico. Questi non si fece attendere e le mosse contro. Ella copriva Mantova e si preparava a resistere. I cittadini di Mantova le fecero dire dal loro vescovo ch'e' non volevano sottoporsi agli stenti dell'assedio, ma meglio sussidiarla di un corpo di truppa; altrimenti avrebbero mandate le chiavi della citt? al re, ed aperte le porte. Matilde si sent? costretta, sotto i baluardi della piazza, attaccare la battaglia.

Allo spuntare dell'alba dunque ella usc? dalle mura alla testa del suo esercito. I Mantovani sorpresero il presidio, chiusero le porte, ed alzarono i ponti. Per lo che, la gente della contessa si vide nel partito di riscattare la vita con la vittoria o morire.

Sull'ora di nona, con un tempo bellissimo, apparvero gli sfolgoranti stendardi del re, e la sua cavalleria coperta di ricche vesti. I soldati di Matilde rassegnati come un drappello di vittime, immobile, taciturno, col pensiero raccolto in Dio, stretti fra loro, li aspettarono. I cittadini di Mantova dall'alto delle torri e dai merli delle mura, (p. 14) assistevano all'affronto come da un anfiteatro ad una giostra. Il nemico arriva. Ma Enrico, sia che avesse piet? di quella mano di prodi con tanta tranquillit? devoluti alla morte, sia che avesse paventato la loro disperazione, manda Baccelardo a parlamentare. Matilde, udito il messaggio del re che l'invitava alla piena dedizione, facendo lor salva la persona, la vita e la libert?, risponde:

—Dite al nostro bel cugino che noi ringraziamo la sua cortesia di proporci la pace a queste condizioni. Noi non abbiamo di modo alcuno forfatto all'impero, prendendo la spada contro chi viene ad opprimere il pontefice nostro signore, e la nostra libera religione. Se poi davvero gli prende piet? di noi e vuole esserci amico, che sgomberi tosto dai nostri Stati, che deponga gli sdegni ingiusti contro del papa, che ci offra una pace onorevole ed una guarentigia di mantenerla, e sa Iddio se noi desideriamo meglio, e se in segno di sudditanza non gli verremo perfino a far da mozzo al cavallo.

—Madonna, soggiunge Baccelardo, vostra bellezza mi perdoni se oso rammentarvi che non ist? a voi proporre patti al vostro sovrano.

—E voi perdonatemi, ser cavaliere, se vi ricordo che non ist? a chicchesia proporre condizioni da vinti, prima di aver guadagnata la vittoria.

—Ella ? dunque la pugna che voi desiderate, madonna?

(p. 15) —Sa la regina degli angioli, ser cavaliere, se noi daremmo tutto per evitarla, meno che l'onore.

—Il ciel vi aiuti dunque, bella contessa, perch? dagli uomini poco vi resta a sperare.

—Amen, ser cavaliere.

E si dicendo Baccelardo le baciava la mano e partiva.

La pugna si attacc?. Non fu lunga. Fu sanguinosa, fu disperata, fu feroce come guerra di religione; la vita fu disputata accanitamente. Ma il numero prevalse. Enrico vinse. I pochissimi che avanzarono delle truppe di Matilde, fuggirono con lei.

Allora i cittadini di Mantova mandano il loro vescovo ad Enrico onde proporgli la scelta, o di togliere la citt? per assedio, ovvero entrarvi con consentimento loro dopo aver giurato rispettare gli edifici e le fortificazioni alla citt?, gli averi, la libert?, la vita ai cittadini. Enrico accetta questi patti, e trionfante entra dentro Mantova in un nembo di fiori. Due giorni dopo, il re si recava a Padova ed a Cremona, citt? che non si volevano arrendere che a lui, ed a lui solo aprir le porte. Ed entrato Enrico da trionfatore, accolto con lo medesimo entusiasmo, concedeva loro privilegi e franchigie ed il favore del carroccio, che, in onor dell'imperatrice, i Padovani chiamarono Berta, i Cremonesi Bertacciola. Indi mosse per Firenze, distaccando dalle sue truppe dei (p. 16) manipoli onde andare ad occupare or questo or quello dei castelli e delle terre della contessa. Ma questa gli disputava l'invasione del suo territorio palmo per palmo, e ad ogni mutar di passo gli presentava contro ora una borgata cinta di mura, ora una rocca, ora un villaggio, costringendo il re a combattere ad ogni fermata. L'animosa donna vendeva poscia tutti i suoi gioielli, prendeva gran parte delle sue rendite e le mandava a Roma a papa Gregorio onde munir la citt?, assoldar gente, comprare i faziosi.

Ella era restata povera—ella, l'erede di quel marchese Bonifazio che, avendo Enrico III lamentato di non trovare buon aceto a Piacenza, gliene aveva mandato in venti barili e su carretto di argento. Le sue possessioni devastate, rase le fortezze, smantellate le mura delle sue citt?, bruciati o presi i castelli, i suoi vassalli deserti. Del suo florido dominio insomma, cos? bello, cos? vasto, non restava che cadente scheltro. La fame minacciava il suo popolo; la moria lo decimava. E con tante sciagure, con un nemico ostinato di faccia, con tanto maligno volger di cose, la sua costanza non crollava, non mutava nei propositi, non tradiva neppure con un fastidio o una velleit? la generosa causa che aveva sposata—avvilire l'imperatore, esaltare il pontefice! Chi le negherebbe il distintivo d'eroina dei tempi di mezzo?

Quando seppe per? che Firenze, dopo un mese (p. 17) di assedio, affamata e rovinata si rendeva; quando Lucca discacciava il suo vescovo, ne creava un novello ed invitava nella citt? Enrico; quando Montebello, Carpinete, Bibianello—Bibianello s? forte, s? popolato allora, oggi spelonca abitata solo da pulci—quando queste formidabili castella cedevano al vigore dell'oste avversa, essa raccolse i residui delle sue truppe e delle sue ricchezze, e trasse a Roma, risoluta difendere fino all'estremo la citt? eterna o morirvi.

E la vigilia di Pentecoste Enrico, con l'arcivescovo di Ravenna, compariva sotto le mura di Roma ed accampava nei prati di Nerone, dirimpetto a Castel San Pietro.

(p. 18) II.

Il senato vi chiama. Un tremendo esercito, condotto da Gaio Marzio, alleato con Aufidio, manomette il nostro territorio. Tutto ? ormai consumato: schiava ? fatta omai una met? della popolazione.

ShakespeareCoriolano.

Come Ildebrando ud? del concilio di Brixen, che lui aveva deposto ed esaltato Guiberto, e della morte di Rodolfo, e del disegno di Enrico di volgere in Italia, si spavent?. Sono quei movimenti involontarii che sfuggono alla natura umana a dispetto della violenza che si adopera con essa. Ma quando lo seppe gi? in Italia, e che gl'Italiani, del suo giogo intolleranti, accorrevano a torme alle bandiere di lui; quando sent? i rovesci della sua fazione, e le miserie in che i sopravvissuti esulanti languivano; quando, trionfatore di tante vittorie, dall'alto delle rocche lo vide sotto i baluardi di Roma, e' domin? ogni debolezza, band? ogni paura, e tranquillo provvide ai mezzi di resistere. Perch?, se come cristiano aveva piegato (p. 19) la testa innanzi agli arcani voleri di Dio, come principe avea debito proteggere i suoi vassalli, tutelare la sua citt?. Per? il suo carattere era cangiato.

Non che e' si fosse rammollito su ci? ch'egli chiamava suoi principii; non che avesse perdonati Enrico e Guiberto, no! Ma egli aveva spogliata ogni alterigia di maniere, ogni intolleranza. Non era pi? aspro coi caduti, non pi? severo coi colpevoli, non inesorabile con chi si arrendeva, non iracondo e corrivo, non petulante nel pretendere e violento nel togliere per forza. I suoi modi si erano addolciti. Aveva cominciato a sentire la fralezza della carne e compatire, la sventura gli andava insinuando nel cuore quel gran motore del cristianesimo, la carit?! E pi? blando, pi? docile, pi? famigliare, quegli che nel 1077 era un vecchio terribile, oggi poteva addimandarsi un rispettabile vecchio. L'istesso suo volto, per lo innanzi sempre accigliato ed aggrinzito dalle rughe cui un'interna irritazione solcava indefessamente, ora sembrava calmo e sereno. Compreso che l'ora della sua gloria e del suo potere era scorsa, che doveva discendere dagli alti pinacoli toccati, che l'Europa, da lui contristata di guerre e di dissenzioni, l'odiava, dalla coscienza infine avvisato del male per lui seminato sulla terra, avea tolta questa sventura come un richiamo di Dio, e non ne avea mormorato. Fino allora insomma egli era stato pi? (p. 20) principe che pontefice, pi? uomo che cristiano; oggi che le cose si erano mutate, si era mutato ancor esso. Per? non avea cambiato d'indole, n? appresa ancora, come abbiam detto, la virt? del perdonare. Ei provocava in Lamagna l'elezione del conte Ermanno di Lussemburgo ad imperatore.

Enrico, dall'altra parte, trincerava il suo campo di profondo vallo, lo ricingeva di torri di legno, metteva all'opera soldati ed artefici a construire arieti, gatti, battifredi e torri per dar la scalata. Indi tentava l'assalto. I Romani da su le mura gli opponevano gagliarda resistenza con mangani e baliste.

Egli per? aveva fermo di espugnare la citt? e punire il pontefice. Prese i forti vicini, donde le sue guarnigioni molestavano i Romani, si fece ascrivere all'ordine del loro convento dai monaci della badia di Farfa, secondo antica consuetudine. Poi venute le caldure dell'estate, e cominciata a viziarsi l'aria per le maligne esalazioni delle paludi pontine, ritorn? coi Tedeschi in Lombardia. Le truppe di cerna italiana restarono su pei poggi, circonstanti a Roma, dove le acque correnti rompevano l'aria e la tornavano men greve. Guiberto capitan generale dei regi rimase a Tivoli. Egli bloccava sempre Roma, catturando carriaggi di viveri che fornivano la citt?, predava e guastava il paese.

Intanto venne il gennaio del 1083. Enrico di (p. 21) armati e di macchine meglio fornito torn? all'assedio. Prima per? di dar l'assalto volle fare tentativo di pace e mand? Baccelardo e Goffredo di Buglione parlamentari ai Romani.

Questi raccolsero il popolo nel Foro e, dirigendosi al prefetto della citt? ed al vescovo di Porto, mandato da Gregorio, dissero esser mente del re perdonare la fellonia ad un popolo che aveva chiuse le porte in faccia al suo signore, risparmiare la citt?, la vita, gli averi dei cittadini, dove si arrendessero a discrezione. Il vescovo di Porto interrompendo gli oratori rispose brutalmente:

—Ringraziate la vostra qualit? di parlamentari se non vi facciamo tagliare a pezzi e vi gittiamo nella fossa della citt?. Ritornate all'eretico Enrico di Germania e ditegli, che egli non metter? giammai il piede in questa Roma santa, dove non ci venisse col volto strisciando nel fango, come a Canossa.

Ma il prefetto, che meglio conosceva lo stato a cui i cittadini eran ridotti, e la disposizione dell'animo loro, diede sulla voce al fiero prelato, e parl?:

—Tacetevi, uomo di sangue! I padroni della citt? siamo noi, ed a noi ? diretta la nobile ambasceria. Sicch?, signori, noi rispondiamo all'imperatore Enrico, che noi non siamo mica rei di fellonia, perch? egli non ? stato ancora unto imperadore dei Romani; che egli non si ? presentato (p. 22) alle porte come patrizio di Roma, ma alla testa di un esercito come nemico; che egli, prima d'ora, non aveva palesata alcuna disposizione di pace. Per lo che manderemo adesso l'abate di Cluny ad intercedere Gregorio di togliere al re l'interdetto, e noi consulteremo come si debba riceverlo.

Inviarono infatti l'abate al pontefice. Gregorio per?, udito come i Romani lo scongiurassero, rispose con modo freddo e secco, s? che imped? all'abate di replicare le instanze.

—Che Enrico si sottometta e l'assolver?.

Udita la risposta, i Romani si levarono a tumulto e molti sclamarono:

—Bruciamo dunque vivo questo brutale pontefice, e facciamo entrare il re.

Ma i nobili romani, che volevano innanzi patteggiare con Enrico, gli rimandarono i parlamentari, dichiarando, voler guarentigia che avrebbe salvo il pontefice, i privilegi della citt?, la vita e le possidenze ai nobili, le chiese dal sacco, e non sarebbe penetrato dentro ch'egli solo.

Alle quali parole, irritato Enrico, allora stesso fa dar nelle chiarine e dirige l'assalto. La citt? ? investita da tutto il lato che guarda Toscana, chiamato citt? leonina. Le truppe della contessa Matilde, che l'occupavano, sono cacciate dalle mura, scalate malgrado la loro resistenza, volte in fuga ed uccise. Impadronitosi cos? dell'intiero sobborgo, Enrico vi rizza doppia (p. 23) trincea, construisce su monte Palazzo un torrione dal quale danneggiava grandemente i Romani, e si appresta a rinnovare l'attacco.

Spaventato allora Gregorio dal vedere che il nemico aveva gi? un piede dentro Roma, e che i cittadini tumultuavano, maledicendo il suo nome, attribuendogli la penuria, il guasto de' campi e della citt?, si ritira nel Castel Sant'Angelo, ed abbandona il popolo alle sue difese.

(p. 24) III.

Piegarono al primo assalto. Entra egli tra l'armi, para chi fugge: sgrida gli alfieri che i soldati romani voltino le spalle a canaglia. Pien di ferite, perduto un occhio, a viso innanzi si avventa tra le punte.

TacitoAnn., 9.

Una mattina il capitano di castel Sant'Angelo si presenta a papa Gregorio, che dall'alto d'una torre guardava Roma. Il conte Oddo da Nemoli era stato allogato a quel posto dall'imperatore Enrico III, allorch? nel 1046 era sceso in Italia per cavar di scisma Roma e da Clemente II fu coronato. Oddo era un uomo sulla gloriosa taglia di Catone; semplice e libero nei modi e nella favella, severo ed incolpato nei costumi, di probit? senza pari. Caldo della libera causa di Roma, avvegnach? qualche pontefice, Gregorio non escluso, lo avessero avuto in uggia, il municipal reggimento della citt? lo sostenne sempre alla custodia del castello. Gregorio mal lo soffriva perch? lo aveva scorto recarsi di pessima voglia ai suoi (p. 25) partiti. Non l'odiava per?, n? lo disprezzava; perocch? infine Gregorio comprendeva assai bene ? nobili e generosi sentimenti. Anzi, ne' parecchi mesi che a Castel Sant'Angelo dimor?, gli pose affetto, considerando quanto quel povero conte si facesse violenza onde dimostrargli veneranza, in barba del suo carattere soldatesco, che pure soventi volte in lui riappariva. Oddo venne dunque a trovarlo in cima alla torre, ed avvicinandosi a lui, prima si freg? le mani alquanto, indi soffiando un cotal poco nella palma sinistra, se la fece strisciare lungo la faccia per d'innanzi il naso e la bocca, e levandola in aria, sclam?:

—Signor papa, consummatum est! Questa mattina ci batteremo il ventre come un tamburo di Saraceni.

—Vale a dire, ser castellano?

—Ah! parmi che io non parli latino! Ebbene, signor papa, in tutto il castello non ci ? manco una chicca da dare a mangiare ad un bambino. Avete capito adesso?

—Questo ? tutto, messere? E sia pure: staremo digiuni.

—Neh! fa il castellano facendo vivo sforzo per contenersi. Sappiate dunque, signor pontefice, che se voi ieri vi avete beccato quel residuo di ben di Dio che si trovava dentro, la guarnigione, i prigionieri ed io ci abbiamo rosicchiate le unghie al sole.

—Avete fatto malissimo, ser castellano, di (p. 26) mettere eccezione per me, lo riprende di voce seria Gregorio corrugando la fronte, rilevando altero lo sguardo e la testa. Avete fatto malissimo. L'ultimo pane che si rinveniva nella rocca dovevano mangiarlo i suoi difensori.

—E cos? pensava pur io, messer pontefice; ma poi... ma poi... Via! noi siamo pi? usi a queste carezze del nemico; ma voi, bravo vecchio...

—E quando mai mi avete saputo permaloso, ser castellano?

—Gli ? vero, per la messa! ma che volete? ci ? un bel tratto al postutto tra un pontefice ed un mariuolo di soldato, che quando fa orgia mangia per quattro d?, e sa ancora per quattro d? stare a stecchetto negli assedii. Non se ne parli pi? dunque. Consultiamo invece il quid agendum adesso.

—Non vi ? d'uopo di consulte, risponde Gregorio riprendendo la sua grande calma. Quanti uomini di guarnigione sono nel castello?

—Cento cinquanta, oltre i cinquanta del presidio consueto. E posso accertarvi che valgono dugento demonii. Sono avanzo dei soldati di Leone IX.

—Quanti prigionieri?

—Due vescovi, tre diaconi ed una donna. Ildebrando gitta un sospiro. Poi dimanda:

—E niun'altro fuor di noi due?

—Niuno, compreso il carceriere.

—Sta bene. In sul meriggio dunque, mi farete (p. 27) trovar sotto le armi, gi? nella corte, codesto manipolo di soldati con il loro capitano e voi con essi, messer conte, a capo del presidio.

—Ma che! intendereste forse di fare una sortita, beato padre?

—Saprete le mie intenzioni laggi?: contentatevi adesso d'obbedirmi.

—Uhm! d'obbedirvi? vedremo.

—Inoltre, mi farete trovare ancora col? i prigionieri, ed il custode.

—Per costoro la bisogna ? pi? facile, perch? non dipendono che da noi. Pei soldati per? v'? quello stizzoso di capitano....

—Il quale non oser? disobbedirmi, l'interruppe Gregorio componendo il volto a piglio severo, intendete, messer conte?

—Va bene, risponde Oddo, questo non ? affar mio. Ma non vorrebbe la vostra beatitudine dirmi alcuna cosa intorno alla faccenda delle provigioni?

—Vi dir? tutto laggi?, messer conte. Per ora lasciatemi solo. Ho d'uopo raccogliermi in Dio. Andate: vi benedico.

Oddo si stringe nelle spalle e parte. Nella sala trov? il capitano della guarnigione, che consultava tra gli altri capi, e gli comunic? gli ordini di Gregorio. E quegli, che ad instanza di lui era stato quivi messo dal senato e dal console romano per rinforzo, e che egualmente teneva il castello pel popolo, fastidito risponde:

(p. 28) —Ma pel santo battesimo, state dunque a vedere un po' che questo birbo di prete si avr? ficcato anche in mente che noi fossimo ai suoi comandi! Ci siamo ingabbiati qui come barbagianni, e per guardargli salda la pelle abbiam danzato un bel tratto alla musica delle baliste: adesso, per Dio! parmi che fosse ora di metter fine allo scherzo.

—Non prendete il galoppo, ser Ugoccione. Stiamo a vedere cosa intenda fare da sezzo; poi vi consiglierete dalle circostanze.

—Staremo a vedere s?, messer conte: ma il mio partito ? gi? preso. Invece di morirci qui di fame, come lebbrosi all'ospedale, intendo meglio che andiamo a menare le mani l? fuori con l'aiuto di Dio, e morire, come a soldati si addice, dove ora soldati sono e soldati si battono. Gli abbiamo finalmente cavato il ruzzo di fare il bravo a codesto garbato messere. Ma quando siamo giunti all'articolo penuria, io non trovo scritto in nessuna cronaca, dall'assedio di Troia in poi, che alcun capitano abbia fatto lo schifiltoso a non dimandare accordi e cedere alla fortuna della guerra.

—Io non sono del vostro avviso, messer Ugoccione. Del resto ciascuno ha un cervello per regolare il fatto suo: io me ne spicco di mezzo. Vi pregherei solo a non esser corrivo ai partiti estremi ed attendere anche un giorno. Chi sa, per me bisogna proprio dire che questo caparbio vecchio mi abbia stregato.

(p. 29) E s? dicendo, lasciava il capitano e si dirigeva alle prigioni.

Cerc? da prima il carceriere, il quale, come ebbe udito l'ordine suo, gli present? il mazzo delle chiavi. Oddo col pugnale ruppe il cordone che le univa, e sceltane una, dette le altre a Gano, conchiudendo:

—Sicch? hai capito? Mi stai cos? minchione minchione a guardare quasi io fossi piovuto dal terzo cielo come s. Paolo. Farai uscire i cattivi allo scoccare della campana di mezzod?, e li condurrai nella corte.

Gano si gratta il naso con un fare stufo e balordo, poi risponde:

—Ho capito s?, messer castellano: ma vi tengo per avvertito, che se si tratta di mangiarli, io mi protesto che non intendo aver la mia parte di quel tisicuzzo del vescovo di Biella, perch? certamente mi farebbe venir la lebbra. Se l'udiste a bestemmiare, messer castellano....

—Il diavolo ti porti! ma chi ti ha detto che ce li dovessimo mangiare perch? fai di codeste proteste?

—Mille perdoni allora, messer conte. Si tratta dunque di appenderli ai merli onde riparare le torri dalle tratte dei mangani; ed in questo caso io protesto che andr? a tagliare le corde del vescovo di Potenza—dovessi pure andarlo a sostituire io medesimo. Se lo vedeste a far miracoli, ser castellano....

(p. 30) —Ma che ti afferri il gavocciolo, bestione! chi ti ha detto dunque che quei poveri disgraziati si dovessero appendere alle mura?

—Allora, mille perdoni un'altra volta, messer Oddo. Si tratter? di farne una comoda appiccagione per risicare alimenti. Ed in questo caso, mi protesto che voglio essere io proprio colui che ha da rendere tanto pietoso officio al diacono Sizzo; perch? l'altro ieri mi applic? alle mascelle un tal sorgozzone, per un vezzo innocente che volli fargli, da mandarmi al diavolo l'ultimo dente che mi restava.

—Mai che domine vai tu dunque almanaccando, baciocio! Tu non devi che menarli nella corte e l? finisce il tuo debito. Hai capito?

—Mille perdoni un'altra volta, ser castellano. Allora sar?... ma protesto...

Oddo non l'udiva pi?, perch? scompariva sotto un androne, nel cui fondo oscuro metteva capo una scala. Gano resta fiso e ritto ad ascoltare il debole rumore delle pedate, e guardare nel punto dove si era dileguato il conte, poi scuote la testa corrucciato e fra s? stesso brontola:

—Cane di un vecchio! vah! ed eccolo che se la guizza da lei. Gano solo non pu?, n? deve neppure protestare per cosa che gli dia fastidio. Ma avr? un bel dire, anche quell'altro arabico vecchio di pontefice: il diacono Corrado se l'ha da filar netto—non dovessi che farlo scappare pel buco della toppa. E' mi ha promesso sposare (p. 31) quella mia figlioccia di Guaidalmira... se gi? quel tristo impiccato di Laidulfo non l'ha messa in bocca al diavolo. E la sposer? veh! perch? mi protesto contro queste nuove diavolerie che va mettendo su mastro Gregorio. Sissignore! un povero figliuolo che serve a tutto il mondo; che dei sette benedetti giorni della settimana ne passa cinque digiuno; che riceve batoste da questi perch? gli ? padrone, da quegli perch? ? pi? forte, da quell'altro perch? ? milite, da quell'altro ancora perch? coi suoi soldi pu? cavarsi la voglia di bastonare ed uccidere chi meglio gli garba... sissignore! un povero figliuolo non deve condur moglie, perch? mastro Ildebrando ha detto diaconorum sposarum non prendebuntur. La vedremo oh! la vedremo, mastro Ildebrando! Tu pensi a cinque, io miro ad asso. Mastro Corrado sposer? Guaidalmira, e mi protesto veh! messer castellano, che vi andate cos? bel bello a rifocillare da quella sguaiata madonna. L'affogherei per quella sua rassegnata verecondia che mi puzza di santo le cento miglia!

Per?, malgrado le proteste di Gano, il castellano era sceso nella prigione.

Un raggio di fievole luce, che filtrava da alto abbaino graticciato di ferro, illuminava quella topaia. La quale, mantenuta netta ed accomodata da un po' di ordinato mobile, sembrava pi? orrida ancora, come grinza e laida vecchia che si affusola dei panni da sposa. Ad uno sgabellaccio (p. 32) presso al letto sedeva una donna sui quarant'anni, pallidissima in viso ed abbandonata, come l'infermo che si leva da lunga e mortal malattia. Un avanzo di antica bellezza si scorgeva ancora in lei, ed era il testimonio innanzi a Dio che non la mano del tempo ma quella dell'uomo l'aveva cancellata a met?. Lo sguardo per? scintillava ancora di una forza vitale potente, quasi che quivi tutta l'energia dell'anima si fosse accumulata. Il destino dell'uomo sta nello sguardo: esso compendia le pulsazioni dell'anima, le rivela altrui, inspira interesse, impone. E la prigioniera aveva di quegli occhi indiani profondi e vellutati che appena si muovono ed esprimono ci? che si agita nel fondo del cuore. La spigliata persona avvolgeva in tunica nera, sulla quale vestiva un gamurrino con cappuccio ed ampie maniche, anch'esso di drappo oscuro. Al dito portava preziosa gemma. Come sent? dischiuder la porta, ella si volge, e conoscendo Oddo, sclama:

—Dio vi prosperi, messer castellano; credeva vi fosse venuto male, perch? da otto giorni non vi vedeva pi?, e Gano sapete se ? prodigo a dare schiarimenti ai prigionieri.

