“Fra i due mondi” di Guglielmo Ferrero

Durante il lungo viaggio di ritorno in piroscafo dal Sudamerica, alcuni viaggiatori, brasiliani e argentini di origine italiana, ingannano il tempo con lunghe discussioni filosofiche sugli argomenti più svariati: la bellezza o la bruttezza di New York, la bellezza o meno dell’Amleto di Shakespeare, le macchine e il progresso, se la scienza è vera o falsa, se la ricchezza è buona o cattiva. Anche i pettegolezzi intorno ad altri viaggiatori (la ricchissima americana angosciata dalla prospettiva del divorzio o il litigio delle due emigranti della terza classe) diventano motivo e pretesto per altre considerazioni della stessa natura.

I personaggi sono di fantasia, se escludiamo la moglie di Ferrero, Gina Lombroso, e l’ingegner Rosetti, amico di famiglia, e i dialoghi, sono la dimostrazione che qualsiasi giudizio estetico è facilmente rovesciabile in mancanza di leggi e autorità esterne che possano fare da giudice, finiscono per convergere su un argomento principale: i due mondi, America (Sud e Nord insieme), e la vecchia Europa. La prima identificata con la civiltà delle macchine e della mancanza di limiti, grazie alle risorse materiali che sembrano infinite (civiltà quantitativa), mentre la seconda viene definita civiltà qualitativa, soprattutto se considerata fino alla Rivoluzione Francese, o se vogliamo all’invenzione delle macchine.

Non manca (siamonel 1913) un accenno preoccupato alle prospettive di guerra: della produzione tedesca di ferro in crescita esponenziale

«se ne fanno cannoni, navi e fucili. Ma ingombrare il mondo di ferro fino a scacciarne la bellezza e tutte le prove della propria eccellenza che la mente umana può fare, che altro è se non rimbarbarirlo? Chi vincerà, Vulcano od Apollo? La quantità o la qualità?»

Sinossi a cura di Claudio Paganelli

Dall’incipit del libro:

Ad uno ad uno, i vaporetti che da due ore ronzavano intorno al «Cordova» si allontanarono; e il «Cordova» restò per qualche tempo solo, fermo sulle àncore, in mezzo alla baia di Rio de Janeiro. Rivolto il viso verso la poppa, sul ponte di comando, dove il capitano della nave, il cavaliere Federico Mombello, aveva invitati la Gina e me a dar l’estremo addio alla città, io guardavo ancora una volta, aspettando che la nave salpasse, la azzurra e luminosa catena dei monti Tinguà, della Stella, degli Organi, che chiude a settentrione la baia; la erta corona di punte, di cuspidi, di obelischi, di denti, di creste che la sormontano; il fulgido e turgido festone di grandi nuvole bianche che in quel meraviglioso pomeriggio di primavera era appeso ai suoi fianchi: guardavo e pensavo che tra pochi minuti si chiuderebbe per sempre, nel volume della miavita, uno di quegli episodi che non si ripetono….

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