—Che? madonna, vi avrebbe egli forse usate scortesie?

—Mai no, messer castellano. Povero Gano, fa quel che pu? a dominare la sua antipatia per me; e non fosse che a vostro riguardo, mi profonde (p. 33) amorevolezze. Ma se per avventura gli muovo parola di questi o di quegli, Gano mi anguilla, e non mi cava mai di smania.

—Quel disutilaccio ? un fantastico uomo: per? ha buono il cuore, bisogna convenirne.

—Propriamente. E poi con voi, messer Oddo, si potrebbe egli esser cattivo?

—Ah! voi mi lusingate, madonna. Ma l'uomo non pu? esser n? pi? buono n? pi? tristo di ci? che Iddio lo ha fatto; ecco tutto.

—Ditemi dunque, se il ciel vi aiuta, messere, ond'? che per otto giorni non vi ho veduto? Ho patita una smania ed uno stringer di cuore!... Gi? sapete che voi siete l'ultimo angelo della mia vita.

—Gli ?, madonna, perch? ne sono accadute delle grosse, ma delle grosse assai, veh!

—Non m'ingannava io dunque! Perci? quella specie d'indistinto rumore che penetrava fino quaggi?, e che per su la corrente del Tevere mi giungeva! Han dovuto fare dei ben grandi gridori questi pazienti Romani.

—Gridori? peste! dite diavolerie, madonna, dite baldorie matte. Ch? dalli e poi dalli, ? sgrillato alfine questo disgraziato popolo, e si ? scorrucciato il buono ed il meglio.

—Han fatto dunque sommosse?

—Sommosse no, ma presso a poco. Perch? quel galuppo del re Enrico, domenica mo, il d? delle palme, perdette la pazienza, e senza brigarsi (p. 34) che fosse o no quel giorno solenne, schiera i suoi soldati sotto le mura... A vederlo pareva s. Giorgio! Ebbene si lancia a percorrere le file e dice: neh, figliuoli, a che giuoco giuochiamo dunque? Credete, pel santo sepolcro! che non avessimo altro a fare che starci qui, fuori le porte, come mendicanti a dimandar la limosina e morirci di peste come villani che han mangiato il loglio? Andiamo su, sacramento! mano alle scale ed alle piccozze; e se oggi non entriamo ancora noi in Roma, come Cristo entr? in Gerusalemme, impiccher? alle porte il primo che d? indietro. Venite appresso a me. Voi, messer Baccelardo, fate giuocare gli arieti: voi, sire di Cosheim, tempestate coi mangani: voi, monsignor di Ravenna, accostate i battifredi e spazzate le mura dai difensori: e voi, sire di Buglione, venite con me alla porta Toscana. Perch? fo voto di quattro candelabri d'oro a Nostradonna di Goslar, e di due calici preziosi a Nostradonna di Edessa, se oggi penetreremo in questa matta citt?, che vuol fare con noi la curiosa. Andiamo, suonate le trombe ed all'assalto.

—Anche Guiberto da Ravenna v'era dunque?

—Se v'era! ve lo avrei voluto fare un po' vedere da su le torri come quel fistolo menava le mani! Dava busse da scantonare il Coliseo.

—E s??

—E s?, detto fatto, quei demonii, incoraggiati dalle parole del re e meglio dall'esempio, (p. 35) perch? al primo piuolo delle scale vedevano sempre lui o quel di Buglione, si rovesciano sulle mura con tanta rabbia che ne rintron? tutta la citt?.

—E quei di dentro?

—Peggio che peggio. Accolto il popolo, ed il senato, ed i vescovi, ed il console, e tutto il mondo, l? nel Foro, strepitavano a sganghera gole, e chi proponeva un matto di partito, chi un altro: ma partiti da far venir la pelle d'oca! Si trattava quanto meno di bruciare il papa, cacciare i signori, metter fuoco ai castelli, aprire le mura... Cane di popolo! anche con me l'avevano, che custodiva Gregorio qui dentro, sicuro come in un guscio di ferro.

—Povero messer Oddo! sclama la cattiva stendendogli la mano, cui il castellano baciava. E continuava:

—Sissignora, anche contro di me grugnavano quei cialtroni. Ma il senato ed i signori consultavano; ed i capitani della contessa Matilde a gridare: state sodi per Dio! fate animo; la benedizione di Gregorio ci difende; Ges? Cristo combatte per noi! E que' scomunicati a fischiare, a strepitare: che benedizioni e benedizioni, un bischero! siamo digiuni, siamo affamati, le pietre ci rovinano le case; che Ges? Cristo, e Ges? Cristo! se codesto combatte per noi, si dia dunque il fastidio di mutar quei macigni in berlingozzi; aprite le porte; bruciate il papa. Ed (p. 36) ecco che in mezzo a questo parapiglia si sente gridare di verso porta Toscana che gl'imperiali sono dentro, e che la bandiera di Enrico sventola sui baluardi.

—Ed era vero?

—Altro! credete che Enrico avesse fatto da burla quando vot? alle sue Madonne non so quante libbre d'oro, purch? avesse potuto penetrare penetrare l? dentro? Il principe Baccelardo da un lato apre la breccia; dall'altro quel demonio dell'arcivescovo di Ravenna sfonda i barbacani, spinge il battifredo alle mura, e saltato su con i suoi bravi Lombardi... ira di Dio! spazzava gente come si spazza la polvere con la granata, e la rotolava a colmare i fossi. Infine si fissa sulle mura, e corre verso il punto dove il re dava la scalata: e che vede?

—Che vede dunque?

—Per la messa! prima di lui, prima di tutti, Goffredo di Buglione aveva afferrati i merli ed aveva piantato lo stendardo di Lamagna sui baluardi della porta Toscana. Ma il vescovo Giovanni di Porto, che ha in corpo pi? legioni di diavoli lui solo che non ne ebbero tutti gli ossessi del leggendario, coglie il duca in quell'atto e lo ferisce con la spada alla testa. Goffredo non rotola gi?, perch? immediatamente dopo di lui saliva il re. Questi afferra il vescovo alla gola, e strozzatolo, lo precipita nella citt? sulla testa dei soldati fuggitivi. Allora giunge anche l'arcivescovo di Ravenna...

(p. 37) —Non era stato ferito Guiberto, non ? vero?

—No, che io mi sappia! Ma chi imbecille gli si voleva accostare con la tempesta con cui faceva correre le percosse? Da sulle mura, il re da un lato comandava ai suoi di avanzar dentro per la breccia aperta da Baccelardo, e dall'altro, coperto di ampio pavese, ingiungeva ai Romani di arrendersi. Questi per? fuggivano a collo rotto verso il Foro onde recare la spaventevole notizia ai primati che consultavano. Il popolo, il quale non si augurava di meglio, alza un prolungato grido di giubilo, dicendo: Viva il re! muoia Gregorio! E corre per essere primo a profferire obbedienza ad Enrico. Ma il console Cencio, che mutolo aveva lasciato fino allora accapigliarsi il senato, i patrizi ed i prelati, scoppia e dice: Vi affoghi la peste, poltroni, giacch? non valete altro che a dir minchionerie, lasciate fare a chi sa fare. Il nemico ? dentro. Si ? fatto quanto si ? potuto per difendere, con tanti guai e tanto danno, questo testardo papa, se lo porti il diavolo! Volete che siamo sgozzati per lui tutti, la citt? sia data al sacco ed al fuoco dai Tedeschi? Restate pure ad eruttar sciocchezze cost?, che io so bene quel che debbasi fare in questo momento. Voi monsignor di Arezzo, e voi monsignor di Modena, venite meco.

—E che fecero? Io comincio a tremare.

—Eccolo. Fecer da sezzo ci? che avrebber dovuto fare da principio. Si presentarono al re, (p. 38) il quale aveva fatta sfondare porta Toscana, e si avanzava nella citt? alla testa delle truppe schierate in ordinanza. Sopra un bacino di argento egli, Cencio, portava le chiavi d'oro di Roma. Lo precedevano due araldi ed un bandieraio con bianco pennone. Come Enrico li vide, ferm? il cavallo; ed essi, piegando a terra il ginocchio, mormorarono: Piacciavi, o sire, di accettare le chiavi di Roma, e come i nostri forti antenati entrarvi da signore e da trionfatore. Il re sorride e risponde: Bel sere, voi ci offrite cosa che non ? pi? in vostro potere; non pertanto, merc?. Sire di Cosheim, risparmiate la citt?. E s? dicendo dava di sprone al cavallo, ed avendo alla destra l'arcivescovo di Ravenna, ed alla sinistra Baccelardo, per la via sacra, come Cesare, si reca al Vaticano. Le sue truppe intanto, giusta l'ordine del re al sire di Cosheim, senza rompersi a niuna maniera di libidine, come fra i soldati si suole con le citt? vinte, condotte dai capitani occupano in bello ordine dal Laterano al Vaticano, e tutti gli altri castelli pi? forti, e vi si mettono a presidio...

—Il duca di Buglione era dunque morto?

—Mai no. Gravemente ferito alla testa dall'azza del vescovo, riscuotendosi fe' voto di andar a combattere in Terrasanta. E non pass? guari che per miracolo si sent? quasi sano.

—Sicch? dunque il padrone di Roma ? adesso l'imperatore?

(p. 39) —Proprio lui. Perocch?, il giorno di poi, l'arcivescovo di Ravenna fu esaltato alla sede romana dai cardinali. E se aveste veduto che funzioni, madonna! Egli si present? ad essere adorato a San Giovanni a Laterano sopra un cavallo morello che pareva volesse inghiottire il Campidoglio, con il suo bravo giaco di maglia addosso, cosciali e schinieri e bracciali e manopole, quasi si presentasse alla pugna, ed in testa l'elmo d'oro massiccio con l'aquila al cimiero, dono del re, coprendo la spada ed il pugnale che cingeva del manto ponteficio, il quale era proprio uno spanto a guardare. Che s?, che egli lo aveva conquistato il ponteficato! Il d? 24 marzo infine fu consacrato nella chiesa di San Pietro dagli arcivescovi di Arezzo e di Modena.

—Guiberto ? dunque vero papa, sclama la cattiva, arroventando nel volto che levava verso il cielo.

—Papa, arci-papa, continua il castellano, ma noi fummo qui bloccati a non lasciarci passare neppure l'aria pel respiro. E bisogna dire che questi birboni di Romani non intendano mica affatto saperne di noi; perch? se li aveste veduti a far baldoria il d? di Pasqua, quando il re Enrico con Berta sua sposa entr? solennemente in San Pietro, vi avreste fatta la croce. Io credo che nemmanco i cani ne vogliano pi? di questo povero vecchio pontefice, che in altri tempi adoravano della faccia nella polvere.

(p. 40) —La sventura ? la stessa per tutti, dice la donna sospirando.

—Deve essere infatti cos?, continua Oddo, poich? tutti insieme, col senato e col console Cencio, accompagnarono il re, che da San Pietro si rec? trionfante al Vaticano onde aver cinta la corona imperiale da Clemente III—tal nome si ? imposto a Guiberto—ed allora tutti a gridare: Evviva l'imperatore! evviva l'imperatore! alleluia! alleluia! Poi si recarono al Campidoglio, donde i fanti tedeschi sbrattarono un residuo di gente papale, e quivi il senato ed il console confirmarono Enrico patrizio di Roma, tra l'entusiasmo del popolo che non aveva freno. Plebe sgualdrina! Non avrebbe ribrezzo domani di lapidare quest'altro suo idolo!

—Sicch? dunque a papa Gregorio non resta pi? alcuno di tanti fedeli?

—Eh! madonna, quando la fedelt? non viene dal cuore e non si accompagna con l'amore, non dura mai troppo. L'ultimo baluardo di questo povero vecchio era la contessa Matilde, che si cacci? tra i guai di lui fino al collo. Ma dalli e dalli, poteva essa sola far fronte a tutta Europa, con cui mastro Ildebrando aveva attaccate brighe, e che gli gridava il crucifige? ? stata rotta in parecchie avvisaglie la fedele castellana dai trecento castelli; le han portati via tutti i forti dei suoi Stati; ha sprecate le sue ricchezze in queste sterili lutte; ed ora anch'essa, la sventurata! (p. 41) va profuga e raminga pei suoi deserti dominii onde non cadere in mano dei nemici, invisa agl'Italiani, abborrita dai Tedeschi, proclamata santa ed eroina solamente da un branco di fanatici faziosi. Sia come si vuole per?, bisogna dire che come Matilde, con la vostra sopportazione, madonna, nascano ben poche donne.

—Ed i miei Normanni di Puglia, messer Oddo?

—Ma! Il principe di Capua, Giordano, fa lo gnorri: il conte Ruggiero pettina i Saraceni di Sicilia: Roberto Guiscardo bada ai suoi malanni domestici in Grecia: e perch? i Tedeschi non gli avessero a far trovare occupato il proprio focolaio, come nell'anno passato, ha novellamente mandato qui a patteggiare alleanza col re quel capestro del vescovo di Bovino, e quel bravo figliuolo di Boemondo.

—Boemondo ? dunque in Roma, messere? grida la donna in un tremito di gioia.

—Almeno vi era, madonna, il d? della coronazione—salvo poi non sia tornato di bel nuovo da suo padre.

—Ah! messer Oddo, sclama Alberada cadendogli ai piedi, che Iddio vi consoli di tutte le gioie, che la pace degli angioli vi renda serena la morte, ed il compenso del paradiso...! Messer Oddo, ve ne supplico con la faccia per terra, fate che io veda questo giovane, fate che abbracci mio figlio.

(p. 42) Il castellano si stringe nelle spalle e gratta il capo, poi dice:

—Uhm! uhm! Ci? ? pi? facile a domandare ed a promettere che a tenere. Ad ogni modo, vi prometto, madonna, che se Boemondo si trova ancora in Roma voi lo vedrete, e dovessi precipitarmi dall'alto delle torri per uscire dal castello. Ora venite meco. Dovete aver fame, povera figliuola! perch? ieri ancor voi siete stata digiuna. Gi? non avr? che darvi neppure lass?. Ma una determinazione bisogna bene che papa Gregorio la prenda, non fosse che a cavarsela con una burla o con un miracolo. Vedremo: questo stato di cose non pu? durar lungamente.

—Non badate a me, messer Oddo. Che mi giovano alcuni giorni di vita di pi?? Curate la vostra persona, curate gli anni vostri, che spendete a bene degl'infelici.

—Andiamo, andiamo, madonna. Ve l'ho gi? detto le mille volte che io non voglio di codesti vezzi che mi farebbero saltare in boria, se io avessi conosciuta mai questa bestial passione. Gran ch? che io faccia un tantino di bene a creature buone come voi, quando lo possa. Ma come si fa a strapazzarle, io dimando? Che cosa ?? Sento un suono quasi di campane; sar? mezzo d?. Andiamo, figliuola mia, non facciamo noi aspettare mastro Gregorio che per nulla salta in bestia come una cavalla viziata.

(p. 43) E s? dicendo dava il braccio ad Alberada che lo seguiva a passo mal fermo, e si trovavano nella corte, al punto stesso che il capitano della guarnigione si metteva alla testa dei suoi. Gano spuntava da una parte con gli altri cinque prigionieri, e Gregorio da un'altra, con le braccia conserte sul petto, sereno nel viso, sodo nell'andare.

Egli si trasse avanti le linee dei soldati, e dopo alquanto di silenzio, durante il quale quella gente rozza e niente affatto doppia pendeva dal tranquillo suo volto, come da quello di un santo da cui si aspetta miracolo, parl?:

—Figliuoli, voi vi siete condotti da uomini valorosi e fedeli. Io rendo testimonianza dell'opere vostre innanzi al mondo ed innanzi a Dio, e ve ne ringrazio; e vi ricolmo di tutti i tesori celesti che con la santit? del mio ministero posso prodigare. Il cielo vi avrebbe destinati per le sante corone dei martiri; ma io non sar? quel temerario che affretter? i decreti della provvidenza. Avete fatto il vostro dovere; avete combattuto da bravi; tenuta la rocca salda a fronte di migliaia di nemici. Gloria a voi, gloria all'Eterno che per mezzo vostro volle confondere i Madianiti! Ora per? siamo giunti ad un punto in faccia a cui gli ? mestieri recedere. Il nemico ci ha affamati. Si ? servito dell'arma dei codardi perch? l'arma dei forti gli fu spezzata in pugno da Dio. Io rester? qui.

—Voi? sclamano ad una voce Oddo ed Uguccione.

(p. 44) —Io resto qui, continua Gregorio. Quando il Signore mi elesse a custode dei suoi figliuoli mi diede a divisa: Persevera, e sii saldo come le fondamenta del Libano. Debbo compiere il mandato sino alla morte. Voi uscirete ed andrete nella pace del Signore; perch? mi piace lusingarmi che i Filistei non vorranno essere vigliacchi al segno di farvi vitupero. Voi rivedrete le vostre spose, i vostri figliuoli, e recherete loro le mie benedizioni. Io avr? memoria dei travagli che patiste per me. E se deserto da tutti, e ridotto a morirmi di stento, nulla posso concedervi ora, fidate in quel Dio che provvede di penne gli augelli, il prato di fiori. Andate: spiegate bianco pennone in segno di resa. Ma prima, se qualcuno ha nulla da dolersi di me, che mi perdoni come vorr? esser perdonato nell'ultim'ora sua: la carne ? inferma.

—Benediteci, santo padre, benediteci, sclamano tutti ad una voce, cadendo in ginocchio. E Gregorio alza la sua terribile mano e continua:

—Capitano, a voi ancora le mie grazie per la vostra prode difesa, a voi ancora le mie benedizioni. Precedete i vostri. A voi poi, messer castellano, nulla dico, perch? ogni parola malamente vi esprimerebbe l'ammirazione, e la riconoscenza che vi debbo. Siete uno di quei pochi uomini che nella mia difficile carriera ho trovati pi? probi e di sentimenti pi? nobili. Con vero dolore mi accommiato (p. 45) da voi. Fate aprire le porte del castello ed uscite alla testa della guarnigione; perch? non ist? bene che la fame abbia a privare la terra di cos? eletto modello di uomini. Io penser? a richiudervi dietro le porte.

Oddo fa un movimento di dispetto, alza le spalle e volge altrove la testa. Gregorio continua:

—E voi ancora, sacerdoti di Dio, dice volgendosi ai prigionieri, andate in pace. Se mi chiamaste severo perch? volli ritrarvi, anche vostro malgrado, dalla via dell'iniquit?, e rammentarvi l'augusto vostro dovere, verr? il d? che mi renderete giustizia; e guai a voi se fino a quell'ora non vi sarete ravveduti. Andate, andate tutti. In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo vi benedico.

E s? parlando, alzava di nuovo quella destra tremenda che avea scossi i sogli d'Europa, e benediceva quella gente, che, sciolta in lagrime e caduta in ginocchio, protestava altamente voler morire con lui. Ma Gregorio non accetta il generoso sacrifizio, e per quei suoi modi incisivi e quella parola autorevole a cui niuno aveva forza resistere, reitera l'ordine al castellano di aprire le porte.

Il conte Oddo non replica verbo. Si avanza ad una porta di soccorso e, fattesi recare le chiavi, comanda si togliessero le spranghe ed alzassero le cataratte, ed apre. Allora quei soldati, mesti in viso e nel cuore addolorati, preceduti dalla (p. 46) bandiera e dal capitano, sgomberano la piazza e si costituiscono prigioni del re. Oddo rimane immobile presso la porta che avea fatta schiudere. E come ebbe veduti uscire l'un dopo l'altro tutti queglino della guarnigione di rinforzo e con essi i prigionieri, onde il nemico non avesse profittato del caso e si fosse cacciato dentro, richiude subitamente e d? le catene, ordinando al suo vecchio presidio, che era restato fermo al suo posto:

—Ritornate alle mura, voi. Mi porti il diavolo se dovrete voi correre sorte diversa da quella del vostro vecchio capitano.

E quei soldati voltano le spalle e partono. Gregorio li guarda fare senza dir motto. Appena per? che si furono trovati soli, fissa gli occhi fatti lucidi dalla commozione addosso a quell'uomo, e dimanda:

—E voi, ser castellano?

—Io? borbotta Oddo. Beatissimo padre, io non ho risposta parola agli elogi che vi siete brigato di farmi, perch? andava considerando che un uomo come voi, un vecchio prete ridotto a questi estremi, non dovesse avere gran fatto la frega di andar burlando la gente. Ma a questo novello insulto, per la messa, non so starmi dal dirvi che siete veramente curioso d'umore. Io? dimandate: avreste dunque voluto che avessi accettato il vostro bel partito d'andar via cos?, come un ladro dal verziere, ed abbandonare il (p. 47) mio posto da codardo? Per la croce! qui mi ha collocato l'immortale memoria di Enrico III, col consentimento ed elezione del senato e del popolo romano. E sapete voi quel che mi disse colui quando del castello m'invest?? ?Bada bene, messer conte, che questa rocca, in tempi migliori, era un sepolcro, e che una volta penetrato qui dentro, niuno ne and? mai fuori se non cadavere. Tu dunque allora cederai questa piazza a chiunque si presenter? alle sue porte da nemico, e fossimo noi medesimi, quando cenere te ne verranno a cavare.? Avete udito? Io lo giurai. Ed il conte Oddo da Nemoli non ha mancato mai n? alle sue parole, n? ai suoi giuramenti. Sappiatelo.

Gregorio non risponde, ma facendogli un passo incontro, se lo stringe nelle braccia come fratello, e con voce commossa, sclama:

—Morremo insieme.

Allora la donna, ch'era restata in dietro durante tutta quella scena, si tragge avanti e dice:

—Santo padre, non favellate di morte: vi ? ancora una speranza.

—Alberada, grida Ildebrando retrocedendo di un passo, e perch? con gli altri non siete uscita ancor voi?

—Perch?, santo padre, io, sventurata in tutta la mia vita, non so separarmi dagli sventurati. Nei giorni della vostra fortuna, forse beneficata da (p. 48) voi, vi avrei abbandonato. Ma nell'ora delle vostre miserie, da voi cotanto aspramente trattata, non ho saputo dipartirmi prima di avervi detto che vi perdonava, onde, andando a render conto a Dio delle opere vostre, possiate ripararvi di questo scudo.

Gregorio, con la fronte annuvolata e bassi gli occhi, medita lungo tratto pria di rispondere, poi soggiunge:

—E veramente tu mi perdoni, Alberada?

—Di poca fede! lo rimprovera colei. Cristo non perdon? egli forse i suoi nemici? In altri tempi mi sarei mostrata inesorabile. Ora che conosco le triste vicende della sorte e le amaritudini della vita, ora che sento avvicinarsi il periodo del rendiconto, voglio inebriarmi del soave diletto del perdonare. E l'Eterno possa usare misericordia ancora alle mie peccata.

—Pia donna, che Iddio ti esaudisca e ti prepari giorni migliori! Sento che io non posso per te far altro che ammirarti, ed impetrare dal cielo le gioie che, per inesorabile destino, ti ho tolte.

—No, santo padre, voi potete ancora qualche altra cosa. Promettetemi di non arrendervi se prima non mi rivedrete venire in questo castello a correre una sorte con voi. Io andr? fuori, ed Iddio forse benedir? i miei passi, come benedisse quelli di Giacobbe e di Giuseppe. Cercate accordi all'imperatore, procrastinate la resa fino (p. 49) a che io non ritorni. Ho un presentimento.... Basta, non mi rifiutate questo grazia.

—Ma che mediteresti tu di fare, Alberada?

—Ci? che io solamente posso, se Iddio vorr? secondare le mie speranze, come second? quelle di Giuditta.

Ildebrando la fissa in volto attentamente, poi dimanda:

—Tenteresti forse anche tu, Alberada, l'opera santa della Betuliese?

—Io non sono destinata ad opere di sangue, Ildebrando, quella risponde, la mia missione ? di pace e di carit?. Astenetevi, ve ne supplico, dall'interrogarmi. Le inspirazioni celesti non sottoponete allo squittinio degli umani giudizi. I vostri dubbii mi potrebbero sconfortar dall'impresa: ed io avrei un giorno a rimproverarmi del male che vi potrebbe avvenire. Mi promettete voi di non cedere, se pria non avrete novella di me?

—Te lo prometto, Alberada. Acconsentir? a tutti i patti del Filisteo: ma di qui non uscir? se pria o tu non verrai a cavarmi d'ogni speranza, colui, nell'ebbrezza dei suoi trionfi, come a Canossa, non si umilia ai piedi miei. Va, l'angelo di Tobia ti sia per compagno.

E s? dicendo, Alberada s'inginocchia e Gregorio la benedice. Il castellano, che senza muover ciglio e tutto commosso nel cuore aveva udito il colloquio, l'abbraccia e la bacia sulla fronte; (p. 50) poi apre la postierla e fa uscirla. Indi rinchiude ed a passo lento, unitamente al pontefice, ambedue taciturni, rientrano nel castello.

Dopo un'ora, dall'alto delle torri, un verrettone con una pergamena tra le penne cadeva in mezzo ai soldati di Enrico che assediavano il castello.

(p. 51) IV.

Irons-nous de l'histoire arrachant les troph?es?

Casimir Delavigne.

Ci giova sperare che il lettore non abbia dimenticato un personaggio di questa cronaca che abbiamo dovuto necessariamente lasciare indietro. Per colpa nostra avrebbe obliato uno dei pi? interessanti uomini dei tempi di mezzo. Parliamo di Roberto Guiscardo. E perch? questi deve di nuovo cos? gloriosamente ricomparire sulla scena, accenneremo volando volando delle sue cose dopo la presa di Salerno.

Ravvicinatosi con Riccardo di Capua, invasero le Marche d'Ancona e vi fecero gran conquisto di paese. Gregorio irritato dell'affronto, e volendo arrestare l'audacia dei conquistatori, nel concilio di Roma pronunzi? contro di loro scomunica e li priv? degli Stati. Ma perch? gli anatemi non affettavano uomini di ferro, i quali non conoscevano altra legge che la spada, altro dominio che la forza, mand? loro contro le truppe (p. 52) del marchese di Toscana e li strinse ad abbandonare le terre occupate. Roberto, che aveva invasa la campagna di Roma solamente per far sentire l'energia del suo potere all'arrogante pontefice, si ritir? decorosamente, ed il principe di Capua mand? all'assedio di Napoli. Egli accamp? sotto le mura di Benevento.

Questa citt?, dopo la morte di Landolfo VI, era ricaduta alla Chiesa. Roberto voleva impadronirsene. Ma papa Gregorio, con le solite scomuniche, mand? tali rinforzi di scorte e di truppe che Roberto, fastidito dalle lungherie dell'assedio, lascia un manipolo di soldati al blocco e si reca in Calabria. Morto Riccardo, suo figlio Giordano libera dall'assedio Benevento. Roberto riviene in Puglia, prende Ascoli, Montevico, Ariano, e sul fiume Sarno va a presentare battaglia a Giordano. Desiderio, abate di Montecassino, si interpone, li rappacia. Roberto sottomette ancora Monticulo, Carbonara, Pietrapalumbo, Monteverde, Genzano e Spinazzola, e nulla curando pi? Benevento, lascia che restasse in potere del pontefice e si contenta di signoreggiare quanto oggi forma il reame di Napoli, meno il piccolo ducato di Napoli, il principato di Capua ed il ducato di Gaeta, dominati da Giordano. E' sarebbe stato lieto, e fortunati i suoi popoli, perch? gran mente aveva nel reggimento civile, ma domestiche sciagure lo chiamarono altrove.

Egli aveva sposata la sua figliuola Elena a Costantino (p. 53) figlio dell'imperatore di Costantinopoli Michele Ducas. Niceforo Botoniate, avendo discacciato Michele dall'impero d'Oriente, lo aveva fatto tosare, confinare in un monistero e castrare Costantino. La miseria della sua figliuola e l'oltraggio penetrano il cuore di Roberto che giura pigliarne terribile vendetta.

Provvede al governo dei suoi Stati d'Italia, poi con la duchessa Sigelgaita, Boemondo, e bell'esercito s'imbarca ad Otranto. Giunti nel 1081 a Corf?, l'invade. Alessio Comneno, succeduto a Botoniate, gli manda tosto incontro formidabile armata; ma in pi? battaglie rotta, non giunge ad ostacolare il duca, s? che non espugnasse Durazzo, padroneggiasse l'isola, e spingesse le truppe vittoriose fino in Bulgaria. Ridottosi infine a svernare a Durazzo, nel novembre del 1083, ed instruito che Alessio con molti ricchi donativi e larghe promesse andava proponendo all'imperatore Enrico perch? invadesse Puglia e Calabria, mand? a costui in Roma il vescovo di Bovino e l'astuto Boemondo. E questi, facondo dicitore, abbindola Enrico e lo fa chiaro, che dopo lui non eravi chi pi? travagliasse il cuore di Gregorio fuor di Roberto, e Roberto niun peggio tollerar di Gregorio. Enrico gli pone fede, e si pattuiscono onorevoli convenzioni il d? 30 marzo 1084, il giorno avanti della Pasqua in che Enrico fu coronato.

Ed una sera Roberto, che nulla ancora degli (p. 54) accordi sapeva e di saperli smaniava, dai veroni del castello di Durazzo vede spuntare in alto mare una galea, cui forte vento gonfiava le vele latine ed alla citt? dirigeva; e dopo non molto ne scorge una seconda che studiava tenerle dietro. Egli manda subitamente al porto per ricever novelle de' suoi Stati, se pur di col? quei vascelli fosser partiti.

(p. 55) V.

Perzho non dei amor ocaisonar
Tam cum los oilliz et cor ama parvenza,
Car li oill sin dragoman del cor,
E ill oill van vezer
Zo col cor plaz retener.

Emblanchacet.

Roberto non s'ingannava. La sua bandiera sventolava su la galea che a vele gonfie entrava nel porto di Durazzo, ed era su quella il suo flgliuol Boemondo. Nell'altra un legato dell'arcivescovo di Ravenna con seguito brillante di cavalieri e di ecclesiastici, e misto a staffieri, paggi e chierici un romeo, che a forza di prieghi aveva ottenuto esser quivi traghettato per poscia condursi in Terra Santa. Quella gente tir? dritto all'albergo del duca, il quale, udito del messo, nobilmente lo accolse. Questi era Rolando da Siena, quell'ardito chierico che in mezzo al concilio di Roma aveva osato intimare a papa (p. 56) Gregorio gli ordini dell'imperatore Enrico. Roberto lo festeggi? di ogni onorevole e lieto accoglimento, imperciocch?, oltre della divisa di oratore, altamente aveva Rolando lasciato dire di s? e nelle guerre di Germania ed in quelle d'Italia, e da sezzo nello assedio di Roma, ove tra i pi? distinti e valorosi cavalieri si era allogato.

La sera si trascorse a novellare di guerre e di prodi fatti di parecchi cavalieri, che Rolando aveva conosciuti, e di cui Roberto onorevolmente aveva udito favellare. Alla dimane per?, come questi si recava nella gran sala per dargli udienza, ed ascoltare del messaggio di papa Clemente, l'araldo d'armi gli annunzia ancora un legato di papa Gregorio che dimandava medesimamente essere a lui presentato. Roberto maravigliato e nel tempo stesso lusingato del doppio messaggio, comanda che, esaminati i brevi di credenza dell'oratore di Gregorio, lo si facesse entrare.

In effetti, perch? tutto a punto si trov?, nel mentre di un uscio spuntava Rolando con seguito numeroso, di un altro, solo e modesto appariva il romeo. Rolando si ferma a due passi dal soglio, coperto da baldacchino, sul quale sedea Roberto involuto nel ducal paludamento, in testa la corona. Ma il romeo procede fino ai gradini di quel soglio, e presa la mano di Roberto per baciargliela, solleva di alcun poco il capperuccio, e con voce sommessa e commossa sclama:

(p. 57) —Messer duca, in nome di Dio! arrendetevi alle parole che sto per dirvi.

A quell'aspetto, a quell'accento, Roberto trasalisce. Mutato di colore, per isfuggire lo sguardo penetrante di Sigelgaita che attenta lo fissava, stringe la mano del romeo, e quasi del troppo ossequio di lui peritasse, risponde:

—Merc?, santo pellegrino! tocca a noi poveri peccatori tributarvi questi segni di veneranza.

Il romeo si alza e trattosi indietro attende che giungesse il suo momento di favellare. Rolando intanto per uno sguardo che aveva qualcosa di schernevole e di curioso lo sta a considerare un tratto, poi voltosi al duca favella:

—Monsignore, il santo padre Clemente v'invia salute ed apostolica benedizione. Penetrato della divozione che avete dimostrato alla Chiesa, malgrado gli oltraggi dell'antipapa Gregorio, non ha voluto soffrire che pi? lungamente s? nobile guerriero giacesse nell'interdetto. Mastro Ildebrando vi fece gravi torti. Papa Clemente, che da lunga stagione vi conosce ed ammira, mi manda a voi per togliervi la scomunica indebitamente fulminata.

—Gran merc?, ser. Rolando, al papa ed a voi che ci gratificate di questi attestati di amore. Gli ? ben vero che Gregorio ag? con noi ostilmente. Ei credette poter aggravare la mano, postaci sul collo da Niccol? II, e si allucin?. Doveva rammentare che i tempi non eran pi? (p. 58) quelli, e che noi non eravamo davvero vassalli della Chiesa, conciossiacch? tali ci fossimo profferiti un d? che la fede dei popoli, da noi conquistati, ci parve vacillare. Spero in Dio per? che a quest'ora e' si sia ricreduto; dappoich?, ad onta delle reiterate scomuniche, ci ha sempre secondato sorte avventurosa. Pace dunque allo sventurato; ed abbiate la cortesia, messer Rolando, di esporci cosa mai la santit? di Clemente III righiegga, in compenso della benedizione che ci manda.

—Nulla di pi?, monsignore, di quello che per gli altri pontefici avete fatto. Egli vi accorda investitura degli Stati finora da voi conquistati in Italia, e di quelli che in Grecia saprete conquistare: egli vi richiama nel grembo della Chiesa, e, come figliuolo della Chiesa, vi benedice. Non richiede perci? da voi, monsignore, se non che, come cristiano e come vassallo della sede di Roma, gli giuriate fedelt? e prestiate omaggio.

—Se il mio nobile padre volesse degnarsi di concedermi la parola, sorse a dire Boemondo, io risponderei....

—Cosa risponderesti? domanda Roberto un po' accigliato.

—Io risponderei a costoro, che noi non abbiam conquistato le terre d'Italia per servire ad alcuno: che quelle terre noi affrancammo dal dispotico giogo dei Greci, o sottraemmo all'insolente dominio degl'imperadori di Occidente: (p. 59) che questi soli dovrebbero domandar segno di ossequio da noi, ove noi volessimo accordarne a gente che ben sapremmo ridurre a ragione con la spada. Ma al vescovo di Roma che briga poteri per niuna maniera dovutigli, e ricorre alle armi spirituali da Dio non concesse per profanarle in usi sacrileghi, risponderei....

—Figliuolo, Roberto lo rampogna, il vostro senno si far? maturo cogli anni, ed allora vi chiameremo a darci consigli. Per ora piacciavi di ascoltarci e di apprendere con quale temperanza si governino i popoli.

Sigelgaita, che odiava Boemondo perch? figlio di Alberada, approva della testa. Roberto continua:

—Voi dunque, messer Rolando, risponderete all'arcivescovo di Ravenna, o, se meglio vi piace, a Clemente III, che noi non siamo per verun modo alieni dal profferirgli quei segni di veneranza che ci piacque profferire ai suoi antecessori. Per? papa Gregorio vive ancora, n? ancora ? decaduto dalla sedia di Pietro. Che perci? noi, fedeli alla Chiesa ed addolorati del suo scisma, ci asterremo dal dar prove di rispetto al novello pontefice per tema che il nostro esempio non seduca altrui. Ma faccia che il consentimento di tutti i prelati d'Europa lo proclami vero pontefice, ed allora noi gli giureremo obbedienza, e torremo qualunque fede ad Ildebrando.

—No, monsignore, lo interrompe il romeo, (p. 60) questo voi non farete, perch? vi condurreste da disleal cavaliere. Lasciate da banda il debito di fedelt? che vi stringe a Gregorio. Rammentatevi solo che, innanzi di esser vassallo della Chiesa, foste cavaliere; e come cavaliere vi urge il dovere di proteggere l'innocente e di soccorrere il caduto. Gregorio VII ? assediato nella mole di Adriano. A quest'uomo, monsignore, che, giorni sono, camminava sulle teste dei re, manca il pane per alimento. E voi che siete il pi? grande di questo secolo, vi stareste come una femminuccia dal soccorrerlo, sol perch? alcuni anni indietro corse briga fra di voi? No, monsignore, voi imiterete il suo esempio e lo gioverete, perch? egli si ? volto a voi come al pi? generoso de' suoi nemici.

—Ah! ah! si ricorda di noi adesso, perch? l'incendio che ha destato in tutta la cristianit? ? per divorarlo? sclama Roberto. Ma quando favellava di noi in tutti i concilii come di un corsaro, ci scomunicava, con suggestione ci ribellava i vassalli, e ci osteggiava con le armi della contessa Matilde, allora noi non eravamo generosi, n? si parlava di quei fratelli Maccabei tanto predicati. Allora noi eravamo Madianiti, scellerati, schiuma d'inferno; allora non sognava neppure che questo giorno avrebbe potuto venire, che la spada tentata spezzare avrebbe potuto armargli il braccio. Non lo avrebbe pensato allora? Ebbene, che sorba adesso fino all'imo la tazza della sventura, (p. 61) perch? non saremo gi? noi che gliela verremo ad addolcire.

—Con la vostra licenza, monsignore, il vostro consiglio non ? n? cristiano n? nobile, riprende il romeo. Se Gregorio VII vi avesse ricolmo di favori, e voi lo aveste soccorso nelle disgrazie, non avreste che compiuto un dovere. Or vi dimando io, monsignore, che diranno i popoli di voi, se vilipeso, perseguitato indebitamente e messo a bersaglio di ogni maniera di danni da Gregorio, vi levate contro i suoi nemici e dite: ritraetevi, per Dio, quest'uomo difendo io!

—Dicano ci? che lor piace, risponde Roberto alzando le spalle. Noi non corriamo pi? dietro alla nominanza. E se pure questo solletico ci stimolasse ancora, crediamo aver fatto qualcosa per esserne paghi.

—Certamente, monsignore, continua il romeo, certamente l'avvenire vi ammirer? perch?, disceso in Italia solo e povero, la schiavina di pellegrino addosso, il bordone nelle mani, vi siete levato a tanto alto potere e fatto padrone di s? vasto e bel paese, resistendo in cento battaglie a due imperatori, molti pontefici, e tutti vincendo. Vi ammirer? perch? con tanta sapienza governate e prosperate i vostri popoli, vi rendete loro caro, e temuto ai nemici. Ma i tempi antichi vantano altres? uomini che vi somigliano. Per? se violentate il vostro cuore, soffocate la vendetta, e prestate aita al vostro nemico, (p. 62) una voce si lever? allora per li due imperi che vi proclamer? unico e generoso.

—Queste le son vampe da mandare in succhio un guerrier nuovo, ser romeo; me non solleticano.

—Sibbene, monsignore: ma riflettete che l'Italia, la Germania, la Francia, Europa tutta, ha fornito il suo contingente di truppa contro questo ardito pontefice per abbassarlo, e che se voi solo sorgete contro tanta massa di popoli e li sconfiggerete, la vostra gloria non avr? limiti. Il vostro nome suoner? prodigioso dovunque ? venerato il nome di prode. In guisa che, se anche per disavventura la vittoria vi fallisse, oltre le benedizioni del cielo e del pontefice ed il soddisfacimento della propria coscienza, ognuno sarebbe sforzato a confessare avervi oppresso il numero, non il valore.

—E questo ? quello che noi non vogliamo, ser romeo. Ci darebbero dello stolto, dell'improvvido; ed un fatto solo distruggerebbe l'opera di tanti anni. Noi non siam tali, quel sere, da mettere sui dadi la nostra fortuna. Gregorio suscit? il vespaio: il malanno se l'abbia lui.

—Con la vostra permissione, mio nobile padre, sclama Boemendo, vorrei manifestare il mio avviso.

Roberto lo riguarda fittamente quasi volesse scandagliarlo nell'anima, poi dice:

—Favella pure.

(p. 63) Boemondo riprende:

—Vi dimando perdono, signore, se la mia poca sperienza mi allontana dal vostro consiglio. Il guerriero non numera i nemici che deve combattere, come l'ebreo i pezzi d'oro che presta. L'opera del calcolo non ? pi? l'opera del valore. Il valore sta dove il periglio ? maggiore, dove si frappongono gli ostacoli; e fatto di cavaliere non ? sicuro coi cento rompere i dieci. Ma se noi soli, noi, figli di una nazione che ha soggiogata l'Europa, andremo in piccolo e risoluto drappello ad urtare l'enorme massa di combattenti accalcata su papa Gregorio, allora il nostro nome sar? distinto nei volumi delle cronache, ed i trecento delle Termopili non saranno pi? soli.

—Nobile giovane! sclama il romeo di voce commossa e diversa affatto da quella con cui aveva favellato sino allora.

E faceva gi? un passo verso di lui per abbracciarlo, allorch? vede Sigelgaita, la quale fino a quel momento lo aveva considerato con un'attenzione come se avesse voluto divorarlo, la vide quasi all'insaputa sua sollevarsi dal seggio. E' si arresta. E Sigelgaita, dopo alquanto di silenzio, osserva ghignando:

—Chi direbbe che tanto entusiasmo si annicchiasse in un romeo che mi ha l'aspetto e la voce di una femmina?

—Perdono, madonna, la voce e l'aspetto lo (p. 64) d? Iddio: che pu? fare l'uomo se ha la disgrazia di altrui dispiacere?

—Proprio cos?, bel santo! E non ? gi? Iddio che s'incolpa se l'uomo, per ostentare venust? femminile, si taglia i peli del volto, e la donna, per correr libere venture, assume abito virile.

Il romeo resta colpito dalle parole di Sigelgaita, e fisando il suo occhio sereno sovra di lei, che torva ed irata lo contemplava, soggiunge:

—Mi avveggo, madonna, che ho avuta la sfortuna di esserle malgradito. Mi lusinga per? la persuasione che ci? non sia per effetto del mio messaggio; perch? chi non sa quanto la duchessa Sigelgaita agogni perigli di guerra ed azioni generose, in cui raccoglie sempre la corona dei forti? Ardisco perci? supplicare ancor lei, che voglia persuadere il suo nobile sposo recarsi a soccorso del pontefice.

—Che ti affoghi la peste, mariuolo di pellegrino! scoppia Rolando che or rosso, or verde nel sembiante si era a mala pena contenuto fino a quel punto. Che domine affastelli tu, con codesti guaiti da sgualdrina, di pontefice e di Gregorio? Per la santa luce di Dio! il pontefice ? Clemente, e mi sento prurito di strozzare chiunque voglia venirmi a cantare altra solfa. M'intendi? Ed a dire che ho raccolto con me nella galea quel bel mobile di un tisico!

—Messer legato, voi mi fate ingiuria indebitamente, ed io affido a Dio la cura di dimandarvene (p. 65) conto. Voi avete esposto il messaggio del vostro padrone, ed io mi sono taciuto, perch? ci? mi conveniva. Non so perch? per? voi sorgiate ad insultarmi quando io prego di porgere ascolto alle instanze dello sventurato Gregorio. Se non il riguardo di me, messere, perch? pei vinti non v'han riguardi, dovevate rattenervi per quella nobile dama, e per questo giovane, che ? nell'et? di apprendere azioni civili e generose.

Rolando stava l? per rispondere, ma Roberto gli taglia la parola, tanto pi? che ferocemente vedeva accigliare il suo figliuol Boemondo, e soggiunge:

—Signori, abbiamo udito le proposte di ambo i pontefici, ed in che modo essi intendano valersi dell'opera nostra. Prima di darvi risposta e' ci ? d'uopo riflettere alle condizioni in cui ci troviamo, e ci? che a noi convenga di fare. Udremo ancora i nostri fedeli, e domani s? voi, ser romeo, che voi, messer Rolando, saprete il partito a cui saremo per appigliarci.

—Voi farete il vostro piacimento, monsignore, risponde Rolando, e vi atterrete a quel consiglio che stimerete il migliore. Per? gli ? bene che abbiate presente, la parte di Clemente esser quella di tutta Europa, e che i scarsi e mal sofferti proseliti di Gregorio tornano esosi ad ognuno come il loro capo. Vi rammenterete inoltre che l'obbedienza cui giurerete a Clemente ? garante delle grazie che troverete presso di Enrico, e (p. 66) delle quali, se mal non mi avviso, avete pur d'uopo; imperciocch? questi ? in Italia ed alla testa di armata potente, e voi, mentre battagliate in paesi stranieri, lasciaste sguarniti e poco difesi gli stati di Puglia e di Calabria. Voi siete prudente ed avveduto, monsignore; le troppe parole tornano inutili.

—Merc? dunque della pena che vi prendete di dirle, messer legato, risponde Roberto crollando il capo bruscamente. Le considerazioni che dovremo fare ben sappiamo. Voi tentate d'intimidirci con codesto prospetto, ma perci? appunto c'indurreste a correre dal lato opposto, perocch? noi amiamo andar mai sempre contro l'opinione e l'aspettativa d'altrui. Nondimeno, a domani, messer legato.

—Ed io, monsignore, soggiunge il romeo, mi rassegno innanzi al voto che sarete per profferire. Alla perfine, se tutti gli uomini abbandoneranno lo sventurato sacerdote, lo protegger? Iddio che suol farsi compagno degli oppressi. Tra le sue disgrazie avr? sofferta ancora l'onta del rifiuto, ed il disinganno di aver pensato generoso il nemico. Temistocle non avr? trovato il suo Serse.

—Ser pellegrino, lo rabbuffa Roberto, Gregorio VII, creatura orgogliosa che giammai avventur? n? parole n? opere, sapeva meglio di voi a qual uomo si dirigeva. Andate, ed a domani.

E s? dicendo si alzava, ed i messi, inchinandolo, uscivano.

(p. 67) Dopo un poco di silenzio, Sigelgaita fissa gli sguardi su Roberto e dimanda:

—Messer duca, non conoscereste voi per avventura quel romeo?

Roberto resta sorpreso della dimanda, ed a sua volta considera la faccia di sua moglie fatta pallida. Poi, freddo freddo, risponde:

—No.

Sigelgaita piega gli occhi, e senza dir motto, esce.

(p. 68) VI.

Ben ai omais qeu sospir, e qeu plaigna
Qab parc lo cor non part, qan me recort
Del bel solaz, del ioi e del deport.

Periol D'alvernia.

La notte era inoltrata, tutti nel castello dormivano. Solo il romeo percorreva a lento passo la sua camera, soffermandosi di tratto in tratto avanti la finestra per contemplare il tacito corso della luna, ed il luccicare della marina. Egli aveva gittato il capperuccio dietro le spalle e piegate le braccia sul petto. La luna gli rischiarava il sembiante che, contornato dal nero abito, appariva pi? pallido ancora. Gli occhi scintillavano, avvegnach? in quel placido meditare della notte languidi e velati dovessero mostrarsi. Egli attendeva qualcuno perch? ogni pi? tenue susurro la scuoteva di un sussulto, perch? non distoglieva gli sguardi dal cielo se non per guardare all'uscio che si aprisse. In effetti non pass? guari ed ud? lieve rumore, e la porta si schiuse. Egli corre verso l'uomo ravviluppato nella bianca cappa, il quale (p. 69) lento alla sua volta andava, e tendendogli le braccia al collo sdama:

—Boemondo!

Colui si svolge dal manto, e gittandoselo dietro ai reni in una col berretto, risponde:

—Non ? desso, Alberada.

—Monsignore! grida questa, perch? il romeo era appunto Alberada: e tirandosi un passo dietro soggiunge: Monsignore, che cercate qui, a quest'ora? Io aspettava mio figlio.

—Egli verr? pure, Alberada, risponde Roberto lentamente, ma deh! non ti rincresca che anch'io goda un'altra volta la delizia di parlarti liberamente, e dimandarti perdono dell'onta che ti feci.

—Voi non avete bisogno di dimandar perdono, sclama Alberada commossa nella voce, io non vi ho mai odiato, n? mai chiesi vendetta. Iddio mi aveva destinata a percorrere una via di triboli; la sua volont? si ? compiuta. Cessate dunque dal dimandarmi merc?. La colpa non ? vostra.

—Io fui un forsennato, Alberada, prosegue Roberto, la gelosia mi tolse la ragione. Io ti aveva amata come niuna donna ho saputo di poi amare di pi?. Andava sicuro che il tuo cuore non avesse mai palpitato per altr'uomo che per tuo padre e per me, che il tuo pensiero non si fosse rivolto che a Dio ed allo sposo. Sapere invece che diverso affetto ti riscaldava, udirlo d'altrui quasi per celia, cos?, come si racconta di Ginevra e di (p. 70) Lancillotto nelle veglie d'inverno, udir che invita ti recasti al mio talamo, e che era passione per incognito abbietto che ti stendeva nel sembiante quel velo di mestizia e ti faceva trascorrere lugubri giorni! Ah! Alberada, se mai non ti avessi amata, o debolmente, avrei allora posto a scrutinio il fatale racconto dell'abate di Cluny, meditato sulla tua condotta, e non ti avrei vituperata di un ripudio. Ma io bruciava del tuo amore; io faceva eco a tutti i baroni che si dicevano: niuno ? lieto di pi? bella e virtuosa consorte come il Guiscardo! Mi credetti tradito, e preso da impeto insano, nel punto stesso mandai per altra sposa, seguii il messo, aggiustai le nozze, e travagliato da disperazione, da ansiet? infernale, da amore, da gelosia, da tutte le passioni che possono far misero un uomo, escogitai la vendetta, ti feci preparare le feste per la novella sposa, e nell'ebriet? del convito ti gittai sul volto il ripudio.... Dio mi ha punito, Alberada, Dio mi ha severamente punito. Perdonami e compiangimi tu pure, o se nol puoi, almeno non disprezzarmi.

—Disprezzarti, Roberto, prorompe Alberada, e due lagrime lucide e lente le solcano le gote, ed hai potuto pensarlo mai! Io non ti ho apposto a colpa che tu m'abbi allontanata da te, perch? vado convinta, in terra non muoversi stelo che a Dio non piaccia. Compresi fin da prima che un'allucinazione ti aveva turbata la mente, (p. 71) e desiderai questo momento di colloquio per giustificarmi teco. Ora tu mi dici che sei sicuro di mia innocenza; ed io ti ringrazio che mi abbi cos? tornati tranquilli i poveri e vedovi d? che mi restano a vivere. La mia missione quaggi? fu di abnegazione. Mi sono rassegnata da lungo tempo alla parte che Iddio mi ha destinata. Solo che ti sappi felice appieno nel tuo domestico focolaio...! Ma a pochi, o Roberto, ? stata concessa la santa facolt? di amare; e questi predestinati sono infelici.

—S?, Alberada, a pochi fu concessa la virt? di amare con quella pienezza che mi hai amato tu. Ma quei giorni sono svaniti coi sogni della giovinezza. Se sapessi per? che cosa ti potrebbe rendere contenta la vita per l'avvenire....

—Il mio avvenire, Roberto, ? scritto da lungo tempo. Quando mi discacciasti da te a Melfi io mi ricovrai in un monistero di benedettine a Grotta Minarda, e di l? mi sottrasse con violenza Guiberto, s? che fui costretta a tormelo sposo. Egli mi am? sinceramente, ed anche io per riconoscenza l'amai; ma di quell'amore che sfiora il cuore, come fa la brezza della sera passando sugli aranceti da cui lambisce uno sprazzo di odori; di quella passione calma e rassegnata che sa di stanchezza, che cerca tranquillit? e riposo. E lo confesso ben essermi violentata a riamarlo meglio per corrispondere a quella specie di frenesia con che egli mi amava. Ma nol potei, perch? (p. 72) una volta sola si ama nella vita, ed un uomo—e fuori di quello ogni nuovo affetto ? languido falso. A lui mi tolse il fratel suo Ildebrando, che mi tenne chiusa tanti anni nel fondo della mole di Adriano per divellermi da ogni tenerezza di questa terra, e rivolgermi interamente a Dio.

—Scellerato! sclama Roberto.

—No, allucinato, risponde Alberada. Ho consumata dunque tutta l'ostica tazza che aveva avuta a sorbire! Ora la mia posizione ? terribile. Quegli che adesso ? mio marito si arma contro il fratel suo che ? l'inimico mio, colui che Iddio ci comanda di perdonare e di amare. Io ho perdonato a Gregorio VII. Io mi sono intenerita alla sua sorte da tanta altezza precipitato. Ho veduto il fiero vecchio deciso a morire di stento, ma saldo e altieramente nobile, con quella grandezza di convinzione che Iddio suol concedere solamente ai suoi eletti. Gli ho promesso che sarei venuta ad implorare il tuo aiuto, Roberto. Io non voglio che tu opprima l'uno per l'altro, che ti dichiari contro uno dei due fratelli; mai no. Sarei ingrata, sarei vituperevole. Voglio che ti rechi a Roma ad udire le ragioni di entrambi, e metta pace fra loro. ? opera di carit? che chieggo da te pi? che opera di valore. Mi appello in te pi? al cristiano ed al cavaliere che al guerriero. Non negarmi la grazia di questa tua temuta mediazione. Tu solo puoi stabilire l'equilibrio nelle cose dell'Impero e della Chiesa, e portare la pace in (p. 73) questa desolata Italia. Indi cercher? un chiostro dove morire dimenticata, e spero nella misericordia di Nostradonna dei sette dolori che lungamente non mi voglia lasciare allo spasimo di questa vita. Mi sento stanca, ho bisogno di riposo.

—Alberada! e non speri tu dunque giorni migliori?

—No, Roberto, perch? io non potrei pi? godere senza far misero altrui; perch? i giorni dell'illusione sono sepolti con quelli della giovinezza. Sol che sappia avventurosi te e Guiberto; sol che sappia felice il mio figliuolo Boemondo, la gemma dei miei pensieri! io non desidero di pi?. Il mondo mi ha maltrattata; perch? ambire rimanerci pi? lungamente? E poi, o Roberto, col lungo soffrire tutto acquista una tinta squallida, come l'itterico vede giallo ogni oggetto. Consolami dunque di quest'ultima gioia; fa che ritorni la pace tra i due fratelli, tra i quali mi ha gittato fatale destino a cui presento dover soggiacere; e poi che io muoia, perch? sento di restare inutile ed arida sulla terra.

—Io verr? a Roma, Alberada, ed il tuo volere sar? pago. Tu per? non andrai incontro alla sconfortata solitudine che ti minacci. Vi ? ancora sulla terra qualcuno che ti ama col delirio dei venti anni, che non trascorre giorno senza consacrarti un pensiero, talvolta una lagrima, cui Iddio accetter? in iscomputo della sua colpa. Tu (p. 74) hai ancora un figlio, un generoso e prode giovane cui sovente ho veduto lagrimare di furto dove occorse favellare di te. Tu hai amici ancora, hai il novello tuo sposo Clemente III, che perci? solamente mi sentirei inclinato a favorire. E costui, e noi tutti che non faremmo per te? Tu devi essere assolutamente una santa, Alberada, che non covi odio contro Ildebrando, e vuoi a lui tornare angelo di conforto e di speranza! Iddio non ti lascer? sconsolata. Tu non andrai a seppellirti in un chiostro a finirvi oscura e solitaria una vita s? nobilmente spesa!

—La mia sorte ? decisa, Roberto. Se io fossi stata destinata alla gioia, Iddio non me l'avrebbe interrotta nel pi? bel punto che la teneva. Le mie condizioni peggiorano ogni giorno; mettiamoci un ostacolo. Soffrir? un supplizio di cuore, ma i fatti crudeli di coloro che per vincoli santi di amore a me si attengono non giungeranno fino alla mia solitudine. Tiriamo quindi un velo sul passato, e diamoci addio qui.

—Alberada, non distruggermi ogni illusione dell'avvenire, sclama Roberto con entusiasmo, prendendole le mani. Io gemo sotto terribile giogo: io non conosco pi? un'ora di sonno tranquillo: la mia vita ? un martirio di cui tu non puoi avere idea. Iddio cre? la donna perch? fosse all'uomo angelo di conforto e di pace; ed io.... ah! no, Alberada, non rompermi il fascino incantato che mi fa vivere e palpitare nel futuro.

(p. 75) E s? favellando Roberto si stringer? sul cuore le mani di Alberada, allorch? questa, ad un rumore verso l'uscio, vi volge gli occhi, e sotto l'arco di quello, al debole chiarore della luna, vede come una fantasima nera, che, alta, ritta, immobile contemplava, e da lungo tempo forse! quel gruppo che inconsiderato discorreva di altri tempi, immemore del presente e delle rispettive loro condizioni. Alberada gitta un grido, e Roberto, drizzato anch'egli lo sguardo a quella parte e scorta la fredda figura che non faceva atto di muoversi o di parlare, le va incontro e dimanda:

—Chi sei tu dunque, che osi ribaldamente avvicinarti a queste stanze, a quest'ora?

La fantasima si svolge lentamente dal manto che la circondava, si alza la tocca che le calava sulla fronte, e senza dir parola si fa conoscere. Roberto si ritrae in dietro di un passo, e, non sapendo che si facesse, porta la mano al fianco per cercarvi il pugnale, e pieno di stizza grida:

—Alla croce di Cristo, madonna! chi ti ha dunque fatta tanto ardita di spiare i passi del tuo consorte?

La duchessa Sigelgaita, che ella stessa era il fantasima, non risponde, e raccogliendosi lentamente il mantello attorno la persona, e tirandosi di nuovo la tocca sulla fronte, sta un istante a considerare di occhio freddo ed immobile come quello dell'estatico la coppia infelice, poi piega a terra lo sguardo, volge loro le spalle e parte.

(p. 76) Lungo silenzio successe alla sparizione della duchessa. Alberada tremava tutta di spavento, Roberto di rabbia. Infine Alberada balbetta:

—Guai, Roberto, ella ha udito tutto! Quale terribile donna abbiamo offesa.

E s? dicendo mezzo svenuta si lascia cadere sur una sedia. Roberto non risponde, ed affidatala a Boemondo, che entrava in quel punto, esce dalla stanza.

Lungo, tenero, straziante fu il colloquio della madre e del figlio. Si dissero cento cose, si fecero cento promesse; e d'allora forse il carattere di Boemondo acquist? quell'aria di fredda durezza e quella sterilit? di cuore che dimostr? di poi, come condottiero nella prima crociata e come principe di Antiochia. L'alba li divise.... per sempre; che due strade opposte dovevano percorrere gli sventurati.

Al domani, i due legati si presentarono a Roberto nel salone dove soleva tener corte, e quivi fu loro fatto sapere che ei si sarebbe recato a Roma per decidere la questione dei due pontefici. Rolando comprese subito, dall'aria contegnosa del duca, che questi pendeva per Gregorio e che verso Roma muoveva a danno di Clemente. Onde, assumendo modi e parole che al suo carattere di soldato, di legato e di uomo franco ed ardimentoso addicevansi, int?ma la guerra a Roberto e parte. Nell'uscire, la duchessa Sigelgaita, che la sua ardita intimazione aveva udita, gli si fa incontro e gli susurra:

(p. 77) —Messer legato, raccomandatemi alle benedizioni di papa Clemente.

Rolando la stette a guardare attento per comprender netto il significato di quelle parole, poi si accosta alla duchessa e le mormora all'orecchio alcune frasi. La duchessa l'ode, poi risponde:

—A Roma dunque, messer Rolando.

Alberada, imbarcata sopra una galea del Guiscardo, part? anch'essa, confortata di speranze per Gregorio, per Roberto trepidante. Vedremo.

(p. 78) VII.

Ya sabeis, vasallos mios
que habr? dos meses y medio
que el Turco puso ? Viena
con sus tropas el asedio,
y que para resistirle
unimos nuestros denuedos.
Ben conozco que la falta
del necesario alimento
ha sido tal que rendido
de la hambre ? los esfuerzos,
hemos comido ratones,
sapos, y sucios insectos.

MoratinEl caf?.

L'arcivescovo di Ravenna, perch? noi seguiremo a chiamarlo cos? malgrado la sua sacra pontificia, l'arcivescovo ebbe a darsi a tutti i diavoli quando ud? che Roberto Guiscardo, lungi dal giurargli divozione, mandava pel suo legato Rolando ad intimargli la guerra. L'imperatore Enrico era in Lombardia, ma il nerbo dell'esercito stanziava a Roma e nel paese circonstante. Con tutta fretta dunque Guiberto fortifica la citt?, ripara il guasto (p. 79) delle mura e delle torri, e di blocco pi? fitto stringe castel Sant'Angelo. Egli imbizzarriva, come ridotta allo stremo di tutto, non per anco quella rocca si fosse resa. Ed in vero il senato ed il console, per aderirgli, avevano fatto intimare al loro castellano Oddo che sgombrasse la fortezza e si constituisse prigione. Per?, in segreto, ei lo sollecitavano a mantenersi fedele, a tenersi fermo di dentro, perch? le cose non ancora essendosi ben consolidate, Castel Sant'Angelo e' consideravano quale estremo rifugio pel patriziato e per coloro che rappresentavano il reggimento civile di Roma—vale a dire console, tribuni e capitani della milizia cittadina. Oddo li ubbid?.

Non appena uscita Alberada dal castello, Oddo aveva fatto cadere un verrettone con pergamena tra le penne in mezzo ai soldati dell'imperatore. In quella pergamena e' scriveva, che un mese ancora il pontefice dimandava fosse rispettato il castello, e fornito ciascun giorno di scorte; il qual termine elasso, prometteva uscirne, rinunziare alla sede di Pietro, Enrico assolvere dalle censure, Clemente III riconoscere, perdonar tutti, ed andare a rinserrarsi nel suo prediletto soggiorno del monistero di Cluny. Veramente non gli si prest? ampia fiducia. Per? vedendo l'impossibilit? di togliere cos? presto d'assedio la piazza, e volendo sempre pi? giustificare la nobilt? di sua condotta innanzi al popolo romano, cui ambiva tornarsi divoto affatto, firm? i patti posti dal pontefice e part?.

(p. 80) Il suo luogotenente Guiberto non segu? a puntino gli articoli del trattato. Scarsamente ogni tre d? faceva, col ministero di una corda, arrivar provigioni agli assediati, e, quasi per burla, due volte fece simulacro di scalar la fortezza. Ma quei di dentro, sempre all'erta, precipitarono dalle scale gli assalitori. Infrattanto lo spirare del mese approssimava e di Alberada nulla si sapeva.

Termin? infine, e novella alcuna non se ne ebbe. Allora Guiberto mand? parlamentario alla rocca perch? mantenessero il trattato. Erano stretti dalla parola e dalle circostanze; ma Oddo sperava ancora. Rispose perci?: il pontefice infermare gravemente; nulla ei per s? poter decidere; quegli non trovarsi in istato di essere consultato; dimandare ancora dieci giorni di tempo, compiuti i quali immancabilmente avrebbero sgombrato il castello. L'arcivescovo strabili?. Concesse per? gli altri dieci giorni, e signific? loro che, non avendo gl'infermi d'uopo di cibo, si sarebbe astenuto fornirne. Blocc? intanto pi? strettamente il forte; n? rest? dal tentar mezzi per sorprenderlo.

I governatori di Roma, e meglio ch'essi Gisulfo, il quale, riconciliato col papa, dentro Roma incognito e povero aveva vissuto un resto di anni vituperati, subornarono le sentinelle, e provvidero il castello per alquanti d?. Ma in fine una notte Gisulfo fu sorpreso da Rolando, e trascinato nel fondo di cieca muda disfatto miseramente. (p. 81) Per alcune sere si vide ancora un lume di segnale sui baluardi; poi una mattina bianco vessillo vi sventol?.

Si rendevano.

Ildebrando, Oddo, il presidio erano restati due giorni digiuni compiutamente, ma n? l'uno n? l'altro aveva proferito verbo; i soldati non avean mosso lamento. Il conte nel suo cuore impietosiva del vecchio pontefice, questi del fedel castellano. Nullameno niuno dei due parlava di arrendersi. Gregorio, perch? sapeva di qual tempra fosse Oddo, il quale cento volte si sarebbe prima lasciato morir di fame anzi che cedere la piazza; Oddo, perch? immaginava qual crudele sorte avrebbe incontrato il pontefice se si rendesse. Con terrore per? ciascuno mirava sul volto dell'altro i segni spaventevoli della fame. Non erano uomini da lagrimare, ma visibile si leggevano scambievolmente sul sembiante la commozione, pensando a qual fine di gran passo tutti procedessero. Nessuno dei due si sovveniva neppure del presidio! Eran vassalli: dunque, carne a dolore, carne a morte. Una mattina infine Oddo tolse dal suo scudo le guigge di cuoio, e dopo averle fatte bollire lungamente, sopra un tagliere di legno and? a presentarle con una divina semplicit? a Gregorio. Egli non profer? parola: Gregorio gli fiss? sul volto gli occhi lucidi per una lagrima che vi si stese, e dopo averlo un tratto contemplato, si alza da sedere e gli stringe la mano (p. 82) tremante. Tutti e due stettero un pezzo avvinti cos?, poi Oddo, ritirando la sua ed asciugandosi una lagrima che placida gli solcava lo smunto volto:

—Mi porti il diavolo! proruppe, se aveva mai pianto in vita mia dal d? che andarono a seppellire quella povera vecchia di mia madre, che il cielo abbia in gloria!

Gregorio si torna a sedere lentamente, poi mormora:

—Ella non torna pi?!

—Che il diavolo si porti ancor lei, scoppia il ruvido castellano. Gi? ? una femmina; e noi fummo ben due pazzi che le prestammo tanta fiducia. E quel gramo di Gisulfo?

—Ma! l'avranno scoperto nell'ufficio pietoso di soccorrerci, e l'avran fatto freddo. Iddio abbia piet? dell'anima sua!

—Amen, risponde il castellano. Sarebbe per? meglio se avesse piet? di noi, perch? gi?.... ma mangiatevi almeno codesti correggiuoli. Non ? un lauto desinare, lo comprendo ancor io; per? il diavolo mi soffochi...! perdono, santo padre, sa! ? la cattiva abitudine. Sicch? io vi diceva che con queste liste di cuoio potrete almeno sostenervi qualche altro d?: poi si vedr?.

—Mangiateli voi, Oddo, se codesta roba ? ancora buona a qualche cosa, insiste Gregorio; fateli mangiare a questi poveri disgraziati di soldati. Io mi sento tuttavia in forze. Ed infine, gli (p. 83) ? meglio che vi sosteniate voi per difender la rocca, perch? gi? per me non giova pi?.

—Noi, noi...! che dobbiamo fare della vita noi? Abbiam pure da pensare ad un mondo noi? Abbiam pure una cristianit? sulle spalle noi, una cristianit? a cui bisogna conservarsi, e mostrarsi saldo onde non farvi penetrar l'eresia, l'ateismo, l'arianismo e che so io? Andiamo, mangiate in nome del diavolo! ch? per noi siamo avvezzi a codeste carezze del nemico. E poi, se la fame ci tira pei capelli, daremo di mano ai sandali, ci tranguggeremo un pezzo del giacco di bufalo; rosicchieremo un pezzo di teniere di balestra o un pezzo di mattone.... pensate a voi. Credete che domani vi riuscir? poi facile mandar gi? questa diavoleria! Lo stomaco si chiude, e buon viaggio a chi parte. Io so come vanno queste faccende.

—Ma no, vi dico, mangiateli voi. Io medito sopra un passo del Vangelo: l'uomo non vive solamente di pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio.

Oddo si gratta il capo, e dopo un momento di silenzio, soggiunge:

—Sentite a me, pontefice, farete poi il commento a codesto bel passo; ma per ora contentatevi di mangiare queste guigge di cuoio comunque esse siano. Vi ripeto che domani nol potreste pi?. Se vi vedeste nel volto!... Io non voglio con ci? farvi paura, n? voi siete quel tale che ne avrete mai. Ma udite un mio consiglio. Voi avete (p. 84) bisogno di sostentamento perch? siete pi? vecchio di noi, e meno uso a questi regali delle guerre. Mi ricordo che al blocco di Pavia quei cani di Milanesi ci fecero stare... non so pi? quanti giorni digiuni. Figuratevi! Io aveva allora venti anni, ed era ridotto che il peso del pugnale mi gravava. Sa Dio poi cosa ebbero a fare per ristorare quei che sopravanzarono alla resa, ch? gi? parecchi se l'erano colta per l'altro mondo. Dunque...

—Ma infine, Oddo, l'affare non pu? durare cos?, sclama Gregorio crollando la testa. Io son deciso: domani mi arrender?.

—Avete detto, beato padre?...

—Che domani mi arrender?. Gi? io non parlo di voi, che anzi metter? per patto alla mia dedizione che voi veniate rispettati e provveduti di viveri, finch? il pieno volere del popolo e del senato romano non vi ordini davvero di sbrattare il castello. Son sicuro che non vorranno fare difficolt?, perch? una volta che mi abbiano avuto nelle mani tutto cangia. Sa Iddio se non mi sarei volentieri lasciato morire di fame qui... Ma trascinarvi alla perdizione con me!... Qual colpa avete voi, uomini generosi, che dobbiate soffrir tanto? Eppure se avessimo potuto reggere ancora una settimana o due, chi sa? Io spero ancora in Alberada. Forse avr? torto, ma...

—Uhm! santo padre, voi non conoscete mica l'umor delle femmine. Sono come quel famoso corvo dell'arca di monsignor No?. Figuratevi mo (p. 85) che ella voglia pensar pi? a due poveri vecchi papari, dei quali alla fin dei conti non ha poi tanto a lodarsi, e pensarvi quando, dopo non so quanti anni di prigionia, si trova libera, vicino ad un figlio e ad una mezza dozzina di mariti, con la volont? e la potenza di vendicarsi, senza forse saper che fare o poter nulla fare per giovarci... Bah! Il mondo dovrebbe esser cambiato d'assai, ed il diavolo dovrebbe fare ogni mattina la comunione, perch? colei si curasse ancora di noi. Ed io che le aveva posto amore come a figlia! Ma alla fin fine, ella ha altri doveri che la stringono pi? da presso, e non pu? tradir l'antipapa, che l'? marito, per noi che le siamo prossimo, e cattivo prossimo.

—? vero, mormora Gregorio dopo avere alquanto riflettuto. Perci? appunto domani mi arrender?. D'altronde, io non so poi da chi possa aspettar sussidii. D'oltremonti no; perch? i Lombardi e gl'imperiali guardano le chiuse: d'oltremare potrebbe soccorrermi Guglielmo il Conquistatore dall'Inghilterra; ma colui si ? spiegato chiaro che non vuol saperne delle cose della Chiesa, perch? ama meglio consolidare il fatto suo. Vi sarebbe il Guiscardo da Grecia; ma anch'egli ha col? i suoi guai—e poi col Guiscardo siamo a tali termini che, a quest'ora, gi? contro di noi avr? patteggiato con Enrico, e forse verr? sopra Roma a danno nostro. Sicch? non saprei come Alberada possa fare per porgerci (p. 86) aiuti—a meno che non volesse ricordare l'esempio di Stefania, la moglie di quello sventurato Crescenzio che ha lasciato il suo immortale nome a questa fortezza. Convinciamoci dunque, messer conte, che noi siamo ben folli a sperare, come tutti coloro che sperano altrove fuori di Dio; e rassegniamoci al nostro destino. Domani alzeremo bandiera bianca.

—Siete un famoso uomo se in questo stato di cose, beato padre, conservate ancora la voglia di scherzare, dice Oddo incrociando le mani sul petto e componendo la ciera ad alcun che di ironico.. Resa! resa? Se voi favellate da senno, bisogna dire che la fame vi abbia indebolito il giudizio. Voi lo avete detto che io non posso rendermi, perch? tengo il forte pel popolo e pel senato romano, ed ancora da costoro non mi ? venuto ordine di dedizione. Voi poi, quanto a voi non dovreste neppure sognarlo per ombra, perch?, mi porti il diavolo! se quei bravi figliuoli di laggi? non vi taglieranno a ghiado appena vi terranno nelle mani. Cos? che parmi che valga meglio morire nobilmente qui, e morire martiri, anzi che andarsi a ficcare in mano a quei demonii come un becco che s'incammina al macello.

—Ho resistito quanto ho potuto, Oddo, risponde Gregorio gittando un sospiro: sono giustificato innanzi al mondo. Ora debbo pensare a Dio, e Dio proibisce l'omicidio—cosa che (p. 87) io farei se, restando pi? lungamente qui, rimorchiassi anche voi altri nella mia ruina. Dio proibisce il suicidio. Mi uccidano essi.

—Ed avete dunque deciso?

—Domani di darmi a discrezione.

Oddo si siede con un moto di disgusto e mirando in volto Gregorio, e tentennando il capo, brontola:

—Udite me, pontefice, perch? la ragione non mi vacilla ancora. Il partito a cui volete appigliarvi ? estremo, e comprendo anch'io che un giorno l'altro io stesso debba fare questa pazzia; non gi? per me, vedete, perch? per me non curo la vita meglio di un'asta spezzata. Ma vedervi languire cos?... A buoni conti forse dovremo venire al punto di tentare la fortuna della resa. Ma fino allora ci vuole ancora alcun che.

—E di che si vive? l'interrompe Gregorio.

—Di che? sclama Oddo. Abbiamo qui alcune cuoia da rosicchiare, ed io so per esperienza che con questi negozii, se non si fa stravizzo, si campa la vita. Atteniamoci dunque a questo pasto per quanti altri d? potremo, e vediamo come si mettono le cose. Abbiamo sempre tempo di arrenderci, e non giunger? mai tardi. Ma ora... per tutti i diavoli! non fosse che per decoro! Dovranno dire quei poltroni di laggi?: trista canaglia, ghiotti marrani, avevano ancora i sandali da ingoiarsi e non so quanti vecchi giacchi di bufalo; ed hanno alzata bandiera (p. 88) bianca? Vigliacchi del diavolo! precipitiamoli gi? nelle fosse. E questo e' direbbero quei furfanti d'imperiali, mio bel papa, se noi cedessimo adesso. E qual frutto ne caveremmo poi? Saremmo svillaneggiati per avere alquanti d? pi? presto un capestro alla gola, e penzolare ai merli delle torri. Mai no.

—Credete voi dunque ch'essi oserebbero?... dimanda Gregorio.

—D'impiccarvi e d'impiccarci? Magari! l'interrompe Oddo. Due volte piuttosto che una. Or bene; udite me: mangiate questi correggiuoli, e figuratevi proprio ch'e' fossero asparagi. Gi? tutto ? immaginazione. Son sicuro che quel benedetto abate di Cluny si astrarrebbe nelle nuvole di Aristotile e mangerebbe un pezzo di calcinaccio per formaggio. Fate dunque altrettanto voi. Poi si penser? alla resa. Comprendo che voi lo vorreste solo per me. Ma mi porti il diavolo! se io non lo far? per nuda considerazione di voi, quando il tempo a ci? sar? giunto. Che preme al vecchio Oddo se muore anzi di fame, come un lupo caduto in una fossa, che per un ferro di lancia nel petto, o appeso a queste nere mura come un nibbio alla porta di un castello! L'? tutt'uno: si muore sempre. Andiamo dunque, vediamo se codesti bianchi denti sanno fare ancora il loro ufficio.

—Ma a che pro? dimando io; in chi speri tu dunque, messere?

(p. 89) —In chi? mai nel diavolo, in Dio, nella forza degli eventi, nella gocciola d'acqua che fa straboccare il vaso, nel caso; insomma io spero in tutto, in tutti, e non spero pi? in alcuno. Solo per onor del mestiere non credo giunta ancora l'ora della resa. Ecco tutto. E poi davvero dunque gli uomini sono affatto birbi! E chi sa, quella povera figliuola di Alberada!... Mi dice il pensiero che poco fa noi la calunniavamo. Era cos? buona, cos? rassegnata.. no: non si dimenticher? cos? senza rincrescimento del suo vecchio Oddo, non fosse altro! Part? piena di una fiducia che sembrava inspirata da Dio. Mi si stringe proprio il cuore quando vi penso. Se non mi danzassero sessant'anni sul capo, direi che ne sono innamorato fradicio. Oh! sentite a me; mangiate: ella torner?.

—Il mio partito ? preso, Oddo. Domani mi vado a dare in braccio all'arcivescovo di Ravenna. Non sai tu che colui mi ? fratello, messer conte?

—Lo so: me lo ha detto pi? di una volta Alberada.

—Ebbene, Guiberto ? generoso—almeno lo era. Mi getter? in braccio a lui, ed onta sia a questo infame popolo romano che abbandona il suo padrone, onta a tutti i codardi re della terra, che sopportano l'umiliazione di colui che rappresenta il re dei re; e che ? loro signor suzzerrino.

—Ma davvero dunque voi volete commettere questa minchioneria?

(p. 90) —Chiamala come vuoi, Oddo, sono in dovere di farla. Dovrei dar conto a Dio se altrimenti mi conducessi. Hai capito? dovrei darne conto a Dio che ha detto: Conserva te stesso—e cadr? sul vostro capo tutto il sangue del giusto che sar? versato sulla terra.

—Giacch? dunque in questo affare vi ? entrato di mezzo Iddio, bisogna pensare come cavarcene. Per tutti i diavoli! Chi avrebbe pensato che Dio potesse venire a ficcare il naso in una scodella di cuoio bollito, ed in una rocca assediata! Ma giacch? la cosa sta cos?, si far? come voi dite. Per? dovete lasciarvi regolare da me che m'intendo meglio di queste cose, e mi prometto di non farvi fare bestialit? e codardie. La faccenda si condurr? con decoro e prudenza. Restiamo dunque fermi su ci?, e ci penseremo domani.

Ed in effetti, avendo Oddo il domani trovato risoluto Gregorio nel proposito di uscir dal castello, alza pennone bianco, e salito sulle mura dei baluardi dimanda a parlamentare. Ben presto si presenta un araldo dell'arcivescovo. Al quale fatto intendere che e' voleva andare ad abboccarsi con lui onde rendere la fortezza, l'araldo si reca al palazzo di Laterano, e torna subito con la risposta, che papa Clemente III dava sicurt? sulla sua parola per la vita e la libert? del parlamentario, ed al palazzo lo aspettava.

Oddo dimanda che queste promesse Guiberto (p. 91) mettesse in iscritto, e che per lui guarantissero, con la propria firma, anche Ulrico da Cosheim, Baccelardo e Goffredo di Buglione. Al che avendo assentito tutti, l'araldo riviene con la pergamena cos? foggiata, cui Oddo, da star dalle torri; tira su per una cordicella, e porge a leggere a Gregorio. E perch? ogni cosa andava in regola, il castellano esce, facendogli chiudere alle spalle la postierla, ed al palazzo di Laterano si conduce.

Una folla immensa di popolo e di soldati si strinse a far ressa intorno al castellano, curiosi di vedere da vicino un s? famoso uomo, che solo, con una mano di vecchi balestrieri, aveva saputo tener fronte a tanta truppa, e solo non cedere, mentre tutta Roma soggiaceva all'oste tedesca. E davvero che ognuno maravigliava, segnatamente la marmaglia, perocch? corto, smilzo e laido era il castellano. Cos? che gliene dicevano attorno delle belle e delle curiose. Ma Oddo non curava n? punto n? assai il cincischiare che gli facevano addosso, perch? in quel momento tutt'altro gli girava pel capo. La folla per? cresceva anche peggio presso la dimora dell'arcivescovo. E non vale il dire se i soldati usassero i poderosi argomenti dei calci delle lance per tenerla addietro. Ma la serra aumentava, volendo ognuno guardarlo in viso e dir la sua; ch? tra le plebaglie curiose per s?, le pi? curiose e facete son quelle di Napoli e di Roma. E pi? di tutti nella calca (p. 92) si addentrava un romeo, il quale, malgrado le punzonate ed i gomiti ne' fianchi che pi? di una volta gli mandarono manco il respiro, giunse fin presso al castellano, s? che pot? zufolargli all'orecchio: Resistete!

E gli cacci? in mano una cartuccia ripiegata.

? quella voce il castellano si volge incontanente, facendo un salto: ma perch? stava per metter piede nella corte, una mano di soldati respinge il popolo a furia di percosse, ed ei si trova divelto dalla persona cui voleva riconoscere. La voce per? era la sua; la carta chiudeva gi? in grembo; ed il consiglio di mantenersi fermo giungeva opportuno e gradito. Oddo cangia di un tratto il suo ultimatum.

Non ? a dirsi se l'arcivescovo di Ravenna ed i caporioni dell'esercito di Enrico lo stessero ad attendere. Fu ricevuto per ogni attestato d'onore e di riverenza, come a tant'uomo convenivasi, e come coloro, prodi e generosi anch'essi, solevano verso chi la loro stima meritava. Oddo non si perdette in molte parole. Li ringrazi? delle accoglienze cortesi e disse come egli non venisse gi? per cedere il castello, che avea avuto in consegna pel senato e pel popolo romano e che a costoro soli dovea rendere quando a lui, conte Oddo da Nemoli, sarebbe sembrata ora convenevole; ma per patteggiare la dedizione di papa Gregorio. Un lampo di gioia sfolgora nel volto a Guiberto. Di ogni passata ingiuria e (p. 93) di ogni durezza di Ildebrando e' si sentiva di gi? soddisfare. Risponde quindi che cedeva a tutte le condizioni onorevoli, col suo grado e con le rispettive posizioni conciliabili, e che ne rimetteva la proposta a lui stesso, conte Oddo da Nemoli, come colui che meglio d'ogni altro sapeva quali fossero i debiti di cavaliere e di soldato. Questo tratto di cortesia e di confidenza imbarazza Oddo. Uomo d'onore, egli conosceva fin dove le sue pretensioni potevansi estendere senza aver taccia di impudente o di sciocco. Dimanda perci?, prima di tutto, che, quanto si sarebbe convenuto rimetteva all'approvazione di Gregorio stesso—anche per aver modo di far leggere quel benedetto scritto datogli da Alberada. Poi chiese: 1.o al papa risparmiata vita e libert? egualmente che a tutti i suoi proseliti; 2.o la causa dei due pontefici ? dell'imperatore discussa da venti vescovi e da venti baroni, scelti quindici dall'imperatore Enrico, quindici da lui, Gregorio, e dieci da Guglielmo il conquistatore d'Inghilterra, come re neutrale; 3.o infine, la citt? di Roma, fino alla decisione finale del giudizio dei commissari, stabilito a Torino pel d? dell'assunzione della Vergine di quell'anno, sgombrata da ambo i partiti e lasciata al governo libero del senato e dei patrizii romani.

I due primi patti furono accettati incontanente; l'ultimo, siccome riguardava ancora l'imperatore che avea occupato la citt?, e l'imperatore non vi (p. 94) era, ributtato. Del che, essendosi contentato Oddo, che gi? bruciava leggere la scritta di Alberada, e che sentiva ancora risonarsi l'orecchio di quel resistete, si stese protocollo, firmato dall'arcivescovo e dai capitani di Enrico, ed Oddo al castello ritorna per ottenere l'assenso di Gregorio.

(p. 95) VIII.

Tal fean de' Persi strage: e via maggiore
La fea dei Franchi il re di Sarmacante,
Ch'ove il ferro volgeva o il corridore
Uccidea, abbattea cavallo o fante.

Gerus. Liber.

?Beatissimo padre, diversi pericoli del viaggio mi hanno ostato giungere molti giorni prima, e confortare il vostro coraggio. Roberto Guiscardo assedia Aversa con esercito, di trentamila fantaccini e settemila cavalli, perch? il principe di Capua, Giordano, gli ha messi ostacoli al passaggio. E' sarebbe capitato qui otto giorni pi? presto, se non avesse dovuto ridurre a soggezione Oria, e distruggere Canne, ribellate. Arriver? sicuro domani o diman l'altro, perch? lascer? manipolo di truppa per l'assedio di Aversa, se innanzi non si renda. Tenetevi saldo. Molte altre cose vi dir? a voce, dove che al conte Oddo riesca questa notte aprirmi la postierla del castello, e la vigilanza delle scolte non me lo impacci. Mi presenter? (p. 96) alla porta sulla mezzanotte varcata, e far? segnale di tre colpi: indi dar? voce. Dio mi faciliti il modo di farvi pervenire questi avvisi. Benedite Alberada?.

Non appena Oddo ebbe udita leggere questa scritta che cominci? a saltare come ragazzo per la gioia. Gregorio rest? mutolo, n? segno alcuno di commozione dal suo volto traspar?.

—Lo diceva io, gridava il castellano fregandosi le mani gaudioso, lo diceva io che quella brava figliuola non poteva mancare? Mi porti il diavolo se non ? dessa la pi? santa delle figlie d'Eva! Recarsi fino in Grecia! Andare a supplicare quel birbone che la ripudi? come la donna di un bovaro! Rinunziare a tutto! Affrontare Dio sa quanti guai per due... vale a dire, il tristo siete stato voi, padre beato, che le ne avete date a sorbir delle belle. Io ho fatto quanto ho potuto per addolcirne il destino. Ebbene, mi affoghi l'inferno, se da ora innanzi non la tratter? come una regina. Povera creatura! povera creatura! Ecco, maestro mio, se non ? vero che il mondo ? storpio per due terzi, e che le cose camminano a sproposito.

—Non lo avrei mai creduto! sclama infine Gregorio gi? fuori di s? da un pezzo. Due che ebbero pi? ingiustamente mali da me? Non lo avrei mai creduto.

—Mi porti il diavolo, se non penso anch'io cos?. Ma la cosa ? proprio come ella la dice... (p. 97) per? se non avete dimenticato di leggere. Per me gi? non mi ? potuto mai entrar nella memoria quell'affare di sillabe e di lettere. Che affare, dannato! Ho domati cavalli, ho addestrati falconi, ho difese piazze e castella, ho affrontati nemici, Dio sa quanti! e quattro birbe di lettere ebbero a farmi perdere il cervello e la pazienza. Mai pi?, mai pi?. Andiamo adesso: che dobbiamo rispondere a quei bell'imbusti di laggi?? Perch? qualche cosa di sicuro dobbiamo rispondere—non fosse che per mostrarci venerati cavalieri.

—Ecco, riprese Gregorio, con tuon fermo, rilevando la testa, componendo il sembiante ad aria severa ed altera: farete loro sapere che sbrattino la citt?; che l'infame antipapa si constituisca nostro prigioniero nel palazzo di Vaticano; che ci diano ostaggi di sicurt?; e che gl'invasori di Roma si obblighino di aspettare il nostro lodo sulla penitenza che vorremo dare loro per aver osato avvicinarsi a mano armata alla sede di Pietro. A questi, e non altri patti, noi usciremo di qui. Andate, e fate saper loro i nostri voleri.

Oddo lo guarda in volto di una maniera significativa e curiosa, poi, crollando il capo e mettendosi le mani alla cintura, soggiunge:

—Sentite, messer papa, siamo stati alcuni mesi insieme e mi dispiace che non mi abbiate ancora conosciuto. Codesta ? risposta di un poltrone (p. 98) e di un traditore... non corrugate il ciglio, perch? con me gi? non caverete nulla, e bisogna che la cosa io ve la spippoli come la mi frulla pel capo. Quella risposta dunque io non posso dare, perch? io sono onorato cavaliere, e non mi piace pescarmi giusto alla vecchiaia il caro epiteto di vituperato e di folle. Uditemi bene dunque: o cangiate proposito, ed io recher? a quei valenti baroni la ragionevole vostra intenzione, ovvero, e farete meglio, salite voi lass? dei merli e dite loro scomuniche, perch? io me ne lavo le mani come il conte Pilato.

Gregorio fulmina di terribile occhiata l'ardito castellano, e senza aggiunger altro sale sulla torre, strappa il bianco vessillo, ed avvicinatosi al merlato lo precipita gi? nella fossa lacerandolo, a vista degli araldi dell'oste che aspettavano risposta dal conte Oddo. Un grido di furore scoppia fra tutta la gente, che, guardando al castello, intorno adunavasi, ansiosa vedere una volta terminata una lite che di s? aspro governo travagliava la citt?. Gli araldi corrono al palazzo Laterano onde tenerne conto papa Clemente ed il consiglio dei baroni. Ma quivi e' trovano le cose gi? mutate. Imperciocch? un corriere del principe di Capua, giunto in quel punto, veniva a prevenire dell'imminente arrivo del Guiscardo. Quindi nulla pi? si badava alle spavalderie del cattivo Ildebrando.

Roberto era aspettato, e dal d? che giunse Rolando gi? considerevoli apparecchi per debitamente (p. 99) riceverlo approntavansi. Non si pensava per? ch'e' sarebbe venuto cos? tosto, n? che il principe Giordano gli avesse opposta cos? corta resistenza. Roberto calcol? meglio le sue mosse, e marci? sopra Roma anche pi? presto di quel che Alberada aveva promesso al pontefice.

I baroni, partigiani dell'imperatore e dell'arcivescovo di Ravenna, tennero consiglio. Si riassunse la somma delle cose, si fe' censo delle truppe, e si stabil? un piano di difesa, giusta i consigli del Buglione, non per anco in istato di vestire le armi. La citt? si pose in punto d'armi, chiuse le porte, guarnite le mura ed i forti, e si attese l'oste del Guiscardo.

Il senato ed il popolo romano dall'altro lato, imbestialiti contro Gregorio che chiamava loro addosso novello guaio, dopo averli involuti in quattordici anni di sventure e di mine, risolsero ad ogni modo non volerne pi? di lui, e difendersi contro il duca di Puglia. Cos? aggiustate le cose, con minor tumulto di quel si sarebbe paventato in simile caso, si distribuirono pei rioni e sui baluardi.

In tutta la giornata non comparve alcuno, n? alcuna cosa si seppe dell'inimico. Sul far della sera per? capitarono spie a spron battuto ed annunziarono, il Guiscardo avere alzati i padiglioni verso Velletri, sicch? non prima del meriggio del domani avrebbe potuto presentarsi sotto Roma. Malgrado la notizia, Guiberto ordin? alle truppe (p. 100) veglia d'armi sulle mura, dove accesero moltiplici fuochi, sia per iscorgere se novit? accadesse laggi? nel piano, sia per dissipare la virulenta mofeta che con le tenebre si stendeva qual fitto nebbione sulla citt?. Sano consiglio ed accorto. Imperciocch? Roberto aveva solamente simulato di passare la notte a Velletri, ma, come le tenebre occuparono intiero il paese, egli aveva comandato togliersi il campo e cavalcar sopra Roma. Ed in effetti vi voleva ancora un tantino per l'alba, quando quei che vigilavano sugli spaldi s'avvidero di lui, e chiamarono alle armi.

Allo spuntare del sole gi? il Guiscardo spiegava la sua truppa verso porta Latina.

Noi non descriveremo per minuto i fatti di questo vigoroso assalto ed ostinata resistenza, per tema di fastidir quelli dei nostri lettori che non troppo bene se la dicono con la storia, e perch? ne abbiamo abbozzate veramente a sufficienza di battaglie e di opere di guerra. Basti dire, che Roberto Guiscardo, Sigelgaita coi Saraceni di Lucera cui aveva tolti a condurre, e Ruggiero, e Ben Hamed da un lato; e dall'altro Rolando, Ulrico di Cosheim, Guiberto, Baccelardo, e quanti abbiam veduti caldeggiare per Enrico, fecero miracoli di valore. Anzi Baccelardo e Guiberto, non paghi del travaglio che davano al nemico da star sulle mura, apersero porta Asinaria, oggi Lateranense, ed uscirono, per forte caricare i Saraceni ed i cavalli condotti da Ruggiero, (p. 101) altro figliuolo di Guiscardo. Quel fatto pose la gioia nel cuore di Roberto, che ormai vedeva i suoi vacillare; il Buglione sgoment?.

Roberto ordin? ai baroni calabresi ed ai cavalieri normanni serrarsi ad ordini spessi, perch? allora la cavalleria non formava mai pi? di una fila sola e rarissimamente due, non volendo, come signori, alcun combattere dietro l'altro; e si avanz? per pigliare la pugna. Il Buglione mand? pi? volte a scongiurare Baccelardo e l'arcivescovo che con lenta e combattuta ritirata rientrassero nella citt?. Ma questi, impegnati in caldo attacco, non potettero secondarlo. Goffredo cangi? piano di combattimento. E' spicc? Rolando coi cavalieri romani a rinforzarli; ma previde gi? che il nemico sarebbe penetrato nella piazza. Questo squadrone testeggi? i cavalieri di Roberto, ed imped? per allora che si girassero negli ordini dei soldati di Guiberto e di Baccelardo e sussidiassero i mezzo rotti Saraceni. Ulrico di Cosheim intanto coi mangani e con le frecce spazzava i Pugliesi che, accalcati a porta San Lorenzo, tentavano sfondarla; e s? maledettamente li tratt?, che sbrancati corsero a cercare asilo dove pi? calda ferveva la mischia. All'arrivo di costoro, la cosa non bilic? pi?. Roberto caric? di pi? vigore. I soldati di Rolando piegarono, e rinculando sempre, cercarono ricovero nella citt?. Il duca vi si cacci? con essi.

Dall'altra banda, Ruggiero fu tratto da cavallo (p. 102) mezzo morto per mano dell'arcivescovo. Questi, fatto segno di Ben Hamed e di Sigelgaita, indietreggi?, opponendo sempre la fronte e tempestando colpi, sino a che dai suoi non fu trascinato dentro. Baccelardo, costretto a retrocedere, perch? gli avevan spaccato l'elmo sulla testa, spezzata la spada, morto il cavallo, e portato via lo scudo, rottesene le guigge dando col punteruolo di mezzo sul capo ad un Saraceno che lo travagliava col pugnale. Per lo che, entrati dentro Roma, confusi assalitori ed assaliti, pi? feroci badalucchi principiarono. Non crocicchio, non strada, non piazza mancava di zuffa. Nelle corti stesse, nei chiostri, nelle chiese, e duelli a corpo a corpo e mischie in molti inferocivano. E n? i Romani cedevano, n? quei del duca stancavansi, avvegnach? considerevolmente menomati; tal che forse in Roma avrebbero trovata la tomba se pi? a lungo fosse durato il giorno.

Ben Hamed per?, vedendo che non si sarebbe venuto mai a capo di domare gli ostinati Romani, immagin? distoglierli dalla difesa, e comand? ai Saraceni d'incendiar la citt?. Non appena l'emiro aveva profferito l'ordine, che questi distribuironsi a piccoli gruppi, inondarono i quartieri, e coadiuvati dai Calabresi e dai Pugliesi, gi? rotti al saccheggio, appiccarono fuoco a pi? punti di Roma, e segnatamente a San Giovanni a Laterano. Il vento, mosso da poco, aument? le (p. 103) fiamme e le propag?. Sicch?, in brev'ora, quanto ergevasi dal Laterano al Coliseo ? tutto ridotto in cenere. I Romani allora, per salvarsi dal fuoco e spegnerlo, lasciano di osteggiare la truppa del Guiscardo, e quei soldati, non avendo pi? a difendersi, si sciolgono ad ogni maniera di rapine e di sacrilegii, non rispettando tempii, non chiostri, non l'onore delle donne, non l'innocenza dei fanciulli, non la canizie dei vecchi. Roma mutasi in sentina di ogni delitto e di ogni oltraggio al pudore ed alla religione.

Gregorio intanto, come Nerone, dall'alto delle torri di Castel Sant'Angelo contemplava l'esizio e la mina della sua citt?.

Ritto fra due merli di una torre, immobile come fosse pietrificato, l'occhio fisso, le braccia tese ed irrigidite, il capo scoverto, perch? un buffo di vento gli aveva portato via il berretto, i capelli delle tempie rizzati come fili di argento, la lunga barba arruffata ed inturbinata dalla brezza, e' sembrava quivi non un uomo ma il ministro di quelle divinit? egizie ed indiane il di cui sguardo ? incendio, il di cui alito ? peste, il di cui gesto ? sterminio. La sua potenza visuale era ampliata. Egli vedeva tutti i singoli particolari di quel terribile dramma; vedeva dove l'aquila non avrebbe pi? nulla distinto. L'anima esuberava. La sua tonica bianca si gonfiava e s'agitava sotto il soffio della tramontana, che aveva cominciato auretta e si era (p. 104) ingagliardita a turbina. Dorato, e calmo all'alba, il cielo si era andato a poco a, poco; caricando di rosso, si che sarebbesi detto un'aurora boreale. Tutti i comignoli di Roma, a quel riverbero, sembrano fiaccole immense che illuminano una citt? involta in un bianco sudario di nebbia come uno spettro che vien fuori da una tomba. Quella nebbia per? si era a poco a poco anch'essa sminuzzolata a fiocchi, a sprazzi, a lembi che assumevano sotto l'azione del vento mille forme fantastiche, che grondavano sangue, cos? indorati come erano dal sole, e che cozzavano in cielo come gli uomini cozzavano sulla terra. L'aere rimbombava di un rumore indistinto, incalzante, vertiginoso come l'ululato di un mostro che agonizza.

Per? Gregorio non badava al cielo, non badava alla natura. La terra lo attirava magneticamente, E' non diceva parola. La sua fronte si alzava serena; il suo volto per niuna commozione turbavasi, Oddo intanto correva su e gi? lo spianato gridando: Miseri cittadini! Quale giorno doveva io vedere prima di morire! N? meno costernata di costui mostravasi Alberada, la notte precedente ammessa dentro. Ella neppure parlava, solo si torceva le mani, genuflessa, gli occhi ora rivolti al cielo, ora alla desolata citt?. Un rivolo di lacrime tacite le solcavano le guance. E cos? questi miravano, al riverbero delle fiamme, Roma struggentesi in un nuvolo nero fumo (p. 105) che l'avvolgeva a volta a volta, e che pi? spesso, spazzato dal vento il torbido velo, si mostrava nel suo pieno squallore col sole che infine, verso sera, placido e bello tramontava, indorando le cupole delle chiese. Quand'ecco che Alberada gitta un grido da spezzare il cuore, si alza sollecita, seco trascina Oddo malgrado di lui, e viene gi? alla porta del castello.

(p. 106) IX.

Piacemi, cavalier, che Dio temendo
Porta lo nobil suo ordine bello,
E piacemi dibonare donzello
Lo cui destino ? sol pugnar servendo.

Guittone d'Arezzo.

Due cavalieri, Roberto e Sigelgaita, cavalcavano verso il ponte San Pietro per isboccare alla porta di castel Sant'Angelo. Tutto ad un tratto odono alle spalle uno scalpito di due altri guerrieri che, a briglia sciolta, galoppavano. Immantinente Roberto, che andava dietro, volge la testa, per guardare chi fossero, e vedendo che l'altro gli accennava della mano di sostare, gira il cavallo e subitamente si trovano di fronte.

—Io sono Baccelardo, grida il cavaliero alzandosi con una mano la visiera dell'elmo. Roberto Guiscardo, fanciullo, nelle sale di Melfi, ti detti un guanto e ti consigliai a conservarlo perch? (p. 107) sarei venuto a ridomandartelo uomo. Ora tel ridomando; e qui, perch? il tempo ? venuto, perch? lungamente ho ritardato, mi renderai ragione dell'infame vitupero che facesti alla tua donna Alberada.

Baccelardo, dopo essere stato cos? pesto e disarmato, rigettato dentro dall'onda dei suoi che vi cercavano tardo scampo, aveva fatti novelli sforzi, e con cento opere di valore tentato cacciarne l'oste normanna. Ma avendo infine compreso che vanamente si arrabattava a tal uopo, che irreparabilmente Roma era perduta, risolse attaccare il suo destino a quello della signora del mondo, e fare scoccare l'ora della sua vendetta. Rientr? quindi nel suo alloggiamento onde provvedersi di armi e di destriero.

Non appena egli vi pose piede, che il suo paggio Corrado, dominato fino allora da mortale ansiet? percorrendo la stanza a lunghi passi, gli si gitta addosso e mille domande gli volge se fosse ferito. Baccelardo risponde alle amorevoli carezze di questo bel giovanetto per un tristo bacio sulla fronte. Poi muta il suo giaco, squarciato in pi? luoghi, prende nuova rotella, nuova spada e lancia, e si fa allacciare le correggie dell'elmo. E tutto senza dir parola, con una solennit? ed una freddezza, che agghiacciava il cuore del sollecito damigello. Per? come il suo armamento fu compiuto, Baccelardo ordina ad uno scudiero d'andargli a preparare il suo destriere (p. 108) Licht, il quale, perch? troppo vecchio, aveva risparmiato la mattina, ben prevedendo avrebbe avuto bisogno di cavallo pi? leggero e pi? vigoroso. In quel momento decisivo della sua sorte, e' non volse scompagnarsi dal pi? fedele amico che unicamente lo aveva amato e tanto... prima che il cielo gli avesse messo a fianco il tenero damigello. Questi, durante quegli apparecchi, divorato da ineffabile smania, non aveva profferita parola. Ma come vide che Baccelardo, dopo avergli gittato uno sguardo—uno sguardo che racchiudeva tutta una storia di passione—si allontanava senza neppure confortarlo del consueto bacio sulla fronte, gli corre dietro frettoloso e cadendogli ai piedi grida:

—Vuoi farmi dunque morire?

Baccelardo lo solleva dal suolo, e stringendoselo al petto con una ineffabile tenerezza, con una volutt? disperata e baciandogli replicate volte il sembiante, suo malgrado una lagrima gli cade, ed il pallido volto del contristato giovane bagna.

—Dove vai dunque? questi dimanda. Ti ho veduto tante e tante volte andare a combattere e mai il cuore mi si ? stretto cos? aspramente; mai tu mi hai lasciato con quell'aria mesta e funerea. Di', Baccelardo, in nome di Dio! dove dunque vai tu?

—Vado incontro al mio destino, Guaidalmira. Non mi hai veduto mai correre alla pugna di questa ciera abbattuta, perch? mai a simili pugne (p. 109) sono andato. Ora si deve decidere. Egli ? qui, egli mi deve un conto; vado a trovarlo, vado a cercarglielo.

Guaidalmira, perch? dessa era il paggio Corrado il quale aveva seguito Baccelardo fra tante sventure e pericoli; Guaidalmira, che conosceva tutta la storia di lui, non fa pi? motto. Solo dopo un minuto di silenzio risponde:

—Ebbene, va pure. Per? non puoi negarmi ch'io t'accompagni.

—A che pro, Guaidalmira?

—Noi so io stessa. A nessun pro per certo. Ma voglio accompagnarti; e tu non puoi rifiutarmelo.

—Ma sai che s'io ti vedessi, se io ti vedessi impallidire e tremare, perderei ogni equilibrio di mente, e forse...

—Tu non mi vedrai. Mi metter? un morione con la buffa inchiodata. Ma voglio accompagnarti; voglio essere presente allo scontro terribile; il tuo destino ti porta... alla vittoria. Voglio, debbo perci? esserci anch'io. Ricordati che a Canossa accomunammo il nostro avvenire; accomunammo la nostra sorte. Non possiamo pi?, o almeno non ? questo il tempo di separarci.

—E impossibile, dopo alquanto di silenzio soggiunge Baccelardo. Tu devi restare qui, per te, per me lo devi. In qualunque altro instante, non avrei esitato a condurti meco; ma in questo...

(p. 110) —Ebbene, giacch? vuoi che io resti qui, va pure... va. Ma diamoci almeno un addio. D? un addio alla tua Guaidalmira che tanto, che te solo ha amato. Non la vedrai pi?. Essa morr? qui, te lo giuro.

Baccelardo la guarda attentamente, e vedendo che ella era risoluta a non so qual partito estremo, con un sospiro balbetta:

—Vieni dunque: era deciso cos?! Se vi ? un Dio per?, se vi ? un Dio che pesa e guarda i fatti degli uomini, sa a cui dare la vittoria in questo momento.

Guaidalmira sorride amaramente. Poi, presagli la mano come per ringraziarlo dell'accordatole favore e baciatagliela, l'esamina attentamente, e una lagrima vi lascia sopra cadere. Baccelardo l'abbraccia un'altra volta, ed in un baleno, messi a termine gli apparecchi della partenza, escono per Roma onde imbattersi nel Guiscardo.

Ed eccoli l'uno a fronte dell'altro, vicino al ponte San Pietro, di rincontro a Castel Sant'Angelo, sotto gli occhi di quell'Alberada per cui Baccelardo dimanda l'abbattimento.

All'aspetto di quest'uomo, a quella protesta, Guiscardo si scuote. Sigelgaita ritorce anch'essa il cavallo, e come se non fosse pi? cosa animata, immobile resta a guardare, vicino ad un pilastro del ponte. Il turbamento di Roberto non dura molto. Egli porta la mano al suo fianco, e dal cinturino della spada spicca un guanto che a Baccelardo presenta.

(p. 111) —Baccelardo, ecco il tuo guanto, egli dice. Gli ? per? mestieri che sappi io non battermi pi? per una causa di cui Iddio mi ha fatto conoscere l'ingiustizia. Va dunque in nome dei santi, perch? mi dorrebbe farti male.

—Ti credo, risponde Baccelardo; ebbene, giacch? confessi che indegnamente facesti vitupero alla contessa Alberada, io ti apprezzo per quel nobile cavaliero che sei. Battiti quindi meco per gli Stati del padre mio, che infamemente usurpasti ed infamemente ritieni.

E cos? favellando gli toglieva dalle mani il guanto, cui dava a custodire a Guaidalmira, si calava la visiera, e ritraendosi metteva in resta la lancia per dar principio al combattimento.

Fu allora che Alberada, dall'alto della torre li vide, e riconosciutili dalle divise, trascinandosi furiosa il conte Oddo alla porta, lo costrinse ad aprire, e si fece metter fuori.

Sventurata! quale fatalit? la trascinava!

Non appena ella fu alla testa del ponte, all'altra banda del quale quei due furibondi battagliavano, che di voce affannata si pose a gridare:

—Arrestatevi, arrestatevi, in nome di Ges? Cristo!

A quella voce Sigelgaita si volge, Sigelgaita che fredda, impassibile, taciturna come le statue che si mettono sopra i sepolcri, vedeva affrontare suo marito e suo nipote, ed impegnare una pugna dalla quale uno solo o nessuno doveva tirarsi (p. 112) vivo. In un baleno Sigelgaita si gitta allora da cavallo come una furia. Corre ad Abelarda, l'abbraccia per un amplesso da soffocarla, da cacciarle nei reni le dita delle manopole di ferro, la trascina, la gualcisce, la contorce, la difforma, le fa scricchiolare tutte le membra, l'arruffa come un cencio—e tutto in un attimo, di un solo moto—si accosta ai balaustri del ponte, appoggia sul petto di lei il suo mento, la spezza in due nella spina, e la precipita nel Tevere. E tutto ci?, in meno di tempo che non mettiamo a narrarlo. Alberada gitta un grido di morte, e sotto le acque dispare. Sigelgaita l'aveva veduta a mano a mano coprirsi nel volto di pallore mortale, l'aveva udita mettere quel gemito terribile, l'aveva veduta precipitare dall'alto, la vide tuffare nell'onde, e non si era scomposta nel viso, e dai parapetti del ponte non si era allontanata. Tutto ad un tratto quella sfortunata ricompare a galla ed un palo della diga l'accrocca della tunica e di faccia verso il cielo la capovolge.

—Non sei ancor morta? grida a quella vista Sigelgaita come una tigre; e cercando attorno, non scorge anima viva, non vede oggetto da poterle lanciare sul capo, non trova pietre, non trova nulla, null'altro che un cadavere innanti ai piedi di un cavallo, un cadavere coperto di ferro e di sangue che fumava ancora. Ella lo trascina fino al ponte; poi, piegandosi sopra di lui, lo afferra di (p. 113) ambo le mani, lo solleva, e pigliata la misura, lo lascia cadere sul capo d'Alberada, ritenuta sempre dal lembo delle vesti ad un pinolo di palizzata. Il cadavere non era giunto ancora gi?, che di sopra il suo capo Sigelgaita sente passare un cavallo di slancio, il quale egualmente nel fiume si precipita.

Quel cadavere era Baccelardo: quel cavallo Licht.

Un altro cavaliere, cui ella non aveva scorto dapprima perch? caduto brancoloni sotto una scala del ponte, vi si appressa allora per avventarsi ancor egli al medesimo salto. Sigelgaita lo rattiene. Era Guaidalmira.

E Gregorio tutto contemplava dall'alto delle torri, e sul suo volto segno di commozione non appariva. Ritornava il padrone di Roma!

Disgraziato! Godi pure, le tue gioie son numerate.

La notte intanto era compiutamente caduta. La notte di Roma, di allora in poi, divenne pi? tenebrosa. Saccheggiata e spogliata di tutte le sue ricchezze, vituperata nell'onore, bruciata negli edifizii, decimata dal ferro di cittadini, desolata di tempii, vedovata dal bando dei migliori suoi uomini, dopo quel giorno, l'antica citt? rest? pressoch? deserta, e la popolazione si trasfer? tutta intiera al di l? del Campidoglio—in quello spazio che altra volta formava il Campo di Marte.

(p. 114) Quella sera stessa la duchessa Sigelgaita riceveva a segreto colloquio, nella sua camera da letto, Rolando da Siena.

(p. 115) LIBRO OTTAVO
TRAMONTO

(p. 117) I.

Sedea quel superbissimo signore
Sovra un trofeo di strali, e l'empia morte
Gli stava al fianco, e la contraria sorte
E 'l sospiro e 'l lamento appo il dolore.

Io mesto vi fui tratto e prigioniero;
Ma quegli allor, che in me le luci affisse,
Mise uno strido di dispetto, e fiero,

E poscia apr? l'enfiate labbra e disse:
Provi il rigor costui del nostro impero.

Redi.

Appena l'arcivescovo di Ravenna comprese che Roma era irrevocabilmente perduta per gl'imperiali, si raccolse intorno quel residuo di Alemanni e di Italiani che nel badalucco pot? raggranellare, e stretti ed armati, a stendardo sventolante, uscirono per porta Toscana. Una parte dei senatori e dei patrizii romani col favor della notte si rifugi? in Castel Sant'Angelo. Ne cacciarono via Gregorio. Provvidero, per quanto pot? tornar loro, scorte ed armi. Ed aspettarono sicuri che il furor prima degl'invasori fosse ammansito. (p. 118) Questo furore per? e questa libidine d'oro e di sangue nella truppa del duca non si spense cos? tosto; n? desso per due d? fu veduto. Colpito nel cuore dalla doppia morte della contessa Alberada e di Baccelardo, dal rimorso travagliato, da incognito, segregato e romito visse nel monistero di San Paolo. Per? al terzo giorno comparve, e recatosi al Vaticano trov? Gregorio, nel mezzo dei suoi capitani, intento a proscrizioni ed a scomuniche. Vanamente Gregorio aveva provato destare il suo partito. Non cardinale, non vescovo, non prete, non nobile, non cittadino attorno a lui volle recarsi. Tutti lo accagionavano di tanto danno; tutti lui incolpavano se all'ebbriet? del vincitore non si metteva freno. Sicch? pi? del Guiscardo, pi? del saraceno stesso, lui abborrivano e come traditore del suo paese dannavano a morte.

Al terzo giorno di quell'orgia di sangue per? il popolo si scosse. Cencio, il duca di Cosheim, che dentro Roma con un manipolo di soldati tedeschi si era fortificato nel septifolium, alcuni patrizii ed Oddo s'accorsero dell'ammutinamento, ed uscirono dalla mole di Adriano. Indi stuzzicando i pi? timidi, infiammando i pi? audaci, allestirono conventicole, raccolsero, aizzarono, armarono il popolo, ed uniti in grossi drappelli piombarono addosso alla truppa del duca di Puglia.

La colsero alla spicciolata, avvinazzata, stanca, (p. 119) scarsamente armata, indebolita dalle veglie e dalle libidini su per lupanari e per chiese. E ne fecero cos? grave macello, che Roberto dal suo torpore si dest?. Il conte Oddo infrattanto con un pugno di arditi transteverini, ed il duca Ulrico di Cosheim con i Tedeschi, avevano sbrattato palazzo Vaticano della guarnigione calabrese, e vi assediavano il papa. Guiberto, avvisato, con rinforzi era per rientrare nella citt?. Voci altissime per chiassi e per piazze levavansi.—Morte a Ildebrando, morte a Guiscardo! I Saraceni ed i Normanni, venuti alle prese nel Foro con certe bande comandate da Cencio, fuggivano. Un subbuglio, un imprecare, un romor d'armi, un sonar di campane a martello, un assassinio continuato, senza riguardi di luoghi, di sesso e di et?.

Guiscardo comprende di un lampo a qual pericolo si trovasse, ed a qual repentaglio stesse per mettere vittoria, vita ed esercito. Ordina quindi a quei capitani suoi, che gli venne fatto poter accozzare di subitamente richiamare i soldati alle bandiere e di suonare a raccolta. Ed ei si reca dal pontefice alla testa dei fedeli Normanni, meno degli altri sbrancati alla rotta. Essi non ebbero a far poco per aprirsi il cammino. Spazzano Vaticano dagli ordini fitti che lo assediano e gi? ammaniscono tormenti da breccia e scale per penetrar dentro ed impossessarsi del pontefice. Combattono contro i soldati dei Cosheim e di Oddo; penetrano nel palazzo.

(p. 120) Gregorio non si era per nulla turbato, forse non si era neppure di nulla avveduto, e scriveva lettere a tutti i legati suoi, sparsi per l'orbe cristiano, onde annunziare il trionfo del Signore. E' non curava l'insurrezione del popolo, non il pericolo che correva l'esercito liberatore, non il massacro di tante vite. Godeva del trionfo; godeva dello sterminio dei nemici suoi. E non era sazio, non stanco di additare novelle vittime al supplizio ed alla proscrizione. La vittoria lo aveva ubbriacato. Viveva in un'atmosfera che tutto, umanit?, religione, carattere gli faceva obbliare. Giunge a tempo Roberto per destarlo da quel sogno, o meglio da quel deliramento di sangue.

—Santo padre, prende a dire il Guiscardo, ? ora finalmente di far desistere da tanto eccidio, e partire.

—Cos? presto! sclama Gregorio sorpreso e scontento.

—Non ? gi? presto, santo padre, risponde Roberto, gli ? anzi tardi, forse troppo tardi perch? ci resti ancora scampo a fuggire. Non ? momento di lusinghe adesso.

—Fuggire, mormora Gregorio rizzandosi ed aggrottando le ciglia. Temereste voi forse questa sgualdrina di plebe codarda e venale, messer duca? Egli ? impossibile!

—Io non sono un testardo che ha perduta la ragione, santo padre, per dire che non temo n? gli uomini, n? Iddio, continua Guiscardo senza (p. 121) occuparsi dell'atteggiamento del pontefice. Io ho senso abbastanza per comprendere che, se resto a Roma solamente alcune altre ore, mi sar? tagliata la ritirata, ed il mio esercito ed io corriamo pericolo di essere passati a fil di spada. Ecco tutto. Il popolo ? ammutinato; ? corso alle armi. La disperazione muta in eroi anche i poltroni. ? ora di partire.

—Voi pensereste dunque?...

—L'ho detto, di uscire di Roma senza indugio. Ho comandato ai miei capitani di raggranellare la truppa sparpagliata. Ridotta agli ordini, voglio andar via da me, con volontaria e decorosa ritirata, prima che sia costretto a fuggire come cacciato e come vinto.

—E cos? poco doveva dunque durare il trionfo d'Israello? mormora Gregorio alzando gli occhi al cielo.

E Guiscardo:

—Io non so, santo padre, se Israello abbia trionfato per poco; so che del trionfo ha abusato. E da lunga sperienza conosco, come la vada sempre cos?, dove menomamente si rallenti la briglia al soldato. Noi non ci riconcilieremo mai pi? questo popolo.

—Vorreste dunque lasciarmi in mano ad una plebe rivoltata, corriva al sangue ed alla vendetta, messer duca?

—Io no. Io penso invece che vi condurreste saviamente, santo padre, a venir meco, e dare (p. 122) eterno addio a questa citt?: perch? voi, anche per lo innanti non ben gradito, ve ne avete distolto l'amore per sempre.

—? impossibile!

—Udite per poco come essi gridano, morte a voi ed a me, santo padre. Qui comincia a far caldo seriamente. Voi siete uomo di giudizio per comprendere ci? che vi convenga di fare. Io vi protesto chiaro che, fra due ore, sar? fuori le mura di Roma; perocch? io ho ancora da dar conto della vita dei miei soldati, ed essi riposano sul mio senno e sul mio onore. Partir?.

—E dovrei dunque esiliarmi, o meglio, mi esilieranno da Roma i miei vassalli, nel punto proprio che io li aveva sottomessi?

—Questo ? l'errore, beato padre. Essi non sono sottomessi di niuna maniera; e ne sia prova i battaglioni che si vanno armando e rinforzando per pagarci a misura di picche e di pugnale del gastigo che abbiamo loro inflitto a misura d'azze e di lancie. Io doveva, li aveva anzi promesso ai miei valorosi soldati, questi giorni di stravizzo e di libero dominio sopra un popolo conquistato. L'ora ? passata. Questo bestial popolo, che non sa n? comandare n? servire, si ? riscosso. Andiamo in nome di Dio, se non vogliamo lasciarci la vita. Udite a me, beato padre; non vi restate in bocca ad un lupo affamato, irritato, con le mascelle armate di denti, e di niente meglio avido che stritolar la sua preda. Dell'esizio di Roma pi? (p. 123) che i Saraceni, i soldati e me, incolpano voi. Che sperate di pi?? chi vi difende?

—Andiamo dunque, risponde Gregorio, ed in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, io maledico questo scellerato popolo, che insorge contro il giusto e contro l'unto del Signore, che oltraggia il suo donno, e si ribella contro il padrone. Andiamo, io scuoto la polvere dai miei sandali, e lo lascio a bersaglio dell'ira di Dio.

E s? imprecando, Gregorio usciva col Guiscardo. Il quale nelle sale del palazzo trova Roberto di Loritello, venuto a farlo conto di aver raccozzato buon terzo della truppa nelle vicinanze del Foro, che Ben Hamed si studiava raccogliere i suoi, e che egli con una mano di cinquecento cavalli poteva guidarlo sicuro al Foro, d'onde, alla testa dell'esercito, uscire.

In effetti, quattro giorni dopo il suo ingresso a Roma, Roberto, a suono di trombe ed a bandiera spiegata, ne partiva, recandosi nel centro il pontefice Gregorio VII, tra le contumelie ed il corruccio del popolo che lo tagliava alle spalle, lo grandinava di frecce, e gli scagliava dalle finestre rottami di tegole ed altri corpi da ferire ed uccidere. Per modo che, soventi volte la retroguardia fu costretta far alto, tanto da tener testa alla plebe petulante che si avventava loro addosso furiosa e burliera.

E cos? Ildebrando esulava da Roma, cui per (p. 124) trentacinque anni aveva contristata di sue innovazioni, di sue pretensioni, col dispotismo, col renderla scopo dello sdegno di tanti nemici, coll'istrapparle il residuo di libero governo che ancora le rimaneva, con farla devastare e bruciare da eserciti stranieri, e spogliarla di ricchezze, di onore, di virt?, di brio e di valore, con imporle infine il teocratico giogo, cui da lui in poi, per sforzi che avesse fatti e molti e generosi, non ha saputo mai pi? togliersi. Egli ne usci corrucciato, fiero nel volto e nei pensieri, disprezzandola, maledicendola, disegnando in sua mente tornarvi, quando che fosse, come il Guiscardo vi era venuto, e punirla della ribalda fellonia. Ne usciva esecrato, schernito, vilipeso per porta Lateranense—nel punto stesso che il fratel suo, tanto perseguitato ed odiato, l'antipapa Clemente, festeggiato e tra le ovazioni del popolo vi entrava per porta Toscana.

Roberto, alla testa del suo esercito, precedeva il pontefice. Al suo fianco cavalcava la duchessa Sigelgaita, cui teneva dietro il suo novello scudiere e favorito, Rolando da Siena.

(p. 125) II.

Queste colte sull'Emo,
Queste colte in Tessaglia erbe omicide
Pieghin colui che del mio mal si ride.

Redi.

Sigelgaita procedeva a fianco del suo consorte cupa e distratta. Rispondeva a monosillabi, o non rispondeva niente affatto alle domande che questi le indirizzava—e molto meno a quelle del pontefice che, dopo aversi lasciata Roma alle spalle, dal corpo dell'esercito era passato alla fronte. Solamente di tanto in tanto Sigelgaita si volgeva al suo scudiero per dirgli ora una cosa, ora un'altra, e chiedergli conto di alcun oggetto o di alcuna persona. Il pontefice guard? in cagnesco Rolando, da lui fulminato di scomunica, ma non fece mostra conoscerlo n? rammentarsi di lui. Egli lo scorgeva in tanto favore della duchessa, altera e dispotica e comprendeva che vanamente avrebbe porte rimostranze. N? Roberto (p. 126) se ne incaric? di vantaggio; consapevole dei modi di Sigelgaita. Che anzi, fino ad un certo segno si piacque aver tirato dalla sua uomo tanto ardito e tanto prode. Cos? che, mossero da prima per Montecassino, dove l'abate Desiderio di ogni bello accoglimento li festeggi?, e subito dopo per Salerno—allora la padrona dei mari.

Una sera il medico Guarimponto venne introdotto dalla duchessa Sigelgaita.

Da due giorni ella infermava; n? i consigli, n? la dottrina del celebre Costantino d'Africa, cancelliere del duca e dotto medico, avevano potuto convincerla che di assai poco momento quel suo malessere fosse.

Guarimponto era anch'esso uomo di grande fama e bell'ornamento della scuola salernitana, allora e poi s? rinomata. Poteva contare settant'anni. Alto della persona, cui nemmeno l'et? e l'abitudine allo studio avevano incurvata, portava capelli corti e barba assai lunga, avendo conservato il costume longobardo, longobardo esso stesso e fiero da non aver voluto mai piegarsi n? agli usi, n? al dispotismo normanno, nuovi padroni di Salerno. La sua bianca barba gli scendeva profusa sul petto e con assai maest? spiccava sulla di lui tunica chermisina. Egli ostentava gravit?, o meglio malinconia. Perocch? si compiaceva assicurare di non aver giammai riso, dal d? che il suo allievo Gisulfo fu costretto esulare dalla dimora e dagli Stati del padre suo. Un paio di (p. 127) occhi grigi per?, vivaci ed irrequieti, che scintillavano nelle orbite incavernate, sopra le quali irte, folte, e nere tuttavia, sporgevano le ciglia, indicavano, egualmente che il naso volto della punta all'ins?, che assai lungi della tristezza e pi? vicino alla tristizia egli fosse. La sciatica—ed e' vantava le pi? brillanti guarigioni di questa malattia, ed i pi? sicuri lattovari—la sciatica gli aveva rattratta una gamba; cos? che la strascicava dritta ed inflessibile come stecco, e, camminando, sembrava ad ogni passo fare una riverenza. Cosa che assai gli toglieva di seriet?, maggiormente perch?, fingendo il divagato, lasciava strisciar nella polvere il lungo suo manto scarlatto, sopra del quale i monelli delle piazze, quando ei passava, sedevano e si compiacevano farsi da lui saporitamente rimorchiare.

Guarimponto si present? alla duchessa, cui aveva conosciuta fanciulla ed addestrata alla musica ed alla gramatica. Giunto sotto l'arco della porta, si ferma per contemplarla. Poi, dopo essere stato alcuni instanti in quella postura, tira innanzi cos? angaione, e giunto al letto dell'inferma gitta un sospiro e sclama:

Fugit irreparabile tempus! Gli antichi simularono il tempo sotto la figura di Saturno che divorava i suoi figli, e furono sciocchi. Conciofossecosach? ci? che si divora si smaltisce; ci? che si smaltisce muta di forma, ci? che muta di forma non si riconosce pi?, ci? che non (p. 128) si riconosce pi? si obblia, e noi—noi mastro Guarimponto ricordiamo di voi, vi abbiamo ricordata sempre, leggiadra duchessa Sigelgaita, degna di migliore ventura!

—Mastro Guarimponto, l'interrompe Sigelgaita, abbiamo bisogno di te e della tua dottrina, non del tuo compatimento. Noi stiamo male.

—La dottrina ? una grazia che Iddio concede ai suoi eletti come il sole, perch? illumini tutti e tutti se ne possano giovare. Per la qual cosa, nostra bella duchessa, noi non ci rifiuteremo mai ai vostri bisogni; ed eccoci qui per iscacciare, con la spada di Azzaele, l'angelo della malattia che vorrebbe stendere la mano sulla vostra persona. Dite dunque, dov'? che avete male, duchessa? Datemi qui il vostro polso, perch? la sfigmica ? come la v?lta cristallina dell'empireo, sopra la quale si chiodano le stelle, ed in essa il medico, che ha l'occhio della scienza, legge il principio di malignit? che s'insinua nella fibra della macchina umana. Dite dunque, bella duchessa, dov'? che avete male?

Sigelgaita provava irresistibile tentazione di far gittare dalle finestre mastro Guarimponto; non pertanto si contenne ancora e rispose:

—Male al cuore.

—In fatti, bella duchessa, deve esser cos?! E se la luce di quella finestra non fosse stata attenuata tanto, e le tenebre non cominciassero ad involvere la terra ed il mare, io ve lo avrei detto (p. 129) dal bel principio, perch? si legge gi? dal palloris vultus, anxietatis, membrorum tremoris, difficilis respirationis, oculorum languoris, ed altro che Avicenna soggiunge, trattarsi de cordis affectione. Ed Aetio, nel secondo de' Tetrabibli, ha giudicato che celerrima pernicie instat corde affecto.

Sigelgaita sentiva scoppiarsi. Si solleva dunque sul letto ed ordina alle sue damigelle:

—Uscite.

Poi voltasi a Rolando, che dall'altro lato del letto, con le braccia conserte, guardava il famoso Guarimponto, gli ordina:

—Chiudete l'uscio. Quindi rizzatasi affatto sulla met? della persona, grida:

—Che la peste ti soffochi, pezzo di birbo, tocco d'asino. Dove vedi tu dunque tutte codeste corbellerie che ci hai spacciate, e codesta pernicie nel nostro male, se noi stiamo meglio di te, meglio di una sposa che va a nozze, meglio del diavolo che ti porti?

Euge serve bone et fidelis! sclama Guarimponto senza scomporsi, dopo aver udita fino alla fine la collerica diatriba della duchessa. Sempre la stessa, sempre quel brio, sempre quella vita e quell'ardimento! Noi credevamo che vi foste mutata, e perci? appunto abbiamo voluto stuzzicare la vostra pazienza, come l'alcali stuzzica lo starnuto—che, se nol sapete, ? diaphragmatis contractio come lo ha definito Egineta. (p. 130) Ma no, bella duchessa, summa cum animi l?titia noi vi troviamo sempre la stessa, sempre la Semiramide del nostro secolo.

—Per le sante ossa di Caino quest'uomo ci far? perdere la pazienza, mormora Sigelgaita rivolta a Rolando.

Rolando non le risponde. Ma girando dall'altro lato del letto, si appressa al medico, e mettendogli una mano sulla spalla, con una grazia che il povero medico si senti quasi slogar la clavicola e si pieg?, gli dice:

—Senti, compare. Che abbi voluto celiare fin qui, ch? anche noi abbiamo fatto da burla, te lo perdono. Ma adesso, poni mente a ci? che madonna sar? per dirti, e ponci mente veh! perch? se niente niente mi avveggo che ti torna la frega delle parole latine e di dir cose che noi non comprendiamo, netto e sollecito ti gitto dalla finestra. Mi hai capito?

—Voi vi spiegate con una facondia che incanta, messere! balbetta Guarimponto, grattandosi la spalla intormentita. Andiamo dunque in nome di Dio! Giacch? nulla vi bisogna dalla nostra scienza, e badate bene che la medicina ? scienza, avvegnach? quel guastamestieri d'Ippocrate la dica ars longa... perdono! avete detto che non volete latino. Dunque cosa ci avete a richiedere, se nulla dalla nostra sapienza vi occorre?

—Ecco qui, mastro Guarimponto. Noi sappiamo (p. 131) da lungo tempo come tu sii famoso nel cavar dall'altro mondo i morti e mandarci i vivi di questo...

—Voi dite la verit?, bella duchessa.

—Non c'interrompere. Sappiamo pure che niuno meglio di te conosce le virt? secrete delle piante e delle pietre, non che degli animali...

—Che vivono nei quattro elementi; dappoich? noi siamo di avviso che anche nel fuoco vi debbano essere bestie...

—Ma pel vero Iddio, Guarimponto, abbiam detto che non vogliamo essere interrotta, comprendi?

Parce mihi... scusate, dimentichiamo sempre che quel galantuomo abborre dal latino, come natura haborret a vacuo... scusate, scusate. Questo maledetto latino ci piove in bocca come la manna nel deserto. Sicch? non v'interromperemo pi?. Favellate, bella duchessa.

—Ebbene, maestro Guarimponto, saresti tu al caso di distillarci un qualche succo, o darci qualche polvere che sapesse insinuare nelle vene di un uomo morte lenta ed inevitabile?

—Non altro che questo?

—Saresti tu dunque capace?

—Ih!! Ma volete voi avvelenare mezzo il genere umano? Maestro Guarimponto vi dar? tal filtro da non farlo vivere due ore.

S. Pier Damiano chiamava quest'uomo vir videlicet honestissimus. Ah! come i santi s'ingannano sovente!

(p. 132) —Noi non chiediamo pi? di quel che ti abbiam detto, Guarimponto, riprende la duchessa. In questa borsa son cento monete d'oro per comprare il tuo veleno ed il tuo silenzio. Quell'uomo ha un pugnale per guarirti della malattia di rivelare i segreti.

—Lasciamo stare i pugnali, bella duchessa. Noi non conosciamo ancora, bench? tutto noi conoscessimo, un contraveleno per la pianta pugnale. Non vogliamo perci? assoggettarci a quell'esperimento, perch? la nostra grande opera il Passionarius non ? compiuta ancora. E voi vedete qual grave danno verrebbe alla scienza ed al mondo se questo lavoro restasse non finito! Sicch? dunque, bella duchessa, accettiamo invece gli schifati, che graziosamente ci offrite, onde potessimo continuare le nostre sperienze, e dimonstrare, come per un dente cavato ad un filosofo dell'isola di Delfo e' fosse morto, essendo che la midolla del dente, avendo nel cerebro principato, al crepare del dente discese nel pulmone e l'uccise (lib. 1, c. 17, p. 44.).

—Un momento. Quanto tempo per operare vorreste dare a codesto vostro specifico?

—Quanto ve ne piace, bella duchessa, risponde il dottore. L'ordinaria sua incubazione ? di un anno... Se vorreste che gliene accordassimo meno...

—S?: qualche mese ancora di meno.

—Ebbene il vostro piacimento sar? fatto.

(p. 133) —Bada per? ch'e' non possa essere neutralizzato da altro antidoto.

—Questo ? difficile, madonna, sclama Guarimponto sospirando. Perch? vi ha un uomo, un demonio dovremmo dire, Costantino d'Africa, il quale, al pari di noi, conosce i segreti della natura. Egli potrebbe... ma all'uopo, se ci? accadesse, noi vi provvederemo di altro lattovaro che accelerarebbe la catastrofe e che neppure il prezioso sangue della fenice avrebbe virt? di annullare—e s? che tutte le potenze malefiche il sangue della fenice annulla! come ha detto Averroe.

—Va dunque, Guarimponto, e ricordati che hai promesso al mondo ed alla scienza di terminare la tua famosa opera del Passionarius.

Alcuni giorni dopo, Roberto Guiscardo era sorpreso da indefinibile malessere, s? che il suo cancelliero, Costantino d'Africa, vanamente ogni sapienza adoper?. Perocch? al bravo uomo non andava mai la testa ai lavori del suo degno collega Guarimponto, e si ostinava a credere quell'infermit? prodotto dell'aria infetta di Roma. Roberto ritorn? in Grecia, dove aveva lasciato il figliuolo Boemondo a proseguire i suoi conquisti. E questo valoroso principe, nel tempo stesso che il padre sbaragliava a Roma l'esercito dell'imperatore d'Occidente, fugava in Bulgaria l'imperatore d'Oriente. Roberto pose in armi grosse flottiglie, ed incontrato il navile greco unito (p. 134) al veneziano, fra l'isola di Corf? e di Cefalonia, lo ruppe, mand? a fondo molte galee, fece 2500 prigionieri, ed i rimanenti fug?. L'eroe di questa vittoria fu Boemondo. Guiscardo disegnava lasciargli il ducato di Puglia e di Calabria, in luogo di Ruggiero.

Sigelgaita comprese il pensiero di lui. Ella amava a dismisura questo suo figliuolo. Eppure non disse motto. Solamente alcuni d? dopo, Boemondo infermava gravemente, a tal che fu obbligato passare in Italia, dove, ch'il crederebbe? per forte somma di oro Guarimponto lo guar?, ed assai facilmente, ed in molto poco tempo.

Roberto intanto di sua infermit? non riavevasi—e bene tutte le mattine sorbiva disgustosa cervogia che a quest'uopo gli preparava la dotta ed amorosa duchessa! Infine, mentre intendeva tutto a ridurre Cefalonia ribellata, e ne conduceva l'assedio col suo figliuolo Ruggiero, una mattina fu sorpreso da pi? grave malore. Per curarsene, si fece trasportare a Casopoli, piccolo castello sul promontorio di Corf?, e la duchessa and? con lui per assisterlo. Il male non ced? punto. Ed il d? 6 di luglio il suo medico lo aveva abbandonato, il suo confessore gli aveva resi gli ultimi uffici di cristiano. Vestito dell'abito di frate, i capelli e la barba coperti di cenere, Guiscardo agonizzava. Vicino al suo letto non erano che due persone. Usc? in fine da lungo accesso di letargia, e dimand? da bere. Una di quelle persone gliene porge.

(p. 135) —? fuoco che mi avete apprestato! egli sclama.

Uno scroscio di riso ? la risposta che gli si d?. Allora Roberto apre gli occhi, e vede Sigelgaita innanzi al suo letto. Questa lo sta a considerare un instante cogli occhi divaricati, poi si accosta pi? da presso e gli mormora:

—Monsignore, adesso che andate gloriosamente all'inferno, ricordate di salutarci la vostra bella e virtuosa Alberada.

Roberto le fissa addosso gli occhi incristalliti, poi gitta un sospiro e si volge dall'altro lato. Dall'altro lato gli si presenta Rolando da Siena che ghignava diabolicamente. Allora terribile pensiero gli corre alla mente, e forse tutto il nefando ed il laido di quella storia comprende. Fa uno sforzo onde sollevarsi sui guanciali un momento; le pupille acquistano un baleno di fulgore vitale, e la mano alza, quasi avesse voluto fulminarli di una maledizione. Poi cambia d'aspetto incontanente. Le guance tornano pallide, le braccia accoglie a croce sul petto, gli sguardi dirige al cielo, dice con voce chiara: Dio vi perdoni! Chiude gli occhi e ricade supino sul letto.

Quei due gli si accostano per contemplarlo ancora. Era morto! Si dettero un bacio ed uscirono.

Questo fu il compianto che l'ultimo sospiro di Roberto Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria, accompagnava. Questa la fine di un uomo che (p. 136) aveva vissuti settant'anni di gloria, fondato un regno ed una dinastia, non mai conosciuta la sconfitta, e che il pi? grande, il pi? prode, il pi? generoso dei tempi suoi fu pure, malgrado le sue colpe, malgrado i suoi difetti.

Le ossa attendono il finale giudizio del Signore nella cattedrale di Venosa; abbiano requie, se vistosa tomba non hanno.


Gregorio VII lo aveva anteceduto di qualche mese.

(p. 137) III.

Vi lascia, e mesto e solo,
Senza pi? speme e con la morte in faccia
Va in altra parte di un sepolcro in traccia

Croneck.

Appena Gregorio tocc? la terra dell'esilio sembr? avesse perduta tutta quella sua potente energia. Mand? suo legato in Lamagna Ottone vescovo di Ostia, in cui trasfuse i suoi principii ed i suoi poteri, e stette. Stette come torre sublime che sfida i secoli, e sfida gli uragani. Era stanco. Aveva fatto troppo sciupo delle sue forze morali; voleva riposarsi. N? il desiderio gli manc? di riposarsi in Dio! Non gi? che intieramente non guardasse il presente. Novelle spiacevoli gli giungevano sempre da ogni verso, ed ei rifuggiva ormai da dolori, a cui non sapeva prestar rimedio—nemmeno quello della pazienza e della rassegnazione. Le cose attuali andavano male. I suoi grandi sforzi erano stati inutili; i suoi principii non prevalsi, e le sue parole non aveano fruttificato. (p. 138) Si compiaceva perci? contemplar meglio il passato; il passato che s? forte e s? glorioso era stato per lui! I due suoi pi? odiati nemici trionfavano. Enrico trionfava in Lamagna, Guiberto in Roma; n? alcuno rammentava pi? di lui, se non come un oggetto di spavento e di abbominio, che, dopo aver prodotti tanti mali, codardamente si era ritirato senza aver compiuta l'opera, senza aver combattuto sino alla fine. Ci? lo contristava; ci? aumentava quella cascaggine di membra che i dolori dello spirito avevano destata in lui e l'infievolivano ogni d? peggio. Ma egli comprendeva, per quella vasta mente che avea s? vasto disegno concepito, egli comprendeva che i tempi non lo propiziavano pi?, e che bastava aver ardito di seminare le sue dottrine, perch? altri secoli ed altri uomini le avrebbero maturate, avrebbero mietuti i frutti.

Inoltre chi non sa che il vigore dell'anima si accompagna sempre col vigore del corpo? E la fibra d'Ildebrando era usata con le pratiche di penitenza, a cui fin da fanciullo nei rigori del chiostro aveva dovuto piegarsi; usata dal lungo viaggiare per tutte le contrade di Europa; usata da quella malvagia passione che chiamasi studio—e lunghe e penose veglie egli aveva sopportate per addottrinarsi nella difficile scienza dei padri—e lenta una tisi o corporale o mentale con le notturne lucubrazioni nella macchina si insinua! Usata infine per le protratte tensioni (p. 139) dello spirito, per i dissapori che senza conto aveva sorbiti, per le gioie inaspettate, per gigantescamente concepire e vegliare che il disegno s'incarni, per le passioni indomite, selvaggie, ferrigne che si disputavano il suo cuore, per l'amara necessit? di reprimere gl'impeti di un temperamento di bronzo, s? che Pietro Damiano lo chiamava il clavigero apostolo, per il tarlo inesorabile della coscienza che alcune sue azioni non sante gli riproduceva incessante, per il martirio infine dell'esilio che ? il pi? crudele dei martirii. Ond'? che in sul finire di aprile del 1085 la lassezza era giunta a tale che non gli permise pi? levarsi da letto. Ebbe bene Costantino Africano, mandatogli da Roberto, a mettere in uso tutta la sua perizia. Il languore camminava a gran passi, e col languore la morte. Il suo principio vitale era consunto: la sua lampada brillava di luce vacillante.

Intorno a lui, senza mai darsi tregua n? mai per giorno o per notte pigliar riposo, si affaccendava un giovane paggio lasciatogli da Sigelgaita, che cure di figlio gli profondeva. Questo paggio, innanzi al mondo si chiamava Corrado ed era quegli appunto di Baccelardo, ma innanzi ad Ildebrando quel paggio era Guaidalmira—e tutta la misera storia di lei egli gi? conosceva! Ma che pu? fare l'amore quando il dito di Dio ha l'ora fatale designata, che pu? fare se non addolcirla e spargerla di fiori e di speranze!

(p. 140) Sul cominciare di maggio, Gregorio si sentiva ancora pi? male. Si convoc? intorno quei pochi vescovi che ancora gli rimanevano fedeli, e che con lui dividevano il pane dell'esilio. E come costernati ed afflitti li vedeva a fargli corona, dal suo paggio e dal cardinale Ugo Candido, il quale aveva cercato riconciliarsi con lui sapendolo non lontano dal morire, si fe' sollevare alquanto sui guanciali, e per voce indebolita e lenta, col volto estenuato e cadaverico, con gli occhi incavernati, ma sempre lucidi e fieri, parl?:

—Diletti fratelli! L'ora mia ? arrivata. Poco bene ho fatto quaggi?; ma in questo momento di morte mi consola il testimonio della coscienza, giammai avere agito contro il dettame di essa, ed il poter dire: Ho amata la giustizia, ho odiata l'iniquit?.

—Ah! santo padre, in quali tempi difficili ed in quali triboli ci lasciate, dando in un dirotto pianto l'arcivescovo di Salerno sclam?.

—Confortatevi, fratelli, risponde Gregorio, fra breve sar? d'innanzi all'Eterno, e raccomander? a lui i miei figli e la mia Chiesa. Confortatevi come i discepoli di Ges? si confortarono della sua morte. Avete detto che i tempi son difficili, e ben diceste. Perci? appunto rivestitevi della costanza degli apostoli, e brandendo la spada di Paolo, con la carit? e con la forza spargete sulla terra le mie parole: perocch?, in vero vi dico, (p. 141) che le saranno messe di grandezza per la Chiesa e per i suoi sacerdoti, e di gloria s? per loro che pel Dio d'Israello.

—Oh! santo padre, chi ci regger? dei suoi consigli, chi ci illuminer? con la sua sapienza dopo che voi sarete ritornato nelle gioie del Signore?

—Figliuoli miei, il mio testamento ? di coraggio e di pazienza, continua Gregorio. Io ho dato cominciamento ad un'opera che richiede costanza, santit? di costume, fiducia in Dio, vigore di mente e di braccio, e l'inflessibilit? di non ismarrirsi per rovescio, non istancarsi per lavoro. Chi si sente forte e santo abbastanza pel cimento, concorra alla terribile dignit? dell'apostolato. Io credo idonei gi? e maturi a tanto ministero, Ugo vescovo di Lione, Ottone vescovo di Ostia, e Desiderio abate di Montecassino.

—E noi no? l'interruppe Ugo Candido.

Gregorio finge non udirlo e prosegue:

—Iddio illuminer? coloro che tal capo dovranno eleggersi. Ora, figliuoli miei, andate. Io vi ho chiamati per darvi la mia estrema benedizione, e per chiedervi perdono se mai opera o parola mia vi avesse offesi e scandalizzati. Non occorre che voi perdiate maggior tempo intorno ad un vecchio, che nulla pi? pu? fare alla vigna del Signore e che picchia dei piedi la fossa. Andate, spargetevi per la terra, e soccorrete il debole, rialzate il caduto, ristorate il vacillante, (p. 142) edificate l'incredulo, e punite gli ostinati. Ma sopra tutto, i figli d'Italia persuadete che si leghino fra loro, e giogo di despoti e vituperio straniero non sopportino. Voi non avete pi? che farmi. Vi ringrazio delle cure che mi prodigaste; ma pi? che me, ora la Chiesa ha bisogno di voi. Andate, figliuoli, ed in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo vi benedico.

Tutti quei circostanti, caduti in ginocchio, gli baciano la mano, e bagnati da molte lagrime, ed oppressi da sincero dolore partono.

Non part? gi? Ugo Candido, non Guaidalmira.

Era il d? 25 maggio. Il languore di Gregorio toccava gli estremi, ed uno stravaso di linfa al petto ne rendeva difficile la respirazione, gli impossibilitava restare nel letto. Lo avevano perci? adagiato sovra gran seggiolone e collocato presso ad una finestra, perch? desiderava vedere l'ultima volta il sole che tramontava nella placida ed azzurra marina. La finestra gli gittava un'onda di luce dal petto alle gambe, ed imporporava la bianca tunica che lo covriva. Ma un rosone a vetri colorati, praticato sulla finestra stessa, dando passaggio ai raggi del sole, gli circondava la testa e la bianca barba di luce cos? viva e cos? varia, che, al contemplarlo da lontano, sembrava nuotasse in una conca d'iride, e scintillasse del fulgore celeste dei cherubini. Ai suoi piedi era genuflessa Guaidalmira, che, la fronte piegata (p. 143) nelle mani ed appoggiata allo sgabello dei piedi di lui, pregava, straziata da dolor muto. Da un lato del seggiolone, delle braccia conserte sul petto, in piedi ed immobile si vedeva il cardinale Ugo. Dall'altro lato un frate benedettino, cui, come e' disse, gli aveva mandato l'abate Desiderio per confessarlo. Questi teneva il cappuccio abbassato, sicch? la fronte e met? del volto covrivagli e stava del pari in piedi. Gregorio con una mano cercava la testa di Guaidalmira, con l'altra stringeva quella del frate. Gi? pi? non ci vedeva.

—Santo padre, voi dunque togliete la scomunica al re di Francia? dimandava il frate per voce soffocata forse dal dolore.

—Gliela tolgo, rispondeva Gregorio.

—Santo padre, togliete la scomunica al re di Dalmazia? proseguiva il frate.

—Gliela tolgo, diceva Gregorio.

—Ed al re di Polonia, santo padre?

—? morto, ma gliela tolgo.

—Ed al re d'Ungheria.

—Gliela tolgo pure.

—Ed ai vescovi e baroni che vi deposero nei concilii di Worms e di Pavia?

—L'avevo tolta ad alcuni; la tolgo a tutti.

—Ed a Cencio, che tent? assassinarvi nella notte di Natale?

—Gli sia pur tolta.

Qui la voce del frate si arresta di un istante, poi, pi? cupa, dimanda:

(p. 144) —Ed a vostro fratello Guiberto?

A questa parola il moribondo gli sottrae la mano, e, facendo atto di volersi sollevare, sclama, di lieve rossore animando le gote:

—No, no, lo maledico. Escluso lui che usurpa la mia sede di Roma, escluso Enrico che dicono re, esclusi i maligni che per consigli e per opere favoriscono l'empiet? d'ambedue, io stendo il perdono e la benedizione di Dio su tutti gli uomini che credono fermamente e confessano che io sono vero erede e vicario degli apostoli s. Pietro e s. Paolo.

Il frate serba il silenzio alcun poco e cerca riprendere la mano del moribondo vecchio, il quale tremava tutto come una foglia, poi mormora:

—Ma, santo padre, egli vi ? fratello! egli ha tentato tante volte di riconciliarsi con voi, dimandarvi perdono...

—Ed io lo maledico, risponde Ildebrando convulso sempre.

—Egli ? pentito delle offese che vi ha fatte; egli vi dimanda perdono dei dolori che vi ha dati...

—Ed io lo maledico.

—Ma, santo padre, Ges? Cristo ha perdonato, morendo, i suoi nemici; Ges? Cristo vi comanda di assolverlo, perch? Guiberto nell'errore vi fece onta, ma poi ha pianto la sua colpa, e non vuol vivere, non vuole morire prima di essersi riconciliato con voi, ed essere stato da voi perdonato.

(p. 145) —Ed io lo maledico, lo maledico, lo condanno al fuoco eterno nell'altra vita, ed al supplizio ed alla miseria in questa—e meno lui e l'imperatore Enrico che scomunico, benedico tutto il genere umano.

A tali austere parole, il frate ritira la mano con che aveva presa quella del pontefice, si gitta alle spalle il capperuccio e furibondo grida:

—Ed io maledico te, inesorabile vecchio, io, Clemente III, sovrano pontefice, e tuo fratello, io ti maledico come Adamo maledisse Caino, e come Cristo maledisse Giuda. Io ti maledico come parricida, come stregone, come adultero; io ti maledico, ed il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo ti maledicano con me.

Gregorio alza gli occhi al cielo, poi mormora le dolenti parole di Cristo:

Domine, transeat a me calix iste!

Il cardinale Ugo Candido, che mutolo era restato fino allora al fianco dell'agonizzante, gli si accosta pi? d'appresso, e ridendo sorriso terribile:

—Non uditelo, santo padre, diceva: alla sua maledizione, avanti all'Eterno voi potete opporre... oh! tutte le opere della vostra vita...

—Per esempio, soggiungeva Guiberto, ch? il frate era egli stesso, per esempio, lo scandalo destato nella cristianit? e la guerra civile in Lamagna?

—Dio mi ha perdonato, rispondeva il moribondo.

(p. 146) —La corruttela che ha messa nel clero col proibire lecite nozze, ripigliava il cardinale; l'eccidio di Roma; la disperazione e la dannazione di tante migliaia di uomini morti nelle scomuniche da lui profuse per appagare intenti mondani; lo sdegno civile fomentato in Italia, e le guerre di che l'ha desolata?

—Dio mi ha perdonato, borbottava ancora il pontefice.

—Gli amori impudici con la contessa Matilde, per lui vituperata avanti al mondo, e gli amori della contessa Alberada, che ha condotta a morire misera e disperata? soggiungeva Guiberto.

Ed il pontefice:

—Dio mi ha perdonato.

—I sudditi ribellati contro i sovrani, proseguiva il cardinale, il suo orgoglio che ha fatto infellonire contro la Chiesa milioni di cristiani; i tradimenti comandati; gli omicidii fatti eseguire; gli avvelenamenti dei suoi nemici onde buccinarli puniti da Dio per subita morte; i regni tolti e donati a ribaldi che gli si giuravano ligi; la Spagna preferita restasse in mano de' Mori, anzi che in dominio di cristiani, i quali non volevano fargli omaggio; la Sassonia desolata, perch? rifiut? conoscersi vassalla di San Pietro; la Francia levata a tumulto per esigere tributo che giammai Carlomagno sogn? di promettergli; la Sardegna minacciata dare a conquistatori feroci (p. 147) se non pagava il danaro di San Pietro; il regno d'Ungheria messo ad incanto fra due re a chi pi? gli offerisse maggior donazione e sudditanza; la Dalmazia gittata nella guerra civile per averle voluto dare un re di suo capriccio, mentre un altro gi? vi regnava; la scomunica infine, per non dir pi?, del re Boleslao II di Polonia, che ridusse al bando dei suoi Stati e fece morire miserabile e disperato? Ecco, santo padre, ci? che potrete dire a Dio, perch? non ascolti la maledizione di vostro fratello!

—Iddio mi ha perdonato, mi ha assoluto, con voce che appena s'intendeva, sclama il pontefice; e perch? amai la giustizia ed odiai l'iniquit?, muoio in esilio.

—In esilio! prorompe il cardinale Ugo Candido, ridendo satanicamente; ma non sei tu il vicario di Cristo che ti diede in retaggio i suoi popoli, ed alla sua giurisdizione segn? per termine i confini del mondo?

Ildebrando a quest'ironia non risponde: piega la testa sul petto e ve la lascia cadere abbattuta. Guiberto ed il cardinale si accostano, Guaidalmira alza gli occhi per guardarlo: era morto!

Guaidalmira gitta un grido acuto e straziante e stramazza distesa sul suolo.

Cos? ai 25 di maggio 1085, dopo dodici anni, un mese e tre giorni di regno, moriva Gregorio VII, il pi? ardito dei pontefici.

Grandi vizii, grandi virt? lo distinsero. Ed a (p. 148) gloria del vero i vizii furono del secolo, le virt? dell'uomo. Imperciocch?, in un secolo di dubbiezze, che ondeggiava ancora fra la barbarie del X secolo e la luce incipiente del XII; in un secolo in cui la passione di municipio ed il parteggiare destavasi per dar vita ai Comuni; in un secolo di scisma, dove la feudalit? tendeva al dispotismo ed il popolo ad affrancarsi; in un secolo in cui non vi era ragione fuor di quella delle armi, non virt? fuori del valore e del coraggio, non religione perch? la pi? corrotta parte di quella societ? rappresentavano gli ecclesiastici, e la superstizione dei secoli passati infiacchiva senza meglio stabilirsi lo spirito del Vangelo; in un secolo in cui la bellezza non aveva culto, la verecondia non era merito, non avea ostracismo l'oltraggio ai diritti delle nazioni, degl'individui, della piet?; in un secolo infine nel quale tutto era disquilibrio, dubbio, decadimento, i vincoli di una societ? usata cadevano per vetust? n? ancora la novella societ? si aggruppava; io dimando, se uomo, a tanta altezza collocato, poteva mostrarsi pi? forte e pi? santo di che Gregorio si mostr?? Egli vedeva che tutti i pinacoli sociali del suo tempo tendevano alla monarchia, ed avvisando che l'Evangelo fosse esso stesso codice monarchico, dispotismo teocratico band?, e non lasci? mezzo intentato, buono o malvagio che fosse, impuro o santo, per rassodarlo.

Uno fu il principio che inform? la sua vita e (p. 149) le sue opere: l'indipendenza dell'Italia e della Chiesa cattolica! L'idea era magnanima, era giusta; ma i tempi per promuoverla e mandarla ad effetto non ancora maturi. La societ? fermentava, e niente si era consolidato, n? il principato n? la repubblica, n? l'ateismo, n? la religione: e libert? individuale ed ostinazione feudale battagliavano nel caldo. Per intrudere quindi le sue dottrine vi fu d'uopo di violenza. E perch? queste interessavano pi? i principi che i popoli, la quistione si prolung?, e, lentamente cangiando di forma, ne rivest? impure e sacrileghe; perch? ai venerandi diritti delle nazioni col velame divino si attent?. L'idea di Gregorio fu generosa, perch? in quel collegarsi di potenti per tutto ridurre a pura e forte monarchia, il popolo restava escluso, indifeso, vittima, n? aveva a cui lamentarsi dei torti; perocch? patto di sangue sulla totale schiavit? si era stretto. Egli, il pontificato volle elevare a giudice supremo tra il popolo ed il re. Reagirono perch? brusco ed inconsiderato fu l'urto, nuova la legge. La reazione lo indispett?. E perch? aveva sortita fibra robusta ed altera, trasand? il pudore, ed addivenne violento, ostinato, incompassionevole, nulla rispett? di quanto culto si era per lo avanti. Rispose delle armi con cui lo provocavano. Ci? gli alien? i principi, gli alien? il clero ed il popolo, e fu addimandato inesorato e tiranno. Nonostante sembr? un momento di trionfare. (p. 150) Nel trionfo mostrossi intemperante, e le tre giornate di Canossa prepararono la presa di Roma.

Ora egli muore! Dopo tanti anni di lutta muore senza aver vinto, senza esser compianto da altri che da oscura donzella, senza essere amato da alcuno, lasciando al mondo tre legati funesti—la quistione delle investiture, la rivalit? dei papi e dei re, e la folle e fatale impresa delle crociate! Egli per?, allucinato come fosse, ag? sempre sotto l'ispirazione della convinzione e di una lucida e decisa coscienza. E ci? basti per lavarlo d'ogni peccato, mondarlo da tutti i mali che origin?.

Egli muore! Dopo una vita di combattimento sperava morire tranquillo e sereno come il giorno che vedeva declinare sull'immensa marina; ma l'ultima sua ora fu travagliata dalle idee del passato, dallo sdegno inesorato degli uomini. Muore, e l'ultima idea ad abbandonare quel capo che si era levato il pi? alto su tutta la terra, l'ultima idea che funest? quell'anima, la quale aveva abbracciato la rigenerazione dell'universo, ? che i suoi nemici trionfano, che Guiberto ed Enrico sopravvivono padroni del campo, ed egli non si ? vendicato.

Il re dei re ? un'attestazione, non un fatto.

Requie, o grand'uomo, i tuoi nemici non saranno meglio avventurati di te!

Alcune settimane dopo, una giovane faceva chiamarsi la badessa delle benedettine di Roma, e (p. 151) dopo lungo colloquire, era ammessa a vestir l'abito in quel chiostro. Vi visse due anni di penitenza e di rassegnazione, poi vi mor? di languore, per sfinimento d'animo, in concetto di santa. Era Guaidalmira.

Guiberto ritorn? a Roma donde or cacciato, ora ammesso, da molte citt? e popoli riconosciuto vero pontefice, da molti altri scismatico, sempre tribolando i papi, per grossa somma di danaro vend? ad Urbano II la libert? di castel Sant'Angelo e palazzo Laterano, che ancora per lui tenevansi con forte presidio, e nel 1100, assediato dalle truppe di Pasquale II in un castello vicino Alba, dove erasi rifugiato, mor? repentinamente, non senza sospetto di veleno; sempre fermo, sempre generoso e pi? soldato e brillante principe che sacerdote.

La sua condotta, la sua vita, i suoi gusti oggi rattristano e sgomentano ogni cuore virtuoso e delicato. Allora, come cosa fra gli ecclesiastici consueta, avevansi per temperati ed allo Stato principesco non sconvenevoli. Quel che per? n? i contemporanei, n? noi avremmo saputo mai perdonargli, se dell'indole degli uomini volubili e delle passioni entusiaste ed ardenti troppo non conoscessimo, gli ? l'aver arso di s? forte e subita fiamma per Alberada, e poscia averla dimenticata compiutamente, malgrado le spavalde proteste fatte a Guiscardo a Salerno di vendicarla, malgrado che la riconoscenza di averne avuta (p. 152) protetta la vita glielo avessero imposto. La potenza di altri guai e di altre panie che lo avvolsero, la sua natura mutabile, gli valgano per iscusa; se scusa pure la sua spensieratezza appo le donne potr? trovare. Fu mandato a seppellire a Ravenna. Ma sei anni pi? tardi, il feroce Pasquale II—questa iena di cadaveri—lo fece dissotterrare, e le sue ossa e le sue ceneri furono gittate nel fiume.

Enrico IV gli sopravvisse di poco.

(p. 153) IV.

Je t'ai fait voir tes camarades
Ou mort, ou mourants, ou malades;
Allons, v?eillard, et sans replique,
Il n'importe ? la republique
Que tu fasses ton testament.

La Fontaine.

Non racconteremo per minuto il rimanente dei fatti di questo gran principe. Dopo aver veduto perire il suo nemico Gregorio, altri non men terribili ed ostinati ne ebbe a combattere in Vittore III, Urbano II e Pasquale II, favoriti al solito dalla contessa Matilde, la quale la causa della Chiesa aveva sposata a spada tratta; in Ermanno di Luxembourg, che, dopo la morte di Rodolfo, i ribelli Sassoni avevano eletto a re; nei figli di Ottone di Nordheim, morto nel 1083; nel marchese Ecbert, e per ultimo nel suo figlio Corrado, che Urbano II aveva prevaricato ed indotto a ribellione contro suo padre. Questo scellerato principe, applaudito con gioia feroce dalla corte di Roma, pubblic? infami calunnie (p. 154) contro suo padre, pensando cos? oltraggiare la gloria di lui, s? difendere. Riconosciuto dai papi per re d'Italia, cinse la corona di ferro a Monza. Ma, dopo otto anni di guerra civile mor? disprezzato da coloro stessi che alla rivolta lo avevano spinto e che ne avevano profittato. Enrico si ritir? in Germania.

Diremo le ultime cose di lui con le parole del Sismondi, il quale le ha tolte al Sigonio e questi ad Ottone frisingense, ed a Sigeberto gemblacense.

Dopo la sua ritirata, Enrico non ebbe altra cura che restituire la pace alla Chiesa ed all'impero. Quantunque perseguitato dalle scomuniche dei papi, e' non sembr? punto occuparsi a farne cessare gli oltraggi. Aveva anzi pensato di abdicare la corona in favore dell'altro suo figlio Enrico V, con la speranza che il ravvicinamento tornerebbe pi? facile fra due antagonisti, l'amor proprio dei quali non fosse stato inasprito ancora da lunga discordia. Questo progetto, che Enrico non mand? a termine, infiamm? l'ambizione del giovane principe. Il papa Pasquale II, il di cui odio religioso mai si placava, per mezzo dei suoi emissarii infervor? un figlio, cui sete colpevole di regno allucinava gi?. Gli rappresent? il delitto che meditava come azione santa e gloriosa, ed alla rivolta lo determin?.

Una dieta erasi convocata a Magonza pel giorno di Natale. I partigiani del giovane Enrico eranvi (p. 155) convenuti in folla: niuna assemblea nazionale da lungo tempo non erasi mostrata cos? numerosa. Il giovane Enrico consigli? al re suo padre di punto non avventurarsi fra gente, la di cui fedelt? si appalesava, se non altro, dubbiosa. L'imperatore si tenne all'avviso di suo figlio, di cui non sospettava ancora tutta la fellonia, e si ritir? al castello di Ingelheim. Come egli quivi faceva dimora, gli arcivescovi di Magonza, di Colonia e di Worms, inviati della dieta, si presentarono a lui, e gl'imposero a nome di quella rimettere loro gli ornamenti imperiali—vale a dire corona, anello e porpora, perch? e' ne rivestissero suo figlio.

—Ma perch? dunque i principi ed i vescovi della dieta ci hanno eglino deposto? domanda Enrico.

—Perch?? risponde l'arcivescovo di Magonza, perch? da lunghi anni tu hai straziata la Chiesa di Dio per cause odievoli, perch? tu hai venduti i vescovadi, le abbazie e le dignit? ecclesiastiche, perch? tu non hai giammai osservati i canoni nell'elezione dei vescovi, e fieramente al papa ti sei ribellato. Per tutti questi motivi ? piaciuto al sovrano pontefice ed ai principi di Lamagna di respingerti non solamente dalla comunione dei fedeli, ma cavarti ancora dal possedimento del trono.

—Ma voi, riprende l'imperatore, voi arcivescovi di Magonza e di Colonia, voi che ci accusate (p. 156) di aver vendute le dignit? ecclesiastiche, voi, vescovo di Worms, diteci almeno quale ? stato il prezzo che abbiamo ricavato da voi, quando v'investimmo delle chiese pi? opulenti e pi? possenti del nostro impero? Dite, parlate dunque, ripetete qui al nostro cospetto, al cospetto del vostro sovrano e del vostro benefattore, ripetete le calunnie che avete vomitate nella dieta, fateci arrossire, per Dio; e noi diremo che giusto ? il decreto dei principi, dovuta la deposizione. Ebbene, voi tacete? ecco, ecco che cosa sono le vostre accuse, vituperati! Ma se vi ? forza convenire e confessare che da voi nulla abbiamo dimandato, dite, per Dio, dite perch? voi vi siete accoppiati ai nostri detrattori, mentre la vostra coscienza vi rammentava che, verso di voi almeno, noi ci eravamo conformati ai nostri doveri? Perch? vi siete voi congiunti a coloro che hanno forfatto alla loro fede, ed al giuramento al loro principe? Perch? vi mettete voi alla loro testa?

Alcuno di quei prelati, non rispondendo, e vedendoli Enrico col capo chino, arrossire e confondersi, continu?:

—Fate bene a tacere, vi salverete almeno cos? dall'onta dell'impudenza. Ma pazientate ancora qualche giorno, attendete il termine naturale della nostra vita, perch? la nostra et? e le nostre pene indicano troppo non dover esser lontano. Ovvero, se vi piace e vi torna levarci il (p. 157) regno, fissate almeno il giorno nel quale, con le nostre proprie mani, caveremo della nostra testa canuta la corona e ne orneremo quella di nostro figlio.

—Enrico, scoppia infine l'arcivescovo di Magonza, noi non siamo venuti qui per teco garrir di parole, n? altra ne diremo con uno scomunicato, con un principe che ha desolato il paese da Dio commessogli a governare. Se di tuo piacimento non ti presti a darci gli ornamenti imperiali, noi te li strapperemo per forza, dovessimo con essi strapparti la pelle e la vita; perch? di quest'ordine siamo stati incaricati.

A questo duro favellare, Enrico guarda in fronte con un misto di sdegno e di disprezzo l'altero prelato, poi sclama:

—Codardo!

E senza aggiunger altro, esce dalla sala. Avendo per? preso consiglio dal piccolo numero d'amici che gli rimanevano ancora vicino, e vedendo che lo circondavano uomini d'armi molti e risoluti, e che per allora ogni atto di resistenza riusciva impossibile, si fece apportare gli ornamenti ed il mantello reale, poi sal? sul trono, e comand? si chiamassero i prelati.

—Eccole, egli disse, queste divise di dignit? reale che la volont? unanime dei principi dello Stato e la bont? del re dei secoli ci avevano concesse. Noi non impiegheremo la forza per difenderle: perocch? non avevamo mai preveduto tradimento (p. 158) domestico, n? contro di esso ci eravamo messi in guardia. Merc? al cielo che ci accord? il favore di non mai sospettare tanto furore presso i nostri amici, tanta empiet? nei nostri figli! Nondimeno, con l'aiuto di Dio, il vostro pudore difender? forse ancora la nostra corona. Ma se voi, al contrario, siete insensibili al timore di Dio che protegge i re, ed alla perdita del vostro onore, noi sopporteremo dalle vostre mani una violenza che punto non abbiamo mezzi di respingere.

A questo discorso i deputati esitano. Ma l'arcivescovo di Magonza, vedendo che i suoi colleghi s'infievolivano, e davano adito a pi? nobili sentimenti e forse a piet?, grida come forsennato:

—Perch? bilanciate voi? Non siamo noi forse coloro a cui si appartiene consacrare i re ed onorarli della porpora? Ebbene, se per cattiva scelta un d? ne abbiamo rivestito costui, oggi, ravveduti, a noi si conviene spogliarnelo.

E s? dicendo si gitta addosso al vecchio monarca, gli svelle dalla testa la corona, lo forza a discender dal trono, e lo spoglia del mantello di porpora e degli ornamenti reali. Enrico frattanto, alzando terribile la voce, grida:

—Dio! vedi la condotta di costoro. Tu ci fai sopportare la pena dei peccati della giovinezza; tu ci sottometti ad ignominia che giammai re non pat? innanti di noi. Ma costoro che hanno violato il sacramento che a noi li legava, costoro (p. 159) non isfuggiranno all'ira tua, tu li punirai—tu li punirai come punisti l'apostolo che trad? il suo maestro.

Gli arcivescovi disprezzarono le minaccie, e ritornarono al figlio di lui per consacrarlo. Il vecchio Enrico frattanto si rinchiuse in Lovanio. Bentosto i suoi amici in folla gli si raccolsero intorno, e gli promisero il loro aiuto per ricuperare la svillaneggiata autorit?. Formarono ancora poderoso esercito; il padre ed il figlio marciarono l'uno contro l'altro, e nel primo scontro il figlio fu battuto e volto in fuga. Ma avendo questi, il giovane Enrico, raccozzate le sue truppe, le riconduce al combattimento. In questa seconda puntaglia il vecchio ? vinto. Caduto in potere dei suoi nemici, egli ? tradotto al cospetto di suo figlio.

In una lettera ch'egli dirige a Filippo, re di Francia, intorno a quell'epoca 1106, si esprime cos?:

?Appena lo vidi, toccato fino al fondo del cuore di dolore altrettanto che di paterna affezione, io mi gittai ai piedi di lui, lo supplicai, lo scongiurai in nome di Dio, della sua fede, della salute della sua anima, che anche quando i miei peccati avessero meritato che io fossi punito dalla mano di Dio, si astenesse egli almeno di macchiare, facendomi vilipendio, la sua anima, il suo onore ed il suo nome: imperciocch? giammai alcuna sanzione, (p. 160) alcuna legge divina eresse i figli vendicatori delle colpe dei padri!?

Nondimanco Enrico fu tenuto prigione e gli furono fatti oltraggi e contumelie da destare orrore. In quella lettera a Filippo egli ne annovera alcuni e soggiunge:

?Per non dir niente degli obbrobrii, delle ingiurie, delle minacce, dei pugnali drizzati sulla mia testa dove io non facessi quanto mi veniva imposto, della fame e della sete che io soffriva pel ministero di gente che mi tornava ingiurioso vedere ed intendere; per non dire, ci? che era pi? doloroso ancora, che io altra volta era stato felice!?

Pure, ridotto qual si vedeva a tale grado di miserie, gli venne fatto fuggire. Si rifugi? a Spira—nel tempio che egli sontuoso aveva fatto fabbricare alla Vergine, e dimand? al vescovo della citt? di accordargli di che vivere. Il vescovo si ricus?. Enrico soggiunse, che era ancor proprio a riempire l'officio di chierico, perch? sapeva leggere e servire il coro. Ma come anche quest'umile domanda gli respinsero, egli allora si volge agli assistenti e parla:

—Ma voi almeno, miei amici, abbiate piet? di me. Vedete che la mano del Signore mi ha colpito.

Nessuno risponde da prima, poi si ode un murmure sordo che egli era evaso di prigione e che bisognava rifarlo cattivo. A tale minaccia, malato, (p. 161) estenuato di fame e di sete, il misero monarca fugge e va a procurarsi rifugio a Liegi. Ma neppur quivi rimane tranquillo. Allora scrive a suo figlio:

?Ma lasciatemi, per amore di Dio, vivere a Liegi, se non da imperatore almeno da uomo che vi ha cercato ricovero. Che non sia giammai detto, ad onta mia o piuttosto ad onta comune, che il figlio dei Cesari sia stato obbligato ad errar senza asilo nel tempo di Pasqua!?

Suo figlio si rifiut?. Ed il sovrano che aveva dato sessantasei battaglie, creati due antipapa, ai sette degli idi di agosto 1106 muore col cuore straziato di afflizione profonda, coverto di laceri panni, tribolato dalla fame, senza tetto per ricovrarlo, senza mano amica per soccorrerlo, di notte, avanti la porta di un vescovo da lui beneficato.

Per cinque anni, il suo corpo rest? senza sepoltura in una cellula della chiesa di Liegi, perch? il papa aveva vietato fosse deposto in terra santa. Ma infine, il terribile Pasquale II, tradito, perseguitato, fatto prigione, rinchiuso nella fortezza di Tribucco da quel principe stesso di cui aveva eccitata la rivolta, dal figlio snaturato del vecchio imperatore, umiliato dalla Chiesa a pro della quale aveva combattuto il re defunto, fu costretto, per ricoverare la libert?, consentire che fosse seppellito da cristiano. E cos? fecero i fedeli alla memoria di lui lagrimando un principe (p. 162) che fu il pi? grande della razza di Franconia, ed uno dei pi? generosi, magnanimi e prodi degli imperadori di Lamagna.

Ed ecco come miseramente finiva la prosapia di quei forti uomini, che s? terribile e s? combattuto fecero il secolo XI!!!

FINE DEL QUARTO ED ULTIMO VOLUME.

(p. 163) INDICE

LIBRO SETTIMO—Il Messaggio Pag. 5

LIBRO OTTAVO—Il Tramonto 115

NOTA DI TRASCRIZIONE:

Sono state effettuate le seguenti correzioni:

  • se {vilippeso|vilipeso], perseguitato
  • Dio {mi|mi mi} ha severamente punito
  • vigoroso assalto ed ostinata {resitenza|resistenza}
  • dando col {puteruolo|punteruolo} di mezzo sul capo
  • dove l'aquila non {avebbe|avrebbe} pi? nulla distinto.
  • N? meno {consternata|costernata} di costui
  • summa cum {onimi|animi} l?titia





























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Ferdinando Petruccelli della Gattina









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Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of




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goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will




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Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure




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and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.














Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive




Foundation









The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit




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     Chief Executive and Director




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Literary Archive Foundation









Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide




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increasing the number of public domain and licensed works that can be




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The Foundation is committed to complying with the laws regulating




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States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a




considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up




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works.









Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm




concept of a library of electronic works that could be freely shared




with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project




Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.














Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed




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